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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 95378 volte)
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« inserito:: Febbraio 28, 2008, 03:18:09 pm »

28/2/2008
 
Addio pilastro verde
 
MARIO DEAGLIO

 
Da circa sessant’anni, ossia dal secondo dopoguerra, le economie dei Paesi ricchi si muovono in un contesto internazionale che poggia su tre pilastri: il ruolo centrale del dollaro, l’accessibilità delle materie prime energetiche a prezzi tali da non scatenare inflazione, i prodotti alimentari a buon mercato.

Il pilastro energetico era stato lesionato negli Anni Settanta e Ottanta, ma successivamente riparato. Nella giornata di ieri, però, tutti e tre i pilastri si sono messi a tremare in maniera preoccupante. Il prezzo del frumento ha toccato livelli da primato, anche perché le riserve mondiali di cereali sono al punto più basso da trent’anni (quando la popolazione mondiale era all’incirca la metà dell’attuale). Il petrolio ha toccato nuovi massimi, consolidandosi poi oltre la soglia psicologica di 100 dollari al barile.

Soprattutto, però, la quotazione della moneta americana si è indebolita sotto la soglia psicologica di 1,5 dollari per un euro con un ribasso a velocità crescente: in cinque anni il «biglietto verde» ha perso oltre il 30 per cento del suo valore rispetto alla moneta europea e metà di questa perdita è concentrata negli ultimi mesi.
Il dollaro scende nei confronti non soltanto dell’euro ma, sia pure in maniera attenuata, anche dello yen, della sterlina e delle altre monete più importanti. E se un euro che sale troppo è un problema dei soli europei, un dollaro che scende troppo diventa un problema per il mondo intero.

Questi tre movimenti sono sufficienti a provocare un deciso disorientamento.

Einducono a domandarsi se sia possibile uscire da una situazione del genere con gli strumenti dell’economia di mercato oppure sia necessario un intervento diretto dei governi.

La risposta più semplice riguarda il frumento (e, più in generale, tutti i cereali). Lo stimolo dell’aumento del prezzo dovrebbe essere sufficiente, nel giro di un anno o due, a far salire la produzione e a risolvere nel breve periodo la situazione, in assenza di forti anomalie climatiche che, come è successo con le recentissime gelate cinesi, possono causare disastri per i raccolti. Tale risultato sarà più rapido e più sicuro se si utilizzeranno sementi geneticamente modificate, il che può provocare dibattiti gravi e scelte dolorose. In questo periodo di tempo, non è escluso che i governi dei Paesi esportatori cerchino di formare una sorta di «Opec del grano» per tener alto il prezzo e quelli dei Paesi importatori, specie se con situazioni di povertà diffusa, impongano temporaneamente qualche forma di prezzo massimo e/o di razionamento.

Per le materie prime energetiche, i Paesi dell’Unione Europea possono certo stabilizzare i prezzi rinunciando a parte delle entrate derivanti da un carico fiscale eccessivo; la vera stabilizzazione, però, può derivare soltanto da una diversa regolamentazione del mercato petrolifero. Dalle contrattazioni, infatti, dovrebbero essere esclusi gli operatori puramente finanziari, i quali contribuiscono all’instabilità dei mercati determinando caratteristiche ondate speculative. Secondo l’Unione Petrolifera, senza le contrattazioni speculative (di scarsa utilità nel quadro globale dell’economia) i prezzi del greggio potrebbero essere del 20 per cento più bassi e si tratta di una stima ragionevole.

Il vero problema riguarda però il dollaro, da sempre stella fissa del nostro firmamento finanziario, attorno a cui ruotano tutte le altre monete. È tempo di domandarci serenamente se la moneta americana possa ancora occupare a lungo questa posizione di centralità, di «metro universale» dell’economia mondiale. I ribassi a catena del costo del denaro dello scorso mese paiono motivati più dalla preoccupazione di evitare una recessione nell’anno delle elezioni americane che da una visione lungimirante del ruolo degli Stati Uniti nel mondo: per evitare una recessione, probabilmente di breve durata, gli americani si stanno giocando un predominio durato oltre mezzo secolo.

Per molte transazioni finanziarie il dollaro è già oggi utilizzato assai meno di qualche anno fa, pur rimanendo ancora largamente la moneta prevalente. Nella determinazione dei prezzi delle materie prime potrebbe utilmente essere sostituito da un paniere delle principali monete (in cui il dollaro continuerebbe, peraltro, a essere largamente rappresentato). I prezzi espressi in questa nuova unità di misura risulterebbero molto più stabili di quelli espressi in un’unica moneta e rifletterebbero assai meglio l’economia mondiale multipolare che si va delineando con l’irrompere sulla scena mondiale de grandi paesi asiatici.

Nell’attuale situazione, una «stella fissa» non può essere sostituita da un’altra «stella fissa». Il nostro universo economico ha «perso il Nord», ossia un punto di orientamento stabile; per evitare il caos servono interventi diretti, accuratamente meditati, preparati e coordinati, dei governi dei singoli Paesi. I problemi del governo dell’economia mondiale non sembrano però interessare i ceti politici dei vari Paesi, che ragionano pressoché soltanto in termini di appuntamenti elettorali, di conquista e conservazione a breve del potere. Un potere politico conquistato o conservato a breve può però valere ben poco in un’economia resa caotica dalla mancanza di interventi appropriati.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 04, 2008, 11:21:21 pm »

4/3/2008
 
Bastasse candidare

MARIO DEAGLIO

 
Le prime fasi della campagna elettorale, con la scelta di liste «bloccate» di candidati, nei confronti dei quali gli elettori non possono esprimere preferenze, sembrano dominate da due illusioni.

Le forze politiche sembrano spesso illudersi che sia sufficiente candidare personaggi variamente noti per motivi estranei alla politica per convincere un numero consistente di elettori a votare la lista per la simpatia del personaggio anche se di quella lista non condividono obiettivi e strategie politiche. La seconda illusione riguarda invece questi candidati noti, o addirittura famosi ed è la convinzione che sia facile operare efficacemente arrivando ai vertici della politica, ai seggi di Montecitorio e Palazzo Madama o addirittura alle poltrone di ministro, senza alcuna adeguata esperienza di decisioni pubbliche, di tipo politico e amministrativo; senza, quindi, una «carriera» politica nel senso di esperienze politiche precedenti.

L’attrazione della politica è particolarmente forte per esponenti delle cosiddette «parti sociali», imprenditori e sindacalisti, la cui attività all’interno delle rispettive associazioni presenta - per il genere di problemi trattati e per le conseguenze pubbliche delle loro decisioni - caratteristiche non troppo dissimili da quella all’interno delle aule parlamentari e ha portato alla candidatura di due imprenditori molto noti nelle liste del Partito democratico.

In realtà, politica e impresa presentano numerosi punti di somiglianza ma, come molte cose assai simili, risultano poi difficili da conciliare alla prova dei fatti. Il declino della cosiddetta Prima Repubblica insegna che non si può ridurre l’impresa a un fatto meramente o prevalentemente politico e precisamente questo tentativo di riduzione ha prodotto una lunga serie di disastri industriali, dalle «cattedrali del deserto» del Mezzogiorno alle disavventure dell’Alitalia (che proprio nei giorni scorsi ha annunciato una drastica riduzione della liquidità disponibile). Per converso, le esperienze della cosiddetta Seconda Repubblica - e in particolare il primo governo Berlusconi - mostrano che non si può ridurre la politica a un fatto imprenditoriale senza compiere gravi errori.

Non è quindi sufficiente mettere insieme, all’interno di una forza politica, imprenditori e sindacalisti perché si abbia una sublimazione del conflitto sociale; al contrario, si potrebbe avere un trasferimento di tale conflitto all’interno di un partito o di un governo con un forte freno alla sua capacità di agire. Le vicende dell’attuale governo ne sono una chiara dimostrazione. Ugualmente insoddisfacente appare la soluzione di «affidarsi ai tecnici»: purtroppo è ormai divenuta quasi una tradizione in Italia quella di affidare a un «tecnico» il ministero dell’Economia. Il principale risultato di questa prassi è di aver contribuito potentemente a creare una generazione di politici che non sa leggere il bilancio dello Stato. Questo analfabetismo nei confronti dei conti pubblici, unito alla scarsa esperienza del funzionamento della «macchina» amministrativa, porta a una difficoltà a formulare proposte di governo coerenti con lo stato delle finanze pubbliche.

È quanto si evince da un’analisi pubblicata qualche giorno fa da Il Sole 24 Ore, relativa agli effetti sui conti pubblici delle promesse elettorali e con particolare riguardo al programma delle attuali forze di opposizione. Si alimentano così illusioni pericolose di poter risolvere in poco tempo qualsiasi problema con un pizzico di «buona volontà» e qualche breve articolo di legge. Nella foga della campagna elettorale rischiamo di ridurre i programmi alle promesse, in una sorta di menu gratuito mentre l’economia insegna che «nessun pasto è gratis».

