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Autore Discussione: LUCIO CARACCIOLO.  (Letto 37651 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 05, 2013, 11:31:18 pm »

Maledetta Primavera

di Lucio Caracciolo

Israele ora vive la rivoluzione araba come una minaccia.

E teme che possa nascere un asse tra gli Usa e l'Egitto del Fratello musulmano Morsi

(29 novembre 2012)

L'attacco a Gaza è stato per Israele soprattutto una reazione alle "primavere arabe". Fra le molte dimensioni della breve operazione militare, la più rilevante riguarda infatti le nuove dinamiche in corso nel mondo arabo-islamico. Ciò che Gerusalemme teme più di ogni altra cosa è l'allineamento fra Stati Uniti e Fratelli musulmani, frutto quasi inevitabile delle rivoluzioni che hanno portato alla caduta dei regimi filo-occidentali in Egitto e in Tunisia. Scatenando l'offensiva contro Hamas, Netanyahu ha mirato alla precaria coppia Obama-Morsi. Una relazione speciale, certamente non dettata da affinità politico-ideologiche, ma tanto più importante in quanto basata su interessi geopolitici. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un interlocutore al Cairo quale che sia. L'Egitto necessita degli aiuti americani per riportare in linea di galleggiamento la sua economia e per continuare a contare nel mondo.

Per Israele la forzosa intesa Washington-Cairo è la peggiore costellazione possibile. Anzitutto perché legittima i Fratelli musulmani come interlocutori politici dell'Occidente. In secondo luogo, perché offre all'Egitto dell'inaffidabile Morsi una sponda a Washington. E infine perché prima o poi gli americani potrebbero essere tentati di estendere alla filiale palestinese della Fratellanza (Hamas) il lasciapassare appena rilasciato alla casa madre egiziana.

Su questo sfondo, possiamo stabilire che i bombardamenti di Gaza non sono stati un successo per Israele. Morsi si è eretto a mediatore indispensabile, corteggiato da americani, europei e altre potenze. Solo lui, in quanto leader di un movimento di cui Hamas è filiazione e presidente di uno Stato che è in pace con Israele, poteva disinnescare la miccia. Morsi lo ha fatto, cercando e ottenendo il massimo per sé. Anzitutto, la visibilità mondiale come statista decisivo all'incrocio delle correnti più pericolose della geopolitica mediorientale. Poi, il ruolo di salvatore di Gaza - e di Hamas - da un' «aggressione» israeliana, tanto da permettere al movimento palestinese di celebrare la «vittoria». Infine, ha messo in ombra l'Iran e i suoi sponsor gaziani, a cominciare dalla Jihad islamica, che con il lancio di missili di fabbricazione persiana, spesso contro il volere di Hamas, cercava di far sentire il suo minaccioso peso al confine Sud di Israele.


Infine, Morsi ha voluto stravincere sul fronte interno. Autoproclamandosi dittatore di fatto, almeno per i pochi mesi che dovrebbero separare l'Egitto dalla nuova Costituzione. Con ciò suscitando la reazione violenta dei rivoluzionari della prima ora, defraudati della loro vittoria su Mubarak, dei copti e delle altre opposizioni interne. Vedremo presto se in tal modo Morsi ha tirato troppo la corda, mettendo a rischio anche il suo rapporto con gli Usa - fortemente imbarazzati dalla sua svolta autoritaria - o se avrà avuto ragione di azzardare questa mossa.

Quanto al rapporto con Israele, la questione di Gaza ha fatto riaccendere i riflettori sulla penisola del Sinai. Formalmente egiziana, di fatto terra di nessuno, agitata dalle scorrerie di gruppi terroristici e dei beduini refrattari al controllo dello Stato, il Sinai è il tramite che consente il rifornimento di armi e beni di ogni genere ai palestinesi della Striscia e non solo. Di recente Gerusalemme aveva concesso al Cairo di rafforzarvi i suoi contingenti militari, in modo da recuperare una qualche forma di pressione sui traffici che attraversano la penisola. Risultato: i traffici continuano, mentre militari israeliani ed egiziani non sono mai stati a contatto tanto ravvicinato da quarant'anni. Basterebbe una scintilla per incendiare il Sinai e con esso l'intero Medio Oriente.

Certo, la prima ragione che ha portato Netanyahu a rispondere con la forza alle provocazioni di Hamas resta quella elettorale. Vedremo il 22 gennaio, data prevista per il voto politico in Israele, se il calcolo avrà portato i frutti sperati. In ogni caso, quali che siano le ripercussioni domestiche, Netanyahu ha segnalato al mondo che Israele non è disposto a restare spettatore passivo delle dinamiche che stanno sconvolgendo il Medio Oriente. Sullo sfondo, l'obiettivo strategico rimane l'Iran. Colpendo Hamas, in realtà Israele colpisce quella che considera, a torto o a ragione, una filiale dei mullah e dei pasdaran persiani. A conferma che i fattori dell'equazione mediorientale sono ormai troppi, e troppo complessi, per poter immaginare a breve termine una strategia di pacificazione e stabilizzazione regionale.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/maledetta-primavera/2195693
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« Risposta #46 inserito:: Dicembre 03, 2013, 04:41:53 pm »

Le tre crisi che accerchiano l'Italia.
Caoslandia e l'impotenza delle potenze


Anticipazione dell'editoriale del volume "Che mondo fa" della rivista di geopolitica Limes in edicola e libreria da martedì 3 dicembre

di LUCIO CARACCIOLO
02 dicembre 2013

L’Italia si trova oggi nell’occhio del ciclone prodotto da tre crisi: Eurozona, Grande Mediterraneo e Balcani. Tali crisi sono intrecciate e distinte. L’europea e la grande-mediterranea, entrambe in fase acuta, hanno un impatto globale. La balcanica, in molto artificiosa sedazione, tende ad autocontenersi: non riguarda il resto del pianeta a meno di non estendersi alla Russia. Il combinato disposto delle tre crisi impatta sul nostro paese e ne scuote le radici. La prima ci inchioda al piano inclinatodella deflazione o ci invita al salto senza rete della fuoriuscita dall’euro.

Le altre, massime il grande tsunami sul fronte Sud, premono anzitutto sulla nostra tenuta istituzionale e sociale, in definitiva sulla sicurezza nazionale. Non stupisce quindi che i media tedeschi, francesi e anglosassoni ci profilino come failing State o, peggio, failing society. Il verdetto è prematuro. Eppure molti italiani lo condividono, non esclusi alcuni fra coloro che sarebbero deputati a scongiurarlo.Ma a forza di negare l’emergenza rischiamo di confermare gli interessati catastrofisti nelle loro più nere elucubrazioni.

