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Autore Discussione: MARIO MONTI. -  (Letto 42264 volte)
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« inserito:: Febbraio 24, 2008, 04:04:00 pm »

24/2/2008 (6:50) - L'INTERVISTA

"In Italia troppi privilegi nessuno tocca le lobby"
 
Mario Monti: sono loro a creare prezzi più alti e minore crescita

CARLO BASTASIN
MILANO


Professor Monti, pochi giorni fa la Commissione europea ha rivisto al ribasso la crescita dell’economia italiana. E vi sono scenari anche più pessimistici. Ha la sensazione che l’Italia possa trovarsi presto in una situazione di grave emergenza?
«Temo di sì. Una duplice grave emergenza, nella crescita e nella distribuzione. Molti italiani fanno sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese perché l’Italia fa sempre più fatica ad essere competitiva nel mondo. La scarsa produttività riduce la quota di mercato di ciò che l’Italia produce e restringe il prodotto totale che essa è in grado di distribuire. E quegli stessi fattori che frenano la produttività – privilegi, rendite, poteri di blocco di cui godono tante categorie – fanno sì che a pagare il conto della mancata crescita e della maggiore inflazione siano soprattutto le poche categorie non protette. Le previsioni della Commissione europea e il nuovo indice dei prezzi dell’Istat offrono nuovi fotogrammi di questo filmato preoccupante».

Nei programmi elettorali si parla però soprattutto di come spartire i tesoretti, di come ridurre le tasse. Qual è la sua impressione?
«L’impressione di essere in Finlandia. Questo mi rallegra e mi preoccupa. Mi rallegra molto notare, nel dibattito tra le parti contrapposte, almeno per ora, tonalità più pacate di quelle cui eravamo abituati. Ma mi preoccupa vedere, da una parte e dall’altra, un atteggiamento piuttosto rassicurante in materia di politica economica, quasi un senso di business as usual . Gli uni e gli altri sono alla ricerca di modi in cui lo Stato possa chiedere di meno e dare di più ai cittadini. Perfetto, se fossimo in Finlandia: un paese, e ce ne sono altri in Europa, ad alta crescita, con un bilancio pubblico in rilevante avanzo, un debito pubblico basso e in rapida diminuzione, un’inflazione sotto controllo malgrado la forte crescita. Un paese ossigenato dalle foreste, non soffocato dai corporativismi. In Italia, senza drammatizzare, un robusto senso dell’emergenza mi parrebbe appropriato».

Promettendo tagli fiscali forse Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sentono il peso delle critiche alla Casta, ma lei sembra puntare il dito piuttosto su gran parte della società italiana che giudica chiusa su connivenze e privilegi.
«L’insofferenza dei cittadini per i costi e le inefficienze della politica contiene una carica salutare. E’ positivo che i politici reagiscano, con le parole e, speriamo, con i fatti. Ma presenta anche, secondo me, due rischi insidiosi. Il primo rischio è che i titolari del potere pubblico vengano presi da un sistematico “senso di colpa”, che quasi si scusino per l’esistenza dello Stato e che, per essere eletti, promettano di togliere qualcosa allo Stato per darlo agli elettori. Il secondo rischio è che, all’opposto, la società civile tenda sistematicamente ad autoassolversi, a considerare lo Stato e le tasse come il male principale, a non vedere come un male le tutele corporative in cui ogni categoria si rinchiude a riccio».

Forse la politica italiana non ha la credibilità per chiedere più sacrifici e tende a ritirarsi?
«A mio parere occorre certo uno Stato più leggero ed efficiente. Ma uno Stato più forte, senza complessi. Uno Stato che, proprio perché crede nel mercato, ne disciplini rigorosamente il funzionamento, ne punisca le devianze. Uno Stato che sappia imporre a noi cittadini, a tutte le nostre organizzazioni e corporazioni, un disarmo della foresta di protezioni e rendite. Una foresta che si è ampliata a dismisura nei decenni proprio con la complicità di uno Stato debole. Per acquisire consensi, ha introdotto norme che riparano dalla concorrenza e ha eretto le organizzazioni delle categorie in protagonisti ufficiali delle decisioni di politica economica. Speriamo che sia possibile ridurre la pressione fiscale. Ma perché non dare priorità massima alla riduzione della “fiscalità” da rendite? Ogni privilegio crea una rendita. Ogni rendita ha gli effetti di una tassa: determina prezzi più alti, minore crescita, minore occupazione. Eliminare le rendite è come ridurre le tasse, ma senza gravare sul bilancio dello Stato».

Il partito democratico e quello del Popolo delle Libertà sono impegnati a non dilatare troppo la propria base politica. Può essere un handicap se vogliono davvero rimuovere privilegi tanto diffusi?
«Non so se altri elettori farebbero altrettanto, ma nel decidere per chi votare io valuterò positivamente, e non negativamente, quel programma che includesse non tanto promesse di dare, quanto promesse di togliere . Di togliere a noi cittadini il potere di bloccare il funzionamento del mercato; di bloccare la costruzione – nel rispetto ovviamente delle sacrosante esigenze ambientali – delle infrastrutture essenziali per un paese moderno».

E’ necessario un governo di Grande coalizione per riuscire a slegare la società italiana?
«Non so quanto siano diffuse le opinioni che le ho esposto. Ho l’impressione che lo siano sempre di più, non solo tra gli economisti, ma anche tra i cittadini in generale. Certo, ci vorrebbe un’opera di spiegazione e di persuasione da parte dei leader politici. Ma credo che molti italiani comincino a rendersi conto che forse siamo anche noi italiani, e il nostro modo di chiuderci in tante caste, a dover cambiare, non solo i nostri politici».

In queste ore Silvio Berlusconi e Walter Veltroni girano attorno al tema delle larghe intese.
«Una politica di intervento sulle rendite sarebbe facilitata se nel nuovo clima quasi finlandese di dialogo, meglio se prima di arrivare alla sauna finale del voto, Berlusconi e Veltroni (li cito in ordine alfabetico), e chi altro vuole, si guardassero in faccia e ci dicessero se vedono o no la necessità di questa operazione di riduzione delle rendite per dare spazio alle energie di crescita dell’Italia. Siccome dovrebbero essere chiamate a “contribuire” categorie vicine alla destra, al centro e alla sinistra, una presa di posizione comune sarebbe per ciascuno meno costosa in termini di consensi. Una tale piccola e circoscritta intesa preelettorale, che solo gli sciocchi potrebbero considerare un “inciucio” (non trovo la traduzione finlandese), accrescerebbe le probabilità di un’opera sollecita di disboscamento nel primo anno della nuova legislatura. In tempo per vedere i benefici, anche in termini di consenso, che conseguirebbero ad un’operazione che gioverebbe all’Italia sotto il profilo economico e anche, credo, sotto quello civile».

da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 12, 2010, 03:31:14 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 17, 2008, 02:41:24 pm »

GOVERNARE LA GLOBALIZZAZIONE

Protezionismo e riforme


di Mario Monti


La globalizzazione in corso sta apportando grandi benefici e grandi problemi, a livello mondiale e all'interno di ogni Paese. Essa non è un fenomeno irreversibile. Nel 1914 la globalizzazione era, in molti aspetti, ancora più avanzata di oggi. Ma la guerra la infranse. È chiaro da anni che la globalizzazione attuale richiede, per non cozzare contro ritorni protezionistici, di essere molto più governata dai pubblici poteri, attraverso un ben più efficace coordinamento internazionale. Progressi sono in corso, ma lenti e insufficienti.


In tutti i Paesi coesistono gli sforzi rivolti a rendere le rispettive economie più competitive, per vivere con successo la globalizzazione, e gli appelli rivolti a proteggerle, per frenare l'impatto della globalizzazione. Questa tensione ideale e politica tende a ravvivarsi nelle fasi elettorali. Ciò è naturale e opportuno, trattandosi di definire l'agenda politica per i prossimi anni. Per i Paesi membri dell'Unione europea, va tenuta ben presente un'importante asimmetria. Ciò che un Paese può fare per diventare più competitivo, è in larga misura nelle proprie mani. Per tradurre in atto intenti protezionistici, invece, un Paese che non voglia uscire dall'Unione europea può solo battersi per far prevalere la linea protezionistica in sede comunitaria. Lì è possibile impegnarsi per una politica di totale apertura, per una politica di chiusura protezionistica o — linea difficile ma a lungo andare promettente — per una politica che usi il peso europeo per affermare maggiormente sul piano globale regole di funzionamento corretto dei mercati.


Il futuro economico e civile di un Paese dipende molto da due aspetti della strategia che il Paese sceglie in materia. In primo luogo, l'impegno per profonde e rapide riforme strutturali, rivolte a una maggiore competitività, dovrebbe essere considerato essenziale anche da chi propenda per un indirizzo protezionistico. In un'Europa che, come mostrano recenti ricerche, nel complesso ha saputo trarre dalla globalizzazione benefici importanti, la battaglia per il protezionismo non sarebbe né facile né rapida. Intanto, sarebbe davvero imprudente non attrezzare il Paese per una sfida competitiva che sta perdendo. E che, anche nello scenario protezionistico, si protrarrebbe almeno per qualche tempo ancora. Inoltre, con quale credibilità invocherebbe il protezionismo in sede europea il governo di uno dei pochi Paesi che non si sono ancora messi in grado di affermarsi con le proprie forze nel mercato globale ?
In secondo luogo, nel formarsi un'opinione sull'opportunità di un orientamento protezionistico, occorre anche considerare la mappa degli interessi interni che se ne avvantaggerebbero. Sarà questo uno dei temi discussi oggi a Parigi nella riflessione su «Aprire la società alle riforme », promossa dal Corriere della Sera e dall'Università Bocconi. È probabile che da un'opzione di protezione possano trarre beneficio tutti coloro che, all'interno del sistema economico-sociale di un Paese, godono di rendite di posizione. Sarebbe infatti attenuato l'impulso ad abbattere tali rendite con riforme per creare più libertà di entrata. Certamente, tra i principali beneficiari sarebbero i soggetti della politica. Nel corso dei decenni, la possibilità per la politica di occupare spazi impropri nella vita economica e finanziaria, e di accrescere senza fine la propria discrezionalità e i propri privilegi, ha trovato un serio limite solo nell'apertura internazionale, in particolare nell'integrazione europea.