Il ruolo della politica non dovrebbe essere quello di esprimere buone intenzioni ma quello di contemperare le «istanze» delle parti sociali, come il «decalogo» presentato ieri dal presidente di Confindustria, in modo da dar vita a programmi sostenibili, e non cedere all’illusione che le «istanze» si trasformino in programma quasi per un colpo di bacchetta magica.

Questa diversità tra istanze e programma chiarisce la diversità di ruoli tra parti sociali e forze politiche: sta alle prime segnalare ciò che non va, magari suggerendo le vie per eliminare le disfunzioni, alle seconde di predisporre meccanismi e risorse perché le disfunzioni siano eliminate davvero. Sta al sindacato denunciare l’inadeguatezza dei redditi di numerose fasce salariali, alle organizzazioni degli imprenditori chiedere semplificazioni amministrative e potenziamento delle strutture (due punti del «decalogo» sopra citato); sta invece ai politici dare risposte operative su questi punti.

La confusione tra istanze e programmi non può non rivelarsi un elemento di disordine: proprio quello che si vuole evitare perché l’Italia ritrovi la via dello sviluppo.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:25:33 am »

23/4/2008
 
Alitalia un ponte sul pozzo
 

MARIO DEAGLIO
 

Un altro «prestito-ponte». Un ponte da 300 milioni di euro al fondo del quale non c’è più un’altra sponda dove Air France è in attesa con il suo progetto industriale duro ma economicamente credibile; c’è la nebbia che cela un probabile salto nel vuoto, nella speranza che misteriosi «cavalieri bianchi» vengano in soccorso della bella Alitalia rifiutata dai francesi. Un estremo soccorso, deliberato «per ordine pubblico» nel palese tentativo di aggirare i divieti europei, che assomiglia più che altro a un accanimento terapeutico per tenere in vita un’impresa decotta che perde ogni giorno da 1 a 2 milioni di euro. In parallelo, dal mondo bancario sono arrivati chiari segnali che indicano che sarà preso in benevola considerazione il finanziamento e l’appoggio finanziario a chi voglia davvero rilevare (con prospettive credibili, naturalmente) la compagnia di bandiera italiana.

È forse appropriato ricordare al governo in carica, e a maggior ragione a quello non ancora formato e alle banche che questo «prestito-ponte», questi finanziamenti e quest’appoggio hanno un costo. Per il governo, destinare ulteriori denari pubblici ad Alitalia significa intaccare le scarsissime risorse disponibili per altri scopi in un panorama di finanza pubblica nel quale devono ancora prevalere i tagli; per un istituto bancario assicurare il finanziamento di un’eventuale acquisizione di Alitalia non solo comporterebbe in ogni caso un elevato livello di rischio ma significa di fatto negare finanziamenti di pari entità ad altre imprese che, quasi certamente più di Alitalia e con un rischio minore, sarebbero in grado di generare profitti e nuova occupazione. Si fa davvero il bene del Paese (e quello degli azionisti nel caso delle banche) destinando in tal modo ingenti risorse finanziarie?

In tutta questa confusione, nessuno sembra porsi l’interrogativo fondamentale ossia se è proprio necessario gettare altri soldi in quel pozzo senza fondo che è Alitalia o se non sarebbe meglio permettere che Alitalia passi, più o meno dignitosamente, alla storia. Forse sarebbe preferibile la soluzione svizzera con la quale si è lasciata decorosamente scomparire Swissair, almeno tanto blasonata quanto Alitalia, per fondare sulle sue ceneri una compagnia più piccola, Swiss, che ora fa parte del gruppo Lufthansa. E nessuno sembra riflettere seriamente sulle dimensioni, la struttura dei costi e il tipo di posizionamento internazionale che dovrebbe avere una linea aerea italiana in un mondo sempre più concorrenziale nel quale non ci sono più rotte aeree riservate sull’Atlantico, mentre la più redditizia rotta aerea interna, la Milano-Roma, subirà tra circa un anno la competizione dell’alta velocità ferroviaria e quindi una quasi certa diminuzione di passeggeri. È naturalmente possibile una soluzione positiva, con una nuova linea aerea, ovviamente più snella e più attenta alle esigenze di chi viaggia per turismo o per affari (a cominciare da quella della puntualità) ma questi discorsi di profittabilità e di efficienza sembrano lontani dai tavoli in cui si decide il futuro del trasporto aereo italiano.

Il problema Alitalia sarà naturalmente uno dei primi e dei più spinosi sul tavolo del prossimo governo e del prossimo presidente del Consiglio, il quale ha più volte evocato una «cordata italiana» in grado di rilevare la compagnia esistente. Questa cordata, questo patriottico drappello che doveva salvare il fortino assediato dai cattivissimi francesi di Air France proprio non si è visto e il fortino si è trovato solo, senza assedianti e i suoi difensori, forse un po’ delusi, hanno scoperto che non li vuole proprio nessuno. Così come nessuno sembra rendersi conto che il rifiuto di Air France di per sé fa ancora diminuire, agli occhi della comunità finanziaria e aeronautica mondiale, il già bassissimo valore di Alitalia.

Se toccherà al futuro presidente del Consiglio spiegare perché la cordata non si è ancora materializzata (e, se si materializzerà, a quali condizioni) tocca sicuramente al sindacato spiegare i motivi di quell’assurda, eterna, contrattazione volta a ottenere sempre qualche concessione in più che alla fine ha fatto scappare Air France. E il sospetto è che all’interno del mondo sindacale molti si aspettassero che Alitalia potesse indefinitamente continuare a perdere con il finanziamento di tutti gli italiani. Di fatto, la convergenza tra i giudizi negativi del futuro presidente del Consiglio e il comportamento sindacale al tavolo delle trattative hanno fatto fallire l’unico tentativo industrialmente serio di tenere in vita la compagnia di bandiera italiana.

La crisi Alitalia ha portato a livelli ancora più alti la riconosciuta abilità italiana di non decidere mai: il rinvio come stile di vita e arte della politica, il passaggio da un ponte a un altro ponte scansando accuratamente i problemi e non pensando mai ai costi. Nella speranza che, un ponte dopo l’altro, ci avviciniamo al Paradiso; ma c’è anche la possibilità che finiamo all’Inferno.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Ultima modifica: Maggio 01, 2008, 09:53:17 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 03, 2008, 11:00:09 am »

3/5/2008
 
Operazione trasparenza
 
MARIO DEAGLIO

 
Le dichiarazioni Irpef come la guida telefonica? Accanto al nome di ogni cittadino, oltre al numero di telefono avremo anche il reddito dichiarato? I milioni di nomi scaraventati su Internet rappresentano il trionfo della democrazia o il colpo di coda di un viceministro, giunto alla fine del suo mandato deluso e con l’amaro in bocca?

Su argomenti come questo si toccano, si scontrano, si confondono due dimensioni della libertà, quella individuale legata al rispetto della privacy e quella pubblica della trasparenza.

Dalle nobili idealità della trasparenza a un clima generalizzato di sfiducia e addirittura di odio reciproco il passo può essere molto breve. Dal rispetto per l’individuo è facilissimo scivolare nella dissezione dell’individuo, dietro al paladino delle libertà che vuole tutti i redditi in piazza in nome di principi superiori spuntano il guardone, l’invidioso del vicino, o magari il capobanda in cerca di una rapina da organizzare. Del resto, se vanno rivelati i redditi di tutti, perché non mettere in piazza anche le cartelle cliniche?

La possibilità di giudizi sommari è tanto più grave in quanto i redditi che figurano nella dichiarazione annuale possono non essere affatto - e senza chiamare in causa l’evasione fiscale - una rappresentazione fedele di quanto effettivamente un individuo percepisce in un anno. Chi dispone di redditi e patrimoni veramente alti può, in maniera del tutto legale, costruirsi uno schermo di società per azioni o altre strutture giuridiche che gli evitano l’esposizione mediatica; gran parte dei redditi di capitale (per esempio gli interessi sui Bot o altri titoli a reddito fisso) non figura in tale dichiarazione; per i liberi professionisti e i commercianti ci possono essere anni buoni e anni cattivi e il reddito di un solo anno non è affatto indicativo. La cifra che viene associata al nome di un contribuente costituisce un primo indizio molto scivoloso, non già un’occasione per fare giustizia sommaria.

Per evitare che vengano minate alcune regole basilari della convivenza civile, il principio che sembra più ragionevole (adottato, del resto, in numerosi paesi ad elevato livello di democrazia) è che l’interesse pubblico al reddito dei singoli contribuenti deve essere limitato ai personaggi pubblici o a coloro che intendono diventarlo. E’ ragionevole che sia reso noto a tutti il reddito di un ministro, di un parlamentare, di un sindaco o di quanti aspirano a tali cariche. E’ ragionevole che le autorità facciano indagini mirate per sradicare l’evasione e stanare i furbi. Molto irragionevole andare al di là di questo limite e consentire che ciascun cittadino si faccia «giustizia fiscale» da solo. Ci si può rallegrare che, in questi giorni, La Stampa abbia seguito una simile linea, che non a caso ha riscosso il plauso del garante della privacy e intenda perseverare.