Se sommiamo la criticità della nostra condizione alle responsabilità che ci derivano dal possedere dimensioni sistemiche nell’Eurozona, comprendiamo l’improvviso interesse che il caso Italia suscita nei mercati e nelle cancellerie di rango. Dopo averci archiviato come «fixed», persino Washington torna a preoccuparsi di noi, con mezzi e intensità comunque residuali rispetto ai decenni del semiprotettorato a stelle e strisce, quando l’ombrello americano proteggeva un invidiabile grado di benessere e certe piccole libertà geopolitiche che oggi ci paiono negate o che vogliamo negarci. Nell’Occidente di Bond eravamo una risorsa per gli alleati, nel mondo di nessuno siamo un problema per tutti.
***
Per leggere il planisfero geopolitico occorre un punto di vista. L’osservatore è collocato nel suo centro del mondo, come il guardiano di un faro che dirige il fascio luminoso sugli spazi che lo attraggono. Per noi italiani la base del faro è l’Italia. Parrebbe ovvio: non lo è. Sarà l’afflato ecumenico che ci anima da un paio di millenni, da quando Pietro volle porre a Roma la sede della Chiesa universale. O forse l’atavico campanilismo che ci negherebbe il diritto di sentirci nazione. Fatto è che scienza e prassi internazionalistica in Italia continuano a distinguersi dalle altrui per la pretesa di neutralità. Con ciò contagiando anche i leader politici. Sicché il nostro faro fluttua nella Via Lattea. Le nostre carte mentali sono senza data e senza luogo, come certi libri rari. Ciò inclina, fra l’altro, all’incomunicabilità con analisti e decisori di altri paesi, non solo anglosassoni, educati a studiare il mondo dalla prospettiva nazionale, iuxta propria principia. I quali stentano a capire chi siamo e cosa vogliamo, visto che in materia preferiamo non esporci.

Sebastiano Vassalli ha reso in forma di apologo lo strenuo diniego di noi stessi: «Il giorno del Giudizio Universale, Dio chiamò a sé tutti gli uomini del mondo, con le rispettive consorti. Chiamò l’Inglese e l’Inglese rispose “Eccomi!” Chiamò il Cinese e il Cinese rispose: “Sono qui!”». L’Onnipotente proseguì l’appello rivolgendosi a tutti i popoli del Creato, i quali tutti risposero «presente!» nella propria lingua. E assegnò loro un posto in Purgatorio, nessuno essendo abbastanza buono o cattivo da meritarsi Paradiso o Inferno.

«Poi Dio chiamò l’Italiano, ma non ebbe risposta. “Cosa può essergli successo”, si chiese, “perché l’Italiano sia assente?” Tornò a chiamarlo. Allora l’Italiano, vedendo che tutti si erano voltati verso di lui e lo stavano guardando, spalancò gli occhi e si mise una mano sul petto. Domandò: “Chi, io?”»

Il «Chi, io?» di Vassalli rende il prevalente approccio italiano al prossimo. Sanziona la nostra vocazione all’irresponsabilità. Chi se ne sente rappresentato può fermarsi qui. Non gli resta che assumere un punto di vista altrui – scaltri politici lo chiamano «vincolo esterno» – o identificarsi con Dio, che tutti ci guarda dall’Alto. Per chi volesse, da italiano, smentire lo stereotipo, e incuriosirsi di sé e degli altri con i piedi piantati in patria, valga quanto segue.
***
Quanto minacciosa sia la tempesta che ci avvolge lo cogliamo meglio allargando lo sguardo. Per scoprire che l’area delle tre crisi lambisce il vasto spazio caotico che battezziamo terre incognite o Caoslandia. In parte ne è già ricompresa. Nella cartografia antica e medievale terra incognita stava per spazio inesplorato, non mappato. Da un paio di secoli gli inchiostri dei cartografi hanno progressivamente colorato le macchie bianche. Ma da altrettanti decenni, ossia dall’esaurirsi dell’ordine bipolare, queste tendono a ricomparire nelle rappresentazioni geopolitiche su varia scala. A designare territori contestati, a labile o inesistente pressione istituzionale. Spazi evacuati dalle superpotenze storichee contesi da quelle (ri)nascenti, nei quali i poteri informali – mafie, tribù, confraternite, lobby d’ogni colore – prevalgono su quelli formali, quando non li hanno debellati. Territori perciò semisconosciuti quanto a struttura e certezza dei poteri effettivi.

Qui le carte politiche ufficiali si rivelano devianti, perché offrono il miraggio di confini e ordinamenti inesistenti dove invece vige – o vegeta – Caoslandia. Le terre incognite dilagano lungo la fascia equatoriale e investono gli spazi tropicali – lascito del doppio trauma delle colonizzazioni e delle pseudo-decolonizzazioni – salvo espandersi verso il Nord veterocontinentale, sempre meno ricco e benestante. Sovrapponendo la mappa delle aree a massima densità di slums nel mondo alla nebulosa di Caoslandia ci rendiamo conto del potenziale esplosivo racchiuso nelle aree a urbanizzazione selvaggia che infestano le terre incognite.

L’Italia è la cerniera che separa il Nord da Caoslandia. Sempre più a stento. Penetrando le porose frontiere nazionali, i micidiali flussi generati nelle aree non governate vicine e lontane –dal narcotraffico al calvario di profughi e migranti alle infiltrazioni mafiose – si diffondono nel nostro tessuto sociopolitico. Se queste correnti d’instabilità si saldassero in modo permanente con le fragilità endogene, riassunte nella delegittimazione delle istituzioni democratiche e della politica tout court, il futuro del Bel Paese ne sarebbe compromesso. Per tornare alla pagina di Vassalli, Dio risparmierebbe di nominarci nell’appello dell’ultimo giorno.

Un esercizio mentale può illuminarci su peculiarità e cogenza della nostra collocazione geopolitica. Immaginiamo di muoverci da Roma in direzione sud, alla ricerca del primo vero Stato oltre i confini nazionali. Sorvoliamo sulla pregnanza istituzionale del nostro Meridione e tuffiamoci nel Mediterraneo in ebollizione. Approdati nella Libia che inventammo salvo poi contribuire a smantellarla nel centenario dello sbarco a Tripoli bel suol d’amore, attraversato il Sahara e la fascia saheliana (salafita, nelle carte del Pentagono), lasciate alle spalle sabbie, steppe e savane, penetrate le dense foreste centrafricane, schivati i Grandi Laghi eccoci finalmente alla prima frontiera vera, la sudafricana, marcata dal fiume Limpopo.

Quasi una Lampedusa australe, contro cui s’infrange ogni anno la corsa di migliaia di clandestini neri verso l’Eldorado redento da Mandela. Arrivati a Pretoria ci accorgeremo di aver percorso 12.428 chilometri. Qui converrà fermarsi, salvo che animati da zelo euristico non si punti al Polo Sud per rimontare alla ricerca dell’Ultima Thule.
© Riproduzione riservata 02 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/12/02/news/le_tre_crisi_che_accerchiano_l_italia_caoslandia_e_l_impotenza_delle_potenze-72466553/?ref=HREA-1
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« Risposta #47 inserito:: Dicembre 20, 2014, 12:09:27 pm »


Di LUCIO CARACCIOLO
18 dicembre 2014

Difendere rendita energetica e rublo equivale per Putin a salvare il suo trono. La recente storia russa rivela una correlazione diretta fra caduta dei prezzi petroliferi, catastrofe finanziaria e crisi del regime politico.

Fu così nel 1988, sotto Gorbaciov, quando il crollo del barile contribuì ad accelerare il suicidio dell'Unione Sovietica. Nel 1998, default e svalutazione della moneta segnarono la fine ingloriosa dell'esperimento eltsiniano e aprirono la strada, l'anno successivo, alla scalata di Putin al potere.

