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Autore Discussione: LUCIO CARACCIOLO.  (Letto 37660 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 06, 2008, 08:43:01 am »

ESTERI - ELEZIONI USA 2008

IL COMMENTO

La fine dell'autismo

LUCIO CARACCIOLO


Barack Obama è il presidente del mondo. Non nel senso, pessimo e impossibile, dell'imperatore di noi tutti. Ma in quello, realistico e positivo, dell'uomo che la stragrande maggioranza dell'umanità avrebbe voluto alla guida del più importante paese del mondo. Nelle elezioni planetarie virtuali via Internet, Obama è stato plebiscitato dappertutto: dalla Francia (94,5%) alla Cina (88%), dalla Germania (92,5%) all'India (97%), dalla Russia (88%) all'Iran (80%), per finire con il trionfo in Italia (92%). Miliardi di persone hanno soffiato nelle vele della barca di Obama. Gli americani lo sapevano, anzi lo sentivano. Come affermava Thomas Jefferson, americanizzando il cogito cartesiano: "I feel, therefore I am" - "sento dunque sono". I connazionali di Obama devono averlo sentito quel vento ben dentro la loro pelle, fino all'altro ieri piuttosto impermeabile alle opinioni di chi vivesse fuori dell'immenso, benedetto poligono a stelle e strisce.

Fino a quando appunto, sette anni fa, furono tragicamente risvegliati dall'illusione di aver bandito per sempre il Male dal mondo. Bush volle esorcizzare l'incubo scatenando il suo formidabile apparato della forza a caccia di mostri lontani. Con l'idea di tenerli a debita distanza dalle case americane, inchiodandoli nelle loro terre come si spera che gli insetti nocivi s'incollino alla carta moschicida. Certo, l'11 settembre non si è ripetuto. Ma il prezzo per la svolta militarista e securitaria non è espresso solo dalla voragine nei conti pubblici e privati, quanto soprattutto dalla drastica caduta d'immagine dell'America nel mondo. E dunque da una corrosiva crisi di autostima. Da cui solo dopo la magica notte del 4 novembre gli americani cominciano a riprendersi.

Se Obama ha vinto, è anche perché gli americani hanno ascoltato le voci del mondo. Non per corrività o per vocazione internazionalista. Per sano spirito di conservazione. Per egoismo. Perché hanno capito che la sicurezza degli Stati Uniti è protetta dalla simpatia o almeno dal rispetto altrui meglio che da qualsiasi barriera. Quanto più Bush erigeva muri fisici e virtuali a protezione del territorio nazionale, mentre scatenava le campagne d'Afghanistan e d'Iraq senza fissarne limiti e traguardi, tanto più molti americani si sentivano paradossalmente meno protetti. Ci sono voluti anni, ma la maggioranza dei cittadini statunitensi ha capito che il loro governo li aveva ficcati in un vicolo cieco. Al termine del quale non c'era solo l'umiliazione dei soldati - migliaia dei quali hanno pagato con la vita - ma la perdita di fiducia del mondo nell'America. E alla lunga, degli americani in loro stessi.

L'ultimo crollo, quello del Muro di Manhattan, non è stato che il riflesso finanziario della crisi di credibilità degli Stati Uniti. Senza fiducia non c'è finanza che tenga. E prima o poi il morbo traligna nell'economia, mina l'ordine sociale, ferisce lo smisurato orgoglio nazionale di un paese che venera come una Chiesa la patria e i suoi simboli.

L'America ha ascoltato il mondo. Presto il mondo ascolterà la nuova America di Obama. Inevitabilmente, una buona quota di coloro che oggi inneggiano al leader nero resteranno delusi. Non solo perché sono troppi, e nemmeno Superman potrebbe servire i loro contrastanti interessi. Ma perché Barack Obama, innalzato alla Casa Bianca anche grazie al resto del mondo, deve preoccuparsi anzitutto del suo popolo. In questo senso no, non è il capo della Terra. Deve corrispondere alle attese dei suoi elettori effettivi, dai quali ambirà ad essere riconfermato fra quattro anni. Non avrà tempo né forze per quelle dei suoi supporter elettronici sparsi nel pianeta. Di più: i suoi elettori reali pretendono che rimetta subito ordine nella casa devastata dalle politiche di Bush. L'economia domestica, anzitutto. Il resto può attendere.

Obama avrà bisogno di ogni risorsa disponibile, a cominciare da quelle degli "alleati e amici", per raddrizzare la corazzata a stelle e strisce, pericolosamente inclinata su un fianco. Sul fronte internazionale, vuol dire più soldi e più soldati atlantici - italiani inclusi - a combattere con gli americani nelle guerre del dopo-11 settembre. A partire dall'Afghanistan, dove probabilmente Obama tenterà di riprodurre l'"effetto Petraeus": rinforzi sul terreno e trattative con i "taliban buoni" e altri tagliagole per evitare una sconfitta che Stati Uniti e Nato non possono permettersi.

Certo, dall'autismo geopolitico di Bush e Cheney, Obama e Biden vorranno passare a un "multilateralismo" d'impronta americana. Con il prestigio e l'irradiamento simbolico di cui nessun altro presidente degli Stati Uniti ha mai goduto, il nuovo leader cercherà risorse altrui per servire gli interessi del suo paese. Se poi tali interessi coincideranno con quelli degli amici, tanto meglio. Se no, tanto peggio per gli altri. Anche per chi oggi stravede per lui, o finge di farlo.

Il presidente eletto sta per ereditare un paese malato. Solo un senso di disperazione spiega come una notevole parte dei conservatori abbia votato per un presidente sospettato di pericolose inclinazioni sinistrorse, quando non di aver flirtato con gli estremisti. Obama era davvero l'ultima speranza dell'America. Non può permettersi di disperderla. La sua gente, tutta, non glielo perdonerebbe. E' il destino dei grandi visionari, che suscitano aspettative formidabili. Alcuni di loro diventano anche grandi leader. Calibrando utopia e realismo, producendo fatti ed esaltandoli con il tocco carismatico dei re taumaturghi. Se ci riuscirà, Obama non sarà solo un eroe nazionale. Si confermerà quell'icona planetaria che è già diventato nei cuori degli amici dell'America, e forse anche di alcuni nemici.


(6 novembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 07, 2008, 06:21:41 pm »

Lucio Caracciolo.


E l'Europa si spaccherà


 Barack ObamaIl nuovo presidente degli Stati Uniti non ha una grande esperienza dell'Europa. Ma di noi Barack Obama dovrà comunque occuparsi. Perché deve chiederci quel contributo ad affrontare le crisi geopolitiche ed economiche che l'amministrazione Bush, almeno nei suoi anni 'eroici', non voleva domandarci, illudendosi di poter fare tutto da sola. Nei primi mesi della nuova amministrazione, sui tavoli delle cancellerie europee arriveranno dettagliate e pressanti richieste di truppe (e denari) da spendere sul teatro afgano e in altre aree critiche. Il nuovo leader legittimerà queste richieste nel contesto di un 'multilateralismo' probabilmente più retorico che sostanziale, dato che a dettare le regole del gioco vorrà comunque restare lui, il capo della massima potenza planetaria.

Si può scommettere che gli europei si divideranno. Tra chi vorrà mostrarsi più americano degli americani (baltici, polacchi e altri ex sudditi dell'impero sovietico), chi cercherà di puntare i piedi (soprattutto i tedeschi e gli spagnoli) e chi farà il pesce in barile (noi). Certamente, non sarà facile respingere le sollecitazioni di un leader appena insediato e con davanti a sé almeno quattro anni di governo. Fin d'ora i responsabili europei stanno studiando condizioni e reciprocità di questo nuovo rapporto.

Dal punto di vista del presidente eletto, il modo di guardare all'Europa dovrebbe comunque ricalcare i precetti stabiliti negli ultimi decenni. In particolare, coltivare i rapporti bilaterali, piuttosto che con il fantasma di Bruxelles; evitare che un gruppo di europei si coalizzi in chiave anti-Usa; e soprattutto, scacciare il timore che qualcuna delle principali potenze continentali stringa relazioni privilegiate con Mosca.

L'incubo di qualsiasi presidente americano, anche del quarantaquattresimo di fresca nomina, è che fra Russia e Germania (più, eventualmente, Francia e potenze minori) si stabilisca un'alleanza anche solo informale, destinata a limitare l'influenza degli Stati Uniti nel Vecchio Continente. In questa prospettiva, un occhio particolare verrà dedicato dalla nuova amministrazione alla geopolitica energetica. Progetti come Nord Stream, deputati a scavalcare i paesi più filoamericani d'Europa, allo scopo di connettere Germania e Russia in nome del gas, sono anatema. Così come, sul fronte Sud, il nuovo presidente continuerà probabilmente a ricercare improbabili alternative alle pipelines che connettono Asia centrale e Russia all'Europa mediterranea.