12 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 25, 2008, 04:49:17 pm »

USA, EUROPA E ITALIA

Stato e mercato oltre la crisi

di MARIO MONTI


Molti lettori del Corriere, ritengo, si identificano in una visione che considera positivamente l'economia di mercato, anche come base di una società pluralista; riconosce la leadership esercitata dagli Stati Uniti nel promuoverne la diffusione; apprezza l'integrazione europea anche come àncora dell'Italia ai princìpi e alle regole dell' economia di mercato al di là del succedersi dei governi. I recenti riflussi contro la globalizzazione, la crisi finanziaria dirompente, gli interventi pubblici di salvataggio impongono ripensamenti profondi. La riflessione è in corso in tutto il mondo. Richiederà tempo e umiltà. Sui fronti contrapposti del dibattito, non mancano coloro che già emettono posizioni nette e taglienti, ma si ha a volte l'impressione che si tratti più che altro di «regolamenti di conti», accademici o politici. Anche il Corriere ha avviato, con una pluralità di voci come è nella sua tradizione, uno sforzo per comprendere e spiegare questo violento terremoto finanziario e le sue ripercussioni sistemiche.

Per parte mia, vorrei oggi chiedermi che conseguenze potrà avere il terremoto sulla tenuta della «nostra » visione, richiamata all'inizio. Guarderò prima agli Stati Uniti, poi all'Europa e infine all'Italia. Gli Stati Uniti mi paiono, lo dico con rammarico, molto indeboliti nella loro opera storica di promozione dell'economia di mercato. I salvataggi operati dalle autorità americane danno sollievo ai mercati finanziari, ma offrono agli oppositori dell'economia di mercato, in Europa e altrove, un'inaudita occasione per invocare l'esempio americano: diranno che perfino il portabandiera dell'economia di mercato ne ha violati i principi fondamentali. Se anche si ammette che in qualche misura i salvataggi fossero inevitabili, non si possono non valutare negativamente le politiche che vi hanno condotto: l'espansione monetaria esuberante dell'era di Alan Greenspan, la disattenzione agli squilibri di finanza pubblica, l'assetto obsoleto delle autorità di vigilanza, le connivenze tra politica e finanza che hanno reso intoccabile l'esplosivo sistema delle garanzie pubbliche agli istituti di finanziamento immobiliare.

Se la cattiva governance dell'economia americana ha recato un grave vulnus all'immagine dell'economia di mercato, non dobbiamo però dimenticare che gli Stati Uniti hanno un grande punto di forza nella flessibilità ed efficienza dei mercati dei prodotti e del lavoro, oltre che nella capacità di ricerca e innovazione. L'Unione Europea non potrà essere indenne dalle tendenze recessive generate dalla crisi finanziaria nata in America. Ma ha costruito nel tempo una governance dell'economia più moderna e più solida. La politica della Banca centrale europea è generalmente giudicata migliore di quella del Federal Reserve System. Nell'esercizio dei suoi poteri a presidio delle regole di mercato la Commissione europea non è «catturata » dai poteri economico- finanziari come è avvenuto spesso negli Stati Uniti: garanzie come quelle dimostratesi perniciose a Washington esistevano in Germania ma Bruxelles le ha eliminate, i salvataggi non sono impossibili ma devono avvenire rispettando severe condizioni e con trasparenza. Anche in Europa, tuttavia, la nuova stagione porterà a tensioni e ripensamenti.

Tensioni, perché alcuni obietteranno a Bruxelles che l'Unione europea è rimasta l'unica isola in cui l'economia di mercato viene fatta rispettare con rigore. Ripensamenti, perché si potrà ritenere necessario, per fronteggiare la crisi economica, un maggiore intervento pubblico. Se questo si rivelerà necessario, è auspicabile che si tratti di interventi pubblici comunitari, come nelle recenti proposte del Ministro Tremonti, e non di maglie più larghe per interventi pubblici nazionali che possano frammentare il mercato unico faticosamente costruito. Infine, l'Italia. Nell'Italia del dopoguerra, la prevalenza della cultura cattolica e di quella marxista, la scarsa presa della cultura liberale avevano fatto sì che il modello dell'economia di mercato, con regole adeguate, si affermasse solo tra gli anni ’80 e ’90. Affermazione che avvenne non per convinzione endogena, come era accaduto 30 anni prima in Germania, ma come evoluzione resa necessaria dalla crescente concorrenza internazionale e soprattutto dall'avvento dell'unione economica e monetaria europea. Il colpo ora inferto al prestigio dell'economia di mercato proprio dagli Stati Uniti, specie se fosse seguìto da un'inversione di marcia della globalizzazione e da un indebolimento del quadro istituzionale europeo, ridarebbe fiato insperato alle molte voci—di sinistra, di centro e di destra—che in Italia avevano dovuto inchinarsi alle ragioni del mercato per necessità.

Sarà come se, di colpo, l'onere della prova si fosse ribaltato. Il movimento del pendolo si è invertito. Quando stava per iniziare la fase che forse oggi si conclude, all'indomani della vittoria elettorale di Margaret Thatcher, da queste colonne invitavo sia i fautori del mercato sia i sostenitori dell'intervento pubblico a non lasciarsi guidare né dalla superficialità di una moda, né da una poco appropriata contrapposizione ideologica («Più mercato o più Stato», Corriere, 11 giugno 1979). Molto sarebbe dipeso, aggiungevo, da come il mercato o lo Stato sarebbero stati messi in grado di svolgere, in concreto, i compiti a essi assegnati. Negli anni e decenni successivi, dal Corriere sono state lanciate o sostenute specifiche proposte—spesso accolte dai governi e dalle autorità monetarie—miranti a introdurre da un lato liberalizzazioni, dall'altro strumenti adeguati di disciplina pubblica sui mercati liberalizzati. Mi permetto di ripetere ora lo stesso invito, alle forze politiche di governo e di opposizione e ai protagonisti della vita economica. Può darsi chemaggiori interventi pubblici, anche a livello nazionale, si dimostrino necessari.

Ma, nella ricerca di nuove configurazioni nell'economia sociale di mercato, sarebbe pericoloso lasciarsi guidare semplicemente dall'insofferenza verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato. Soprattutto, converrà tenere ben presenti tre considerazioni. In Italia, anche per il ritardato avvicinamento alla cultura del mercato, vi sono ambiti in cui il quantum di «mercato» è ancora insufficiente: o perché non è ancora stato introdotto mentre sarebbe opportuno farlo, oppure perché mercato vi è, ma insufficientemente concorrenziale o non adeguatamente vigilato. Nei confronti internazionali l'Italia è di solito tra i Paesi i cui mercati — per modalità di regolamentazione, funzionalità ed efficienza -—sono considerati ampiamente perfettibili. Nel valutare l'opportunità di un ruolo maggiore per il «pubblico», sarà necessario sostenere gli sforzi, che sono in corso, per accrescere l'impegno e l'efficienza nelle pubbliche amministrazioni ma senza dimenticare che, tuttora, la funzionalità che le caratterizza non brilla, nei confronti internazionali, per capacità di contribuire alla crescita e alla competitività del paese.

E andrà tenuto presente che «pubblico» non deve significare discrezionale e arbitrario. Sarebbe questo il modo migliore per far cadere ulteriormente l'attrattività dell'Italia come luogo di investimento da parte delle imprese internazionali. Soprattutto, è essenziale evitare che un maggiore «volontarismo» dei pubblici poteri, in sé lodevole, si traduca in interventi tali da creare una confusione dei ruoli tra Stato e mercato, tra politica e imprese. Fu proprio tale confusione di ruoli, soprattutto negli anni ’70 e ’80, a ledere il potenziale di crescita dell'economia italiana, a sprofondarla negli squilibri finanziari, a mettere in dubbio la sua capacità di far parte pienamente dell'Europa.

21 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 30, 2008, 11:59:24 am »

30/9/2008
 
Quei colpi di stato
 
 
MARCO ZATTERIN
 
Ora si scopre che è tutto da rifare, che il mercato globale è cresciuto così da rendere obsolete le regole della concorrenza imposte all’Europa da Trattati di mezzo secolo fa. Dove sia cominciata la tragedia poco importa, se non che l’America può provare ad affrontare i crac comprando 250 miliardi di titoli spazzatura, mentre l’Ue deve fare lo stesso badando a non infrangere i limiti che si è data.

I più sono soddisfatti dell’impianto normativo, però non esitano ad ammettere che, sotto il fuoco di crisi e speculazione, mostra i suoi limiti. «È la stessa partita di calcio - commenta un diplomatico -, solo che una squadra non è tenuta a rispettare il fuorigioco».

Il cardine della politica comunitaria della concorrenza è che tutti hanno gli stessi diritti e doveri. Uno Stato non può sfruttare la gestione del denaro dei contribuenti. Nelle operazioni economiche deve comportarsi come «un privato». Così l’Italia non può ricapitalizzare Alitalia. Col risparmio il discorso può cambiare: il presidente francese Sarkozy per primo ha attaccato la linea «dogmatica» dell’Ue. Con lui la Germania, che ha chiesto flessibilità sugli aiuti di Stato di fronte alla crisi. La Commissione abbozza, ma ricorda che le regole «ammettono la possibilità di adeguarsi alle circostanze». La nazionalizzazione è ammessa? «Il Trattato è neutrale», risponde Bruxelles. Si possono sborsare 11 miliardi per salvare una banca? «Sì, a condizioni di mercato». Altrimenti? «Si chiede il rimborso dei fondi». Anche se si danneggiano i risparmiatori? Nessuna risposta. Gli oppositori dei dogmi affermano che non si può morire per la concorrenza: vero. I difensori dicono che tenere la barra fissa serve a governare un condominio di 27 Paesi: vero anche questo. Però mentre la finanza Usa può violare le regole e Washington - in teoria - salvarla di tasca sua, l’Ue si avviluppa fra cento supervisori e mille regole. Il nuovo scenario impone maggiore flessibilità e un vero governo congiunto dell’economia. In tempi di guerra, le leggi dei giorni di pace non si applicano più.