Il 2015 sarà l'ultimo anno del presidente/zar? Obama sembra scommetterci. Con lui buona parte dell'Europa, specie quella un tempo sottomessa a Mosca. Il leader dell'Occidente o di ciò che ne resta vuole far pagare a Putin l'annessione della Crimea e il sostegno ai ribelli dell'Ucraina orientale. Le sanzioni contro la Russia sono votate a questo. E martedì la Casa Bianca ha annunciato che le inasprirà. Corollario implicito: se le sanzioni dovessero portare alla caduta del regime putiniano tanto meglio. Come minimo, la guerra economica avrà ottenuto lo scopo primario: ridurre la Russia alla taglia di fragile potenza regionale, dopo che Putin si era illuso di elevarla al rango di coprotagonista della scena globale. L'occasione è ghiotta, forse irripetibile.

Sorpreso e sconfitto a Kiev, Putin si è trovato a un bivio: ammettere di aver perso l'Ucraina e trattare una non disonorevole resa con gli Stati Uniti, che avevano sostenuto la rivolta di Majdan; oppure accettare uno scontro di lungo periodo, giocandosi tutto pur di non passare alla storia come lo zar che perse la culla della Madre Russia. Stretto in questa alternativa del diavolo, pur di mascherare la sua sconfitta Putin ha scelto la seconda strada. Primum vivere.

Sposando il principio della martingala -  il rilancio continuo della posta -  ha deciso di accettare la sfida Obama. Alle sanzioni Putin non intende piegarsi, facendo leva sul leggendario patriottismo russo. Sicché la riconquista di parte dell'Ucraina è per lui la replica necessaria alla rappresaglia economica scatenata dagli Stati Uniti e (meno appassionatamente) dagli europei per il ratto della Crimea.

Putin pensa e agisce in una logica di guerra, mobilitando il paese contro l'"aggressione occidentale" e il "golpe fascista" a Kiev. Mosca dispone però di risorse inferiori a quelle americane. Espone semmai il suo tallone d'Achille: la dipendenza dalla rendita energetica. L'economia russa vive dell'esportazione di idrocarburi. Senza, muore. Classico caso di Stato-rendita, che evita alla popolazione tasse pesanti e ne sopisce eventuali ambizioni di rappresentanza grazie alla redistribuzione di quote dei ricavi dalla vendita di petrolio e gas. Sicché l'effetto parallelo del crollo del valore del rublo sotto il peso delle sanzioni occidentali e della caduta del prezzo del greggio anche a causa della scelta saudita - concordata con gli americani - di mantenere alta la produzione di petrolio (e quindi basso il prezzo) come strumento di pressione su Teheran e Mosca, mette in questione la stabilità della Federazione Russa.

Effetto collaterale di questa sfida è l'allentamento delle relazioni energetiche e geopolitiche fra europei (segnatamente tedeschi) e russi, da sempre una priorità strategica di Washington. Dove la sensazione è che nel tiro alla fune sull'Ucraina il tempo giochi contro Mosca. La partita riguarda molto da vicino noi europei. Il collasso della Russia avrebbe conseguenze devastanti sulla nostra sicurezza, non solo economica. Se Putin cadesse, poi, difficilmente verrebbe sostituito da un fervido cultore delle libertà occidentali. Né si può escludere che la fine di quel regime si sveli fine della Russia, scavando un gigantesco buco nero geopolitico, con relative guerre di successione. Scenario del tutto evitabile, se russi e americani -  e per quel che contano anche gli europei -  scegliessero la via del compromesso. Molti restano convinti che sull'Ucraina un'intesa si troverà. Ma il tempo non lavora per la pace. E attenzione a non sottovalutare l'orgoglio di leader disabituati a perdere. A volte, per salvare la faccia, perdono il trono. Però solo dopo essersi giocato il paese.

© Riproduzione riservata 18 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2014/12/18/news/l_ultima_partita_dello_zar_putin_che_vuole_salvare_il_trono-103176758/?ref=HREC1-4
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« Risposta #48 inserito:: Aprile 05, 2015, 11:07:56 pm »

La sfida non è l'atomica ma il controllo dello scacchiere persiano

Di LUCIO CARACCIOLO
   
L'annunciata intesa sul nucleare iraniano non è un'intesa sul nucleare iraniano. È molto di più o molto di meno. Grande storia o cronaca effimera. Nel primo caso, sarà ricordata come la breccia che avrà consentito la graduale reintegrazione della Persia  -  chiamiamo le cose con il loro nome  -  quale potenza portante di un nuovo equilibrio nella sua area d'influenza imperiale, dal Mediterraneo all'Oceano Indiano, dal Levante all'Asia centrale.

Nel secondo, sarà registrata negli annali con una nota a piè di pagina. Per ricordare l'abortito tentativo di un debole presidente americano di dare senso alla sua eredità in politica estera, parallelo al fallito sforzo del regime di Teheran di recuperare parte della sua legittimità minata dall'esclusione, via sanzioni, da fondamentali circuiti finanziari, energetici e culturali: peso ormai insopportabile per il Paese più moderno e meno antioccidentale della regione. La prima ipotesi è la meno probabile e la più auspicabile per noi italiani ed europei. La seconda confermerebbe l'antica regola per cui da qualche secolo quella parte di mondo produce molti più problemi di quanti ne sappia risolvere. Il verdetto sarà emesso dagli storici. Ma già alla fine di questa primavera, quando i negoziatori si ritroveranno in Svizzera per firmare o non firmare il trattato internazionale di cui hanno gettato le basi, ne sapremo di più. Anzitutto, l'aspetto tecnico.

A Losanna si è deciso che l'accordo basato sullo scambio fra rinuncia iraniana all'arma atomica e abolizione delle sanzioni (americane, europee, onusiane) si farà, ma i dettagli dovranno essere definiti entro il 30 giugno. Nessuno ha firmato nulla. Si è solo stabilito che lo si intende fare entro il quadro tracciato insieme, dopo un primo defatigante negoziato fra l'Iran e le sue controparti Usa, Russia, Cina, Germania, Francia e Gran Bretagna. C'è la cornice. Ci sono alcuni princìpi chiave (tra cui spicca la rinuncia della Repubblica Islamica, ma solo per i prossimi quindici anni, ad arricchire uranio oltre il 3,67%, ben al di sotto del grado necessario a produrre la Bomba).

C'è la necessità per i contraenti del patto non scritto di salvare la faccia: se a fine giugno saltasse tutto, tutti perderebbero. Poi però si scopre che i parametri dell'accordo resi noti dal Dipartimento di Stato, calibrati per renderli appetibili alla propria opinione pubblica e soprattutto al Congresso che dovrà approvare l'accordo, non sono identici alla versione iraniana. Non è questione di traduzione dall'inglese in farsi, è sostanza. Infatti, era passata appena un'ora dalla pubblicazione del documento Usa che già il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif twittava il suo disappunto per le rivelazioni del collega John Kerry. Ma siamo ottimisti, e consideriamo questa divergenza come parte del negoziato in corso.

