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Autore Discussione: Luigi MANCONI. -  (Letto 2976 volte)
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« inserito:: Febbraio 26, 2008, 12:14:02 pm »

Il riduzionismo dell’Avvenire

Luigi Manconi


Come sempre, il diavolo si cela nel dettaglio. Per evidenziare la deriva laicista che starebbe per travolgere il Partito democratico, Francesco D’Agostino, già presidente del Comitato nazionale di bioetica, nell’editoriale di ieri di Avvenire, invita a considerare «quale sia l’antropologia di Umberto Veronesi» (capolista per il Senato in Lombardia).

Da un po’ di tempo, l’antropologia viene strapazzata e richiamata a sproposito, ma qui colpisce l’uso «riduzionistico» che ne fa D’Agostino, che pure del riduzionismo si dichiara fiero avversario. Dunque, l’antropologia di Umberto Veronesi viene ridotta da Avvenire ad alcune posizioni e dichiarazioni pubbliche in contrasto con il magistero della Chiesa; dell’antropologia di Veronesi, invece, non farebbe parte ciò che è fondativo della sua identità, del suo ruolo professionale, del suo statuto di ricercatore e, infine, della sua qualità morale: ovvero il fatto che, da oncologo, ha dedicato mezzo secolo di vita e di scienza, di terapia e di sperimentazione alla cura delle patologie tumorali; e che in questo campo ha ottenuto straordinari successi, restituendo salute e - alla lettera - vita a migliaia di donne e di uomini.

Quale vertigine politicante e faziosa può avere indotto l’editorialista del quotidiano dei vescovi a ignorare tutto ciò per screditare quello che assume come un avversario politico? E ancora l’antropologia: essa viene nuovamente evocata a proposito dei radicali, ma è possibile che - dopo cinquanta anni di loro presenza nello scenario nazionale e sovranazionale - si vogliano tuttora ignorare le tracce «cristiane» (magari eretiche, ma non per questo meno cristiane sotto il profilo culturale) nell’azione di quel partito?

A ben vedere, è forse possibile ipotizzare che l’impegno contro la pena di morte sia risultato, negli ultimi decenni, più tematica radicale che cristiana per il fatto che il Catechismo della Chiesa cattolica conservasse, in materia, esitazioni e reticenze sino ad appena qualche tempo fa. E non solo: quel «riduzionismo» sembra condizionare in profondità la lettura complessiva delle scelte politiche e della politica stessa come funzione pubblica da parte di settori delle gerarchie ecclesiastiche: l’intera politica viene ridotta alle scelte sulle questioni definite sciaguratamente «eticamente sensibili» (che corrispondono, in realtà, alla corposa concretezza di diritti civili e garanzie sociali): e queste ultime, a loro volta, vengono tradotte in precettistica morale, in manualistica sessuale, in prontuario di stili di vita e di relazione.

Ciò ottiene l’effetto - invero disastroso - di banalizzare quelle che sono, sì, grandi questioni etiche in un causidico codice di comportamento: e di disciplinarle in un sistema di veti e divieti. I grandi temi della contemporaneità, e quello terribile dello sviluppo scientifico e delle sue potenzialità e dei suoi limiti, e le «questioni di vita e di morte» - nascere, crescere, ammalarsi, curarsi, procreare, soffrire, decadere, invecchiare, deperire, morire… - esigono libertà di mente e passione per la verità; e incontro e scambio tra antropologie diverse (e qui il termine va inteso nel suo proprio significato).
Come possono i cristiani non comprendere che l’amore per la vita e la cura per la sofferenza dell’oncologo Veronesi e di molti come lui è parte di una cultura condivisa? E che, su un altro piano, la testimonianza di vita e di morte di Piergiorgio Welby appartiene loro ed è, per loro, «segno di contraddizione», nonostante tutti i tentativi fatti per sottrarvisi?

Analogamente, per me e per tanti come me, la folla dolente e colma di speranza che si ritrova a Lourdes o i familiari che assistono da venti anni la donna in stato vegetativo permanente e non vogliono saperne in alcun modo di interrompere le cure, non esprimono affatto una «antropologia diversa» e tanto meno disprezzabile.

Appartengono alla mia stessa condizione umana (e, se volete, antropologica): e al «dolore del mondo». Se si volesse assumere un tale punto di vista, anche la questione dell’aborto - sul quale sempre Avvenire inventa un falso che non c’è a proposito di un documento firmato dagli ordini dei medici - potrebbe essere affrontata con intelligenza. Nessuno, proprio nessuno, nega che l’interruzione volontaria della gravidanza sia un disvalore: e la sua regolamentazione per legge non traduce un disvalore in valore. La normativa intende ridurre le conseguenze individuali e sociali di una pratica clandestina, attraverso politiche pubbliche ispirate a quella concezione giuridica, sanitaria e culturale, ma che ha un suo fondamento anche teologico, che è la riduzione del danno. Ovvero secondo la dottrina cattolica, il perseguimento del «male minore»: è ciò che indusse, all’epoca, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede a prendere in considerazione la liceità morale di una legislazione per la depenalizzazione dell’aborto: ipotesi infine respinta, ma seriamente analizzata. Ecco, forse è quel documento di oltre trenta anni fa che sarebbe utile rileggere oggi: c’era più sapienza antropologica in quelle righe che in tanti articoli di queste ore.