Questo significa che i redditi dei «normali» cittadini debbono restare ignoti? Certamente no, ma c’è una notevole differenza tra l’accessibilità di un dato e la sua automatica esposizione a tutti. Una regola possibile è di imporre un’informazione in due direzioni: se deve essere pubblico il reddito di un cittadino, deve ugualmente essere pubblica la richiesta di informazioni su quel reddito. Se il cittadino Bianchi vuol conoscere il reddito del cittadino Rossi lo può fare, a condizione che il cittadino Rossi sia immediatamente informato della richiesta e del suo autore.

Basterebbe questa lieve barriera a garantire un uso ordinato e costruttivo delle informazioni sui redditi, tenendo conto che milioni di italiani ogni anno consentono ad altri l’analisi della propria dichiarazione dei redditi: chi richiede un mutuo, chi vuole accedere ai pagamenti rateali del credito al consumo, chi intende affittare un alloggio porta volentieri alla controparte il documento in oggetto e gli consente l’esame di molte informazioni personali, per le quali è di assoluto rigore un uso limitato allo scopo.

mario.deaglio@unito.it


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« Risposta #4 inserito:: Maggio 22, 2008, 10:17:04 am »

22/5/2008
 
Un aiuto alle famiglie
 
 
MARIO DEAGLIO

 
Chi non ama questo governo dirà che la montagna ha partorito un topolino; chi invece lo ama dirà che il primo Consiglio dei ministri ha affrontato i problemi con sano realismo. La sostanza è la stessa: quando dalle istanze, dai principi, dalle promesse elettorali si passa al funzionamento reale dei meccanismi, terribilmente complicati, dell’economia ci si accorge che i vincoli aumentano e gli spazi di manovra si riducono.

Chi è al timone può permettersi di variare anche molto sensibilmente la rotta in materia di immigrazione e sicurezza, dove l'azione del governo rappresenta un distacco netto da quella del governo precedente; per l'economia, si può al massimo correggere le tendenze e gli andamenti di qualche frazione di grado; è possibile accelerare e frenare un poco, ben più difficile abbandonare il solco del passato. Per questo, nei loro risvolti immediati e concreti, i provvedimenti adottati dal Consiglio dei ministri in materia economica non mostrano una particolare discontinuità con quelli del governo precedente: dalla detassazione del quaranta per cento sulla prima casa introdotta dal precedente governo si passa alla detassazione totale, un provvedimento ragionevole che vale però mediamente meno di cento euro per famiglia all'anno e che apre dei buchi molto seri nelle finanze dei Comuni. Certo, questi buchi saranno successivamente turati con altre operazioni della finanza pubblica, ma l'intera vicenda dà un'idea corretta di quanto corta sia la coperta fiscale che viene tirata da tutte le parti e di come un governo che ha il mandato di realizzare federalismo fiscale e riduzione della pressione fiscale debba prendere atto che, almeno nel breve periodo, non si possono realizzare entrambi in una volta sola.

Ugualmente ragionevole, in linea con il desiderio di ridurre il carico fiscale su lavoratori e imprese, è la detassazione degli straordinari per i dipendenti delle imprese private, specie se davvero il ministro dell'Economia riuscirà a finanziarla, come ha promesso, con la riduzione di qualche voce discrezionale della spesa pubblica. Contribuirà certamente a sostenere i bilanci familiari e sulla stessa linea si colloca l'accordo raggiunto - sempre dal ministro dell'Economia - con l'Associazione Bancaria Italiana che consente alle famiglie di rinegoziare i mutui per l'acquisto della prima casa a condizioni piuttosto vantaggiose. Quest'ultimo provvedimento sarà particolarmente gradito da un'opinione pubblica che è stata indotta a considerare le banche come «nemiche» che si arricchiscono sulle difficoltà altrui, ma i suoi effetti reali nel sostegno dei redditi non possono che essere esigui.

I provvedimenti economici usciti dal Consiglio dei ministri di Napoli paiono quindi tre gradite gocce d'acqua offerte a un assetato che, se fosse possibile, di acqua ne berrebbe a litri. I loro effetti complessivi sui bilanci familiari basteranno probabilmente a compensare i rincari dei carburanti e delle bollette energetiche legati all'attuale choc petrolifero. Devono essere letti soprattutto come una dichiarazione di intenzioni: il programma delineato dal ministro dell'Economia richiede tempi piuttosto lunghi per essere messo a punto in dettaglio e ancor più per produrre effetti veramente rilevanti (se davvero li produrrà, come è bene augurarsi per il Paese, al di là delle preferenze politiche di ciascuno).

In campo economico, quindi, ci si trova di fronte a una partenza dal profilo relativamente basso: esso riflette il generale cambiamento di clima economico in Europa e nel mondo verificatosi nei circa due anni che separano il terzo dal quarto governo Berlusconi. Durante questo periodo sembra definitivamente tramontata l'idea che semplicemente detassando i redditi elevati si scatenino energie vitali e iniziative imprenditoriali sufficienti a far ripartire lo sviluppo; la priorità di questo come del precedente governo non può che essere quella di sostenere il potere d'acquisto, sempre più risicato, di fasce di italiani dai redditi bassi e medio-bassi e forse questo allargamento dell'attenzione è stato l'elemento che ha consentito la vittoria della coalizione di centro-destra. Ugualmente svanita è l'idea che i mercati siano in grado di autoregolarsi producendo effetti meravigliosi per tutti; la posizione del ministro dell'Economia, pur non coincidendo con il protezionismo classico, è favorevole a robusti interventi di difesa dei prodotti nazionali.

In definitiva, questo governo non dispone della bacchetta magica e lo sa. Questo è un passo avanti rispetto al secondo e al terzo governo Berlusconi, che anch'essi non disponevano di tale meraviglioso strumento ma non lo sapevano.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #5 inserito:: Giugno 25, 2008, 10:51:19 am »

25/6/2008 - CARTELLI
 
I falsari dei prezzi
 
MARIO DEAGLIO
 

Scampato al naufragio e giunto senza forze su una spiaggia sconosciuta, Gulliver si risveglia prigioniero dei lillipuziani, una razza di uomini alti appena quindici centimetri; mentre dormiva, l'hanno tutto avviluppato con piccoli lacci e laccioli che non gli consentono di muoversi. L'allegoria settecentesca di queste vicende, narrate nel notissimo romanzo satirico di Jonathan Swift, appare particolarmente adatta a descrivere le condizioni attuali dell'Italia, così come emergono con impietosa chiarezza nella relazione annuale che Antonio Catricalà, presidente dell'Antitrust, ha presentato ieri: l'eroe addormentato e spossato, reduce da un naufragio, potrebbe benissimo essere l'Italia del 2008, mentre i lillipuziani sono le varie corporazioni, i vari interessi incrociati che tengono prigioniero il paese, che, pur potenzialmente molto forte, non riesce a liberarsi.

Si prenda a esempio il settore alimentare che tanto interessa la spesa quotidiana: in 267 circuiti alimentari messi sotto osservazione dall'Antitrust nel 2007, il ricarico medio sul prezzo finale è stato del 200 per cento, con punte fino al 300 per cento, assai più che in quasi tutti gli altri paesi avanzati. Il che significa che dal produttore al consumatore il prezzo aumenta esageratamente non per la «cattiveria» di qualcuno ma per la lunghezza della «catena», ossia per il maggior numero di intermediari.

Insomma, sulla vendita degli alimentari vive in Italia un numero proporzionalmente maggiore di persone che in altri paesi e la preoccupazione di garantir loro da vivere fa vivere un po’ peggio tutto il Paese. Quello che succede per gli alimentari è solo un caso della vastissima enciclopedia dei nostri orrori economici quotidiani presentata da Catricalà.

Sono infatti assai numerosi i settori, in cui i «circuiti» produzione-distribuzione quasi non si fanno concorrenza tra loro, ma intrattengono rapporti fissi e consolidati. Per conseguenza, quando dall'estero importiamo tensioni inflazionistiche, queste vengono semplicemente spostate in avanti sui prezzi perché nessuno ha un vero incentivo a far concorrenza al «collega». Forse se nella realtà italiana ci fossero meno «colleghi» e più «competitori» (una parola che, non a caso, suona strana alle nostre orecchie) dal punto di vista dei prezzi le cose andrebbero meglio.