Il punto è che l'intesa non è stata raggiunta da effettivi plenipotenziari, come si usava un tempo fra cancellerie. Kerry ha alle spalle Obama, certo. Ma il presidente potrà essere smentito dal Congresso a maggioranza repubblicana, cui spetterà l'ultima parola sulla revoca delle sanzioni  -  certo non tutte. E se pure il presidente dovesse provvisoriamente scavalcare il suo parlamento a colpi di ordini esecutivi, fra due anni il suo successore potrebbe riportare le lancette dell'orologio all'ora zero.

Quanto a Zarif, può contare sull'appoggio del presidente Hassan Rouhani, che pure ha conservato un margine di distanza rispetto al suo capo negoziatore, e persino sul cauto benestare della Guida Suprema, Ali Khamenei. Oltre che sull'entusiasmo con cui tanta gente a Teheran e altrove è scesa in piazza a festeggiare l'annuncio di Losanna, quasi la fine delle sanzioni fosse fatto compiuto. Ma se a giugno Zarif si trovasse di fronte a "dettagli" indigeribili impostigli dai negoziatori europei e americani a causa delle pressioni arabo-saudite e israeliane, o desse l'impressione di aver stipulato un'intesa politica a tutto tondo con l'America, nei palazzi del regime i nemici dell'accordo potrebbero rovesciare il tavolo. E qui torniamo al punto di fondo: nella forma e nella tecnica si tratta sul nucleare, nella sostanza il negoziato è geopolitico.

La trattativa non sarebbe nemmeno cominciata se, al fondo, occidentali, russi e cinesi non fossero convinti del fatto che la Persia è attore abbastanza razionale da non volersi dotare di testate atomiche, ben sapendo che appena scoperta verrebbe vetrificata da un primo colpo americano e/o israeliano. Trentacinque anni di contrapposizione fra Stati Uniti e Repubblica Islamica, avvelenata dagli stereotipi negativi ed esasperata dalla propaganda, non si possono però cancellare d'un colpo.

Serve passare dalla cruna dell'ago nucleare per ricostruire un equilibrio geopolitico regionale oggi inesistente. Ma sauditi e israeliani non sono disposti a includere la Repubblica Islamica in un accordo di fondo sulla divisione dei poteri nel Grande Medio Oriente. Per i petromonarchi arabi sunniti di Riyad e i loro satelliti del Golfo, i persiani sciiti sono inguaribili sovversivi. Teheran è la centrale della rivoluzione nel mondo islamico, che in ultima analisi nega la legittimità del potere politico-religioso di Casa Saud. Per gli israeliani, o almeno per Netanyahu e la quasi totalità dell'establishment politico (ma l'intelligence spesso non concorda), la Repubblica Islamica è una minaccia esistenziale permanente. E' ciò che l'Unione Sovietica fu per gli Stati Uniti durante la guerra fredda. Un fattore di coesione sociale e geopolitica assolutamente strategico. E si sa che cosa succede quando si perde il Nemico. Quanto a noi. Non c'è dubbio che per l'Italia la via verso il compromesso fra le tre potenze regionali determinanti nel nostro Sud-Est  -  cui potremmo aggiungere la Turchia  -  sia di gran lunga preferibile al caos attuale, dove prosperano i "califfi", scorrono i veleni dei conflitti settari e si rafforzano le rotte dei traffici clandestini che minacciano la nostra sicurezza, inquinano la nostra economia, infragiliscono la nostra coesione sociale, financo istituzionale. Forse mai come oggi rimpiangiamo l'occasione persa oltre dieci anni fa dal governo Berlusconi, quando rifiutò l'invito iraniano a partecipare ai negoziati per timore di irritare gli americani (sic). Dobbiamo quindi affidarci ai nostri partner. Nella speranza che nelle loro agende ci sia un piccolo spazio per i nostri interessi. Ne saremmo lietamente sorpresi.

© Riproduzione riservata 04 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/04/04/news/la_sfida_non_e_l_atomica_ma_il_controllo_dello_scacchiere_persiano-111166841/?ref=HREC1-2
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« Risposta #49 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:34:44 pm »

Spagna, Polonia: l'onda di populisti e indignati sull'Europa. Ma il sogno dell'integrazione era già andato in pezzi
Dopo le elezioni. È semplicistico assegnare colpe agli "agitatori" che parlano alla pancia della gente esasperata dalle condizioni economiche negative degli ultimi otto anni. La costruzione comunitaria è finita fuori asse mentre veniva battezzata

Di LUCIO CARACCIOLO
   
L'EUROPA è tornata alla normalità: ognuno per sé nessuno per tutti. Un quarto di secolo fa il Muro di Berlino crollava, la Porta di Brandeburgo veniva riaperta. Di qui conseguiva, stando alle oleografie del tempo, niente meno che la "riunificazione dell'Europa" (il fatto che non lo fosse mai stata pareva trascurabile). Oggi questo continente, in specie l'Unione Europea che per noi italiani ne è sinonimo, appare diviso in un arcipelago di isole che alzano ponti e fortificano barriere per sventare presunte invasioni barbariche, dove i barbari sarebbero (anche) altri europei. Già orizzonte di pace e benessere, l'Europa è ormai associata a instabilità e impoverimento. Batte l'ora dei movimenti e dei partiti che lucrano sulla crisi europea. Ce lo ricorda la cronaca di questi giorni, con la vittoria di Andrzej Duda, candidato della destra nazionalista, alle elezioni presidenziali polacche, e l'affermazione di Podemos nel voto amministrativo di Barcellona e di Madrid. Sullo sfondo, un doppio possibile exit  -  il britannico dall'Ue e il greco dall'euro  -  illustra il grado di disintegrazione raggiunto dal processo di integrazione europea. Le emergenze belliche alle nostre frontiere, dall'Ucraina alla Libia e al Levante in fiamme, ci vedono in ordine rigorosamente sparso, ognuno intento a curare il proprio orto, mosso da letture del presente confitte negli stereotipi del passato.

La colpa sarebbe dei "populisti" di destra e di sinistra, da Salvini a Tsipras passando per Le Pen e Iglesias, irresponsabili agitatori che parlano alla pancia della gente esasperata dalla selvaggia crisi economica degli ultimi otto anni, da cui stentiamo a uscire, e dal senso di deprivazione che ne deriva. Tutti in un calderone  -  nazistelli, opportunisti e democratici sinceri. Bollati quali nemici del buon tono, che ci rovinano il gusto dei frutti dell'albero piantato sessant'anni fa dai padri fondatori. Spiegazione di comodo. È ovvio che in questo clima avvelenato alcuni imprenditori politici speculino su paure diffuse  -  peraltro fondate  -  per raccattare voti e profilarsi come vendicatori del popolo contro i poteri stabiliti. È altrettanto scontato che costoro non abbiano interesse a risolvere i problemi che denunciano, e anzi godano ogni volta che il demone dell'eurocrisi avanza di un passo verso il baratro. Ed era prevedibile, come scrisse vent'anni fa Tony Judt, che l'europeismo di maniera intento a rimuovere la realtà delle nazioni sarebbe diventato "una risorsa elettorale dei nazionalisti virulenti".