In questo mobile scacchiere geopolitico, l'Italia gioca un ruolo marginale. A torto o a ragione, gli americani tendono a dare per scontato che seguiremo, comunque eviteremo di far danni. È probabile che abbiano ragione. Ma nel contesto della crisi multidimensionale (finanziaria, economica e geopolitica) che gli Stati Uniti hanno esportato nel mondo, al nuovo inquilino della Casa Bianca potrebbe capitare un giorno persino la ventura di infilare la sua chiave nella serratura della nostra porta e di trovarla cambiata.


(07 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 29, 2008, 11:42:32 pm »

L'ANALISI

Una guerra senza crociate


di LUCIO CARACCIOLO


"Questa guerra non si può vincere". Così, in un momento di candore, George W. Bush, il presidente che ha legato il suo nome al tentativo di estirpare a mano armata le radici del "terrorismo globale". Più che una guerra, una crociata. Parola che scappò detta a Bush subito dopo l'attacco alle Torri Gemelle, prima che i consiglieri gli illustrassero l'opportunità di ometterla in ossequio al geopoliticamente corretto.

Ma anche senza definirsi più tale, la guerra al terrore scatenata dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre, ha conservato, in fondo, il senso della crociata. Ed è appunto per questo che non si può vincere. Finché continueremo a vedere in ogni singolo attacco terrorista, dovunque e comunque, un Grande Vecchio globale battezzato Al Qaeda, gli ingegneri del terrore si sentiranno incoraggiati ad alzare il tiro.

Dopo la battaglia di Mumbai, possiamo sperare che la de-ideologizzazione della guerra al terrorismo cominci davvero? Qualche segnale sembra indicarlo. Per Obama e per la sua squadra, addestrata da sette anni di fallimenti americani e alleati nella crociata non dichiarata, sarebbe la premessa ideale per dare una conclusione pragmatica alle campagne militari in corso. Ed evitare la sconfitta totale.

La guerra al terrorismo come ideologia è funzionale alla gestione della paura. Serve a compattare l'opinione pubblica e a legittimare non solo le campagne militari, ma anche i giri di vite domestici - alcuni inevitabili, altri inevitabilmente stupidi - che limitano le libertà di ciascuno. Il guaio è che in tal modo si segue la logica dei terroristi e se ne serve lo scopo principe: la paura, appunto. Anzi i "treni di paura", quelle epidemie di terrore collettivo che attanagliano intere comunità e le inducono a comportamenti irrazionali e autodistruttivi. La risposta americana all'11 settembre, almeno nella sua prima fase, è esemplare di questa sorta di nevrosi, per cui credendo di combattere il nemico lo si esalta. Quasi il terrorismo fosse una superpotenza.

Un approccio pragmatico tende invece a decostruire il Terrorismo nei tanti, effettivi terrorismi - talvolta l'un contro l'altro armati - che per pigrizia, paura o dolo ricomprendiamo sotto quella T maiuscola. Giacché il terrorismo è una tattica, non un soggetto. Dunque non identifica nessuno. Al massimo serve a bollare l'arcinemico. Siamo nel campo della prassi, non dell'ontologia: il terrorista di oggi può diventare l'alleato di domani e viceversa.

Se evolviamo dall'isterismo alla misura imposta dalla ragione, riusciamo a scomporre il problema. Dividiamo il nemico anziché unirlo. Non sconfiggeremo mai il Terrorismo, ma alcuni singoli terrorismi sì, compresi i legami effettivi e non immaginari che ne legano diverse cellule, specie quelle abbeverate alle fonti del jihadismo e di altri fanatismi a sfondo religioso.
E qui torniamo a Mumbai. La strage non è solo un capitolo particolarmente odioso del terrorismo islamista. Nemmeno solo un'intimidazione all'Occidente, i cui cittadini sembravano un bersaglio privilegiato nel mirino dei terroristi, e in specie a Israele in quanto referente occidentale in "terra islamica", come testimonia la strage al centro ebraico. È soprattutto l'ennesimo episodio della guerra India-Pakistan, che si trascina da oltre sessant'anni, tra fasi "calde" e "fredde", scontri militari in piena regola e subdoli attentati. Una guerra senza sbocco.

L'ennesimo lascito di sangue della decolonizzazione alla britannica. Ma molto, molto più pericoloso della Palestina o della Mesopotamia. Qui si fronteggiano due Stati dalle identità inconciliabili, armati fino ai denti, bombe atomiche comprese. A differenza di altri scenari, nel confronto indo-pakistano l'uso dell'arma atomica non è affatto impensabile.

Per questo Obama ha messo il Pakistan in cima alla lista delle sue priorità di politica estera. Infatti, la stessa guerra afgana è anche un fronte della partita India-Pakistan, con Delhi inizialmente in vantaggio e Islamabad alla riscossa grazie ai "suoi" taliban e ad altri ribelli e tagliagole che amiamo classificare sotto quella comoda etichetta. Per riconquistare quel territorio che nella dottrina pakistana rappresenta la "profondità strategica" per proteggersi da un'invasione indiana e insieme il trampolino di lancio per estendere la propria influenza in Asia centrale.

Nella sua crociata ideologica, Bush aveva presentato il Pakistan come prezioso alleato nella guerra afgana, "dimenticando" che i taliban nascevano nelle madrasse pakistane, anche per impulso dell'intelligence locale. La fonte del jihadismo era così deputata a combattere il jihadismo, immaginiamo quanto sinceramente. Essendo per questo foraggiata con decine di miliardi di dollari, finiti nelle tasche delle corrottissime élite politico-militari di Islamabad o virati in progetti e sistemi d'arma concepiti per combattere l'India, certo non i taliban.

Nell'approccio pragmatico che speriamo Obama e il resto del mondo civile vorranno adottare contro i terroristi, conviene dunque tornare a chiamare le cose con il loro nome. Il Pakistan, tramite l'Inter-Services Intelligence (Isi), è il garante se non il mandante dei terroristi di Mumbai. Che certo non sono solo pakistani: fra loro anche islamisti indiani e di altri paesi. Da sempre l'Isi promuove e finanzia cellule jihadiste incistate nella società indiana, soprattutto in funzione delle proprie aspirazioni sul Kashmir, il territorio simbolico-strategico al centro del contenzioso con Delhi. Così come i servizi indiani sostengono tutte le forze, compreso il pallido governo Karzai, che sullo scacchiere del subcontinente e dell'Asia centrale minano gli interessi del Pakistan.

È in questo incrocio di ambizioni e strategie contrapposte che conviene interpretare la strage di Mumbai. Senza indulgere in generalizzazioni o in "ismi", ma individuando le responsabilità individuali e istituzionali, denunciandole e, per quanto possibile, colpendole. Con la determinazione e la cautela imposte dal rischio nucleare. E con la consapevolezza che senza un compromesso geopolitico fra India e Pakistan, che risolva le dispute resolubili e metta la sordina a quelle insolubili, gli orrori di queste ore sono destinati a riprodursi, moltiplicati, in un futuro non lontano.


(29 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Gennaio 06, 2009, 11:41:11 am »

L'ANALISI

Medio Oriente, una tragedia domestica

di LUCIO CARACCIOLO


CI SONO sono problemi che si possono risolvere e problemi insolubili. Da tempo gli apparati di sicurezza israeliani, più influenti dei governi anche perché più stabili, hanno deciso che la questione palestinese appartiene alla seconda categoria. Non ha soluzione. Quindi a rigore non è un problema. È una crisi permanente da gestire perché non diventi troppo acuta. Talvolta con terapie d'urto, come oggi a Gaza.

Per capire la guerra in corso, conviene inquadrarla sullo sfondo dell'opzione strategica perseguita da Israele a partire dal fallimento del vertice di Camp David e dei colloqui di Taba sullo "status finale", nel 2000-2001. Da allora, l'establishment di sicurezza israeliano, appoggiato dalla Casa Bianca, ha affrontato il problema/non problema palestinese a partire da tre postulati.

Primo: nel giro di pochi anni fra Mediterraneo e Giordano gli arabi saranno maggioranza. Ciò minaccia il carattere ebraico dello Stato di Israele, che non è negoziabile. Dunque o creiamo uno staterello palestinese a fianco del nostro, incapace di minacciarci, oppure dobbiamo tenere i palestinesi sotto controllo con la forza. E possibilmente divisi. La prima ipotesi resta il mantra della diplomazia ufficiale, la seconda corrisponde alle iniziative sul terreno, dall'espansione degli insediamenti alla caccia al terrorista nelle strade di Gaza City.

Di fatto, come oltre quattro anni fa spiegava il braccio destro di Sharon, Dov Weisglass, "l'intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni, è stato rimosso dall'agenda a tempo indeterminato". Olmert non ha deviato dall'approccio del suo predecessore. La conferenza di Annapolis è stata una mascherata, cui ha partecipato più o meno consapevolmente lo stesso Abu Mazen, simbolo dell'impotenza palestinese.