 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:40:06 pm »

LA CRISI FINANZIARIA E IL SUMMIT DI PARIGI

L’Unione Europea tiene


di Mario Monti


La crisi finanziaria, nata negli Stati Uniti, è destinata ad avere impatto su tutti i Paesi del mondo. Ma il suo impatto sarà duplice su una sola parte del mondo, l’Unione Europea. Questo perché la Ue non è un Paese ma un processo di integrazione tra Paesi, non è uno Stato ma un moto. Come tutti gli altri, la Ue sta subendo l’impatto della crisi sui mercati finanziari e sull’economia reale. A differenza degli altri, essa subirà anche un impatto sulla sua stessa identità, cioè sull’integrazione. Mentre il primo è fortemente negativo, questo secondo impatto potrebbe anche non esserlo. Dipende solo da noi europei. E’ grande il rischio che i diversi Stati europei tentino di rispondere alla crisi con interventi nazionali non coordinati, che porterebbero verso una disintegrazione, cioè al crollo di elementi importanti della costruzione comune già realizzata.

Ma vi è anche l’opportunità di reagire alla crisi in modo cooperativo, rafforzando la costruzione con alcuni elementi strutturali senza i quali essa mostra la propria fragilità. La crisi farebbe allora compiere un passo avanti all’integrazione. Non sarebbe la prima volta. Senza le gravi crisi valutarie del passato, i governi e le banche centrali non avrebbero mai trovato la forza per rinunciare alla «sovranità monetaria». E’ così, dalle crisi, che nacquero l’euro e la Banca Centrale Europea, senza i quali la crisi attuale avrebbe sull’Europa conseguenze ancora più pesanti. Il vertice di ieri a Parigi ha posto le premesse perche la Ue affronti la crisi in modo cooperativo, contrastando le tendenze alla disintegrazione. Il metodo comunitario, che ha valore sostanziale nella vita della Ue, è stato rispettato. I capi di governo dei quattro membri europei del G8 (Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna) non hanno preso decisioni, che spettano al Consiglio dei 27 Stati Membri, alla Commissione e alla Banca Centrale Europea (i cui presidenti hanno peraltro partecipato all'incontro).

I Quattro hanno però definito chiari orientamenti comuni che porteranno in Consiglio, nonché nelle sedi internazionali come il G8. La dichiarazione dei Quattro dovrebbe contribuire a rasserenare i risparmiatori e i mercati. I governi seguono la crisi con grande attenzione, assumono un atteggiamento proattivo e coordinato, sono pronti a intervenire con gli strumenti che hanno disposizione, intendono approntarne altri con urgenza. Fissano alcuni principi di fondo ai quali si atterranno e ai quali richiamano tutti i partners. Indicano una serie di iniziative concrete alle quali, con il loro peso, daranno impulso. Emerge un indirizzo chiaro in favore dell' integrazione. Si respingono possibili passi indietro, affermando la necessità di tenere conto, nel prendere decisioni sul piano nazionale, delle loro conseguenze sugli altri Stati membri. E si prospettano vari passi avanti nell'integrazione. Vanno in questa direzione, ad esempio, la creazione immediata di un collegio di supervisori per la vigilanza sulle istituzioni finanziarie transfrontaliere, la creazione di una cellula di crisi composta dai supervisori, dalle banche centrali e dai ministeri delle finanze, il coordinamento delle norme sulla sicurezza dei depositi.

Probabilmente occorrerà muovere più decisamente verso un'autorità europea di vigilanza, ma i passi sopra elencati rappresentano già innovazioni sulle quali sarebbe stato difficile trovare il consenso prima di questa crisi. Ci si sarebbe potuto aspettare che, data la gravità della crisi e le sue ripercussioni psicologiche, venissero messi profondamente in discussione due pilastri della costruzione comunitaria, vissuti spesso come costrizioni comunitarie anche in tempi non di crisi: il patto di stabilità e di crescita, presidio della moneta unica, e le norme sulla concorrenza e gli aiuti di Stato, presidio del mercato unico. Al riguardo, la dichiarazione dei Quattro appare equilibrata, tra le ragioni dell'eccezionalità del momento e quelle della tutela dell' unione economica e monetaria. «Nelle attuali circostanze eccezionali - dice la dichiarazione - sottolineiamo la necessità che la Commissione continui ad agire rapidamente e a dare prova di flessibilità nelle sue decisioni in materia di aiuti di Stato, pur salvaguardando i principi del mercato unico e del regime sugli aiuti di Stato.

L'applicazione del Patto di stabilità e di crescita dovrebbe essa pure riflettere le circostanze eccezionali che attraversiamo, in applicazione delle regole del Patto». Molto dipenderà, ora, dal seguito specifico che alla dichiarazione verrà dato in sede di Consiglio, a cominciare dall'Eurogruppo e dall’Ecofin di domani e dopodomani, dalla Commissione e dalla Banca Centrale Europea. E' possibile che si rivelino necessari altri interventi di salvataggio di istituzioni finanziarie. Su questo punto, non si è registrato l'accordo sull'ipotesi, prospettata dalla Francia e sostenuta dall'Italia, di un fondo comunitario di sostegno. In particolare si sarebbe opposta la Germania, preferendo soluzioni nazionali. In proposito, mi sembra necessaria una considerazione. Finché si tratti di salvataggi operati dai governi nazionali, ma nel sostanziale rispetto delle norme sugli aiuti di Stato, si può comprendere la posizione tedesca.

Ma nel caso dovessero manifestarsi ulteriori tensioni molto forti nei mercati e vi fossero pressioni per un regime eccezionale, ad esempio di deroghe temporanee al controllo sugli aiuti di Stato, allora sarebbe nell'interesse della Ue - e dei valori del mercato unico e della concorrenza che la Germania ha promosso più di altri nei decenni - che si provvedesse piuttosto con un fondo comunitario o, al limite, con l'intervento degli Stati nel capitale delle banche in difficoltà. Nella logica e nella prassi della costruzione comunitaria, vi è infatti neutralità tra proprietà privata o pubblica del capitale delle banche, o delle imprese in generale. Ma è fondamentale che sia quelle private che quelle pubbliche siano sottoposte alle norme sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato. Disparati salvataggi nazionali in deroga alle regole sugli aiuti di Stato sarebbero, per il mercato unico, più nocivi di salvataggi compiuti con uno strumento comunitario o anche con nazionalizzazioni. Inoltre, se l'intervento pubblico di sostegno avvenisse con un fondo comunitario, non si farebbe altro che collocarsi allo stesso livello al quale già oggi viene operato il controllo sugli aiuti di Stato, cioè il livello comunitario.

05 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 06, 2008, 10:56:29 pm »

ECONOMIA   

Lo scetticismo sulla capacità dei governi di fronteggiare l'emergenza alimenta i timori che la crisi impatti sull'economia reale

Borse, l'Europa crolla: Milano -8,2% perdite più contenute a Wall Street

A Piazza Affari ben 16 blue chips sospese contemporaneamente

Il dato peggiore a Parigi: -9%. A New York il Dow Jones cede il 3,05%

di LUCA PAGNI

 
MILANO - Lunedì nero, Caporetto, panic selling, profondo rosso, l'11 settembre della finanza. I termini per descrivere quanto sta accadendo sui mercati non bastano più. Bisognerebbe inventarne di nuovi. Difficile raccontare altrimenti quanto accaduto ieri nelle Borse mondiali, in particolare in quelle europee che hanno perso in media il doppio rispetto alle asiatiche e a Wall Street, dove le contrattazioni si sono chiuse con il Dow Jones a -3,05% (10.009,98 punti), il Nasdaq a -4,34% (1.862,96 punti) e lo S&P 500 a -3,43% (1.061,54 punti).

Perdite, quelle del Vecchio Continente, che hanno frantumato ogni record precedente: a fine giornata su alcune piazze c'è chi è arrivato ad arretrare di oltre nove punti percentuali.

Maglia nera tra gli indici è stato così il Cac40, che raccoglie le prime società per capitalizzazione della Borsa di Parigi: -9,04% è stato il responso finale. Ma anche le altre piazze non sono distanti: a Piazza Affari, lo S&P's/Mib ha ceduto l'8,24%, a Londra l'Ftse 100 ha chiuso in calo del 7,85%, il Dax a Francoforte del 7,07%, l'Ibex a Madrid del 6,06% e lo Smi di Zurigo del 5,82%.

Complessivamente, si sono volatilizzati quasi 445 miliardi di euro. E soltanto tra i titoli principali. L'indice Dj Stoxx 600, che alla vigilia capitalizzava 6.140 miliardi, ha infatti perso oggi il 7,23%, portandosi ai minimi dal novembre 2004 e registrando il calo più consistente in una singola seduta da un altro storico lunedì nero, quello del 19 ottobre 1987.

L'ondata di vendite senza precedenti ha almeno due motivi principali: la scarsa risposta dei governi centrali alla crisi in atto (il piano Paulson non ha praticamente avuto effetti positivi su Wall Street e i paesi Ue appiano divisi e senza una strategia comune) e il timore che la crisi finanziaria possa intaccare il tessuto industriale.

Per Piazza Affari si è trattato del peggior calo dal 1994: prima di allora, le perdite più consistenti si erano avuto il 28 ottobre del 1997 con l'indice che aveva perso l'8,13%, a seguire la seduta dell'11 settembre 2001 con un calo del 7,42%.

A Milano, i titoli sono stati tutti venduti senza eccezioni di sorta. Nel pomeriggio, ben sedici titoli avevano subito stop per eccesso di ribasso contemporaneamente tra le società a maggiori capitalizzazioni; persino quelle ritenute un investimento rifugio in momento di ribasso, come Eni (-9,66%) o Atlantia (-10,5%).

Le banche sono crollate come nel resto d'Europa. In Italia, Unicredit ha contribuito ad alimentare dubbi e sospetti sugli istituti di credito con il suo piano anticrisi da 6,6 miliardi. A fine seduta, le azioni del gruppo guidato da Alessandro Profumo hanno arginato le perdite al 5,48%, dopo aver esordino in mattinata a -15%. Peggio sono andate le altre banche di primo piano: Banco Popolare (-14,7%), Intesa Sanpaolo (-11,28%), Bpm (-6,2%).

Lo scivolone del prezzo del greggio, finito sotto i 90 dollari, ha fatto precipitare Saipem (-15,2%) ed Eni (-9,6%), ma anche Tenaris (-10,85%). Telecom Italia, arretrando del 10,8%, è scesa sotto la soglia di un euro per la prima volta nella storia della società, dopo la fusione con Olivetti.