Operando senza farsi una sana guerra commerciale, che rappresenta una delle basi di un sistema di mercato che operi in un paese democratico, è facile che gli operatori compiano delle trasgressioni ai danni dei consumatori. L'Antitrust ha accertato nel 2007 quasi un'infrazione al giorno del Codice del Consumo. Il viaggio tra le oltre 250 pagine di questa relazione narra, tra l'altro, di pubblicità ingannevoli o con informazioni carenti nel settore dei telefoni; di proposte di voli scontatissimi che riguardano solo pochi posti e non tengono conto di tutte le voci di costo; di offerte finanziarie nelle quali non è sempre chiara l'indicazione del tasso da pagare; fino alle imprese della cosmetica, sul cui presunto «cartello» per tenere prezzi alti l'Antitrust sta lavorando da pochissimo tempo.

L'Italia, insomma, si scopre paese di intese, tacite o palesi, implicite o esplicite, tra imprese di vari settori che dovrebbero lottare l'una contro l'altra e invece non si fanno concorrenza. Più si sale, più si toccano punti dolenti: dalle banche, forse l'unico settore in cui la sensibilità dell'opinione pubblica si è effettivamente risvegliata in questi anni, alle società di assicurazioni e alle imprese energetiche e petrolifere. Si scoprono così quelli che Catricalà chiama i «cartelli segreti» che negli Stati Uniti aprono le porte della galera. L'Antitrust, ci assicura, sta lavorando a una dozzina di casi.

E soprattutto ci sono le «chiusure» al vertice: quasi la metà delle società quotate in Borsa annovera imprese concorrenti tra i propri soci. Incredibilmente quattro su cinque contano tra i loro consiglieri di amministrazione persone che siedono anche nel consiglio dei loro concorrenti. Non fa meraviglia che per un'impresa il modo migliore di crescere non è fare concorrenza ma acquistare un'impresa concorrente che già indirettamente conosce molto bene; che i «salotti buoni» in cui un ceto dirigenziale ritrova la propria omogeneità siano più rilevanti di una buona concorrenza in cui lo stesso ceto sperimenti le proprie differenze.

Non è necessario accettare posizioni estreme che vorrebbero ridurre tutto a concorrenza per concludere che nelle forti limitazioni della concorrenza, nell'esistenza di corporazioni e di interessi che dovrebbero essere contrapposti e che invece sono collegati sta uno dei motivi per cui, nel corso della storia, dopo ottime partenze ogni tanto in Italia tutto tende a fermarsi; precisamente come è successo in questi ultimi 15-20, quando l'Italia-Gulliver nata con il miracolo economico è stata gradualmente avviluppata dalle corde dei piccoli e «cattivi» lillipuziani che ne hanno gradualmente limitato la libertà d'azione.

Anche senza erigerla a principio generale, qualche dose in più di concorrenza, invocata in linea di principio ma disattesa in pratica, farebbe sicuramente bene, dal settore petrolifero a quello delle libere professioni. Accettare un aumento di concorrenza significa prendersi dei rischi (il che agli italiani non piace quasi mai) ma non accettandoli avremo una grande certezza: quella di precipitare al fondo delle classifiche europee non solo della crescita ma anche della ricchezza, un'isola di strana povertà a Sud delle Alpi che già comincia a formarsi - come mostra il confronto con la più concorrenziale Spagna - e che tra venti-trent'anni gli altri paesi europei guarderanno con curiosità e un po' di compassione.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 02, 2008, 05:12:03 pm »

2/7/2008
 
Europillole per il mal di prezzo
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
I mezzi d’informazione pongono giustamente l’accento sugli aumenti dei prezzi italiani ed europei, ma ottengono il risultato di spaventare più che quello di informare l’opinione pubblica. Cerchiamo invece di superare la paura che, a ragione, l’inflazione provoca in noi e guardare dentro alle fauci del mostro. Scopriremo allora che la grande maggioranza degli aumenti dei prezzi è concentrata in tre soli settori e cioè i trasporti (carburanti), l’elettricità e i generi alimentari. La concentrazione attuale delle spinte inflazionistiche indica che il processo inflativo è ancora nelle sue prime fasi, come un’infiammazione localizzata che non si è ancora estesa a tutto l’organismo. Se per il calcolo dell’inflazione usassimo il (discutibile) sistema americano che esclude gli aumenti più rilevanti, l’inflazione di base (core inflation) di quasi tutti i paesi europei si collocherebbe tra il 2 e il 3 per cento, ossia a un livello di attenzione e preoccupazione, ma non ancora di allarme rosso.

L’inflazione attuale deriva prevalentemente dall’aumento dei prezzi dei beni importati e tale aumento non ha ancora scatenato un’ondata di aumenti salariali, tesi a ripristinare il potere d’acquisto perduto; se e quando quest’ondata si scatenerà, l’inflazione si diffonderà in ogni settore e sarà molto più difficile curarla. Siamo quindi (forse) ancora in tempo per aggredire l’attuale ondata di aumento dei prezzi con rimedi specifici, ossia senza utilizzare misure «pesanti», come l’aumento del costo del denaro che, con ogni probabilità, implicherebbero un brusco arresto della crescita.

Per far uso di una metafora medica, l’attuale inflazione italiana ed europea assomiglia a un mal di gola, forse ancora curabile con appropriate pasticche, senza passare subito agli antibiotici che stroncherebbero, sì, il male ma al prezzo di lasciare l’organismo stanco e debilitato. La «cura con le pasticche» si dovrebbe concretare in interventi fiscali mirati, sotto forma di sgravi o altre facilitazioni, per quei settori «sensibili» sul cui costo di produzione incidono pesantemente il prezzo del petrolio e dei suoi derivati, e i cui aumenti raggiungono molto rapidamente il consumo finale. Naturalmente tutto ciò deve intendersi in cambio di un implicito assenso delle imprese di questi settori a non aumentare i prezzi che andranno tenuti attentamente sotto controllo; e non sostituisce la necessità di lungo periodo di modificare in profondità i meccanismi che limitano la concorrenza e quindi favoriscono il semplice trasferimento, a un cliente che non può reagire, degli aumenti di prezzo ricevuti.

Tra i settori in questione figurano l’autotrasporto, la pesca e forse anche la panificazione, mentre non si dovrebbe escludere una riduzione generalizzata del carico fiscale sui carburanti, pari a oltre i due terzi del prezzo alla pompa, che compensi gli aumenti sul greggio importato, nel tentativo di mantenere il prezzo finale invariato. Queste azioni, però, esulano di fatto dalle competenze dei singoli governi nazionali, in quanto, se applicate da uno o pochi paesi membri dell’Unione Europea potrebbero essere considerate distorsive della concorrenza e quindi bocciate a Bruxelles.

È pertanto un errore cercare di risolvere l’attuale problema inflazione a livello nazionale; a giudicare dal dibattito degli ultimi giorni, le forze politico-sociali italiane rischiano di compiere quest’errore in quanto ritengono di avere come unico o principale interlocutore il governo italiano, mentre, siccome sono necessarie decisioni concordate a livello europeo, bisogna dialogare, prima di tutto, con la Commissione o con l’Ecofin, l’organismo che raggruppa tutti i ministri dell’Economia e della Finanza dei paesi dell’Unione.

L’attenzione si deve quindi spostare a Bruxelles ed è doveroso osservare che, in quest’occasione, l’Unione Europea risente duramente dalla mancanza di un ministro dell’Economia, dotato di poteri di coordinamento delle politiche economiche nazionali e della capacità di dialogare con la Banca Centrale Europea, la quale, quando alza il costo del denaro, fa il proprio mestiere senza alcun contrappeso adeguato. È altrettanto doveroso sottolineare che, in questa vicenda, la Commissione ha dato prova di un’incredibile inettitudine. Mentre c’è stata qualche risposta all’aumento mondiale del prezzo dei cereali (autorizzazione alla coltivazione dei terreni a riposo), di fronte alla «crisi annunciata» dell’aumento dei prezzi petroliferi, non sembra, al momento aver fatto proprio nulla se non essersi espressa con qualche buona parola di circostanza.

Il suo «memorandum» del 19 giugno e la successiva nota del 24 giugno sono due «lezioncine» di economia, condite di buoni propositi ma sostanzialmente prive di alcuna proposta concreta. Paiono più preoccupate per gli effetti dell’inflazione petrolifera e agricola nei paesi emergenti che per quelli sulla spesa quotidiana dei cittadini europei. Questo distacco dai problemi reali della gente è probabilmente uno dei motivi della disaffezione, se non dell’aperta ostilità, verso l’Unione di una parte crescente degli europei.

Sull’attuale inflazione, l’Unione Europea si sta giocando qualcosa di più di qualche punto percentuale di crescita della produzione e precisamente il suo stesso modo di essere e di governarsi. È sperabile che la Francia, che ha cominciato ieri il suo semestre di presidenza dell’Unione, abbia chiaro il carattere cruciale di questo periodo. E non si limiti a chiedere alla Banca Centrale Europea di non alzare il costo del denaro senza offrire in cambio un «pacchetto» di misure che rendano superfluo questo aumento.