Ma se a questo siamo arrivati, significa che qualcosa di fondamentale non funziona più nel sistema europeo. Negarlo, come inclinano a fare le cancellerie europee e le cattedre dell'ortodossia europeista, per tacere dell'eurocrazia asserragliata dietro una cortina di acronimi, accelera la delegittimazione delle istituzioni che si intende proteggere. I "populisti" non chiedono di meglio. Il punto è che l'Unione Europea, figlia delle Comunità dei gloriosi anni Cinquanta, è finita fuori equilibrio proprio mentre veniva battezzata, nello scorcio finale del Novecento. La presunta nuova Europa altro non era che la vecchia Europa svuotata di senso. La costruzione comunitaria inscritta nel canone della guerra fredda verteva sulla bipartizione del continente, le sue due parti essendo ciascuna affidata alla malleveria di una superpotenza esterna. Tutti  -  controllori e controllati  -  condividendo la paura del ritorno della Germania alle velleità imperiali.

Esauriti i protettorati esterni e riunita la Germania, tornammo al paradigma del secolo precedente, con Berlino sorvegliata speciale dal resto d'Europa, incapace di evolvere oltre una germanofobia primaria. Chiedemmo allora ai tedeschi di cedere il marco in cambio dell'euro e di diluire il dominio della Bundesbank nella Banca centrale europea. Fatto. Naturalmente al prezzo, non voluto ma imposto dai rapporti di forza, di gestire la divisa comune secondo criteri di austerità cari all'ideologia monetaria tedesca, appena addolciti dalle mosse di Draghi che hanno finora sventato il collasso di questa curiosa area monetaria, smentita vivente (?) d'ogni manuale e di qualsiasi esperienza storica. Trascurammo poi di considerare che, esaurito il consenso di Washington (e di Mosca)  -  ovvero il protettorato a stelle e strisce di cui abbiamo fruito per quasi mezzo secolo  -  non c'è consenso di Berlino che possa surrogarlo. Alla Germania mancano potenza e vocazione per egemonizzare l'Europa, cioè per gestirla distribuendo incentivi ai gestiti. Mentre è convinta, con ragione  -  almeno nel breve periodo  -  di avere molto da guadagnare e poco da perdere dalla conformazione germanocentrica della zona euro. In questo condominio senza amministratore e senza progetto di convivenza, prevalgono i puri rapporti di forza.

E siccome nessuno è abbastanza autorevole da imporre le proprie regole, né tantomeno di fondarne di nuove basate su ragionevoli compromessi (ad esempio, riconoscendo che una moneta unica in un'area economica men che ottimale implica trasferimenti di ricchezza dai forti ai deboli), nella migliore delle ipotesi si vive alla giornata. Se poi consideriamo che la vocazione del leader massimo europeo, Angela Merkel, è precisamente quella di vivere alla giornata, non abbiamo diritto di meravigliarci del caos vigente. Né della refrattarietà germanica ad alterare tanto squilibrato equilibrio.

Perché le giornate degli europei non sono tutte eguali. Quelle tedesche sono ben più luminose delle nostre, non diciamo delle greche. Grazie al geniale euromeccanismo che i germanofobi vollero architettare per imbrigliare la Germania. Imbrigliando se stessi. E imbrogliandoci tutti.

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26 maggio 2015

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« Risposta #50 inserito:: Aprile 29, 2017, 01:01:49 pm »

   Interviste

Umberto De Giovannangeli   
· 15 aprile 2017

“C’è il rischio di un attacco preventivo da parte Usa”. Parla Lucio Caracciolo

«Per la prima volta gli americani temono che Pyongyang non bluffi sulla capacità di dotarsi di missili intercontinentali»

I venti di guerra che spirano nel Pacifico. La minaccia di una guerra nucleare che si fa sempre più concreta. Il braccio di ferro nucleare tra Stati Uniti e Corea del Nord. L’Unità ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più prestigiosa rivista italiana di geopolitica. «Secondo alcuni analisti – rimarca Caracciolo – nel giro del primo mandato presidenziale di Trump, Pyongyang potrebbe dotarsi di missili balistici intercontinentali armati con la bomba atomica, in grado di colpire la California. Questo implica la possibilità che Trump ordini un attacco preventivo per impedire che ciò accada».

Il regime nordcoreano minaccia di rispondere con atti di guerra alla pressione militare statunitense. Pechino avverte: la guerra potrebbe scatenarsi in qualsiasi momento. Siamo “solo” ad una escalation verbale?

«No. Stavolta c’è di più, nel senso che per la prima volta da quando la Corea del Nord è diventata nucleare, gli americani temono che non sia un bluff, quello ordito da Pyongyang, per portare a casa soldi e aiuti, ma che si tratti di una minaccia effettiva. Secondo alcuni analisti, nel giro del primo mandato presidenziale di Trump, Pyongyang potrebbe dotarsi di missili balistici intercontinentali armati con la bomba atomica, in grado di colpire la California, San Francisco o Los Angeles. Questo implica la possibilità che Trump ordini un attacco preventivo per impedire che ciò accada. Che per l’America il riarmo nucleare nord coreano fosse un “grosso pericolo” è stato lo stesso Obama a segnalarlo al suo successore nel colloquio che ha segnato il passaggio di consegne alla Casa Bianca. Non da oggi, peraltro, il confine più critico al mondo è quello che divide le due Coree. Un confine estremamente militarizzato. E tutto questo nel contesto di una partita che si gioca da molti anni nel Nord-Est asiatico fra le principali potenze, tutte schierate a ridosso del confine intracoreano: la Cina, la Russia, il Giappone e naturalmente gli stessi Stati Uniti. Tutto questo rende l’evoluzione di quella crisi permanente, uno scenario d’interesse globale».

Il dittatore nordcoreano Kim Jongun segue una logica e se sì quale sarebbe?

«La logica del regime è che non può rinunciare alla bomba atomica. Specie dopo i casi di Sadddam Hussein e Gheddafi, Kim e i suoi accoliti si sono convinti che se rinunciassero all’arsenale nucleare, verrebbero attaccati o comunque rovesciati. Sono quindi prigionieri di un continuo rilancio, al termine del quale ci può essere l’apocalisse, ipotesi suicida-omicida, che non sarebbe una novità nella storia universale, salvo che stavolta si configurerebbe come una guerra nucleare nella quale sarebbero coinvolte Cina, Usa, Giappone, le due Coree e probabilmente anche la Russia».

Lei ha citato la Cina. Quali margini di manovra e di pressione ha oggi Pechino nei confronti del regime nordcoreano?

«Limitati. Non credo che la Cina possa determinare il futuro del suo vicino settentrionale. Pechino ha bisogno di una Corea del Nord indipendente per evitare la riunificazione con il Sud, che tra l’altro implicherebbe avere soldati americani alla frontiera. D’altra parte, il presidente della Cina Xi Jinping vorrebbe che questo vicino non fosse una potenza nucleare, per di più imprevedibile, ma se avesse potuto farci qualcosa, probabilmente lo avrebbe già fatto».

Prima i 59 tomahawk lanciati contro una base aerea di Assad in Siria, poi la “madre di tutte le bombe” sganciata in Afghanistan per colpire l’Isis, e la prova di forza minacciata con il regime nordcoreano. Alla luce di questa escalation militare, come ridefinire la politica estera d e l l’amministrazione Trump?

«Una politica opportunistica, incoerente, o meglio dotata di una coerenza unicamente deputata a rafforzare Trump sul fronte domestico. Trump è impegnato in una dura battaglia con gli altri poteri americani, intelligence inclusa, e quindi gioca la carta del comandante in capo per recuperare prestigio e influenza. D’altro canto, l’unico momento in cui un presidente americano è veramente a capo del sistema è durante la guerra».