(6 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 19, 2008, 10:41:57 am »

Politica e regole

Un successo dell'Europa


di Mario Monti


Due settimane fa esprimevo la speranza che l'Unione Europea sapesse reagire alla crisi finanziaria accelerando il passo dell'integrazione e non, come si poteva temere, lasciando prevalere le forze della disintegrazione attraverso risposte nazionali in conflitto tra loro e con l'ordinamento comunitario.

Ad oggi, il bilancio è decisamente positivo. È importante esserne consapevoli, in una fase in cui tanti europei avevano perso fiducia nella Ue per vari motivi: dal «no» degli irlandesi al Trattato di Lisbona al «no» di autorevoli economisti al modello economico europeo, ritenuto sistematicamente inferiore rispetto, si noti, a quello americano. Ma è altrettanto importante vedere con chiarezza i passi ancora da compiere, se si vuole consolidare il recente successo politico europeo.

Di successo si può ben parlare, se si pensa alla capacità decisionale — per rapidità, coesione e portata delle misure — dimostrata dalla Ue in questa occasione. Nei pochi giorni intercorsi tra l'incontro del 4 ottobre a Parigi tra i quattro membri europei del G8 e il Consiglio europeo del 16 ottobre, l'Unione a 27 ha preso decisioni che hanno indotto la grande e più agile «Unione a 1», gli Stati Uniti, a modificare notevolmente le proprie. E si è trattato certamente di un successo politico. Sono stati i governi degli Stati membri — che nella Ue sono l'espressione più diretta della politica — a dare una prova inconsueta di dinamismo e di convergenza. Il presidente di turno del Consiglio europeo, Nicolas Sarkozy, è riuscito a tenere per la prima volta una riunione dei capi di governo dei Paesi dell'area dell'euro, superando le resistenze della Germania che vi vedeva una minaccia all'indipendenza della Banca centrale europea. È riuscito a far confluire nelle decisioni del vertice dell'euro il contributo innovativo del governo britannico. È riuscito a far adottare un piano d'azione concertato, anche grazie al forte sostegno del governo italiano, favorevole in questa circostanza a soluzioni comunitarie molto avanzate. Per consolidare questo successo politico e far leva su di esso nella gestione, che sarà lunga e difficile, della crisi finanziaria ed economica, l'Unione Europea deve compiere altri passi, tre in particolare: non perdere il senso dell'emergenza, non rivolgere contro le regole europee il recente successo della politica europea, rendere istituzionale la fortunata ma occasionale coincidenza che ha permesso di prendere tempestivamente decisioni difficili. L'emergenza e l'impegno. Nessuno può dire quanto durerà la situazione di grave emergenza— per ora soprattutto finanziaria, ma che presto pervaderà l'economia reale — che ha stimolato così efficacemente il processo delle decisioni nella Ue.

Nel momento in cui l'emergenza dovesse attenuarsi, o anche soltanto diventare meno visibile, ci sarà il rischio che la realizzazione concreta delle misure già decise o previste venga diluita o ritardata. Questo avviene regolarmente nei singoli Paesi ed è in genere proprio la Ue, con i suoi vincoli e i suoi moniti, a premere affinché gli sforzi nazionali non si allentino. Trattandosi ora di decisioni impegnative prese a livello della stessa Ue — come quelle intese a creare un sistema di supervisione sulle istituzioni finanziarie al passo con la loro integrazione transfrontaliera — sarà fondamentale che prevalga proprio a livello europeo la coerenza nel tempo senza pericolosi rilassamenti o ritardi. La politica e le regole. È la politica — con i governi degli Stati membri — che ha costruito nel tempo la Ue e le sue regole. Ne ha delegato l'applicazione ad istituzioni diverse, non direttamente politiche, come la Commissione, la Corte di giustizia e, più di recente, la Banca centrale europea.

Con un soprassalto opportuno e stimolato dalla crisi, la politica ha ripreso l'iniziativa dopo un periodo di offuscamento e, spesso, di opportunistiche prese di distanza da misure «europee», ma adottate in realtà con il consenso dei governi nazionali. Ha preso in questi giorni, in sede di Consiglio europeo, decisioni che nessuna delle altre istituzioni avrebbe potuto prendere. La politica può essere ora tentata dall'idea di ridimensionare la portata effettiva, e forse anche il valore di principio, delle regole nella costruzione europea, da quelle sulla disciplina dei bilanci pubblici a quelle sul mercato unico e sulla concorrenza. La Commissione sta facendo quanto può per consentire, in modo ordinato e sulla base di criteri definiti, aiuti di Stato alle istituzioni finanziarie per far fronte a questa emergenza. Non sarà comunque facile tenere una linea di una certa fermezza quando si presenteranno casi in altri settori dell'economia, non provvisti della «forza» che deriva alle istituzioni finanziarie dalla necessità di fronteggiare il «rischio sistemico», ma magari con notevoli risvolti sociali.

Non sono mancate dichiarazioni politiche che, forzando la posizione espressa dal Consiglio europeo, hanno dato l'idea che la disciplina sugli aiuti di Stato appartenga ormai ad una stagione che si è conclusa, ora che la politica è tornata protagonista. La stessa cosa avverrebbe, in genere, per le regole europee. Ma sono convinto che gli stessi politici, pur non gradendo a volte, come è naturale, l'applicazione di regole che limitano la loro discrezionalità, vedano chiaramente gli inconvenienti che deriverebbero dalla loro non applicazione. Il mercato unico si spezzerebbe, con conflitti tra gli Stati membri, se non ci fosse un arbitro che pone limiti alla possibilità per gli Stati di farsi reciprocamente concorrenza sleale sussidiando a piacere le proprie imprese. I governi, senza regole europee sui disavanzi, troverebbero ancora più difficile resistere alle pressioni per aumentare di continuo la spesa pubblica. E così via. Coincidenze e istituzioni. La crisi finanziaria è esplosa durante il semestre di presidenza francese.

Per coincidenza, la Ue si è potuta giovare della leadership di un grande Stato membro, presieduto da una personalità forte. L'azzardo della rotazione semestrale avrebbe potuto portare ad esiti profondamente diversi. I piccoli Stati membri sono essenziali per la vita comunitaria e assolvono con impegno ai compiti della presidenza, in condizioni ordinarie. Ma è difficile immaginare che la Ue sarebbe stata in grado di agire con tanta tempestività e coesione se la crisi fosse avvenuta prima del 30 giugno (presidenza slovena) o dopo il 1˚gennaio prossimo (presidenza ceca, cioè di un Paese che, comunque, non avrebbe potuto convocare un vertice dell'area dell'euro perché non ne fa parte). Il Trattato di Lisbona prevede, tra l'altro, che il presidente del Consiglio europeo venga scelto dai capi di governo e rimanga in carica per due anni e mezzo. È probabile che, quando il Trattato sarà in vigore, la personalità prescelta abbia doti di leadership e la stessa continuità nell'incarico ne accrescerà l'autorevolezza e la capacità di iniziativa. Chissà se i cittadini irlandesi che ci hanno impedito, e chissà fino a quando, di far entrare in vigore il Trattato erano consapevoli di questo.

19 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 30, 2008, 11:11:19 pm »

L'INTERVISTA

«Maastricht non è più un alibi per non investire sulla crescita»

Monti: spero che la Merkel faccia di più.

Giusta la linea della sobrietà di Tremonti ma ha ragione la Marcegaglia: serve un'azione più decisa insieme alle riforme
 

Professor Monti, che giudizio dà del piano europeo anti crisi varato mercoledì scorso dalla Commissione europea? C'è chi ha parlato addirittura di bluff e l'Economist lo ha di fatto snobbato.
«La Commissione Barroso ha adottato una strategia corretta: il sostegno dell'economia attraverso lo stimolo della domanda, non attraverso una pioggia di aiuti di stato alle imprese. Dando impulso alla domanda, ogni Paese giova a se stesso e agli altri. Sussidiando le proprie imprese, ogni Paese farebbe un danno agli altri e probabilmente anche a se stesso, impedendo o ritardando il rinnovo della struttura produttiva. Con la strategia adottata, la Commissione amplia lo spazio di manovra degli Stati membri e ne incoraggia l'utilizzo in una direzione cooperativa».

E in materia di tassi la Commissione avrebbe dovuto prendere una posizione più decisa? Molti commentatori non sono teneri con Francoforte e la nostra Confindustria chiede da tempo un taglio più deciso.
«Gli indirizzi dati dalla Commissione riguardano soprattutto le politiche di bilancio, sulle quali essa ha poteri di sorveglianza e che sono le politiche cruciali in questa fase. Sulla politica monetaria, senza interferire con l'indipendenza della Banca centrale, ha sottolineato che la stessa banca ha già indicato che ci sono spazi per ulteriori riduzioni dei tassi».

Lei è sempre molto attento alla metodologia comunitaria ed è portato a sottolineare gli aspetti che favoriscono comunque l'avanzata dell'Europa, ma l'opinione pubblica potrebbe più prosaicamente confrontare le risorse messe in campo o promesse dagli Usa e quelle indicate da Bruxelles.
«Negli Stati Uniti, la parte preponderante del bilancio pubblico è rappresentata dal bilancio federale, ben più rilevante di quelli degli Stati. In Europa, il bilancio pubblico è costituito quasi per intero dai bilanci degli Stati, quello comunitario è un piccolo fregio sull'edificio, pari a poco più dell'1% del Pil. I critici dell'Europa la considerano già una presenza soffocante, ma oggi criticano l'Europa perché non mette in campo un intervento massiccio per il rilancio. Con il bilancio comunitario, la Commissione si propone di contribuire al rilancio con interventi per 30 miliardi di euro, circa un terzo dell'intero bilancio. Un impegno ben minore rispetto al bilancio di partenza, ma molto più rilevante in termini assoluti, viene chiesto agli Stati (170 miliardi, pari all'1,2% del Pil della UE). Attenzione: non sono soldi che Bruxelles chiede agli Stati di trasferire al bilancio comunitario, sono soldi che Bruxelles propone agli Stati di spendere nelle loro economie, per contrastare la crisi nella loro economia e in quella degli altri. Negli Stati Uniti la politica di bilancio (nel bene e, come negli anni recenti, nel male) si fa a Washington, nell'Unione europea la si fa nelle capitali nazionali, con un ruolo di coordinamento assegnato a Bruxelles».