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« Ultima modifica: Luglio 14, 2008, 12:05:11 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 10, 2008, 09:55:12 am »

10/7/2008
 
Per favore abolite il G8
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Tutti in tenuta da ufficio a far finta di piantare un albero davanti alle telecamere, per testimoniare il loro impegno per l'ecologia e contro il cambiamento climatico: così, goffi e impacciati, sono apparsi i leader degli otto Paesi economicamente più importanti del mondo ad almeno due miliardi di telespettatori che ne hanno, più o meno distrattamente, seguito le attività. In realtà il loro impegno ecologico e climatico è risultato almeno tanto inadeguato - si potrebbe dire tanto ridicolo - quanto il loro abbigliamento. E se qualcuno aveva ancora dei dubbi, il solito comunicato stampa, denso di buone parole e luoghi comuni ma avaro di fatti, li dovrebbe aver convinti di quanto inutili, per non dire nocivi, siano questi incontri.

L’iniziativa del G8 (allora G5) era nata nel 1975 quando di fronte a una crisi grave e del tutto sconosciuta, come il primo choc petrolifero, il presidente francese Giscard d’Estaing ebbe l’idea di un incontro a porte chiuse e a quattr’occhi in cui i responsabili del governo dei maggiori Paesi dell’Occidente potessero dialogare senza testimoni.

E tagliando fuori le rispettive burocrazie. Un luogo in cui stare assieme a esaminare problemi, a confrontare strategie, a raggiungere accordi informali ma - sperabilmente - efficaci. Di qui dovevano partire decisioni rapide per contrastare l’aumento dei prezzi delle materie prime, che peraltro continuarono a crescere e ci regalarono il secondo shock petrolifero del 1979.

In 33 anni e 34 incontri al vertice, il G8, pur senza diventare un organo formale, si è allargato (con l'ingresso della Russia, limitato però ad alcune materie) e di alcuni Paesi emergenti, invitati a assistere ad alcune sedute; si è anche appesantito, in quanto a livelli più bassi si incontrano, in occasioni separate, i ministri dell’economia, dell’ambiente, della giustizia e altri ancora, e ha perso gran parte di quel carattere riservato che poteva costituirne l’elemento originale. Dopo i gravi incidenti di Genova, si cerca di tenere le riunioni in luoghi isolati, ma il G8 attira sempre giornalisti e contestatori e induce i partecipanti a pietose esibizioni mediatiche, come quella, appunto, di far finta di piantare un albero. I comunicati sono inconcludenti e sull’efficacia delle riunioni si pronunceranno gli storici tra trenta e più anni, consultando archivi che per ora sono segreti.

Se i capi dei Paesi più potenti hanno bisogno d’incontrarsi riservatamente, è bene che lo facciamo. Se devono lanciare messaggi comuni che diano all’opinione pubblica un senso di direzione e politica condivisa, è bene che lo facciano. Le due cose assieme, però, non riescono molto bene in quanto la riservatezza del primo obbiettivo si scontra con la visibilità del secondo e ne derivano comunicati inutili e grandi decisioni mancate per cui un vertice G8 può rivelarsi addirittura dannoso. Così forse è stato per la riunione svoltasi sull’isola giapponese di Hokkaido, dove, dietro l’annuncio di obiettivi convenientemente lontani nel tempo, di accordi che non saranno mai portati a ratifica, di impegni che difficilmente saranno rispettati, si intravedono crescenti divisioni trai partecipanti.

La prima divisione è, in termini semplici, tra ricchi e poveri. Invitati «a prendere il caffè», ossia a una parte soltanto delle riunioni, quando i grandi discorsi erano già stati fatti, i rappresentanti dei Paesi emergenti si sono rifiutati di sobbarcarsi oneri aggiuntivi nella lotta mondiale al riscaldamento atmosferico; ma c’era da aspettarselo, visto la vibrante presa di posizione in questo senso - al G8 dei ministri dell’ambiente svoltosi qualche mese fa a Heiligendamm, in Germania - del rappresentante cinese, il quale aveva ricordato che l'inquinamento è il risultato di duecento anni di industrializzazione occidentale. L’«accordo» contiene soltanto buone parole, senza vere scadenze in tempi brevi e ciascuno lo leggerà come vorrà.

Una seconda frattura, meno visibile e più profonda, è quella derivante dal veto posto dagli Stati Uniti (e dal Canada) all’ingresso a pieno titolo dei grandi Paesi emergenti nell'organizzazione per la scarsa condivisione da parte di questi ultimi di fini generali, che immaginiamo essere la democrazia e l'economia di mercato. In questo modo il G8 rinuncia a essere un vero e proprio «salotto mondiale» ma diventa il «salottino» di una parte sola. Nel 1975, gli attuali membri pesavano per circa i due terzi del prodotto lordo mondiale; oggi il loro peso, tenendo conto del differente potere d’acquisto della medesima quantità di moneta in varie parti del mondo, è di poco più della metà. La ricerca dell’efficacia richiederebbe un allargamento, senza il quale appare illusorio affrontare con efficacia i grandi problemi mondiali.

Per il resto, si è confermata la mancanza di soluzioni e di idee per i problemi strutturali emersi nell'ultimo anno, dalla crisi finanziaria alla crisi agricola, per la quale sono stati stanziati pochi spiccioli, e chissà se poi verranno davvero spesi. Sulle colline giapponesi, insomma, c’è stata una conferma in più del fatto che una ricetta magica per uscire dalle crisi molteplici e concatenate di questi nostri anni non l’ha ancora trovata nessuno.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 16, 2008, 10:14:38 pm »

16/7/2008
 
Borse valori e borsa della spesa
 
 
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Gli sforzi delle banche centrali per circoscrivere l’infezione finanziaria che da un anno sta angustiando l’intera economia globale sono falliti. Lo ha riconosciuto ieri, in un’importante deposizione davanti al Congresso degli Stati Uniti, il professor Ben Bernanke, numero uno della Fed, la maggiore banca centrale del mondo. La deposizione di Bernanke è importante perché è la più pessimistica in assoluto da quando, circa due anni e mezzo fa, ha assunto la carica di vertice del sistema finanziario mondiale; perché segna una netta svolta rispetto al tono rassicurante, e spesso minimizzante, di molte delle sue precedenti dichiarazioni; perché sembra accostarsi alla linea, più severa e ortodossa, della Banca Centrale Europea.

In ogni caso, sappiamo ormai che la situazione non è sotto controllo, che non esistono ricette collaudate, che governi e banche centrali stanno muovendosi al buio.

Quasi per sottolineare che il re è veramente nudo, mentre Bernanke parlava le Borse americane scendevano rapidamente, continuando in quel processo di erosione del listino che ha portato i mercati azionari mondiali a collezionare una perdita del trenta per cento in un anno.

E General Motors, impresa-simbolo del capitalismo americano, annunciava un piano che si può definire di sopravvivenza: un quinto dei posti di lavoro tagliati, dividendi annullati, più di metà del patrimonio in vendita.

Precisamente con le decisioni di General Motors, da finanziaria la crisi americana si è trasformata in reale.
 
 
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 18, 2008, 11:07:55 am »

18/9/2008
 
Non basta un'aspirina
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Per oltre un anno, le banche centrali più importanti del mondo, in particolare l’americana Fed e l’europea Bce, hanno cercato di opporsi alla crisi iniettando liquidità nel sistema.

Sostituivano così la liquidità che le cadute di Borsa andavano distruggendo. La Fed provvide soprattutto con un forte taglio del costo del denaro che doveva rendere più facile la vita ai debitori, la Bce con «iniezioni» più mirate, sotto forma di prestiti di breve periodo a banche particolarmente indebitate. Quando tutto ciò non è bastato, la Fed (e in un caso la Banca d’Inghilterra) è intervenuta, direttamente o indirettamente, acquisendo la proprietà - e quindi soprattutto i debiti - delle imprese finanziarie che stavano fallendo.

A ogni «iniezione» il mercato ha respirato sollevato, e molti esperti del mondo finanziario hanno proclamato che la crisi era finita, il sistema si era ripulito, tutto poteva riprendere come prima. Il sollievo è però risultato ogni volta di brevissima durata: nel giro di pochi giorni sono regolarmente ricomparse le nuvole nere - ossia le voci, purtroppo corrette, di nuove situazioni pesanti nei bilanci di qualche banca o altra società - che si sono sfogate in temporali finanziari sempre più violenti.

Le iniezioni di liquidità, in sostanza, hanno avuto l’effetto delle aspirine quando si cura un malato di polmonite. Un’aspirina può far scendere temporaneamente la febbre, ma non ne cura affatto i sintomi; il suo uso esclusivo e prolungato non impedisce il progresso della malattia e rivela che il medico non sa bene che cosa fare. Le banche centrali hanno, nel loro complesso, dato precisamente l’impressione di essere prive di una strategia, di una cura di lungo periodo; la percezione della loro impotenza è, in particolare, alla base delle forti cadute di ieri quando il salvataggio, da parte dell’americana Fed, del gigante delle assicurazioni Aig è stato letto non più come elemento positivo, ma come conferma della gravità della situazione.