Limes è stata tra le poche riviste a monitorare con attenzione e continuità gli eventi che segnano l’Estremo Oriente. Non è passato molto tempo, da un numero che oggi assume una valenza “profetica”: «La Corea è una Bomba”». Da cosa dipende, a suo avviso, la generale sottovalutazione dimostrata dai mass media italiani verso quel mondo?

«Perché lontano, poco conosciuto e perché non si riusciva e ancora adesso si ha difficoltà a farlo, a capire che cosa volessero i nordcoreani. Ci si illudeva che bastasse imbandire un tavolo negoziale, sotto il quale allungare mance al dittatore di Pyongyang, per tenere tutto sotto controllo. Non è più così e difficilmente ci potrà essere un vero negoziato. Il problema è che anche Trump bluffa o almeno lo speriamo, perché scatenare la Terza guerra mondiale per mantenersi saldo sulla sua poltrona, non è ragionamento comprensibile e tanto meno accettabile».

Ma lo spostamento degli interessi geopolitici, ed economici, americani verso l’Estremo Oriente non nasce con la presidenza Trump.

«È stato infatti Obama a inaugurare il cosiddetto “perno asiatico”, solo che lo intendeva in modo vago e morbido. Certo non immaginava che si potesse giungere alla crisi attuale».

La Corea del Nord è lontana da noi, ma questo non ci esime dall’interrogarci sull’Europa. Cosa possiamo fare per scongiurare il peggio e che il mondo precipiti in un nuovo, devastante conflitto?

«Pensiamo a evitare che la guerra in corso in Europa, e precisamente in Ucraina, finisca fuori controllo. Già fare questo sarebbe tanto».

Da - http://www.unita.tv/interviste/c-e-il-rischio-di-un-attacco-preventivo-da-parte-usa-parla-lucio-caracciolo/
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« Risposta #51 inserito:: Luglio 29, 2018, 08:44:39 pm »

‘Il mondo secondo Marchionne’

Pubblicato in: ISRAELE E IL LIBRO - n°10 - 2015
 5/11/2015

Conversazione con Sergio MARCHIONNE, amministratore delegato di Fca e presidente di Cnh Industrial. [2015]

A cura di Fabrizio Maronta, Lucio Caracciolo
LIMES Che effetto ha il caso Volkswagen sul mercato dell’auto?

MARCHIONNE È ancora presto per dirlo. È come aprire un’arancia: gli spicchi vengono fuori uno a uno. Ci vorrà̀ del tempo. Un paio di cose però sono già̀ chiare. Primo: il comparto dell’auto ha fatto una figura pessima. Si è visto che anche una delle maggiori industrie automobilistiche del mondo può̀ fare cose al di fuori del consentito. Come ho cercato di spiegare ai miei colleghi europei, nella mia doppia veste di italiano e nordamericano, il vero problema sta in quello che gli anglosassoni chiamano il breach of trust. Concetto che non ha un vero equivalente in italiano, ma che possiamo rendere con «tradire la fiducia». È l’aspettativa che nel contratto sociale alcune norme di base vadano rispettate, perché́ non farlo è un affronto intollerabile all’ordine sociale. Si tratta di un’idea che da noi non ha mai attecchito veramente, tant’è che in Italia gli esempi di breach of trust abbondano, specie negli ultimi anni.

LIMES Se è per questo, anche in America: pensiamo solo agli scandali finanziari che, da Enron alla crisi del 2007-8, hanno segnato il paese.

MARCHIONNE Sì, ma in America il breach of trust è punito come tale: questi comportamenti non vengono tollerati, perchè́ c’è la convinzione che se lo fossero il sistema sociale crollerebbe. Dunque non sappiamo ancora come reagiranno le autorità̀ pubbliche a questo scandalo, ovvero se e quando imporranno standard sulle emissioni ancora più̀ stringenti di quelli attuali. Ma c’è un’altra conseguenza pesante.

LIMES Ovvero?

MARCHIONNE L’impatto negativo dello scandalo Volkswagen sul diesel: una delle tecnologie fondamentali nello sviluppo dell’auto, anche nel settore dei mezzi industriali. Un settore che peraltro ci vede in prima linea con Cnh Industrial, azienda che sta dando un contributo importante alla meccanizzazione agricola in molti paesi, come l’India. Come il resto del gruppo, Cnh Industrial persegue ovviamente il profitto, ma le ricadute sociali positive di un aumento della produttività̀ agricola sono enormi e di questo siamo ben coscienti. Non so quanto lo siano quelli che ora sparano a zero sul diesel, causa di tutti mali.

Questo anatema è totalmente ingiustificato e arbitrario. Avrebbe potuto colpire indifferentemente qualsiasi altro componente oggetto di regolamentazione, dalle cinture di sicurezza ai freni.

LIMES Qual è il rapporto tra una multinazionale e i governi dei paesi in cui opera?

MARCHIONNE È un rapporto di pura convenienza economica. Per questo la Fiat è un caso particolare. Almeno negli anni della mia gestione, dal 2004 in poi, la presenza di Fiat in Italia non è stata dettata da ragioni puramente economiche. Al netto delle mie origini italiane e dei 116 anni di storia della Fiat in Italia, nessuno, oggi, avrebbe fatto quel che abbiamo fatto noi. Quando ho deciso di far produrre la Panda a Pomigliano d’Arco, in Campania, qui in Fiat mi dicevano che ero pazzo, eppure oggi Pomigliano è il nostro miglior stabilimento in Europa. È stato uno sforzo enorme. Non lo è stato di meno produrre a Melfi, in Basilicata, le jeep da esportare, prendendosi la responsabilità di industrializzare quell’area. O tenere in vita lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, che è una città nella città.

LIMES Di norma, quali sono i criteri in base ai quali sceglie i luoghi di produzione?

MARCHIONNE Ovunque nel mondo, eccezion fatta per l’Italia, i criteri sono la vicinanza ai mercati e i benefici economici dell’investimento. Non fosse altro che per giustificare gli esborsi di fronte agli azionisti. In Italia a pesare è l’oggettiva importanza della Fiat nel contesto nazionale: siamo il più grande gruppo industriale italiano e questo comporta delle responsabilità̀.

LIMES Italianità e multinazionalità sono quindi in contrasto?

MARCHIONNE Spesso sì. E ciò che più mi dà fastidio è che i sacrifici che questo comporta per l’azienda non siano adeguatamente riconosciuti. Noi abbiamo acquisito un’azienda americana, la Chrysler, da cui nel 2015 sono venuti gran parte degli utili di Fca, dato che il mercato europeo è ancora fiacco. Se applicassi in tutte le parti del mondo le cautele che ho per l’Italia, Fca sarebbe fallita da un pezzo. Ma la Chrysler ha quarantamila dipendenti, non uno, e ho responsabilità anche verso di loro. Gli operai italiani non sono costituzionalmente inferiori agli altri, ma non sono nemmeno automaticamente superiori: in un mercato globale essi sono in competizione con gli operai di tutti i posti del mondo dove si producono auto e questa è una realtà impossibile da ignorare. Nello stabilimento che abbiamo aperto di recente nel Pernambuco, nel Nord-Est del Brasile, lavorano persone che sono state letteralmente strappate alla povertà. Abbiamo offerto loro un’enorme opportunità di sviluppo e l’impegno che mettono nel lavoro li rende qualitativamente eccellenti, pur essendo l’area priva di una tradizione industriale. Quel tipo di passione, di serietà e di competenza sopravvive comunque anche in Italia: a Melfi come a Pomigliano o a Grugliasco. Dopo dieci anni di traversie, l’orgoglio di appartenere a questo gruppo è di nuovo presente negli stabilimenti.