La complessità delle misure adottate dalla Commissione e qualche bizantinismo nelle procedure hanno dato adito però a interpretazioni le più disparate. E alla fine si è capito che si è aperta una crepa nel muro di Maastricht e poco altro.
«Non mi pare. La Commissione ha sollecitato interventi di bilancio urgenti, temporanei e coordinati. L'urgenza si impone, del coordinamento abbiamo già detto, la temporaneità è l'aspetto più delicato ma anche essenziale. L'Europa non intende abbracciare l'impostazione degli Stati Uniti, che tanti danni ha causato a quel Paese e al mondo, e abbandonare la disciplina finanziaria, che ha scelto come uno dei pilastri della convivenza europea. Per questo, di fronte a una crisi così grave, occorre procedere sì a interventi espansivi anche audaci, ma con il chiaro messaggio che si tratta di aumenti di spese o riduzioni di entrate di carattere temporaneo. Meglio se, oltre al messaggio, vi è anche un dispositivo che assicuri operativamente la temporaneità. In altri termini, Bruxelles non dice: "liberi tutti, andate e spendete!". Dice: "impegnatevi tutti, in modo coordinato, per contrastare questa crisi pesante, e sappiate che in tempi normali la disciplina che mi attendo da voi continuerà a essere quella normale».
  
Lei difende l'operato della Commissione eppure il rilievo tutto sommato scarso che ha avuto sui media testimonierà pure qualcosa.
«Dichiarazioni colorite o provvedimenti stravaganti avrebbero colpito di più i media. L'Europa, quando funziona, è un po' grigia di suo. Detto questo, ci sono aspetti che si possono discutere, nel piano della Commissione. Si è fatto tutto il possibile per ottenere che l'insieme degli interventi espansivi degli Stati raggiunga davvero quei 170 miliardi dichiarati necessari? Forse no. Si sarebbe potuto dire che da tutti gli Stati ci si aspetta un temporaneo aumento del disavanzo (o riduzione dell'avanzo) di x punti percentuali del Pil. Il "compito" sarebbe stato più preciso, ma è vero che gli Stati si trovano in condizioni di finanza pubblica molto diverse. Oppure si sarebbe potuto attribuire a ciascuno Stato un "compito" di entità differente, ed esplicitata, proprio per tenere conto delle diverse condizioni. La Commissione deve aver preferito non apparire così intrusiva. Ma a qualcosa di simile occorrerà arrivare, se si vuole che il piano sia pienamente credibile. Forse la Commissione si ripromette di arrivarci mediante la discussione tra i ministri in sede di Eurogruppo e di Ecofin, cioè in modo più condiviso e attraverso la peer pressure (in questa occasione forse anche Peer pressure, dal nome del ministro delle finanze tedesco Peer Steinbruck). In ogni caso, la Commissione avrà avuto l'effetto di modificare i termini del dibattito di politica economica nei singoli Paesi. Non si potrà più dire che i governi vorrebbero operare scelte espansive mentre la Ue caparbiamente vieta di largheggiare. Quell'alibi non esiste più».

Eppure un economista di scuola liberale ed europeista, Mario Deaglio, nei giorni scorsi ha scritto sulla Stampa che "gli storici del futuro si chiederanno come un insieme di persone indubbiamente intelligenti siano rimaste schiave di tabù assurdi e continuino a scherzare con il fuoco della recessione". E tra i tabù al primo posto il rapporto deficit-Pil "sempre inferiore, qualunque cosa accada, al tre per cento".
«Per la stima che ho di Deaglio è una critica che vorrei prendere in considerazione, partendo un po' da lontano. Nel 1997, quando al tavolo della Commissione si discuteva come scrivere le regole del Patto di stabilità, mi battei perché gli investimenti pubblici fossero conteggiati con il criterio della golden rule, fuori quindi dal parametro del 3% deficit-Pil. Ma il presidente Jacques Santer e il commissario agli affari economici Yves-Thibault de Silguy obiettarono che dentro l'involucro degli investimenti sarebbe stato incartato di tutto. Replicai che il problema non mi sfuggiva, ma che si sarebbero potuti definire e applicare paletti stretti e che mi pareva comunque meglio che il Patto di stabilità nascesse strutturalmente corretto, opponendo minori resistenze a spesa qualitativamente migliore, anziché correre un giorno il rischio di venire travolto in caso di una grave recessione. A titolo personale (non ero io il commissario competente) ne discussi anche fuori Commissione. Non solo il ministro delle finanze tedesco Theo Waigel e il banchiere centrale Otmar Issing, ma perfino il ministro francese delle finanze Dominique Strauss-Kahn, non aderirono all'idea. Non se ne fece niente».

Ma ha senso oggi tornare a quel dibattito?
«Ha senso se non altro per spiegare che pure chi avrebbe voluto l'adozione di un criterio più largo non può essere d'accordo con Deaglio. Non si tratta di "tabù assurdi". Molti Paesi venivano da decenni nei quali i rispettivi sistemi politici avevano ignorato i diritti delle generazioni future. Avevano "comprato" consenso nel presente sacrificando il benessere delle generazioni future, attraverso disavanzi e debiti ingenti. In particolare per noi italiani la cultura del cosiddetto vincolo esterno fu la benvenuta. E se non fosse prevalso in Italia quell'orientamento rigorista il cancelliere Kohl non avrebbe mai potuto persuadere i tedeschi a condividere una stessa moneta con l'Italia. Quando si aprono le porte tra gli appartamenti di un condominio è naturale che un inquilino che vanta un curriculum da dissipatore non venga visto bene».

Ma neanche il più ordinato dei condomini politici riuscirebbe a vivere a lungo senza un collante. Le regole sono una condizione sicuramente necessaria ma anche largamente insufficiente.
«Il collante dovrebbe essere rappresentato dall'unità politica e non esistono surrogati. Sono altresì dell' idea che un sistema di regole rigide debba evolvere verso il primato del judgement, della valutazione discrezionale. Gli Stati uniti d'Europa però non sono un obiettivo realistico e temo che più se ne parla, più si corre il rischio di attizzare gli avversari dell'idea comunitaria. In questa fase la Ue si rafforza se riesce a costruirsi passo dopo passo, e ora è la volta del governo comune dell'economia».
 
Sta sostenendo che, complice la crisi, Trichet, la Kroes e Almunia devono diventare la sintesi politica dell' Europa?
«Al contrario. Se quella fosse la sintesi si svilupperebbe un'Europa impropria che assegnerebbe a figure egregie di magistratura prevalentemente tecnica una funzione di indirizzo politico. Sarebbe quasi un golpe e accrescerebbe il divario di sensibilità tra Bruxelles e l'opinione pubblica europea. Il tavolo comune dell'economia è un passaggio politico e vede l'ampio coinvolgimento dei governi, senza intaccare le alte responsabilità affidate alle autorità che lei ha menzionato».

Ma la signora Merkel non pare di quest'idea e anche per questo motivo la reazione della Germania alla sfida della crisi è giudicata da molti come insufficiente. Lei lega il successo del piano Barroso all'atteggiamento che prenderà la Germania nella sua applicazione?
«Diciamo che spero che la signora Merkel sia disposta a fare di più, per il sostegno dell'economia tedesca ed europea, di quanto è apparso finora. Può darsi che la cancelliera l'abbia in mente, ma si riservi di annunciarlo tra un po' di tempo, magari per due ragioni. La prima, per arrivare più a ridosso delle elezioni federali del prossimo settembre. La seconda, perché, non avendo la signora Merkel mai amato il concetto di governo economico d'Europa e avendo "sofferto" un po' del protagonismo della presidenza Sarkozy, potrebbe aspettare la fine del semestre francese».

Il paradosso davanti al quale ci potremmo trovare è che finalmente Bruxelles concede più margini di flessibilità e che invece alcuni governi nazionali, compreso il nostro, non vogliano utilizzarli?
«I margini di bilancio per noi e per gli altri saranno il risultato di un gioco interattivo che andrà in scena all'Eurogruppo e all'Ecofin di questa settimana. In quella sede ognuno dovrà dire cosa intende fare in casa propria e che strategia seguirà nei confronti degli altri. A mio parere, l'Italia ha interesse a non fare asse con la Germania su una posizione di particolare sobrietà nell'applicazione del piano della Commissione. Avendo io sempre sostenuto le ragioni del rigore, capisco e apprezzo che chi governa oggi l'Italia senta il valore di battersi sul fronte della sobrietà e dell'austerità, ma credo che l'atteggiamento più proficuo in una fase straordinaria come questa sia quello di valorizzare il ruolo chiave della Germania come fautrice strutturale della disciplina, premendo tuttavia su di essa perché cooperi attivamente all' espansione, senza la quale gli avversari della disciplina potrebbero alla fine prevalere. Chiederei alla Germania un po' di espansione di bilancio in più, come assicurazione contro il rischio di una recessione che travolga la "cultura della stabilità", oltre al patto di stabilità».

Insomma non ha torto la presidente Marcegaglia a chiedere un maggiore impegno anti crisi sia mobilitando risorse dei fondi Ue sia risorse tratte dal budget nazionale? Del resto il Financial Times
ha definito il piano del governo italiano come modest stimulus...
«Ho condiviso l'impianto generale che il ministro Tremonti ha dato alla sua finanziaria triennale, ovviamente redatta in una fase nella quale non si poteva avere contezza della crisi. Ma credo che Emma Marcegaglia abbia ragione nel ritenere opportuna, nelle circostanze attuali, un'azione più decisa».
Se l'Italia decide di spendere di più non c'è il pericolo concreto di peggiorare la nostra immagine davanti ai mercati e quindi di pagare il conto al momento di lanciare nuove emissioni di titoli di Stato? Poi a quanto si capisce Bruxelles dovrebbe catalogare i Paesi membri in un sistema di fasce e se l'Italia fosse inserita nel girone C il rischio di pagar dazio ai mercati sarebbe ancora più concreto.
«Considero sacrosante le preoccupazioni del ministro dell'Economia per la grande dimensione del nostro debito e per la particolare concentrazione di scadenze dei titoli di Stato. Questa deve essere la sua attenzione prioritaria.
Penso tuttavia che ciò non impedisca necessariamente un maggiore intervento di sostegno, nelle circostanze attuali. Ma solo a due condizioni».