In questa situazione la presenza di controlli severi ed efficaci, come sono quelli della Banca d’Italia, può proteggere solo dal contagio primario: le banche italiane hanno in portafoglio pochi titoli della fallita Lehman Brothers, ma che cosa può succedere se questi titoli sono presenti in maniera cospicua nel portafoglio di grandi banche di altri Paesi con cui quelle italiane hanno stretti rapporti? L’ipotesi di un «contagio secondario» non si può certo escludere, e con esso la «crisi di sistema» paventata dal ministro Tremonti. Nel caso di una «crisi di sistema» l’Italia parte probabilmente con qualche posizione di vantaggio, come appunto sostiene Tremonti, grazie ai suoi buoni controlli bancari, ma sarebbe una ben magra soddisfazione se questo vantaggio si manifestasse in un mondo prostrato dalla crisi.

La giornata di ieri segna, in ogni caso, il momento in cui ci si rende conto che l’aspirina non basta più e la crisi, a lungo colpevolmente minimizzata e data per risolta, compie un ulteriore salto di gravità. Per essere credibili, i responsabili dell’assetto finanziario internazionale devono, a questo punto, preparare un piano di lungo periodo. E nel fare questo possono seguire essenzialmente una di due strade molto diverse tra loro.

La prima strada comporta la sostanziale accettazione dei meccanismi di mercato e quindi la creazione e il rafforzamento di un’autorità internazionale di controllo, dotata di effettivi poteri, tra i quali, soprattutto, quello di ispezionare i conti delle istituzioni finanziarie di ogni Paese, di stabilire regole e di comminare sanzioni a quanti le regole non rispettano. Non deve più succedere che le banche centrali si trovino di fronte a contabilità parallele delle quali non sospettavano neppure l’esistenza. Questa soluzione, alla quale mira l’attività del Financial Stability Forum, un influente gruppo di lavoro presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, è però avversata da molti grandi Paesi, in primo luogo dagli Stati Uniti, i quali non sembrano maturi per accettare che un’autorità «straniera» interferisca con il loro - peraltro debolissimo - controllo bancario. E difficilmente riuscirebbe a evitare un periodo iniziale di crisi.

Se non si ritiene di rafforzare il mercato finanziario internazionale con un controllo dei rischi a livello mondiale, occorre imboccare la seconda strada, che è quella di frazionarlo, controllando i medesimi rischi a livello di singoli Paesi o aree finanziarie. Pur di distruggere il tessuto malato, si distruggerebbe così anche una parte di tessuto sano. In questo caso vedremo la proibizione di diversi tipi di operazioni finanziarie il cui rischio risulta difficile da calcolare e qualche forma di protezionismo finanziario; le libertà di movimento dei capitali potrebbero essere frenate, con un impatto differente per i vari Paesi; per i Paesi asiatici e per quelli petroliferi sarebbe forte la tentazione di staccarsi dal dollaro creando due nuove monete di riserva. Per tutti vi sarà la tentazione, almeno altrettanto forte, di sostenere le economie nazionali con nuovi interventi diretti o indiretti dello Stato (che d’altronde cominciano a verificarsi).

In altre parole, le discese delle Borse di questi giorni ci fanno entrare in un mondo nuovo, spigoloso, non gradevole, pieno di insidie. Con una situazione di questo tipo abbiamo la non esaltante prospettiva di convivere piuttosto a lungo.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 26, 2008, 10:31:03 am »

26/9/2008
 
Punto di svolta
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Con ogni probabilità la lunga vicenda dell’Alitalia deve considerarsi definitivamente chiusa, dopo la convergenza, pressoché generale, delle organizzazioni partecipanti alla trattativa su un accordo.

Un accordo che si discosta in maniera non essenziale da quello che sarebbe stato possibile raggiungere circa sei mesi fa per un elemento positivo (l’ingresso di imprenditori italiani) e uno negativo (il monopolio di fatto alla nuova compagnia della tratta Milano-Roma, con possibili conseguenze sui prezzi). Ci sarà in ogni caso l’ingresso di una compagnia estera che, sia pure in posizione minoritaria, sarà qualificante dal punto di vista operativo e strategico; e ci sarà un inevitabile e sensibile ridimensionamento degli occupati.

La firma di quest’accordo non deve quindi essere occasione per stappare una bottiglia o per discorsi di sonante retorica. È piuttosto motivo per una piccola soddisfazione e per una più grande riflessione: soddisfazione perché le cose potevano andare molto peggio(lo potrebbero ancora se venissero a mancare le firme di alcune organizzazioni), e riflessione su un sistema italiano di trattative che si è rivelato gravemente inefficiente. Per circa centottanta giorni le parti si sono cercate al buio senza che fossero chiari a tutti i termini del problema. Ai lavoratori di questa disastrata azienda sono stati trasmessi segnali distorti: si è fatto loro intendere che l’Alitalia era potenzialmente una miniera d’oro che veniva svenduta mentre è di fatto, con l’organizzazione attuale, soprattutto una miniera di debiti; tutto ciò li ha portati a un’assurda esultanza alla notizia dell’insuccesso (fortunatamente rientrato) di trattative che, dal punto di vista dei lavoratori e di coloro che saranno posti in cassa integrazione, rappresentavano invece un ottimo risultato, data la situazione.

Questi centottanta giorni sono costati 250-300 milioni di euro che, in definitiva, ricadranno sui contribuenti. I quali si accolleranno anche le condizioni di favore accordate ai lavoratori in esubero, condizioni che ne fanno, pur nella difficoltà della loro situazione, chiaramente dei privilegiati rispetto agli altri lavoratori cassintegrati che non hanno la fortuna di fregiarsi del marchio dell’Alitalia.

Speriamo che tutti questi costi servano a far capire che l’attuale sistema di risoluzione delle vertenze, specie nel settore pubblico, non ha più senso. Per decenni tali vertenze sono andate avanti a suon di trattative notturne, di orologi fermati per poter negoziare ancora, di vantaggi mercanteggiati e «strappati» alla controparte. Fare trattative è diventata una professione che, se si sommano le vertenze, tiene occupate, da tutte le parti del tavolo, migliaia e forse decine di migliaia di persone che stendono testi farraginosi in un Paese che spesso usa le complicazioni normative per creare pretesti di vertenze future. L’attenzione spasmodica ai dettagli, amplificata a dismisura dai mezzi di informazione, fa perdere di vista obiettivi più generali quali le condizioni per la crescita e lo sviluppo e, per conseguenza, per la creazione di nuovo lavoro di buona qualità.

In questa come in moltissime altre vertenze che l’hanno preceduta, si è corso il rischio (che appare superato) di porre le premesse per l’inefficienza complessiva di un’organizzazione per salvare qualche centinaio di posti di lavoro. Nelle imprese pubbliche, prive del riscontro immediato del profitto, si è realizzata spesso una «cogestione» di fatto tra dirigenti aziendali e sindacali (oppure organizzazioni professionali come quelle dei piloti) ai quali manca il giusto apprezzamento della produttività e dell’interesse generale.

Se l’accordo Alitalia rappresenterà un punto di svolta in questo stato di cose, tutto sommato, i soldi che il Paese ha sborsato e sborserà non saranno stati spesi male e si porranno alcune delle basi necessarie perché questo Paese esca da un decennio di stagnazione di fatto. E va dato atto che un certo decisionismo di questo governo, la sua insistenza nel portare avanti una soluzione - sia pure probabilmente inferiore a quella inizialmente proposta da Air France - può rappresentare l’elemento di rottura di un sistema di relazioni sindacali troppo a lungo cristallizzato.

Occorre poi sottolineare che la nuova Alitalia non ha certo il successo garantito: il momento è difficile per tutto il settore dei trasporti aerei e ci vorrà molto lavoro, e anche un po’ di fortuna, per far dimenticare un’immagine diffusa di questa «compagnia di bandiera», disattenta nel servizio ai passeggeri e disattenta nel rispetto degli orari. L’elemento più positivo, in questo contesto, del nuovo piano industriale è il tentativo di riorganizzare l’azienda su sei diverse basi territoriali, cercando di limitare così la «romanità» della sua cultura che l’ha per decenni collocata troppo vicino al potere e troppo lontano dall’efficienza. Sia per la concorrenza esterna sia per questi problemi interni, il cammino sarà arduo. La bottiglia per brindare per il momento lasciamola in cantina; la tireremo fuori tra cinque anni circa se i risultati saranno favorevoli.