LIMES Nel gestire una multinazionale, quanto contano i confini statali? È più corretto parlare di imprese multi-o sovranazionali?

MARCHIONNE Direi sovranazionali, nel senso che per molti aspetti – soprattutto quello fiscale – tali imprese sono in grado di muoversi indipendentemente dalle autorità statali, per eluderne paletti e imposizioni.

LIMES Le multinazionali sono dunque eversive del sistema politico?

MARCHIONNE No. Considerano la realtà e la stabilità politica come uno dei fattori di cui tener conto nell’equazione del loro business. In Brasile, ad esempio, oggi ci troviamo a gestire l’impatto dei problemi di Dilma Rousseff, così come gestiamo i rapporti con Cristina Fernández in Argentina, con François Hollande in Francia, con Matteo Renzi in Italia o con Angela Merkel in Germania.

LIMES Come valuta Matteo Renzi?

MARCHIONNE Ammetto che all’inizio l’ho valutato male, con leggerezza, ma nel tempo mi sono ricreduto. È svelto, energico e sta mettendo impegno nel cercare di imprimere una svolta a questo paese. È privo di condizionamenti mentali e questo lo aiuta a pensare in modo originale. Ci rivedo un po’ me stesso nel 2004, quando giunsi alla guida della Fiat praticamente digiuno di industria automobilistica.

LIMES Lei non si sente in qualche modo gestito dai politici?

MARCHIONNE Assolutamente no. Zero. Ma proprio zero. Quello che i politici possono fare è fissare norme che mi obblighino ad adeguarmi. In ultima analisi, però, sta a me decidere: se mi conviene mi adeguo, altrimenti cerco, nei limiti della legalità ovviamente, di trovare alternative.

LIMES Il fatto che le multinazionali abbiano manager di provenienza molto diversa non ne inficia la governance? Non ci sono barriere culturali?

MARCHIONNE No, perché si condividono valori e interessi. Fra i primi figurano l’onestà e l’integrità, fra i secondi al primo posto c’è, ovviamente, l’interesse aziendale. Venticinque anni fa ho cominciato la mia esperienza in Europa alle dipendenze di una multinazionale canadese con interessi in Inghilterra. Quell’azienda è poi stata acquisita da un’azienda svizzera, quindi da Londra sono passato in Svizzera, poi a Parigi e altrove. La Svizzera è un paese sui generis, che pur essendosi molto aperto al mondo negli ultimi vent’anni resta estremamente geloso delle proprie peculiarità e del suo sistema sociale e istituzionale, frutto di un’evoluzione plurisecolare. Un sistema che funziona e che continuerà a funzionare. Eppure, nonostante questo la cultura aziendale delle multinazionali svizzere – come di quelle degli altri paesi – si basa su un codice universale. Ho avuto modo di constatarlo ampiamente, avendo lavorato con persone provenienti dai quattro angoli del globo.

LIMES Crede che nel caso Volkswagen c’entri qualcosa la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), l’accordo di libero scambio tra Usa e Ue perseguito da Washington e fortemente osteggiato dalla Germania?

MARCHIONNE Direi proprio di no. Sul Ttip ho letto parecchie teorie del complotto, ma la semplice verità è che nessuno vuole male alla Volkswagen, come nessuno vuole male alla Chrysler, eppure noi le multe le abbiamo prese e le abbiamo pagate in silenzio. Quando sbagli paghi, punto. Anche se la vicenda Volkswagen è un’altra cosa. Sbagli di quel calibro aprono un vaso di Pandora.

LIMES A cosa si riferisce, in particolare, quando dice che il mondo sta cambiando velocemente?

MARCHIONNE A tutto. Appena due anni fa fior di esperti decantavano le virtù dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), vaticinando che avrebbero tirato il mondo fuori dalle secche della crisi. Sono stato di recente in Brasile e faccio fatica a vederci una delle nuove locomotive dell’economia mondiale. Se nel 2004 qualcuno mi avesse detto che da amministratore delegato della Fiat avrei acquisito la Chrysler, gli avrei dato del folle: nessuno poteva prevedere il semi-fallimento dell’industria americana dell’auto. Noi abbiamo avuto la fortuna e l’intelligenza di presentarci lì al momento giusto e questo ha cambiato per sempre la faccia della Fiat.

LIMES È stata fortuna?

MARCHIONNE Sì, nella misura in cui ci si è presentata questa opportunità. La scelta di perseguirla e il modo in cui è stata architettata l’acquisizione, invece, sono stati voluti. Chi ha rischiato non è stata la Fiat, ma Marchionne: sono io che ci ho messo la faccia con il governo americano per ottenere gli aiuti governativi, l’azienda non ci ha messo un centesimo. Se fosse andata male a saltare sarei stato io: la Chrysler sarebbe andata a qualcun altro, ma la Fiat era salva. Il vero contenzioso con il Tesoro statunitense è stato questo: loro chiedevano che mettessimo soldi, io pretendevo di non metterceli, almeno all’inizio e finché non avessi avuto garanzie sufficienti per portare Chrysler nel gruppo. Alla fine l’ho spuntata, ma mi ci sono giocato vita e carriera. È stato un esperimento controllato per la Fiat.

LIMES L’esperimento della sua vita.

MARCHIONNE Sì. Ha cambiato me non meno di quanto abbia cambiato la Fiat. Il fatto che poi la United Automobile Workers (Uaw) abbia scelto la Chrysler, un’azienda a proprietà italiana, per iniziare a rinnovare il contratto di lavoro nazionale è altrettanto indicativo. Qui non c’entra la nazionalità dell’azienda, ma la chimica personale: se i rappresentanti sindacali credono in te, negoziano con te. E questo vale per l’America come per il Brasile e per qualsiasi altra parte del mondo. Una multinazionale ben gestita dovrebbe avere questa capacità di interfacciarsi con le parti sociali. Non necessariamente attraverso l’amministratore delegato, anche attraverso i suoi vertici locali. Nel caso specifico, con il presidente della Uaw Dennis Williams ho un ottimo rapporto personale e detto francamente ho trovato ragionevoli molte delle sue richieste, tant’è che alla fine l’accordo è arrivato.

LIMES Torniamo all’Italia: lei crede al made in Italy?

MARCHIONNE Credo che, se ben gestito, per certi aspetti il made in Italy abbia un indubbio valore, ma non credo che sia la soluzione al problema industriale italiano. Una jeep non si vende bene agli americani perché è fabbricata in Italia, anche se questa è una storiella che ci raccontiamo spesso e in modo anche convincente. Il made in Italy ha valore se applicato a un certo tipo di prodotti e di attività in cui l’italianità costituisce effettivamente un valore aggiunto, dal cibo alla moda al design. Ma una realtà industriale come quella dell’auto di massa, che deve competere a livello internazionale e misurarsi con gli altri su basi tecnologiche oggettive, non trae alcun vantaggio dalle etichette nazionali.