Quali?
«La prima è che i programmi di spesa o di riduzione di imposta siano esplicitamente temporanei. In questo modo ai consumatori arriverebbe il messaggio chiaro che spendendo nei prossimi mesi coglierebbero un'occasione irripetibile; e nel contempo i mercati finanziari non riceverebbero l'impressione che Roma ha scelto la via di un maggiore disavanzo permanente. La seconda condizione è che una temporanea maggior larghezza di bilancio si accompagni a un rinnovato impegno sul fronte delle riforme strutturali. Se gli analisti avranno la sensazione che l'Italia spende un po' di più, ma in un quadro temporaneo e reversibile, e allo stesso tempo si impegna sulle riforme per dare competitività al sistema, la credibilità dell'economia italiana non dovrebbe soffrirne. Non ci dovrebbe essere il temuto effetto di un allargamento dello spread tra i nostri titoli di Stato e le emissioni concorrenti ».

Professor Monti ma non le pare fortemente idealistico, per usare un eufemismo, proporre riforme nel mezzo della bufera?
«Al contrario. Non sta finendo la storia. Quando avremo superato la crisi continueranno a valere le leggi della competitività e quindi sarà importante vedere come il Paese sarà uscito dalla gelata. E poi è evidente che la crisi tende a salvaguardare gli insider, a consolidare la loro posizione nei mercati in cui operano ma inevitabilmente ciò rende la vita ancor più difficile agli outsider, a coloro che vorrebbero entrarvi. Se non si vogliono perpetuare a vita gli assetti esistenti e condannare a morte gli altri si deve lavorare per ridurre le barriere all'ingresso».

Un fortunato slogan di Nicola Rossi qualche anno fa sosteneva che ci volevano riforme per dare "meno ai padri e più ai figli". La crisi invece promette di dare qualcosa ai padri ma di togliere tutto ai figli.
«Certo. E quell'espressione va letta in chiave metaforica. I padri sono le aziende esistenti, i gruppi organizzati, le professioni tutelate che in ogni campo possono contare su rendite e privilegi. A questa posizione di vantaggio, le terapie anti crisi, in America come in Europa, rischiano di aggiungere una dose di "gerovital" somministrata a carico del bilancio statale. Nello svolgersi della schumpeteriana "distruzione creatrice", si rischia di penalizzare la creazione nel momento in cui si concentra l'attenzione sull'arginare la distruzione. Il Paese ha il problema di superare questa crisi ma anche quello di diventare più competitivo. Quando la marea sarà passata conterà l'orografia che lascerà. Se spingiamo poco la Germania e se rallentiamo la nostra capacità di modernizzazione, ci spariamo sui piedi».


Dario Di Vico
30 novembre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 30, 2012, 05:42:51 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 18, 2008, 05:17:51 pm »

ANGELA MERKEL E L’EUROPA

Un cancelliere contro la crisi

di Mario Monti


Il cancelliere Angela Merkel incontra oggi i leader dell'economia tedesca per discutere la strategia contro la crisi. Ciò che si deciderà a Berlino sarà di grande importanza per l'Europa. Il Consiglio europeo ha adottato venerdì un piano di rilancio coordinato, la cui realizzazione è affidata in buona parte ai singoli Stati. Se un notevole impulso espansivo non verrà dalla Germania — l'economia più grande e con un bilancio pubblico sano— la crisi non potrà che aggravarsi. Il governo tedesco è sottoposto a forti pressioni. La Francia di Nicolas Sarkozy, la Gran Bretagna di Gordon Brown, la Commissione di José Manuel Barroso hanno alzato i toni nel richiamare la Germania alle sue responsabilità. Queste pressioni sono corrette nella sostanza, ma rischiano di essere poco efficaci perché dimenticano la psicologia e la cultura politica della signora Merkel e di molti tedeschi.

Il cancelliere ha alcune convinzioni radicate, espresse anche di recente. La crisi finanziaria ha mostrato le degenerazioni del modello anglosassone centrato sulla finanza, non di quello tedesco fondato sull'industria. Se la crisi è poi diventata esplosiva, è anche perché due «virtù tedesche», la politica monetaria prudente e la finanza pubblica disciplinata, erano state considerate démodées, negli Stati Uniti ma non solo. Anzi, nella stessa Germania il suo predecessore Gerhard Schröder aveva largheggiato con il disavanzo e lei l'ha riportato in pareggio. Ciò è stato politicamente costoso, così come le riforme strutturali, realizzate in Germania più che altrove, grazie alle quali oggi brilla la competitività tedesca. Pare di sentirla, la signora Merkel: «E adesso io — cari Nicolas, Gordon, José Manuel — dovrei modificare la rotta tenuta per anni con fatica; dovrei farlo per soddisfare le esigenze di altri Paesi, che certo non sono stati particolarmente temperanti? E poi, caro Nicolas, proprio a te dovrei dare retta; a te, che non hai mai nascosto la tua insofferenza verso la più cardinale delle virtù, l'indipendenza della Banca centrale? ».

Per fare breccia nel cancelliere, gli altri leader potrebbero provare a mettersi dalla sua parte e ad esprimersi così (uso un tono colloquiale, ma sono convinto della gravità dello scenario indicato): «Caro Cancelliere, condividiamo pienamente la tua visione di un'Europa fondata sull'economia sociale di mercato e sulla disciplina di bilancio. Ma proprio per questo siamo molto preoccupati dalla risposta alla crisi, finora insufficiente, data dal tuo governo. Un impulso espansivo del bilancio pubblico tedesco, certo temporaneo ma sensibilmente maggiore di quanto hai finora annunciato, è una delle condizioni necessarie affinché l'Europa eviti una depressione profonda e prolungata. «E non chiudiamo gli occhi: se l'Europa dovesse cadere in una tale depressione, vi è un rischio concreto che il Patto di stabilità, l'indipendenza della Banca centrale, forse la stessa integrazione basata sul mercato, finiscano prima o poi per essere spazzati via da reazioni politiche incontrollabili». «Se tu vuoi —come ormai noi stessi vogliamo, anche se non sempre lo ammettiamo— che la cultura della stabilità, nata nel tuo Paese dopo la guerra, continui ad essere un pilastro fondamentale della costruzione europea, devi accettare che la Germania si impegni di più nel piano europeo contro la depressione, che con noi hai sottoscritto venerdì a Bruxelles. Questo impegno consideralo come un premio di assicurazione, tutto sommato modesto, contro il rischio che vengano dissipati i frutti concreti di quella salutare leadership culturale che la Germania ha esercitato in Europa per cinquant'anni».

14 dicembre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Gennaio 02, 2009, 10:08:09 am da Admin » Registrato
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 19, 2008, 12:35:47 am »

Crisi, Tremonti punzecchia Draghi: «Meno male c'era forum per la stabilità»
 
 
PARIGI (18 dicembre) - Il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, attacca il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Arrivando alla riunione dell'Ecofin, il Consiglio dei ministri delle Finanze dell'Ue, di Parigi, i cronisti chiedono al titolare di via XX settembre se la grave crisi finanziaria, e in particolare la truffa Madoff che ha già avuto effetti anche sulle banche italiane, possano avere nuove ripercussioni in Europa. Il ministro replica: «Penso che il caso Madoff non crei molti problemi in Europa». Poi continua sarcastico: «E meno male che c'era il Financial stability forum.... Figuriamoci se non c'era». «I ragazzi del Financial Stability Forum hanno proprio lavorato bene», ha continuato il ministro, ricordando una frase pronunciata dalla Regina Elisabetta: «Ma possibile che nessuno ci ha avvertito prima?».

Tremonti non lo ha citato mai esplicitamente, ma il presidente del Financial stability forum - organismo creato nel 1999 per promuovere la stabilità finanziaria a cui partecipano banchieri centrali e autorità di controllo di 26 paesi - è proprio il governatore della Banca d'Italia, anche lui all'Ecofin di Parigi dove oggi ha tenuto una relazione sui recenti sviluppi della crisi finanziaria.

«È demenziale - ha poi aggiunto Tremonti - stare ad ascoltare e prendere lezioni da chi non ha capito nulla, o ha capito molto, e ha sbagliato tutto».

«Il governatore non commenta queste cose». Questa l'asciutta replica di Draghi a chi gli chiedeva di commentare le frasi del ministro dell'Economia.

«Non dare cognac a chi ha bevuto troppo whisky». Tremonti ha quindi spiegato che «siamo di fronte ad una crisi reale dell'economia, non solo finanziaria.
E quando sento che servono nuovi interventi, che bisogna aggiungere debito a debito, dico di no. Non si può curare chi beve troppo whisky dandogli del cognac». «Quello che serve invece - ha proseguito - è fare più risparmio, più domanda e investimenti pubblici, più moralità, più legalità.
Questo sarà uno dei temi forti del prossimo G8 a presidenza italiana».

L'euro. «Finora non sono preoccupato», ha poi detto Tremonti a chi gli chiedevano un commento sull'andamento del cambio. «Io ho fiducia nella moneta unica», ha aggiunto.
 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:08:39 am »

MISURE ESPANSIVE E RIFORME

Dalla crisi allo sviluppo


di Mario Monti


«Possiamo limitare le conseguenze economiche e sociali della crisi mondiale per l'Italia, e creare anzi le premesse di un migliore futuro, se facciamo leva sui punti di forza e sulle più vive energie di cui disponiamo ». L'auspicio del Presidente Giorgio Napolitano trova fondamento nelle prove che l'Italia ha saputo dare in passato di fronte a gravi crisi: la terribile eredità della seconda guerra mondiale e in seguito il terrorismo, come ricorda Napolitano, ma anche, negli anni Novanta, le crisi della lira prima dell'approdo nell'euro.

Si è spesso notato che il nostro Paese riesce a dare il meglio solo in condizioni di emergenza, quando non è più possibile rinviare decisioni impopolari. Nei casi citati, si trattava però di emergenze specificamente italiane. Sapremo dare prova della stessa capacità di reazione ora che l'Italia è afflitta da una crisi grave, ma non specificamente italiana?

Perché la risposta sia positiva, occorre evitare due atteggiamenti. Nella diagnosi, non si deve trovare troppo conforto in distinzioni che paiono, per una volta, a favore dell'Italia. Nella terapia, non è prudente ritenere che la pesante eredità del passato, incontestabile, impedisca interventi di ampia portata per contrastare la crisi.