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« Risposta #11 inserito:: Settembre 30, 2008, 12:04:25 pm »

30/9/2008
 
Ma qui c'è vigilanza
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Il crollo dell’edificio finanziario americano provocherà anche il crollo dell’edificio finanziario europeo? Se lo domandano oggi milioni di risparmiatori europei, sconvolti dalle notizie di banche in difficoltà e dalle durissime cadute di Borsa. Un mercato ancora largamente immaturo si intreccia con mezzi di informazione impreparati a una tempesta di questo genere, che ne sottolineano i disastrosi aspetti esteriori.

Si rischia così non già di suscitare una consapevole presa di coscienza dei rischi, bensì di scatenare un’ondata di panico ingiustificato e potenzialmente molto dannoso.

Occorre ragionare a mente fredda e, se possibile, a nervi distesi. Questa crisi nasce negli Stati Uniti, dove hanno avuto origine non solo i famigerati titoli sub-prime ma anche quasi tutti i titoli oggi appropriatamente definiti «tossici»; la loro crescita è stata addirittura incoraggiata fino a quasi un anno fa e ha raggiunto livelli astronomici; il loro valore sui mercati è attualmente pari a zero o prossimo allo zero (e come tali devono essere indicati nei bilanci, dando luogo a perdite ingenti), anche se una parte rilevante sarà regolarmente rimborsata alla scadenza. Negli Stati Uniti la crisi finanziaria ha innescato una forte debolezza dell’economia reale, spesso minimizzata, o addirittura negata, dal governo di quel Paese, e combattuta a lungo, e colpevolmente, con gli strumenti sbagliati, ossia continuando a finanziare i consumi.

Il resto del mondo, e in particolare l’Europa continentale, è stato contagiato di riflesso, ossia per aver acquistato, spesso «impacchettati» in altri prodotti, i «titoli tossici». Questi costituiscono, in ogni caso, una parte molto piccola, talvolta trascurabile, del patrimonio delle banche italiane, e comunque piuttosto limitata anche nel patrimonio delle altre banche europee. Molto raramente, e quasi sempre solo per via indiretta, il veleno si è fatto strada nei prodotti finanziari in cui è investita la stragrande maggioranza dei risparmi degli europei.

Le banche europee che si sono trovate nelle difficoltà, che hanno suscitato un pronto intervento dei governi dalla Germania all’Islanda, dalla Gran Bretagna ai Paesi Bassi, devono le loro angustie - oltre che a scelte strategiche sbagliate come per la Banca Fortis - all’aver finanziato operazioni di lungo periodo con denaro a breve periodo, il che una volta era vietato e probabilmente tornerà a esserlo molto presto. Sarebbe del tutto fuori luogo trarre da questi avvenimenti indicazioni generali di collasso del sistema europeo, mentre questa conclusione non è irragionevole per il sistema americano.

Due elementi giocano a favore dell’Europa, e in particolare dell’Italia. Il primo è quello che, fino a ieri, veniva chiamato «arretratezza finanziaria» e che oggi viene etichettato come «saggezza»; per una serie di motivi, compresa forse una loro non eccessiva capacità tecnica, le banche italiane non sono andate dietro alle ultime mode finanziarie. Gli istituti bancari italiani hanno partecipato in misura ridottissima al gioco di creazione di ricchezza finanziaria priva di basi veramente credibili.

Uno dei motivi per cui non hanno «giocato» è rappresentato dal sistema della vigilanza bancaria, ed è questo il secondo elemento favorevole. Negli Stati Uniti questo sistema può ben essere definito una farsa, frutto di un’ideologia che esaltava la capacità di autoregolarsi del mercato e bollava come oppressiva e liberticida anche solo una supervisione attenta e dettagliata delle operazioni da parte della banca centrale. Tale ideologia, che oggi subisce un tempestoso tramonto, non ha mai pienamente attecchito in Europa, e in particolare in quella continentale: mentre il governo della moneta si accentrava nella Banca Centrale Europea, le singole banche centrali non hanno rinunciato, e anzi hanno intensificato la vigilanza sul sistema, con vari gradi di severità. Questa vigilanza è al massimo in Italia, ed è questo uno dei motivi per cui il Governatore della Banca d’Italia è stato nominato presidente del Financial Stability Forum, con l’incarico di proporre nuove regole per ottenere un mercato efficiente.

Il sistema bancario italiano può quindi essere considerato una navicella sana che regge bene un mare in gran tempesta, nel quale la nave ammiraglia, ossia il sistema americano, imbarca acqua ed è inclinata sul fianco mentre le altre navicelle europee hanno qualche vela ammaccata. Nessuno sa come la tempesta si evolverà, c’è motivo di molta attenzione in un percorso che non è certo una passeggiata, ma chi istericamente si mettesse a gridare che la nave affonda dovrebbe, finché non torna la calma, essere confinato sottocoperta.

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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 08, 2008, 08:46:28 am »

8/10/2008
 
Meno tasse per vincere la paura
 
 
MARIO DEAGLIO
 

Pur scuotendo con analoga violenza le Borse e le economie di tutto il mondo, la crisi finanziaria non presenta caratteri uniformi e richiede pertanto diversità di cure. La caduta delle quotazioni appare determinata da cause di fondo profondamente dissimili tra loro in particolare tra America ed Europa. La messa a fuoco di queste differenze è importante per la ricerca di rimedi efficaci.

Non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano al centro della tempesta, così come sono stati al centro del progetto di economia globale che oggi rischia di andare in frantumi. La crisi finanziaria si accompagna qui a una sempre più marcata crisi dell’economia reale: all’inizio del 2007, i disoccupati americani erano sette milioni, oggi sono nove milioni e mezzo e stanno salendo al ritmo di oltre centomila al mese.

Nel 2008 si costruiranno negli Stati Uniti circa novecentomila abitazioni, nel 2007 erano il doppio; il lungo indebolimento del dollaro ha migliorato solo di poco le cifre delle esportazioni. Il Paese è vissuto con il credito concessogli, sempre meno volentieri, dal resto del mondo: come dice una battuta di Wall Street, la principale attività degli americani è (sarebbe meglio dire: è stata) quella di comprare e vendere case tra loro con soldi prestati dai cinesi. In realtà, i soldi prestati dai cinesi, e da quasi ogni altro Paese, hanno anche permesso agli Stati Uniti di compiere i loro controversi interventi militari.

Gli europei, per contro, non hanno vissuto con soldi prestati dall’estero ma sono invece reduci da un difficile e doloroso contenimento dei loro deficit pubblici, finanziati prevalentemente con denaro presto a prestito all’interno dell’Europa; la loro economia, per quanto appannata, non presenta forti debolezze strutturali; le imprese industriali hanno generalmente conti in ordine e profitti ragionevoli. Non c’è quindi alcun vero motivo per un collasso delle quotazioni come quello che abbiamo visto in questi giorni se non una sorta di crisi collettiva di nervi determinata da monumentali errori di coordinamento e di comunicazione dietro i quali si individua una classe politica che, non solo in Italia, non capisce più la gente e non riesce a farsi capire dalla gente.

Affrettandosi a garantire in toto i depositi dei risparmiatori, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha fatto sorgere nell’opinione pubblica il sospetto che soltanto quest’impiego fosse sicuro. Tale convinzione, diffusasi subito in tutta Europa, è stata una delle molle della caduta dei prezzi delle azioni: moltissimi hanno venduto per depositare in fretta il ricavato, non importa se con perdite ingenti, sotto l’ombrello dei conti correnti.

Da queste profonde diversità si può concludere che la risposta alla crisi, pur coordinata a livello mondiale, dovrà essere differenziata: gli americani dovranno curare energicamente la loro economia reale - e questo sarà probabilmente il principale compito del nuovo Presidente - in Europa si dovrà curare soprattutto il settore finanziario. I guai americani sono inestricabilmente legati alla politica e alla posizione degli Stati Uniti nel mondo, i guai europei derivano anche dall’assenza di una politica, ossia dalla mancanza di coesione interna e da una non chiara posizione internazionale. L’ostinazione a concentrarsi unicamente sugli aspetti tecnici della caduta delle Borse, senza collocarli in un più vasto contesto storico e geopolitico, è uno dei motivi dell’inefficacia delle cure fin qui adottate.

Che cosa dovrà quindi fare l’Europa in questa situazione turbolenta? Nell’immediato, dalle istituzioni europee, e cioè dall’Eurogruppo, dall’Ecofin, dalla Commissione e dalla Banca Centrale, dovrà uscire un messaggio chiaro e coordinato di sostegno temporaneo alle banche e alle altre istituzioni finanziarie che venissero a trovarsi in crisi di liquidità, indipendentemente dal loro assetto futuro più o meno «nazionalizzato». Tale sostegno non potrà che essere accompagnato da un’immediata e sensibile riduzione del costo del denaro prima che l’aumento dei tassi interbancari soffochi, oltre a quelli delle banche, i bilanci di decine di milioni di europei i cui mutui a questi tassi sono legati.