Secondo: non esiste un campo palestinese unitario, né Israele ha interesse a che si formi, nella prospettiva demografica sopra evocata. Coerentemente, negli ultimi anni i governi israeliani hanno prima trattato Arafat come un leader inaffidabile, poi concesso una patente di affidabilità al suo pallido successore, sapendo che comunque Abu Mazen non dispone dell'autorità sufficiente a riunire i palestinesi. Quanto a Hamas, è solo una banda di terroristi che vogliono distruggere Israele. Risultato: anche se volesse promuovere uno Stato palestinese, lo Stato ebraico non potrebbe. Perché la fazione palestinese disponibile a battezzarne uno purchessia è troppo debole per controllarlo, mentre l'altra vorrebbe un solo Stato, ma arabo e non ebraico.

Terzo: in ogni caso i palestinesi non sono una priorità. Per il resto del mondo (arabi e islamici compresi), ma soprattutto per Israele. Non è certo Hamas che può distruggere lo Stato ebraico. La minaccia strategica è l'Iran. Non solo in quanto deciso a dotarsi di un arsenale atomico capace di rivaleggiare con quello (mai dichiarato) di Gerusalemme, ma anche in quanto potenza nemica capace di utilizzare i terroristi arabi e islamici per tenere Israele sotto schiaffo. Hezbullah, ma anche Hamas. Sicché oggi la battaglia di Gaza è sotto questo profilo uno scontro indiretto fra Gerusalemme e Teheran.

Si può respingere in tutto o in parte tale analisi. Ma possiede una sua logica. I palestinesi non hanno saputo opporvi una visione coerente e unitaria. Giacché ormai le loro organizzazioni principali, Hamas inclusa, sono delle mini-galassie in cui interessi particolari (spesso criminali), piccoli clan e bande di disperati si contendono le scarse risorse disponibili. Strette nella morsa israeliana. Mentre attori esterni, arabi (sauditi in testa) e islamici (vedi Teheran) usano i palestinesi per fini propri, spesso contrastanti.

La deriva dal nazionalismo all'islamismo che segna l'ultima fase di Arafat e l'ascesa di Hamas esprime la crisi dell'identità palestinese così come era stata reinventata dall'Olp a partire dagli anni Sessanta. E rafforza a Gerusalemme coloro che considerano vano inventare una nazione che non c'è. Figuriamoci affidarle uno Stato. Nessuno sembra in grado di riunificare le fazioni e i territori palestinesi. Né pare che la progressione dei coloni ebraici in Cisgiordania che ruota sull'asse Gerusalemme-Ma'ale Adumim, destinato a bisecare i "bantustan" residui possa essere arrestata.

Vista da Israele la guerra di Gaza non è dunque una crisi internazionale ma una partita domestica. Nel breve, per l'ovvio tentativo di Kadima e dei laburisti di sottrarre voti alla destra di Netanyahu alle elezioni del 10 febbraio. In prospettiva, per riaffermare che la questione palestinese appartiene alla sfera della sicurezza interna e basta. In questo senso Piombo Fuso è più un'operazione di polizia con mezzi militari che una vera e propria guerra. Non a caso gli israeliani osservano con preoccupazione le reazioni dei "loro" palestinesi, ossia degli arabi che abitano nello spazio dello Stato ebraico, pur non essendovi davvero integrati. I quali peraltro restano allo stesso tempo refrattari a soggiacere a un'autorità palestinese, viste le performance di Fatah a Ramallah e di Hamas a Gaza. Per Gerusalemme, la saldatura fra le proteste nelle sacche arabe di Israele e quelle nei Territori va evitata ad ogni costo.

Anche fra i palestinesi la battaglia di Gaza ha connotati interni. Hamas provoca gli israeliani non perché pensi di batterli, ma per consolidare la sua fama di unica struttura combattente della resistenza palestinese, inconciliabile con il "Quisling" Abu Mazen. Il quale tifa nemmeno troppo segretamente per Israele, dato che da solo non potrebbe mai sbarazzarsi di Hamas (ma è piuttosto ottimistico pensare che ci riesca Olmert). Solo una prolungata guerra di logoramento a Gaza può riavvicinare, almeno provvisoriamente, le fazioni palestinesi in lotta. In nome dell'odio per gli israeliani.

La tragedia è che nessuna delle parti in causa, nemmeno la più potente (Israele), può raggiungere i suoi obiettivi strategici. E nessuna è abbastanza forte e sicura di sé per accettare un compromesso con le altre. La guerra continua. E non finirà con la fine di Piombo Fuso.

(5 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Gennaio 09, 2009, 04:45:14 pm »

Lucio Caracciolo.


La follia lucida di Sarkozy


Sarkozy cerca di affermarsi come unico vero capo dell'Europa. Lo ha fatto anche nei giorni scorsi, girando come una trottola alla ricerca di una tregua nella guerra di Gaza  Nicolas SarkozyL'Europe c'est moi... È la divisa indossata da Nicolas Sarkozy, ostentata durante il suo semestre di presidenza europea, ma in tutta evidenza destinata a durare oltre. In assenza di un soggetto europeo - certo non surrogabile dal pallido Javier Solana né tantomeno dai leader cechi cui la routine comunitaria assegna oggi di guidare (si fa per dire) i Ventisette - Sarkozy cerca di affermarsi come unico vero capo dell'Europa. Lo ha fatto anche nei giorni scorsi, girando come una trottola fra i quattro cantoni del labirinto mediorientale, alla ricerca di una tregua nella guerra di Gaza. Già mercoledì, grazie anzitutto al sostegno egiziano e americano, sulla scia dell'iniziativa francese un primo, limitato cessate-il-fuoco è stato raggiunto.

Certo non è pensabile che la Francia possa sostituirsi agli Stati Uniti, l'unico attore capace di spostare i pesi sulla bilancia impazzita del conflitto israelo-arabo (o meglio, ebraico-islamico). Il rischio di rompersi l'osso del collo, in simili acrobazie mediatico-politiche, è forte. Eppure, come i primi risultati confermano, c'è del metodo nella 'follia' di Sarkozy.

Al di là degli effetti immediati, comunque fragili, l'iniziativa francese occupa la scena in una fase estremamente delicata, mentre le maggiori potenze globali sono alle prese con le emergenze della crisi economica o sono addirittura in sede vacante, come gli Stati Uniti. Certo, la transizione Usa sta per scadere, ma è dubitevole che Obama possa lanciarsi subito in una grandiosa iniziativa mediorientale. Altre sono le sue priorità. E soprattutto, questo non è il momento dei negoziati veri, ma della tregua e della stabilizzazione, da cui un giorno forse ripartirà un processo di pace più produttivo dei precedenti.

In prospettiva, questo significa che gli europei - con i francesi in testa - potrebbero essere chiamati a vegliare su una precaria tregua Hamas-Israele. Anzitutto collaborando a mantenere aperti i corridoi umanitari fra la Striscia e il mondo esterno. In secondo luogo contribuendo a drenare il traffico di armi che giungono a Gaza via Egitto, attraverso i mille tunnel che collegano il Sinai alla Striscia. In terzo luogo, quale che sia la bandiera sventolata dalle truppe internazionali (Unione europea, Onu o altro), solo un contingente europeo, eventualmente allargato ad altri paesi, è sufficientemente credibile e accettabile per entrambe le parti.

È possibile che l'iniziativa di Sarkozy, che ha trovato in Mubarak una spalla decisiva, non produca frutti durevoli. Ma nell'indolenza o nell'impotenza altrui, è già qualcosa. Oggi il dramma palestinese non trascina più le opinioni pubbliche di mezzo mondo, certo non come qualche anno fa. È subentrato il disincanto. O la pura disperazione. Il leader francese vorrà attribuirsi il merito di aver offerto agli arabi, in specie ai palestinesi, la sensazione di non essere del tutto dimenticati dall'Occidente.

La missione mediorientale ha poi una radice interna. La Francia è un paese multietnico e multireligioso. Le minoranze islamiche, in particolare quelle arabe, che abitano il suo territorio, non essendovi davvero integrate, possono scatenare proteste e rivolte tali da mettere in difficoltà il governo. Ogni guerra mediorientale ha ormai un riflesso nei paesi europei. In Francia più che in altri. Sarkozy è in Medio Oriente non solo da mediatore internazionale, ma anche da garante dell'ordine in casa propria.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 22, 2009, 03:27:47 pm »

Lucio Caracciolo.