E' vero che l'economia italiana — rispetto a quella britannica, irlandese, spagnola o americana — è meno sbilanciata verso i due settori (finanziario e immobiliare) dai quali si è scatenata la crisi; che le famiglie italiane hanno risparmi elevati e indebitamenti modesti; che la nostra industria manifatturiera, in alcuni settori, è ancora un punto di forza. Ma rimane il fatto che l'Italia, prima della crisi, era uno dei paesi «avanzati» in corso di «arretramento», con differenziali negativi in termini di competitività e di crescita. La crisi è come un' orribile marea che copre e offusca tutto. Il suo effetto immediato è stato sì, per noi, meno dirompente che per altri. Ma non dobbiamo credere che, una volta ritiratasi la marea, il nostro sistema produttivo emerga più competitivo di prima.

«Dobbiamo considerare la crisi come grande prova e occasione per aprire al Paese nuove prospettive di sviluppo», ha indicato il Presidente Napolitano. Alla stessa ora, il Presidente Nicolas Sarkozy rivolgeva ai francesi parole molto simili: «Dalla crisi nascerà un mondo nuovo, al quale dobbiamo prepararci lavorando di più, investendo di più. Non aspettatevi che io fermi le riforme strutturali intraprese all'interno della Francia, esse sono vitali per il nostro avvenire, per diventare più competitivi ».

L'Italia affronta la crisi con una duplice pesante eredità, di cui il governo è ben consapevole: l'alto debito pubblico e riforme strutturali non ancora sufficienti. Il debito pubblico consiglia prudenza, ma oggi sarebbe imprudente non prendere misure espansive, reversibili nel tempo, adeguate alla gravità della crisi. Una simultanea accelerazione delle riforme strutturali, meglio se sostenuta da un impegno bipartisan e dall'adesione delle forze sociali, sarebbe ben colta dai mercati ed eviterebbe che il temporaneo maggiore disavanzo renda più gravoso il rifinanziamento del debito.

In questo modo, la durata e la profondità della crisi sarebbero minori. E l'economia italiana ne uscirebbe più moderna, meglio attrezzata per le sfide della competitività mondiale.

02 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 01, 2009, 03:49:38 pm »

L’EUROPA E LA CRISI

L'egoismo delle nazioni


di Mario Monti


Quando l'economia mondiale galoppava in una crescita apparentemente inarrestabile, trascinata dall'America e dall'Asia, l'Europa era vista come un continente destinato al declino, appesantito dall'attenzione agli aspetti sociali e dalla lentezza delle decisioni comunitarie. Oggi anche l'Europa è colpita dalla crisi scoppiata in America e che non risparmia neanche l'Asia. Eppure proprio all'Europa si guarda, d'improvviso, con rispetto e con una certa ammirazione. Il Forum di Davos ne ha offerto in questi giorni una chiara testimonianza. Il Wall Street Journal, da sempre censore inflessibile delle «deviazioni» europee rispetto al modello puro e duro (così sembrava) del capitalismo americano, ammette con sorpresa che quest'anno a Davos il modello europeo è stato quello più apprezzato. Il primo ministro cinese, per parte sua, ha detto che il suo governo sta considerando l'esempio europeo per introdurre elementi di protezione sociale.

Tutti considerano ora indispensabile un forte coordinamento internazionale delle decisioni dei governi e citano l'Unione Europea come realizzazione più avanzata su questa via. Nell'affrontare la crisi, l'Europa ha due grandi punti di forza, ma è anche esposta a un rischio che altri non corrono. Il primo punto di forza è l'economia sociale di mercato. Ad essa sono improntate le strutture degli Stati membri e le politiche dell'Unione Europea. Negli anni scorsi si sono fatti sforzi, che dovranno proseguire, per rendere i sistemi di protezione sociale compatibili con le esigenze della competizione internazionale. Ma l'Europa ha il vantaggio di avere già strumenti che l'America e l'Asia sentono ora il bisogno di introdurre. Il secondo punto di forza è l'esperienza nel governo della globalizzazione. Benché limitato alla scala continentale, il governo dell'integrazione si fa in Europa da cinquant'anni. Il coordinamento delle politiche pubbliche, divenute vere politiche comunitarie in certe materie, ha permesso di governare l'apertura dei mercati nazionali senza determinare sconvolgimenti e promuovendo la crescita.

Con la crisi e con l'arrivo del presidente Obama, il mondo avverte finalmente l'urgenza di governare la globalizzazione. Per dare forma a tale governo, guarda al know-how dell'Europa, dalla quale si aspetta un contributo particolare. Il rischio è legato alla minore credibilità di cui gode oggi l'economia di mercato, dopo gli abusi che ne sono stati fatti. Il rischio di passare da un estremo all'altro, con un ritorno disordinato degli Stati nei mercati e con nuove regolamentazioni dettate dall'urgenza, c'è dappertutto. Ma in Europa può essere più distruttivo. In Europa, il «mercato», accompagnato dal «sociale », non è solo un modo in cui sono organizzate le attività economiche. E' anche il fondamento dell'integrazione europea. L'Unione Europea si è a lungo chiamata «Mercato comune». Se gli Stati membri, nel gestire la crisi, tornano a praticare politiche essenzialmente nazionali, senza curarsi troppo delle conseguenze negative sugli altri Stati, se la sorveglianza della Commissione europea viene vista con insofferenza, se queste tendenze prendono piede, allora l'Europa rischia di perdere la base principale della propria integrazione. Di andare verso la disintegrazione, proprio nel momento in cui il mondo riconosce la validità della costruzione europea e vuole imitarla.

01 febbraio 2009
da corriere.i
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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 08, 2009, 06:15:27 pm »

OLTRE LA CRISI, LA PROPOSTA ICHINO

Una speranza per i giovani

di Mario Monti


In America e in Europa, le politiche con le quali i governi nazionali cercano di combattere la crisi rischiano di essere poco efficaci, di condurre alla disintegrazione economica, di conservare artificialmente il vecchio, di penalizzare i giovani. Si proclama il ritorno a Keynes, ma si esita a spingere in misura adeguata la domanda nell'unica fase degli ultimi sessant'anni in cui ciò sarebbe veramente necessario. Si preferisce sostenere l'offerta, bloccando così il processo schumpeteriano della «distruzione creatrice » con sussidi a settori e imprese che sono in difficoltà anche perché non si sono ristrutturati a sufficienza.

Gli aiuti vengono dati in una logica nazionale e spesso con condizioni protezionistiche che portano verso la disintegrazione dell'economia internazionale e dello stesso mercato unico europeo. Oltre che in aiuti statali diretti, i sussidi consistono anche in incentivi statali intesi sì ad alimentare la domanda, ma imbrigliandola perché sostenga settori in difficoltà (auto, moto, elettrodomestici e mobili, nel caso del-l'Italia) anziché lasciare che si indirizzi a nuovi settori e a nuove iniziative. La penalizzazione del nuovo per aiutare il vecchio riguarda non solo le imprese, ma anche i lavoratori e in particolare coloro che vorrebbero diventarlo, i giovani. Sia la crisi in sé, sia le politiche per combattere la crisi, rendono l'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro più difficile e, quando avviene, più precario. In queste condizioni, riforme strutturali per rendere un'economia più competitiva e più equa diventano ancora più necessarie di quanto lo sarebbero state senza la crisi.

Nel caso dell'Italia, ho sostenuto in un'intervista con Dario Di Vico il 30 novembre che un rinnovato impegno sul fronte delle riforme strutturali permetterebbe anche di praticare una politica di bilancio più incisiva contro la crisi, senza che i mercati finanziari vi vedano un ritorno all'indisciplina e penalizzino i titoli italiani. Con accenti diversi, il tema è stato ripreso e sviluppato su queste colonne da Francesco Gavazzi (8 gennaio), Michele Salvati (4 febbraio) e Alberto Quadrio Curzio (6 febbraio). Un esempio di riforma strutturale utile per non penalizzare i giovani nel mercato del lavoro è quella proposta dal senatore Pietro Ichino. Essa mira a superare la divisione tra lavoratori anziani di fatto stabili e i giovani che invece, quando riescono ad avere un'occupazione, sono in prevalenza precari.

E rispetta anche l'esigenza delle imprese di avere la necessaria flessibilità. Un progetto concreto per introdurre in Italia quella flexsecurity che ha consentito ai Paesi nordici di conciliare alta competitività ed equità. L'idea di Ichino sta facendo strada tra i sindacati. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, la appoggia. Si registra interesse da parte sia della sinistra che del vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera, Giuliano Cazzola. I dettagli sono da discutere, ma una riforma di questo tipo potrebbe dare ai giovani speranza oltre la crisi e preparare l'Italia alle dure sfide della competitività internazionale con una maggiore coesione.

08 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Maggio 10, 2009, 06:10:53 pm »

GERARCHIE TRA SISTEMI, RUOLO DEL PAESE

Un patto (vero) per l’Europa


«Nuova gerarchia in Europa». Così l'Economist, che dal 1843 promuove i valori del liberalismo anglosassone, descrive il sovvertimento causato dalla crisi nella gerarchia tra i sistemi economico-sociali in Europa. Attribuisce la prima posizione al modello francese e la seconda al modello tedesco, due varianti dell'economia sociale di mercato, mentre riconosce la caduta, almeno temporanea, del modello anglosassone. Questo rimescolarsi delle carte offre all'Europa un'inattesa opportunità per rilanciare l'integrazione su basi più solide, proprio in una fase in cui la crisi economica e le reazioni dei governi nazionali mettono a rischio il mercato unico e con esso l'integrazione realizzata finora. L'Italia può avere un ruolo importante nello spingere l'Europa in questa direzione. E' un compito per il governo, ma anche per l'opinione pubblica, soprattutto se si volesse discutere anche di Europa nella campagna per le elezioni europee. La crisi sta conducendo i Paesi che abbracciano il modello anglosassone, come gli Stati Uniti, il Regno Unito e l'Irlanda, a riconsiderarne alcune caratteristiche.