Pubblicato il: 25.02.08
Modificato il: 25.02.08 alle ore 8.33  
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« Ultima modifica: Agosto 04, 2014, 09:20:53 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 06, 2008, 06:36:03 pm »

L’insostenibile leggerezza della Santanchè

Luigi Manconi


Va da sé: non condivido una sola parola (e forse non un solo pensiero) di Daniela Santanchè; ed è probabile che, se ci trovassimo insieme di fronte a un semaforo, avremmo difficoltà a convenire perfino su quale colore in quel momento lampeggi. E, tuttavia, devo riconoscere che - televisivamente parlando - Santanchè è bravissima. E la sua presenza pubblica, in questa campagna elettorale, è decisamente innovativa. E non certo per le cose che afferma; per capirci, Santanchè è una che dice: «Siamo il ventre molle dell’Europa» (e poi spiega: «Facciamo entrare cani e porci». E non si riferisce al Billionaire). Dunque, le sue doti e le sue risorse riguardano essenzialmente la dimensione tecnico-comunicativa: qui Santanchè rappresenta la vera novità della destra italiana. E la ragione consiste, probabilmente, nella sua singolare capacità di “stare in televisione”, la sua permanenza lì, il suo adagiarvisi. Quella di Santanchè è - nello spazio del teleschermo - innanzitutto una postura: ma una postura spirituale, prima ancora che fisica. Ovvero un sentimento morale - un’idea del bene e del male - efficacemente trasmesso attraverso il linguaggio del corpo. Un sentimento morale il più lontano possibile da tutto ciò in cui credo, ma di cui devo riconoscere una qualche capacità seduttiva; e un linguaggio che sembra in grado di comunicare agio e benessere: nel senso proprio di bene essere e di bene stare. Risulta evidente, per esempio, che Santanchè non è arrivata nello studio televisivo per quel dibattito o per quell’intervista, all’ora fissata di quel giorno determinato. Lei è lì, è già lì da tempo immemorabile, vi risiede, vi è insediata e vi si conforma quasi come se mai fosse stata altrove, ottenendo che lo studio, a sua volta, si conformi a lei. Come quegli straordinari personaggi che illustrano, nelle televendite, la bontà di un materasso («in lattice!» o «nel materiale utilizzato dalla Nasa! Che prende perfettamente la forma del corpo!») o di «un magnifico divano angolare». Insomma è come se Maurizio Mannoni o Giovanni Floris, entrando nei rispettivi studi, ve l’avessero trovata, quale parte costitutiva e, attenzione, fondamentale e irrinunciabile - di quanto sta per accadere (appunto, il dibattito o l’intervista). In altre parole, Santanchè dà la sensazione di una ineguagliabile comodità. Dai molti significati: lei che sta comodissima ovunque e comunque, lei che suggerisce comodità a chi la osservi e la ascolti, lei che crea comodità nell’ambiente in cui si trova. Il suo aspetto fisico è il primo veicolo di tale messaggio; il suo corpo è quello di una Edwige Fenech che, dopo le inquietudini della «Insegnante» (della «Soldatessa», della «Pretora»...), decide di sposare un maturo imprenditore del ramo supermercati, e di «fare la signora». Un corpo sontuoso ma pacato, prosperoso ma rasserenato, pastoso e, insieme, soddisfatto di sé, soffice e sofficemente accarezzato da bluse che si indovinano di seta d’alta qualità. Comodo, appunto. Anche quando il tono si fa - diciamolo - un po’ stridulo per urlare: «Veltroni mi fa schifo», sembra che a urlare non sia stata lei, ma la voce ventriloqua di Francesco Storace. Ecco, se non fosse per questa e per altre cadute di stile, Santanchè avrebbe già rivelato il segreto del suo stare televisivo. Che consiste proprio nella capacità di dire cose terribili con tono rassicurante e fin confortante. È il segno di una profonda trasformazione. Mi spiego.

Oggi non so, non sono riuscito più a rintracciarla su internet, ma qualche anno fa sul sito di Daniela Santanchè si trovava la mappa della sua abitazione e si aveva accesso ai diversi locali e, infine alla “sala da bagno”. Nel sito, Santanchè spiegava «cosa rappresenti il bagno» nella sua vita. È la “sala da bagno” l’ambito della definizione del sé, il crocevia della Rivelazione, «dove - confida Santanchè - sei più sola e più vicina a te stessa». Così nel suo sito fino a qualche tempo fa. All’epoca, Santanchè era il personaggio femminile di maggior successo in Alleanza Nazionale; poi il dissenso con Gianfranco Fini, provvisoriamente rientrato dopo che - come l’attuale candidata premier de «la Destra» rivelò in una intervista - il presidente di Alleanza nazionale aveva mostrato il proprio «lato umano», chiedendo con affettuosa sollecitudine del figlio di lei. Evidentemente non bastò. E ora Daniela Santanchè sta nella Destra, con Francesco Storace e Teodoro Buontempo. E, sul proprio sito, non mostra più le meraviglie della sua “sala da bagno”, ma un portfolio di sue foto che nemmeno Carla Bruni. Una cosa - direbbe Franca Valeri - «chic, moltissimo chic». Santanchè si congeda, così, da una location, evidentemente avvertita come ormai inadeguata e impropria: e, con ciò, dall’accostamento a quell’immagine da film degli anni Settanta, con Edwige Fenech appunto. È questa la maturazione alla quale alludevo: ma non so dire se si tratti di un progresso o del suo esatto contrario.

Pubblicato il: 06.04.08
Modificato il: 06.04.08 alle ore 15.55   
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