Tra guerra fredda e disgelo

La tensione fra Mosca e Washington raggiunta negli ultimi mesi della presidenza Bush è evitabile. Di questo sono convinti sia Obama che i suoi partner russi, Putin e Medvedev  Stati Uniti e Russia non sono affatto condannati a scontrarsi. I loro interessi nazionali vitali non collidono. Anzi, per certi aspetti coincidono. Dunque, la parossistica tensione fra Mosca e Washington che negli ultimi mesi della presidenza Bush aveva fatto gridare alla 'nuova guerra fredda', è assolutamente evitabile. Di questo sia Obama sia i suoi partner russi, Putin e Medvedev, sono convinti. Ma di qui a ristabilire un clima di fiducia e di cooperazione a tutto campo, molto ne corre. Vediamo perché.

Dal punto di vista del Cremlino (e della Casa Bianca russa), l'essenziale è che gli Stati Uniti riconoscano alla Russia il rango di grande potenza e l'annesso diritto a una propria sfera di influenza. Questa dovrebbe comprendere tutto o quasi lo spazio ex sovietico, ma anche territori più lontani, in quello che una volta era chiamato Terzo Mondo. Implicita in questa rivendicazione è una nuova architettura di sicurezza paneuropea, che segua grosso modo il perimetro dell'Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (Osce).

La Nato è a un tempo obsoleta e pericolosa. Obsoleta perché strumento della Guerra Fredda. Pericolosa perché oggi i suoi partner dell'ex impero sovietico la interpretano come se fossimo ancora ai tempi dell'Urss, ossia come fattore di protezione rispetto all'aggressivo impero russo. Sicché non è pensabile estenderla a Ucraina e Georgia, che per Mosca appartengono, almeno in grande parte, alla propria sfera d'influenza. Di più, alcune regioni, in particolare la Crimea, sono di fatto russe.

Dunque per ristabilire la fiducia reciproca Mosca chiede a Washington di fermare l'espansione della Nato. E di rinunciare ad installare i sistemi anti-missili balistici ramificati in Polonia e in Cechia in funzione, secondo Putin e Medvedev, essenzialmente antirussa. In cambio, i leader russi offrono collaborazione in Afghanistan - soprattutto per quanto riguarda le vie di rifornimento logistico alle linee alleate - e nelle trattative con l'Iran, oltre alla disponibilità a discutere la sostanziale riduzione se non l'abolizione degli arsenali strategici.


Secondo Obama la Russia non è un nemico, anzi è un potenziale partner, ma non del tutto affidabile. Nel suo pragmatismo, i russi servono a disincagliare le truppe americane dai labirinti mediorientali, per salvare la faccia e soprattutto la sicurezza degli Stati Uniti in Afghanistan/Pakistan. Certo, la pseudodemocrazia russa preoccupa, così pure la scarsa trasparenza dei meccanismi decisionali. Ma con tutti i problemi che Obama deve affrontare sul piano domestico come su quello globale, aggiungere alla lunga lista anche un caso Russia non pare necessario.

Resta da vedere fino a che punto l'approccio pragmatico, basato sulla realistica valutazione degli interessi, possa affermarsi sia a Mosca che a Washington. Le scorie del passato continuano a intossicare le percezioni reciproche. E per gli Stati Uniti riaprire un dossier che si considerava esaurito con la vittoria nella Guerra Fredda significa un doloroso esercizio di revisione di sentenze già passate in giudicato. Ma le alternative alla cooperazione, per gli uni e per gli altri, sono sicuramente meno affascinanti e molto più costose, sotto ogni profilo.

(20 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 12, 2009, 11:03:13 am »

COMMENTI

Quei moderni Sandokan

di LUCIO CARACCIOLO


IL MARE è anarchico per definizione. Malgrado i tentativi di regolamentazione in punto di diritto internazionale, nelle acque vige la legge del più forte, o del più scaltro. Non c'è bisogno di essere una grande potenza per fare i comodi propri in un determinato specchio di mare. Anzi, i paesi leader della geopolitica globale, con le loro flotte supermoderne, vengono facilmente umiliati da bande di criminali locali.

Sono i pirati del XXI secolo, spesso marinai improvvisati a caccia di prede facili nelle acque di casa, che conoscono come le loro tasche. Un fenomeno in via di intensificazione negli ultimi anni, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale e nel "collo di bottiglia" strategico dello Stretto di Malacca, rotta fondamentale per il rifornimento di petrolio mediorientale ai giganti estremo-orientali.

Un'altra area critica, più vicina a noi - alle nostre memorie coloniali e ai nostri interessi attuali - è quella del Golfo di Aden. Un'ampia porzione dell'Oceano Indiano, di oltre 600 mila miglia quadrate, su cui da tempo si è concentrata l'attenzione delle Marine occidentali, e non solo, interessate a proteggerlo dai pirati. La disinfestazione è peraltro impossibile. Manca un sufficiente grado di cooperazione fra le marinerie internazionali. E anche se ci mettessimo tutti a remare nella stessa direzione, occorrerebbero almeno cinquecento navi da guerra per controllare uno spazio marittimo tanto esteso.

Dopo la tragica conclusione del blitz delle teste di cuoio francesi per liberare cinque ostaggi dei pirati a 60 miglia da Aden, e mentre nelle stesse acque resta in bilico il destino del mercantile americano Maersk Alabama, l'attenzione dei media si concentra sui nuovi Sandokan. I quali non somigliano affatto all'eroe salgariano. I jin ("diavoli") che dalle coste somale si lanciano con i loro barchini veloci a caccia delle prede e del relativo riscatto, spingendosi financo all'arrembaggio di petroliere che navigano a 300 miglia dalla costa, sono figli dell'interminabile guerra che sta sconvolgendo la Somalia da un paio di decenni e dell'instabilità permanente nel Corno d'Africa.

Come hanno scritto due acuti analisti del fenomeno, Nicolò Carnimeo e Matteo Guglielmo, quei pirati "con il mare hanno poco a che fare, l'arte della navigazione l'hanno imparata per necessità". Si tratta infatti di "un variegato manipolo di pastori o mercenari al soldo dei locali signori della guerra. Abitano case di paglia e fango, bevono latte di cammella, ma i loro capi sanno adoperare Internet e i sistemi satellitari di rilevamento, sono in grado di compiere transazioni bancarie e hanno contatti internazionali da Nairobi a Dubai che consentono loro di riciclare il denaro degli abbordaggi".

Le loro basi sono concentrate nella regione somala del Puntland - proclamatosi "repubblica" indipendente nel 1998 - in particolare attorno al porto di Bosaso. Terre devastate, "buchi neri" geopolitici contesi da bande armate, per le quali saccheggio e pirateria sono le principali risorse economiche. Secondo alcuni studiosi, si sarebbe creata una sorta di intesa con gruppi jihadisti operanti nel Corno d'Africa, che puntano a colpire gli interessi occidentali. Ma nell'intreccio dei conflitti locali e regionali è molto arduo assegnare etichette definitive a questo o quel signore della guerra e alle sue milizie terrrestri e marittime.

Più in generale, le scorrerie dei briganti nell'Oceano Indiano o nel Pacifico - ma se ne trovano ormai quasi ovunque - segnalano quanto arduo sia difendere la sicurezza dei mari, estesi per il 70% circa della superficie planetaria. Incardinati sulle nostre terreferme, tendiamo a dimenticare che la gran parte dei traffici commerciali d'ogni genere passano per vie d'acqua. Grazie ai costi relativamente bassi (finora, ma la pirateria è destinata ad alzarli, non fosse che per la componente assicurativa), alla facilità del trasporto e - non ultimo - all'impossibilità di verificare davvero che cosa portano le navi, spesso battenti bandiere di comodo e con equipaggi non identificabili. Per questo è facile immaginare che la pirateria, comunque travestita, abbia davanti a sé un futuro luminoso.

(12 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 21, 2009, 11:18:07 am »

L'ANALISI

La provocazione di Teheran

di LUCIO CARACCIOLO


OBAMA è nei guai. L'uomo cui aveva appena teso la mano per ricucire dopo trent'anni i rapporti Usa-Iran, sperando che lo aiutasse a sganciarsi onorevolmente dall'Iraq e dall'Afghanistan, ha festeggiato a suo modo il centoventesimo compleanno di Adolf Hitler.
Mahmud Ahmadinejad ha rubato la scena alla conferenza Onu di Ginevra con una tirata contro il "governo razzista" (leggi: Israele) che i vincitori della seconda guerra mondiale avrebbero imposto alla "Palestina occupata".
Una provocazione mirata, con cui il presidente della Repubblica Islamica intendeva cogliere almeno tre obiettivi.

Primo, sfruttare l'"effetto Gaza", l'indignazione della piazza islamica (e non solo) per il comportamento delle truppe israeliane durante la recente campagna militare, che ha portato la popolarità dello Stato ebraico nel mondo ai minimi di sempre. Secondo, volgere il summit delle Nazioni Unite in spot gratuito ad uso domestico per la sua rielezione alla presidenza dell'Iran, nel voto di giugno. Terzo, chiarire agli americani e agli europei che nella partita del nucleare iraniano è lui a guidare le danze, giacché sono loro a trovarsi in stato di necessità. Per conseguenza, sarà lui a dettare il tono e a creare l'atmosfera del negoziato, se mai decollerà.