In tempi appena un po’ più lunghi è necessaria una maggiore elasticità nell’applicazione del patto di stabilità che aumenti, sia pure di poco, il limite consentito dei deficit pubblici. Si tratta di una misura da usare con cautela e con forti limiti, in quanto potenziale fonte d’inflazione, ma della quale oggi appare impossibile fare a meno. Almeno per l’Italia, l’uso migliore di questo margine d’azione non sta certo nell’aumento della spesa pubblica ma nella riduzione delle entrate: andrebbero detassati i redditi più bassi, in modo da sostenere la domanda di questa folta categoria di cittadini, che oggi è, più delle altre, preda della paura di redditi insufficienti e incline al pessimismo. Infine andrebbero corrette alcune assurdità delle nuove regole contabili che si sono dimostrate veicolo non trascurabile della crisi.

La risposta venuta tra sabato e ieri dalle riunioni di Lussemburgo e di Parigi è un passo nella direzione giusta, ma di per sé esitante e insufficiente.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:30:33 am »

9/10/2008
 
Garanzie in cerca di fiducia
 
 
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
La giornata di ieri finirà nei libri di storia. Tre grandi temi hanno scandito le ore nervose e preoccupate di governi, operatori finanziari e cittadini. Il primo tema è largamente positivo e riguarda il successo del tentativo di coordinamento planetario. La concertazione, mancata sabato al vertice europeo di Parigi, emersa poi in maniera assai pallida all’Ecofin di martedì a Lussemburgo, è stata trovata, a livello mondiale, mercoledì quando in Europa era ora di pranzo.

Otto banche centrali, compresa quella cinese, hanno messo da parte esitazioni e gelosie e deciso una riduzione importante e coordinata nel costo del denaro. Per la Banca Centrale Europea si è trattato di un’implicita ammissione che l’aumento dei tassi, deciso non più tardi di tre mesi fa, era sbagliato, o comunque superato.

Poco importa se gli effetti immediati sono stati irrisori o addirittura negativi, le Borse avranno modo di metabolizzare questa importante riduzione nei prossimi giorni. La riduzione concertata dei tassi costituisce un forte segnale di discontinuità rispetto a un atteggiamento di relativa indifferenza e minimizzazione, prevalente ancora poche settimane fa: la crisi finanziaria è passata al primo posto nella lista dei problemi mondiali, con la prospettiva, avanzata ieri dal Fondo Monetario, di un arresto della crescita dell’economia globale.

In questa linea si colloca il secondo tema della giornata, ossia la rapida convocazione di una conferenza internazionale, forse preceduta da una riunione europea. Il G-8, proposto dal primo ministro inglese Brown, non è forse la sede migliore, in altre occasioni le sue riunioni hanno prodotto essenzialmente banalità, ma ogni segnale di svolta è importante. Le regole non potranno non andare nel senso di una revisione restrittiva dell’operatività internazionale degli enti finanziari, con l’eliminazione o la riduzione di operazioni finanziarie particolarmente a rischio, l’aumento dei poteri di controllo da parte di autorità nazionali e internazionali e con un maggiore equilibrio tra ricchi e poveri: è infatti essenziale che anche i maggiori Paesi emergenti (che detengono, tra l’altro, la grande maggioranza delle riserve monetarie e delle riserve petrolifere) siano invitati a partecipare a quello che dovrebbe essere il germe della «nuova Bretton Woods», da sviluppare poi nel 2009 quando a Washington ci sarà una nuova amministrazione nella pienezza dei suoi poteri.

Il terzo tema riguarda gli interventi di singole autorità nazionali europee. Quasi tutti i Paesi si sono affannati a dare solenni garanzie sui depositi bancari. Così si è mossa anche l’Italia, dove peraltro le garanzie erano già elevatissime. Naturalmente la speranza è che il solo fatto di sapere che i suoi depositi sono garantiti tranquillizzi il depositante - traumatizzato da un’informazione sconsideratamente allarmistica -, lo induca a non ritirare i suoi depositi e quindi non richieda alcun esborso finanziario. L’intervento è mirato non già a tappare buchi che, quanto meno nel caso italiano, non esistono ma a contrastare una psicosi collettiva. Accanto alle garanzie sui depositi si collocano le garanzie, quasi soltanto verbali, di continuità di credito alle imprese, soprattutto a quelle piccole.

Le garanzie ai depositanti sperabilmente non comporteranno alcun esborso, i salvataggi e il sostegno alle banche invece sì. Ancora una volta è la Gran Bretagna il Paese con gli sviluppi più rilevanti, anche perché le sue banche, maggiormente immerse nel processo di globalizzazione, sono quelle in peggiori condizioni finanziarie; il governo è intervenuto con una parziale «nazionalizzazione», ossia con un sostegno rappresentato da nuove azioni, prive però di diritto di voto. Dal canto suo, la Germania è intervenuta salvando la Hypo Real Estate con 35 miliardi di euro mentre la Francia, dopo aver iniettato tre miliardi di euro nella Dexia, una banca franco-belga, ha garantito che nessuna banca sarà lasciata fallire. In questo contesto si collocano anche le misure annunciate relative alle banche italiane.

Sostenendo le banche, e intervenendo in vario modo nella loro operatività, i governi europei si assumono un forte rischio finanziario per evitare un rischio politico. Il rischio finanziario deriva naturalmente dal fatto che i fondi per questi interventi sono a carico del debito pubblico, il rischio politico è rappresentato dalla prospettiva di caos economico e sociale derivante dalla corsa ai depositi. La Gran Bretagna, dove il debito pubblico è basso e il pericolo di caos è considerato elevato dal governo, può permettersi questi interventi assai più facilmente dell’Italia, il cui debito pubblico è già elevatissimo mentre la solidità delle banche è sicuramente maggiore. L’azione del governo sarà quindi oggetto di grande attenzione, in Italia e all’estero, per i suoi possibili riflessi nei delicati equilibri della proprietà di queste istituzioni-chiave.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 13, 2008, 09:50:43 am »

13/10/2008
 
Ma chi pagherà?
 
 
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Come terapia d’urgenza, niente male. I punti sensibili del mercato finanziario saranno stretti con dei lacci per evitare ulteriori emorragie; le ossa rotte delle banche saranno accuratamente ingessate; e ci vorrà molto tempo (minimo un anno, si dice, ma possiamo tranquillamente prevedere tempi superiori) perché il paziente torni a camminare con le sue gambe. Se il paziente collaborerà (ossia se, a cominciare da questa mattina, risparmiatori e operatori finanziari smetteranno di vendere in preda al panico), i tempi della sua ripresa si accorceranno.

Detto tutto questo, è doveroso elencare quattro interrogativi che pesano su questa cura.

Il primo è legato precisamente alla collaborazione del paziente: gli esborsi di denaro necessari per sostenere le banche fino a tutto il 2009 saranno minori se la gente darà retta ai governi e scompariranno le vendite dettate dal panico. Negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli appelli dei capi di governo alla calma o addirittura, più esplicitamente, a non vendere le azioni. Il successo dipende quindi dalla fiducia del pubblico in questi appelli.

Ma quale fiducia hanno davvero i cittadini dei Paesi ricchi nei loro rappresentanti politici?

Il problema della fiducia si aggancia immediatamente a quello del costo. E qui nasce il secondo interrogativo. Garantire il mercato interbancario va benissimo; addossare al settore pubblico le perdite legate all’emergenza del sostegno finanziario è purtroppo indispensabile, come per i danni di guerra. In definitiva, però, chi pagherà? La risposta, che non viene mai apertamente enunciata, è chiarissima: una parte del costo, più o meno grande a seconda dei Paesi ma comunque assai rilevante, sarà rappresentata da un aumento del debito pubblico. Il sollievo immediato potrebbe così risultare l’anticamera di una stagnazione futura di una finanza pubblica schiacciata da troppi salvataggi, espliciti o impliciti, di privati. L’unica crisi finanziaria simile a questa è quella giapponese dei primi Anni 90: la situazione fu controllata e i depositanti garantiti, ma seguirono una dozzina d’anni di stagnazione e un fortissimo aumento del debito pubblico. Vedremo se gli Stati Uniti sapranno far meglio; l’Europa, meno colpita, ha maggiori possibilità di ripartire, magari da sola.

Terzo interrogativo. Riusciranno i nostri governanti a contenere in pochi anni la loro presenza nel capitale delle banche, oppure dovremo rassegnarci a un’altra esperienza tipo Iri (doveva durare 18 mesi, durò settant’anni)? Il rifinanziamento «provvisorio» delle banche in difficoltà annunciato dall’Eurogruppo potrebbe facilmente trasformarsi in permanente.

Le risposte le daranno, con le loro decisioni, tutti i cittadini in quanto risparmiatori, ossia titolari di depositi bancari, proprietari di strumenti finanziari di ogni genere con le loro decisioni di vendere o di tenere una ricchezza finanziaria che è diventata bollente la settimana scorsa e che ora dovrebbe sfreddarsi. E le daranno a partire da questa mattina.

mario.deaglio@unito.it
 
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