Essi si chiedono se non abbiano fatto troppo affidamento sui meccanismi di mercato e troppo poco sulla regolamentazione, se non abbiano fatto crescere eccessivamente il loro settore finanziario a scapito di quello manifatturiero e se abbiano dedicato sufficiente attenzione alle diseguaglianze e ai sistemi di welfare. Questi Paesi, come anche la Cina, guardano adesso con maggior rispetto ad alcuni Paesi europei, come la Germania e la Francia, che hanno a lungo seguito modelli di economia sociale di mercato. I Paesi anglosassoni, peraltro, non dovrebbero sentirsi in imbarazzo per la loro parziale conversione. Né i Paesi ad economia sociale di mercato dovrebbero inorgoglirsi troppo per la «rivincita» che si stanno prendendo. Dopo tutto, nel decennio precedente, furono essi a doversi muovere nella direzione anglosassone, introducendo riforme economiche per accrescere la competitività. Ed è necessario che continuino a farlo. Questa convergenza dei modelli economici nazionali verso un punto mediano offre alla comunità internazionale una inaspettata opportunità politica, che consentirebbe all'Unione europea e al G20 di affrontare le crescenti sfide sociali salvaguardando nel contempo l'integrazione. Nella Ue ciascuno dei due gruppi di Paesi ha una sua preoccupazione principale. I Paesi anglosassoni, ma anche i nuovi Stati membri, sono giustamente irritati con i Paesi ad economia sociale di mercato — soprattutto con la Francia ma anche con la Germania e altri — perché questi sono sempre più insofferenti verso le regole esistenti del mercato unico (comprese quelle in materia di concorrenza e aiuti di Stato), per non parlare dell'ulteriore sviluppo di tale mercato. I Paesi ad economia sociale di mercato lamentano, anch'essi a ragione, che l'opposizione dei Paesi anglosassoni e dei nuovi Stati membri a qualsiasi forma di coordinamento della fiscalità rende più difficile raggiungere gli obiettivi sociali attraverso la politica di bilancio.

I gettiti fiscali, ridotti a causa della concor­renza fiscale, spesso non permettono il finan­ziamento di programmi sociali. Inoltre, le ba­si imponibili mobili - il capitale, le grandi im­prese e i professionisti altamente qualificati ­tendono a spostarsi verso i Paesi con regimi fiscali favorevoli, determinando in tal modo una corsa all’abbassamento delle aliquote d’imposta. Invece il lavoro e le piccole impre­se, essendo meno mobili, sopportano un cari­co fiscale crescente. Per evitare frustrazioni in entrambi i gruppi di Paesi, e il conseguen­te risentimento contro «l’Europa» in genera­le e il mercato unico in particolare, la UE do­vrebbe cogliere l’occasione per promuovere un compromesso. La Commissione dovreb­be anzitutto mettere il Consiglio, il Parlamen­to europeo e l’opinione pubblica di fronte ad una valutazione realistica - vale a dire piutto­sto preoccupante - delle conseguenze che l’avanzare del nazionalismo economico po­trebbe avere sull’integrazione europea. Do­vrebbe quindi proporre un patto strategico che comprenda due elementi: 1) Un impegno rinnovato e vincolante sul mercato unico, in particolare adottando mec­canismi rafforzati per assicurare il rispetto delle sue regole e prendendo iniziative per re­alizzarlo, entro termini ben precisi, nei setto­ri in cui fa ancora difetto. 2) Un impegno a introdurre un pur mode­sto coordinamento della fiscalità. Dovrebbe trattarsi di alcune misure intese non già a conseguire un’armonizzazione fiscale com­pleta (obiettivo irrealistico e non necessa­rio), bensì a permettere agli Stati membri di conservare la loro sovranità fiscale cooperan­do su alcune parti di essa. Se invece preferi­ranno difendere individualmente il principio della sovranità fiscale, gli Stati assisteranno ad una continua erosione di fatto della loro sovranità ad opera di una incontrollata con­correnza fiscale.

Con un tale compromesso, i Paesi anglosassoni e i nuovi Stati membri fa­rebbero un’apertura in materia di coordina­mento fiscale (di cui potrebbero comunque aver bisogno, ora che intendono dare più spa­zio al welfare), ma metterebbero al sicuro il futuro del mercato unico. I Paesi a economia sociale di mercato, dal canto loro, dovrebbe­ro sì sottostare alle regole di un effettivo mer­cato unico, ma avrebbero più ampi margini per perseguire gli obiettivi sociali senza do­ver contravvenire alle regole di mercato. Entrambi i gruppi si avvicinerebbero ai Pa­esi nordici, che combinano il mercato e la di­mensione sociale in modo più efficace. Infi­ne, e soprattutto, il patto darebbe nuovo vigo­re al vacillante progetto europeo. Un proget­to che forse, in questo momento, nessuno dei Paesi considera prioritario. Ma tutti subi­rebbero conseguenze pesanti - anche solo sul piano economico - se, in mancanza di un rinnovato slancio, l’Europa ripiegasse su 27 mercati nazionali. La Ue dovrebbe promuovere il coordina­mento fiscale in seno al G8 e al G20. Il giro di vite su alcuni paradisi fiscali, deciso dal G20 in aprile, è importante. Ma esso mira soltan­to a combattere l’evasione fiscale, mentre l’elusione fiscale continua su vasta scala e in modo legale, in quanto la maggior parte de­gli Stati si fanno reciprocamente una concor­renza fiscale senza limiti. L’obiettivo di una globalizzazione governata e basata sul merca­to non può essere raggiunto se la sovranità fiscale dei governi è sempre più erosa dal mercato. Per conseguire i loro obiettivi socia­li, i governi devono poter fare un uso efficace dei loro bilanci; in caso contrario, essi faran­no abuso del mercato. L’Italia è in condizio­ne di esercitare un ruolo di spinta perché l’Europa faccia un passo avanti nella direzio­ne indicata. Ha una tradizione europeista, di­ventata nel tempo più consapevole dei con­creti interessi in gioco. Non coltiva la sovrani­tà come simbolo astratto ed è pronta a perse­guire pragmaticamente progressi che raffor­zino la costruzione europea, anche nel pro­prio interesse nazionale. Non è, come altri Pa­esi, ideologicamente sensibile alla primazia di un «modello», anche perché mutua ele­menti dall’uno e dall’altro dei due modelli do­minanti. E’ stata meno di altri colpita dalla crisi, ma ha, anche più di altri, bisogno di un’integrazione europea funzionante per re­cuperare dopo la crisi un ritardo, preesisten­te ad essa, in termini di competitività e di cre­scita. Queste condizioni oggettive, unite alla presidenza del G8 esercitata quest’anno e al­l’assenza di prossime scadenze elettorali na­zionali, come invece hanno Germania e Gran Bretagna, potrebbero favorire l’assunzione di una leadership nell’aiutare l’Europa a rende­re più solido il proprio futuro.

Mario Monti
10 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Giugno 07, 2009, 12:17:15 am »

RUOLO DELL’ITALIA, G8 E CASO OPEL

La doppia occasione


Il governo è stato criti­cato per non avere so­stenuto efficacemen­te il tentativo di Fiat di acquisire Opel. Il gover­no tedesco e General Mo­tors, appoggiata dal gover­no americano, le hanno preferito un consorzio ca­nadese- russo. Sergio Romano ha nota­to che «il vertice telefoni­co fra Merkel e Obama mette implicitamente in evidenza l’assenza del go­verno italiano». Non so se al governo debba rimpro­verarsi qualcosa di specifi­co. Ma questo insuccesso deve indurre a ripensare due orientamenti seguiti dai governi Berlusconi fin dal 2001.

Il primo è la tendenza a privilegiare i rapporti di­retti con Stati Uniti e Rus­sia, rispetto al rafforza­mento della Ue. Sono rap­porti che si nutrono di sim­patia personale tra i lea­der, presentata in Italia co­me prova di intese politi­che profonde, e si ispira­no ad una docile subordi­nazione. Le relazioni con la Russia di Putin — ad esempio sulla Georgia — e soprattutto con l’Ameri­ca di Bush ne hanno offer­to frequenti testimonian­ze.

Un solido asse con gli Stati Uniti è fondamentale per l’Italia. Ma i governi di cui parliamo si sono distin­ti per non avere mai con­traddetto le impostazioni unilaterali dell’ammini­strazione Bush. Queste hanno ritardato l’avvio di una governance della glo­balizzazione e hanno con­tribuito alla crisi, ad esem­pio con il rifiuto di Washington di sottoporsi alle verifiche del Fmi sulla stabilità finanziaria.

Il governo italiano, che a volte sostiene di avere ca­pito prima di altri la crisi in arrivo, certo non ha mai fatto sforzi per convincere l’«amico» della Casa Bian­ca a rendere le politiche pubbliche meno succubi del mercato e ad accettare un loro coordinamento. E’ quasi una nemesi che toc­chi ora al governo italiano guidare il G8 verso un le­gal global standard. Spe­riamo che l’Italia riesca a far recuperare al governo della globalizzazione un po’ del tempo perduto an­che per l’acquiescenza del governo italiano a un pre­sidente americano di cui voleva il favore, mentre la Ue e altri governi erano meno remissivi. Del resto, il caso Fiat mostra che le scorciatoie italiane verso Washington e Mosca non sono pagan­ti. Obama, Merkel e Putin — leader peraltro non le­gati da grandi simpatie re­ciproche — non sembra­no avere prestato particola­re attenzione ai desideri italiani.

Il secondo orientamen­to da ripensare riguarda l’evoluzione della Ue. Il go­verno italiano osserva spesso, con una punta di soddisfazione, che la poli­tica sta riprendendo spazi rispetto al mercato e alle regole europee e che il ruo­lo delle decisioni intergo­vernative è in crescita ri­spetto a quello delle deci­sioni comunitarie. Queste due tendenze sono innega­bili. Ma l’Italia, Paese gran­de ma non sempre forte, dovrebbe preoccuparsene e adoperarsi per il rilancio dell’integrazione.

Qualche anno fa, prima che si indebolisse l’impian­to comunitario, Enel riu­scì ad acquisire Endesa malgrado la fiera opposi­zione della Spagna e le mi­re del gruppo tedesco E.on. Oltre all’abilità di Enel, è stata decisiva l’azio­ne della Commissione e della Corte di Giustizia. Oggi, Fiat e governo ita­liano dovranno vigilare, con strumenti legali se ne­cessario, affinché la stessa imparzialità venga applica­ta — pur in un contesto co­munitario indebolito — al controllo degli aiuti con­cessi dal governo tedesco a chi ha rilevato Opel.


Mario Monti
03 giugno 2009

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