Ahmadinejad ha ottenuto ciò che desiderava. Il consenso di buona parte dei delegati, che hanno applaudito la sua invettiva contro "gli Stati occidentali rimasti in silenzio di fronte ai crimini di Israele a Gaza". La divisione del campo occidentale, visto che inizialmente solo la classica famiglia anglosassone in versione ridotta (Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda) più quattro Stati europei (Olanda, Italia, Polonia e Germania) ha seguito Israele nel boicottaggio di "Durban 2", assemblea prevedibilmente indirizzata sulle orme antisemite di "Durban 1". Sicché diversi delegati occidentali erano in aula quando il presidente iraniano è salito sul palco, con il preciso intento di costringerli a un poco glorioso abbandono alla prima salva contro Israele. Ma alla maggioranza degli europei questo non pare ancora sufficiente per tornarsene a casa.

Non che Ahmadinejad abbia detto alcunché nuovo. Come la pensi sull'Olocausto e sull'"entità sionista" è stranoto. Gli occidentali e tutti coloro che non condividono le sue tesi, a cominciare ovviamente dagli israeliani, avevano avuto tutto il tempo per concordare una risposta comune, all'altezza della sfida. Boicottando in massa la conferenza - con tanti saluti all'Onu, che consapevolmente si prestava a scatenare la grancassa anti-israeliana e anti-occidentale - o accettando tutti insieme il contraddittorio. Né l'uno né l'altro. Il leader iraniano li ha divisi e infilzati a fil di spada, uno per uno. E a margine, ha contribuito all'ennesimo round fra mondo ebraico e Vaticano, con la Santa Sede sotto accusa per non essersi sottratta alla "conferenza dell'odio", cui continua a partecipare: il nunzio non ha neanche abbandonato la sala quando il leader iraniano ha iniziato ad attaccare Israele.

Con studiata perfidia - esibendo sangue freddo e notevole abilità politica - Ahmadinejad ha lasciato cadere a margine del suo comizio una maliziosa apertura a Obama. Assicurando di "accogliere positivamente" la svolta Usa verso l'Iran, di puntare solo al nucleare civile e di rifiutare quello militare. In attesa di "fatti concreti" da parte americana, ha rimandato la palla nel campo avversario.
Ora Obama deve scegliere. O persiste a cercare il dialogo, malgrado tutto, per districare il suo paese dall'imbroglio mediorientale in cui l'ha ficcato Bush, ciò che è impossibile senza un'intesa con l'Iran. O smentisce se stesso, dimostrando di non avere una rotta, per evitare una gravissima crisi con Israele.

Con la sua provocazione, Ahmadinejad ha messo Obama con le spalle al muro. E noi europei con lui, per quel poco che contiamo. Soprattutto, rischia di portare in superficie il profondo dissidio fra Usa e Israele su come trattare l'Iran, finora tenuto in sordina in nome della profonda, intima amicizia fra i due popoli e i due Stati. Per Netanyahu e Lieberman le avances della Casa Bianca al regime dei pasdaran sono anatema. I militari israeliani sono pronti a colpire obiettivi iraniani, se Teheran si avvicinerà irrevocabilmente alla soglia della bomba atomica. Molti fra loro pensano l'abbia già fatto. Pare che il Mossad consideri la politica mediorientale di Obama un pericolo per la sicurezza di Israele e lo abbia fatto sapere al governo.

Gerusalemme, se necessario, farà da sola. Mirando al cuore del programma iraniano, sempre che di cuori non ve ne siano troppi per la sola aviazione israeliana.
Ma in caso di attacco israeliano ai siti nucleari persiani, il dilemma di Obama non sarà più tra vellicare Ahmadinejad o rassicurare Netanyahu. Sarà tra assistere all'incendio del Medio Oriente o intervenire al fianco di Israele per difenderlo dalle rappresaglie iraniane e islamiste. Dichiarando guerra al paese cui ha appena offerto un clamoroso segno di pace.

(21 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Maggio 04, 2009, 06:32:16 pm »

Rubrica il Punto

Il tabù della guerra nell’inferno di Kabul

di Lucio Caracciolo


Perché siamo in Afghanistan. Le vittime civili e l'avanzata dei talibani. L'Afpak di Obama. Guerra non guerra. Al fronte ci preoccupiamo più di come travestire la missione che di definirne scopi e strumenti.

Si spara e si uccide ogni giorno in quasi tutto l’Afghanistan, controllato per oltre due terzi dai ribelli, talebani e non solo. Ma per noi continua a non essere una guerra. Forse nemmeno la tragedia che si è consumata ieri presso Herat, dove nostri militari - in circostanze che vorremmo subito chiarite - hanno ucciso per errore una bambina di tredici anni, basterà a rompere il tabù che ci impedisce di dire a noi stessi cosa stiamo facendo in terra afghana. La guerra, appunto. Una guerra che rischiamo di perdere, insieme agli americani e agli altri alleati. Ma in cui abbiamo già perso la faccia, non avendo il coraggio di chiamare guerra la guerra. E di spiegare perché ne siamo parte, in vista di quali obiettivi. Proviamo a ricordarlo.

L’Italia è in Afghanistan per gli Stati Uniti. Punto. Vogliamo dimostrare al nostro maggiore alleato di essere un partner affidabile in un teatro in cui gli americani si giocano la reputazione di potenza leader nel mondo. In questa campagna si gioca, secondo l’interpretazione corrente nelle cancellerie occidentali, il destino stesso della Nato, che non reggerebbe alla sconfitta. E senza Nato ci troveremmo in una terra di nessuno quanto a sicurezza nazionale e rango internazionale. Per questo partecipiamo alla missione atlantica Isaf, che originariamente poteva parere una missione di pacificazione e stabilizzazione postbellica. Poco costosa e poco pericolosa.

Ma da parecchio tempo – quali che siano le intenzioni nostre e degli altri partecipanti – questa missione atlantica è di fatto inglobata nella guerra contro i talebani a guida angloamericana. Immaginare che si possa ritagliare per noi stessi o per chiunque altro uno spazio illibato in tale carnaio, significa giocare con la vita dei soldati nostri e alleati, oltre che con quella dei civili afghani. Basti ricordare che lo scorso anno, su 2.200 afghani non combattenti uccisi, il 40% circa sono stati vittime delle forze internazionali o di quelle di Kabul, da noi addestrate. Con ciò contribuendo a screditare lo pseudo-governo Karzai, raro esempio di inefficienza e corruzione, e favorendo il reclutamento di ribelli locali, come di terroristi che un giorno potrebbero colpirci a casa nostra.

C’è un rapporto diretto fra aumento delle vittime civili e avanzata talibana. Una progressione evidente anche nel settore occidentale, in cui è incardinato il grosso delle truppe italiane (2.350 uomini in tutto).

Negli ultimi mesi l’importanza strategica della guerra contro i taliban è cresciuta di molto. Obama ne ha fatto il fronte centrale dello sforzo bellico americano. Associandovi il Pakistan, che una frontiera inesistente divide dall’Afghanistan. Ecco l’”Afpak”. Buco nero in cui convivono jihadismo ascendente e pallidissimi poteri formali, bombe atomiche (pakistane) e contenziosi territoriali irrisolti, forse irresolubili. Di qui, secondo l’intelligence Usa, potrebbe un giorno partire il segnale per un altro 11 settembre. Stavolta con armi di distruzione di massa. Per conseguenza, Obama sta spostando una quota del contingente Usa in Iraq verso il fronte afghano-pakistano. Il rischio di cadere fra due sedie, perdendo posizioni in Mesopotamia senza conquistarne nell’Hindukush, è forte. Così come la consapevolezza che una vittoria militare è impossibile.

E che qualche rabberciato, provvisorio compromesso con questo o quel tagliagole  – non certo l’Afghanistan para-occidentale di cui si delirava un tempo, né il Pakistan liberaldemocratico evocato dalla propaganda – è il massimo cui possiamo aspirare.

Intanto gli americani chiedono a noi europei, italiani inclusi, più soldi e più soldati per l’Afghanistan. Ma quando Obama è venuto a dircelo, il mese scorso, non ha ottenuto che vaghe promesse. Poco più di nulla. Se l’”Afpak” è davvero la prova della persistenza in vita dell’alleanza occidentale, siamo fritti.