LIMES Salvo forse che nel caso tedesco, in cui l’industria dell’auto e il made in Germany sostanzialmente coincidono.

MARCHIONNE Sì. Francamente non riesco a gioire minimamente del passo falso di Volkswagen. Innanzi tutto perché́ è ingiusto condannare in blocco tutta l’industria tedesca, che dal secondo dopoguerra ha fatto passi da gigante. Il made in Germany non è rovinato, ma senza dubbio è ammaccato. Di contro, l’aspetto positivo del made in Italy è che risulta quasi impossibile da ammaccare, perché si manifesta in tanti ambiti che trovare il punto debole capace di squalificarlo è molto difficile.

LIMES La differenza sta forse nel fatto che nessuno pretende dal made in Italy la stessa affidabilità. Insomma: è un po’ difficile ora per i tedeschi rinfacciare ai greci di truccare i bilanci.

MARCHIONNE È questo l’aspetto più preoccupante e potenzialmente nefasto di tutta la faccenda. I tedeschi hanno perso il diritto morale di emettere sentenze. Ma guardando oggi all’Europa, chi altri ha tale autorità? Lo scandalo Volkswagen è come la livella di Totò: ci ha rimesso tutti sullo stesso piano. Un piano piuttosto basso direi. Né l’attuale architettura europea risulta di alcuna utilità, essendosi allontanata dagli ideali originari.

LIMES L’Unione Europea non le fa una buona impressione?

MARCHIONNE Decisamente no. Risulta quasi incomprensibile, le sue dinamiche politiche e istituzionali appaiono completamente avulse dalla realtà. Sono stato a una quantità di riunioni a Bruxelles in cui la Commissione parla di Vision 2020, Vision 2025 e via dicendo: documenti di ampie visioni cui poi non corrisponde alcuna azione concreta, o peggio azioni discutibili. Un esempio: il trattato di libero scambio Ue-Corea del Sud. Perché́ lo abbiamo stipulato? Essenzialmente perché́ lo avevano fatto gli Stati Uniti. Ma se per Washington ha perfettamente senso rinsaldare i rapporti con un paese strategico, che dalla guerra di Corea ospita migliaia di soldati americani e che sta a due passi dal grande avversario cinese, per l’Europa che fatica a emergere da una crisi devastante aprire le porte agli agguerriti esportatori sudcoreani equivale a un atto di pura demagogia. Quando l’ho fatto notare a Bruxelles, mi è stato risposto che gli accordi di libero scambio vanno firmati tutti. Punto. Questo vuol dire applicare la teoria economica senza tener conto della realtà̀ economica.

LIMES Ritiene che da un punto di vista tecnologico nei prossimi anni l’auto cambierà̀ molto?

MARCHIONNE Totalmente. Innanzi tutto, il motore a scoppio come lo conosciamo oggi andrà̀ gradualmente perdendo la sua centralità̀ in 10-15 anni, a vantaggio di altri sistemi di propulsione. Per ora l’orizzonte principale è il motore elettrico, ma anche le celle a combustibile sono in campo, sebbene queste abbiano un alto impatto ambientale – in termini di CO2 – in fase di produzione e presentino seri problemi di sicurezza, essendo altamente esplosive. Poi ci sono i cambiamenti epocali avvenuti nel mondo che circonda la vettura, di cui questa deve tener conto. Oggi viviamo immersi nell’elettronica e facciamo un uso massiccio, quotidiano di Internet e del cosiddetto infotainment, a metà tra informazione e intrattenimento. Questa realtà̀ andrà̀ inevitabilmente a invadere l’auto: considerando il numero di ore che si passano in macchina, l’utente vorrà̀ ritrovare nell’abitacolo quella che io chiamo la «sintassi» di questa architettura informatica. In un futuro non lontano vedo autovetture che si aprono avvicinando il telefonino alla portiera e, una volta dentro, riproducono su uno schermo il proprio desktop, permettendo di lavorare mentre si viaggia. La tecnologia c’è già e non è molto costosa. Il problema è la connettività̀, agganciare cioè̀ l’auto alla Rete in modo veloce e costante.

LIMES Difficile pensare di poter guidare e lavorare al tempo stesso senza provocare incidenti a catena.

MARCHIONNE Infatti la tendenza è verso l’auto che si guida da sola, o che per lo meno consente di impostare il «pilota automatico» quando si vuole. In molti sono interessati a questa tecnologia, non solo le case automobilistiche. C’è Google ad esempio, ma anche Uber, il cui costo maggiore è il tassista. Vetture pubbliche a guida automatica abbatterebbero il costo delle corse. Per non parlare delle vertenze. Non è un mondo astruso: sono cose che possono succedere nei prossimi dieci anni. Tutto quello che siamo abituati a considerare tecnologia di base delle macchine sarà̀ rimpiazzata, l’industria dell’auto cambierà̀ volto. Ne è un esempio concreto Elon Musk, che con la sua Tesla sta rivoluzionando l’auto elettrica. Nel 2011, al salone dell’auto di Francoforte, mi sono ritrovato Musk seduto accanto a una cena e l’ho ignorato per tutto il tempo: non per cattiveria, ma perché́ non sapevo nemmeno cosa facesse. L’ho rivisto di recente in California e ormai si è fatto un nome. Al di là del suo grado di realismo come imprenditore, trovo eccezionale come riesca a rompere gli schemi. Le sue auto con le porte che si aprono all’insù̀ sono imparcheggiabili in molti posti, eppure lui le vende. All’estremo opposto sta la Toyota, azienda che negli ultimi vent’anni ha sviluppato una tecnologia ibrida economicamente accessibile, finanziata peraltro con la vendita dei «classici» motori a scoppio. In questo caso le ricadute industriali sono già̀ tangibili, perché́ i fornitori globali di Toyota hanno tenuto il passo con la casa madre e si sono dunque impadroniti di un know how che può tornare utile ad altre aziende, come Fiat e Chrysler, che negli anni passati non hanno potuto investire nelle tecnologie di punta e che ora possono più agevolmente recuperare terreno. Del resto, nel 2004 il nostro problema non era l’auto tra vent’anni, ma arrivare al giorno dopo, mentre ora possiamo guardare di nuovo al futuro. Dall’anno prossimo Chrysler sarà la prima in America ad applicare la tecnologia plug-in hybrid ai minivans, segmento in cui siamo leader nel mercato statunitense. Mentre Cnh Industrial ha fatto enormi passi avanti nel campo degli autobus a metano, ibridi ed elettrici.

LIMES Comunque, seppure in un’altra pelle, l’automobile sopravvivrà.

MARCHIONNE Almeno finché non impareremo a volare. Non tutto il mondo è la Svizzera, dove la rete ferroviaria funziona alla perfezione: precisa, pulita, puntuale, sicura. Il resto dell’Europa è molto indietro da questo punto di vista. Senza contare che la libertà personale associata ad avere un mezzo proprio è ineguagliabile.


Da - http://www.limesonline.com/cartaceo/il-mondo-secondo-marchionne
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