Sul terreno, poi, l’alleanza si è divisa in due tronconi, con  relativi sottogruppi. Quelli che combattono in prima linea senza limitazioni di brutalità, a cominciare da americani, canadesi e britannici; e quelli che cercano di non farlo, in ossequio all’interpretazione più restrittiva della missione Nato e di ogni sorta di caveat. Tra cui noi, o almeno la gran parte del nostro contingente Isaf. Con ciò attirandoci qualche sarcasmo da parte degli alleati angloamericani, i quali pensavamo di compiacere  spingendoci fin lì. E persino le recriminazioni di europei più disposti al rischio, come i danesi. Insomma, noi fra due sedie ci siamo finiti da un pezzo. Per eccesso di furbizia.

L’Italia è un paese sovrano che può decidere se combattere o meno una guerra, dopo averne discusso come si conviene in democrazia. Ma quando mandiamo nostri soldati al fronte, spesso ci preoccupiamo più di come travestire la missione che di definirne scopi e strumenti. Così ci capita di attaccare un paese – la Jugoslavia – spacciando una campagna di bombardamenti aerei come “difesa integrata”, oppure di trovarci coinvolti nella guerra che gli Stati Uniti considerano decisiva senza trovare la forza di comunicarlo a noi stessi.

Pare che a Herat, ieri, la pioggia fosse talmente fitta da ridurre al minimo la visibilità. Ma all’origine di quella tragedia non c’era solo l’oscurità meteorologica. C’era - e resta - anche la foschia che noi stessi abbiamo sparso attorno ai nostri soldati, ai loro compiti e ai mezzi di cui dovrebbero disporre per eseguirli. Se non disperderemo questa nebbia strategica, continueremo a pagarne le conseguenze. E a farle pagare a chi non vorremmo.    .


(4/05/2009)
da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Maggio 18, 2009, 05:05:53 pm »

Mini-editoriale

Limes 2/09 Esiste l'Italia? Dipende da noi

Beati gli stupidi


di Lucio Caracciolo

La regola del "come se" a fondamento della nostra identità nazionale. L'esistenza dell'Italia dipende da noi. I due pilastri geopolitici italiani: ricompattarci e agganciarci al resto del mondo. Il ruolo degli immigrati.

Oggi noi italiani non possiamo contare sugli altri né vogliamo contare su noi stessi. Sicché fingiamo. Di contare e di essere contati. E’ la regola del come se. Così illustrata al direttore di questa rivista da un decisore politico italiano: “Vede, noi sappiamo benissimo quanto poco siamo considerati dai nostri partner, anche perché noi stessi tendiamo a fustigarci. Ma che dobbiamo fare? Facciamo come se contassimo davvero. Mimiamo lo Stato che non abbiamo”.

Cinismo? Realismo? Banale istinto di conservazione? Di certo non possiamo sfuggire alla questione esistenziale che ci perseguita da quando siamo nati come Stato, nemmeno un secolo e mezzo fa. Se noi italiani sprezziamo l’utilità delle nostre istituzioni, mentre il resto del mondo ci conosce come il Belpaese cantato da Petrarca ma non ci riconosce come attore sulla scena internazionale, è giusto chiederci se l’Italia sia realtà o sogno. Dobbiamo quindi aggiungere il punto interrogativo al titolo del primo volume da noi dedicato a noi stessi, ormai quindici anni fa, e chiederci: a che serve l’Italia? Di più: l’Italia esiste? O è come se esistesse?

A conclusione del suo ponderoso saggio sulla nostra storia moderna e contemporanea, lo storico britannico Christopher Duggan mette l’Italia tra virgolette: “E al principio del nuovo millennio l’’Italia’ continuava ad apparire un’idea troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, o almeno di una nazione in pace con se stessa e capace di guardare con fiducia al futuro”. Al lettore di stabilire se le virgolette siano pertinenti. A noi di ricordare che questa “Italia” non è frutto della forza del destino – verdiano titolo dello studio di Duggan – ma di ciò che noi decidiamo ogni giorno di farne. Se l’Italia - senza virgolette - esiste o meno, dipende da noi. Dall’idea che ne coltiviamo. E dalla volontà di cambiarla, se non ci piace. (…)

Non credere al destino, ma progettare l’avvenire a partire dalla spietata ricognizione dell’Italia d’oggi, implica due movimenti geopolitici paralleli: ricompattarci e riagganciarci al resto del mondo. Due pilastri della medesima strategia, che staranno o cadranno insieme.

La partita centrale riguarda l’integrazione degli stranieri che vengono in Italia per restarci, soprattutto dei loro figli e nipoti. Questa sfida decide in buona misura sia del ricompattamento interno che del riaggancio esterno. Se la perdiamo siamo perduti. Se la vinciamo abbiamo ristabilito le fondamenta dell’Italia. Contrariamente a quanto molti pensano sfogliando le cronache dei giornali, l’attrazione del nostro modo di convivere nei confronti dei figli di immigrati è notevole.

Oggi vivono da noi circa 4 milioni di stranieri, di cui almeno mezzo milione clandestini. Su quasi 60 milioni di abitanti, si tratta del 6,7% della popolazione. Siamo in proporzione il paese al mondo che attrae più migranti. Un flusso vorticoso, ingestibile dallo Stato, orientato dalle singole comunità etniche e dai loro capi, intermediari fra paese d’origine e Belpaese d’accoglienza o di transito. Abbiamo in casa un mondo variopinto: i sei principali ceppi d’immigrati - composti largamente da giovani, dei quali uno su dieci nato in Italia - provengono da Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina e Filippine. (...)

Gli italiani del XXI secolo saranno sempre meno bianchi e cristiani o non saranno.

(7/03/2009)
DA TEMI.REPUBBLICA.IT/LIMES
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« Risposta #25 inserito:: Maggio 27, 2009, 10:02:29 am »




di Lucio Caracciolo


I tre scopi del regime di Pyongyang. Un gioco non nuovo. Le preoccupazioni di Corea del Sud e Giappone.

Il ruolo della Cina. Obama sulla falsariga di Bush.

(articolo pubblicato sui giornali locali dell'Espresso)



E così ci risiamo. Il regime nordcoreano fa sapere al resto del mondo che esiste e ha bisogno di aiuto per sopravvivere (lui, non il “suo” popolo). Lo fa con i suoi metodi, facendo esplodere sotto terra una bomba atomica che, a quanto pare, è di potenza equivalente a quella che distrusse Hiroshima.

Gli scopi di questa detonazione sono almeno tre.

Primo: segnalare al mondo che il regime è pronto a difendere se stesso con qualsiasi mezzo, caso mai qualcuno pensasse di rovesciarlo.

Secondo: sviare l’attenzione dei nordcoreani dalla più che critica situazione economica e, soprattutto, dalle sorde lotte di successione che starebbero avvenendo intorno al leader Kim Jong Il, apparentemente malato.

Terzo: chiedere e possibilmente ottenere dagli americani e dal resto del mondo soldi in cambio della rinuncia a sviluppare un vero e proprio arsenale nucleare.

È un gioco non nuovo, ma rischioso. Kim Jong Il e i suoi contano sul fatto che subiranno al massimo qualche dura riprovazione verbale, ma nessuna effettiva sanzione. È probabile che sia così, nel breve termine. Ma l’esperimento di ieri, condito da un nuovo lancio di prova del missile Taepodong, contribuisce ad accendere gli animi ed, eventualmente, a fornire pretesti per incidenti anche militari in una zona permanentemente calda com’è la penisola coreana.

È soprattutto in Corea del Sud e in Giappone che la bomba sotterranea esplosa da Kim Jong Il suscita preoccupazione. Sia a Seoul che a Tokio non mancano coloro che considerano troppo morbido l’atteggiamento di Stati Uniti, Cina e Russia sulla questione nordcoreana. E non vedrebbero male un innalzamento della tensione tale da costringere le principali potenze a stringere il cappio attorno al collo del despota di Pyongyang.

Finora in questo scenario Obama ha mantenuto la rotta disegnata da Bush. Privilegiando il dialogo e il negoziato, pur in presenza di un regime infido e misterioso nelle sue strutture interne. La ragione principale di questa cautela americana sta nella consapevolezza di non potersi esporre in un nuovo teatro di crisi. Gli Stati Uniti sono talmente impegnati nel Grande Medio Oriente, da un punto di vista militare, finanziario e geostrategico, da escludere, non fosse che per mancanza di mezzi, una mobilitazione nella penisola coreana.

Ciò ha significato finora affidarsi quasi totalmente alla Cina, in quanto potenza regionale dotata dei canali utili a mantenere i contatti con Pyongyang e a domarne gli istinti più irrazionali. In assenza di alternative, Obama continuerà a seguire questo copione. A meno che i contrasti interni al regime di Pyongyang o le provocazioni di qualche altro paese non lo costringano a intervenire.

(26/05/2009)
da Limes
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« Risposta #26 inserito:: Luglio 19, 2009, 05:00:21 pm »

Lei non sa chi siamo noi

di Lucio Caracciolo


Nel nostro Paese si fa politica senza averne una ormai da un ventennio. Ossia da quando abbiamo perso riferimenti come la Nato, l'Europa e il Vaticano che per anni hanno definito il nostro ruolo nel mondo  Silvio BerlusconiSi può fare politica estera senza averne una. Produrre atti e documenti non per uno scopo, ma per numerarli secondo protocollo. Il risultato non conta. Ma a fine giornata si può ben dire di aver fatto qualcosa. Gli psicologi la chiamano terapia dell'occupazione.

È l'esercizio in cui il nostro Paese eccelle da almeno un ventennio. Da quando abbiamo perso i riferimenti che segnavano il nostro posto nel mondo: Nato, Europa e Vaticano. Eravamo atlantici, europeisti e vaticani, ma sempre all'italiana.

Nell'ordine della guerra fredda, riuscivamo a irrorare la triplice radice della nostra collocazione geopolitica con qualcosa di nostrano (mediterraneismo, Ostpolitik ed eresie minori, tutte tollerabili dalla potenza leader americana). Oggi non più. Non per colpa di qualche maligno tratto del carattere italiano, ma solo perché le tre stelle della nostra costellazione sono spente. All'anagrafe risultano, certo, ma non irradiano più alcuna missione. Oppure ne producono di totalmente cacofoniche.

Per i nostri leader politici - e in genere per la classe dirigente italiana, se questo termine ha senso - resta difficile valicare il passo alpino che separa l'eterodirezione ben temperata della guerra fredda dal 'mondo apolare' attuale. Non esistono fari né modelli da seguire, rispetto ai quali all'occorrenza scartare, sapendo di restare comunque nel gruppo. Ci arrangiamo. Talvolta cavandocela, talaltra producendo mezzi miracoli, più spesso slittando nel ridicolo.

La stella polare della politica estera italiana dal 1861 in poi è stata il tentativo di essere riconosciuta dalle grandi potenze almeno come sorella minore. Se non gemella (Crispi, Mussolini), nel qual caso l'alternativa è tra farsa e tragedia. La variante oggi dominante di questa sindrome è la politica della seggiola. I nostri miti dirigenti politici e diplomatici si scoprono feroci quando occorre proteggere una rendita di posizione.

Purtroppo, non si tratta di rendite geopolitiche o economiche che corrispondano a un interesse nazionale, ma di posti alla tavola dei parenti importanti. Sedie o predellini non importa, purché ci diano l'illusione di essere omologhi a chi non è mai sfiorato dall'idea di considerarci tali.

Così quando i nostri governi di centro-sinistra o di centrodestra pretendono di allinearci ai Grandi d'Europa, quasi appartenessimo alla categoria di Francia, Gran Bretagna e Germania. O quando inventiamo barocche ipotesi di riforma del Consiglio di sicurezza pur di impedire a Germania e Giappone di entrarvi senza di noi. In questo caso riscuotendo un provvisorio successo, che purtroppo non ha innalzato di nulla la nostra influenza nel mondo. Infine, quando cerchiamo di dare un senso al G8, anche se il G8 un senso non ce l'ha. Però lì abbiamo il posto.

L'ultima invenzione, praticata dal governo di centrodestra, consiste nel battezzare politica estera le relazioni private del nostro primo ministro. Sia chiaro: la diplomazia personale è importante. È un valore aggiunto. Ma solo per chi dispone di una strategia nazionale. Una persona, per quanto geniale, non può sostituire una politica. Corollario di tale interpretazione personalistica è il declassamento della tecnocrazia (Farnesina e non solo) e la svalutazione del ceto politico formalmente delegato a curare i nostri interessi nel mondo.

Non è un fenomeno solo italiano, ma noi ne abbiamo distillato la versione più pura. Anche per questo se prima contavamo poco, oggi contiamo meno. Risultato: le decisioni su di noi sono prese altrove, o non sono prese affatto. Nessuno lo sa meglio dei nostri operatori sulla scena internazionale (diplomatici, tecnici, militari e financo politici), eroicamente impegnati a fingere di essere ciò che non sono, che non siamo. Una politica virtuale, ma con tutte le carte e i bolli di rigore. Lavoro più duro non c'è.

(19 giugno 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:56:20 pm »

Lei non sa chi siamo noi

di Lucio Caracciolo


Nel nostro Paese si fa politica senza averne una ormai da un ventennio. Ossia da quando abbiamo perso riferimenti come la Nato, l'Europa e il Vaticano che per anni hanno definito il nostro ruolo nel mondo
 Silvio BerlusconiSi può fare politica estera senza averne una. Produrre atti e documenti non per uno scopo, ma per numerarli secondo protocollo. Il risultato non conta. Ma a fine giornata si può ben dire di aver fatto qualcosa. Gli psicologi la chiamano terapia dell'occupazione.

È l'esercizio in cui il nostro Paese eccelle da almeno un ventennio. Da quando abbiamo perso i riferimenti che segnavano il nostro posto nel mondo: Nato, Europa e Vaticano. Eravamo atlantici, europeisti e vaticani, ma sempre all'italiana.

Nell'ordine della guerra fredda, riuscivamo a irrorare la triplice radice della nostra collocazione geopolitica con qualcosa di nostrano (mediterraneismo, Ostpolitik ed eresie minori, tutte tollerabili dalla potenza leader americana). Oggi non più. Non per colpa di qualche maligno tratto del carattere italiano, ma solo perché le tre stelle della nostra costellazione sono spente. All'anagrafe risultano, certo, ma non irradiano più alcuna missione. Oppure ne producono di totalmente cacofoniche.

Per i nostri leader politici - e in genere per la classe dirigente italiana, se questo termine ha senso - resta difficile valicare il passo alpino che separa l'eterodirezione ben temperata della guerra fredda dal 'mondo apolare' attuale. Non esistono fari né modelli da seguire, rispetto ai quali all'occorrenza scartare, sapendo di restare comunque nel gruppo. Ci arrangiamo. Talvolta cavandocela, talaltra producendo mezzi miracoli, più spesso slittando nel ridicolo.

La stella polare della politica estera italiana dal 1861 in poi è stata il tentativo di essere riconosciuta dalle grandi potenze almeno come sorella minore. Se non gemella (Crispi, Mussolini), nel qual caso l'alternativa è tra farsa e tragedia. La variante oggi dominante di questa sindrome è la politica della seggiola. I nostri miti dirigenti politici e diplomatici si scoprono feroci quando occorre proteggere una rendita di posizione.

Purtroppo, non si tratta di rendite geopolitiche o economiche che corrispondano a un interesse nazionale, ma di posti alla tavola dei parenti importanti. Sedie o predellini non importa, purché ci diano l'illusione di essere omologhi a chi non è mai sfiorato dall'idea di considerarci tali.

Così quando i nostri governi di centro-sinistra o di centrodestra pretendono di allinearci ai Grandi d'Europa, quasi appartenessimo alla categoria di Francia, Gran Bretagna e Germania. O quando inventiamo barocche ipotesi di riforma del Consiglio di sicurezza pur di impedire a Germania e Giappone di entrarvi senza di noi. In questo caso riscuotendo un provvisorio successo, che purtroppo non ha innalzato di nulla la nostra influenza nel mondo. Infine, quando cerchiamo di dare un senso al G8, anche se il G8 un senso non ce l'ha. Però lì abbiamo il posto.

L'ultima invenzione, praticata dal governo di centrodestra, consiste nel battezzare politica estera le relazioni private del nostro primo ministro. Sia chiaro: la diplomazia personale è importante. È un valore aggiunto. Ma solo per chi dispone di una strategia nazionale. Una persona, per quanto geniale, non può sostituire una politica. Corollario di tale interpretazione personalistica è il declassamento della tecnocrazia (Farnesina e non solo) e la svalutazione del ceto politico formalmente delegato a curare i nostri interessi nel mondo.

Non è un fenomeno solo italiano, ma noi ne abbiamo distillato la versione più pura. Anche per questo se prima contavamo poco, oggi contiamo meno. Risultato: le decisioni su di noi sono prese altrove, o non sono prese affatto. Nessuno lo sa meglio dei nostri operatori sulla scena internazionale (diplomatici, tecnici, militari e financo politici), eroicamente impegnati a fingere di essere ciò che non sono, che non siamo. Una politica virtuale, ma con tutte le carte e i bolli di rigore. Lavoro più duro non c'è.(19 giugno 2009)
 
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:57:32 am »

L'ANALISI.

Siamo a Kabul al seguito degli Stati Uniti.

Ma dovremmo avere una posizione nostra come fanno tutti gli altri alleati

La strategia per uscire dall'inferno afgano

di LUCIO CARACCIOLO


Morire per Kabul? Il sacrificio dei nostri paracadutisti impone di rispondere a questa domanda. Per rispetto dei caduti e per responsabilità verso noi stessi. Con la sobrietà che il dolore consente. Con la gravità che la guerra induce.

Sì, guerra: la parola che i nostri dirigenti politici e militari hanno sempre scansato. Mancando così al dovere di verità che la democrazia pretende da chi ne esercita le magistrature.

La sconfortante cacofonia dei nostri governanti, dal "tutti a casa" di Bossi a "la missione continua" di La Russa, con Berlusconi in precario equilibrio fra i due inconciliabili estremi, non onora questo debito.

Al di là della retorica pubblica, finora la razionalizzazione prevalente fra i sostenitori dell'impegno afgano era piuttosto semplice: l'Italia ha seguito in Afghanistan i suoi alleati atlantici. Non vi persegue interesse altro dal proteggere il suo rango di paese Nato. Dunque considera vitale il successo della missione di "stabilizzazione e assistenza". A Kabul ci giochiamo nientemeno che l'alleanza con Washington. Si può condividere o meno tale interpretazione - probabilmente forzata, giacché Obama ha altre urgenze rispetto alla compartecipazione italiana all'impresa afgana. Peccato tacerla, o riservarla ai seminari off the record, senza fornirne un'altra che non suoni retorica.

Ma se siamo a Kabul al seguito degli Stati Uniti, conviene almeno conoscere gli obiettivi della guerra, secondo chi l'ha promossa e continua a guidarla. "Lo scopo principale degli Stati Uniti dev'essere quello di distruggere, smantellare e sconfiggere al-Qaida e i suoi santuari in Pakistan e prevenire il suo rientro in Afghanistan e Pakistan": parola di Obama (27 marzo 2009). Otto anni di combattimenti non sono bastati agli americani per sconfiggere la piovra jihadista responsabile dell'11 settembre. Quasi il doppio del tempo impiegato dalla nascente superpotenza per vincere le due guerre mondiali, con i decisivi interventi del 1917-18 e del 1941-45. A meno di non considerare bin Laden più potente degli imperi di Germania e Giappone, occorrerà ammettere che qualcosa non torna. Vediamo.

In primo luogo, è escluso che qualsiasi potenza straniera possa assumere direttamente il controllo dell'"Afpak". Obama lo sa bene. Per questo punta sull'"afganizzazione" del conflitto. Ma la sua priorità è il Pakistan: qui è costretto a servirsi dei poco affidabili capi militari in quanto unico potere effettivo, deputato a impedire che l'arsenale atomico finisca ai terroristi.

Opzioni sensate, sulla carta. Sul terreno è un po' diverso: in Afghanistan manca lo Stato, mentre ciò che ancora funziona di quello pakistano - Forze armate e intelligence - ha inventato i taliban e continua a utilizzarli come affiliati nel braccio di ferro con l'India.
In secondo luogo, la strategia di controinsurrezione varata dal nuovo comandante Usa/Nato, generale McChrystal, dosa repressione militare e conquista "dei cuori e delle menti" della popolazione locale.

Obiettivo: impedire che gli insorti, taliban o banditi d'altra specie, continuino a reclutare giovani disoccupati per mandarli a morire contro gli "infedeli invasori" (tra cui noi). In assenza di un potere afgano che possa contribuire allo scopo, il compito cade sulle spalle della missione a guida Nato e in specie degli americani. Ma come testimonia il recente massacro di Kunduz, la repressione armata colpisce i civili quanto i terroristi. Se i soldati atlantici - in quel caso tedeschi - non vogliono o non possono affrontare i taliban sul terreno, cercano di colpirli dall'alto, con i risultati che vediamo. Così si alimenta la rivolta che si vorrebbe sedare. Né basta pagare qualche signorotto locale perché tenga a bada i suoi uomini di mano. I capibastone sanno bene che potranno intascare i dollari americani solo se la strage continua.
Torna alla mente la sentenza di un ufficiale ex sovietico, veterano della campagna contro i mujahidin: "La Nato in Afghanistan ha fatto un solo errore. Entrarci".

Che fare, dunque? Facile affermare che siamo parte di un'alleanza e quindi facciamo quel che decide la Nato, ossia l'America. Proprio perché partecipiamo a una missione internazionale, abbiamo il dovere di elaborare, esporre e sostenere il nostro punto di vista.

Come fanno i nostri partner. Nessuno escluso.
Ora, molti fra i responsabili dei paesi che partecipano ad Isaf sembrano convinti che la vittoria sia impossibile. Ma non osano confessarlo. Soprattutto perché non sembrano disporre di alternative. Ma fra sognare un utopico trionfo e rassegnarsi alla catastrofe c'è un universo di sfumature. E' lo spazio della politica e della fantasia strategica. Proviamo a riempirlo, proponendo qualche variazione a uno spartito tragicamente dissonante. Consapevoli che perseverare in un approccio che dopo otto anni ci riporta alla casella di partenza è puro masochismo.

Anzitutto, ricalibriamo l'obiettivo. L'Afghanistan non diventerà uno Stato e tantomeno una democrazia nel tempo prevedibile. Per limitare il rischio che si riduca a buco nero permanente, a disposizione dell'internazionale jihadista, occorre puntare su un equilibrio dinamico, non istituzionalizzato. Inutile, anzi suicida, inventare paradossali "elezioni", quasi fossimo in Occidente, con il risultato che chiunque le "vinca" - a cominciare da colui che più di tutti le ha truccate, il presidente Karzai - non potrà esercitare alcuna autorità.

Badiamo al sodo: nella storia afgana il potere centrale è funzione di quello locale. Mai viceversa. Come vuole la tradizione e come consente perfino la costituzione, azzeriamo la truffa e torniamo alla fonte del potere, convocando una loya jirga. Una grande assemblea dei capi tribali e dei rappresentanti delle etnie, banditi inclusi, che pullulano nel mosaico afgano. Questo "comitato di salute pubblica" si doterà di un presidente abilitato a trattare col resto del mondo, a nome dei feudatari - i signori della droga e della guerra - che contano davvero. E che dovrebbero condividere un certo interesse a liberarsi da ciò che residua di al-Qaida almeno quanto vorrebbero emanciparsi dall'occupazione occidentale (non dal nostro aiuto economico, peraltro modesto).

Per finirla con la guerra dei trent'anni, riportare i ragazzi a casa e continuare la caccia ai terroristi con operazioni puntuali in un territorio meno ostile, ci serve un potere legittimo. Non secondo noi, secondo gli afgani. Qualcuno dovrà spiegarlo anche al signor Karzai.

Per questo non basta il consenso degli atlantici. Il nuovo potere afgano deve (s)contentare in misura accettabile tutte le potenze regionali. Una conferenza internazionale che riunisca insieme ad americani e atlantici i paesi vicini o interessati, dal Pakistan all'Iran, dalla Cina all'India e alla Russia, potrebbe coronare il processo di rilegittimazione dell'Afghanistan. Senza illudersi che sia pacifico e definitivo. Scontando anzi quel grado di ingovernabilità e di violenza insito nella natura non statuale del territorio che sulle nostre carte persistiamo a colorare d'una tinta unitaria, quasi fosse la Francia o l'Olanda.

Probabilmente è tardi. Ma se questo scenario appare irrealistico, meglio dirlo subito. E avviare il ritiro delle truppe. In nome del nostro interesse di Stato democratico sovrano.

(18 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 09, 2009, 06:57:46 pm »

Obama: un Nobel sulla fiducia

di Lucio Caracciolo

Il presidente americano ottiene un premio preventivo. Un incoraggiamento alle intenzioni.

Il premio ora gli rende più difficile accettare la richiesta dei generali per più truppe in Afghanistan.



Di norma i premi si danno a chi vince. In questo caso lo si è dato a chi vorrebbe vincere. Barack Obama ottiene il più famoso riconoscimento internazionale per i suoi coraggiosi sforzi per favorire la pace nel mondo e liberarlo dall’incubo nucleare. Consideriamolo un premio preventivo. Un incoraggiamento alle intenzioni affinché diventino fatti.

La scelta unanime del comitato Nobel conferma la straordinaria popolarità globale del presidente Obama, proprio mentre il consenso nazionale (all’interno degli Stati Uniti) appare in declino. Un trofeo di questo valore non può che vincolare ulteriormente Obama a ciò che ha detto e ripete da quando ha preso possesso dello studio ovale alla Casa Bianca. E cioè che gli Stati Uniti vogliono dialogare con tutti, angeli e diavoli, per il bene superiore della pace.

Nei prossimi mesi e anni verificheremo quanti e quali delle intenzioni e delle iniziative obamiane saranno coronate dal successo. Certo, ora sarà più difficile per un premio Nobel per la pace corrispondere alle richieste dei suoi generali che vorrebbero aumentare la presenza militare in Afghanistan. In questo senso, almeno, la decisione di Oslo incontra la prevalente opinione di un’America stanca di guerra.

(9/10/2009)
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