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Autore Discussione: LUCIO CARACCIOLO.  (Letto 35202 volte)
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« inserito:: Febbraio 12, 2008, 03:36:30 pm »

Lucio Caracciolo

Perché vincono i talebani

La forza degli studenti coranici non è solo militare. Deriva soprattutto dal fallimento del regime di Kabul e dei suoi sostenitori occidentali. In molte aree, gli insorti possono garantire sicurezza e relativo 'buongoverno'  Hamid KarzaiOgni frittata comincia dalle uova. Noi occidentali stiamo fallendo in Afghanistan perché abbiamo immaginato di cucinare la nostra omelette ideale - un Paese relativamente sicuro e vagamente assimilabile agli standard democratici - con uova marce. Perché tale è la produzione locale, anche se ci riesce difficile ammetterlo.

Quali sono infatti gli attori afgani che dovrebbero produrre il miracolo? Sul campo non troviamo Jefferson né Mill, ma quattro categorie di potenti locali, o aspiranti tali. Signori della guerra e della droga; capimafia vestiti da capiclan e viceversa; talebani e altri insorti; residui qaedisti, ossia cellule dell'internazionale jihadista a suo tempo allestita da Osama Bin Laden e associati. In un contesto di caos relativamente calmo nelle province occidentali, di guerriglia intensa in quelle sud-orientali, con la violenza jihadista che colpisce ormai dentro Kabul. Dove è asserragliato, custodito dai suoi sempre più scettici protettori atlantici, il presidente pro forma Hamid Karzai, noto come 'sindaco di Kabul'. Il quale continua a decantare i progressi della pacificazione ai suoi visitatori occidentali, salvo preoccuparsi soprattutto di salvare la pelle.

L'insurrezione di matrice talebana associa sotto l'ombrello jihadista gruppi e individui disparati, compresi ladri di strada e altri banditi. Negli ultimi mesi, grazie alle rivolte che incendiano le aree tribali del Pakistan, i corridoi transfrontalieri che connettono i combattenti afgani ai fratelli pakistani sono persino più liberi del solito, perché le truppe di Islamabad devono curare anzitutto il fronte interno. Mentre i convogli logistici che dal Pakistan riforniscono americani e alleati in Afghanistan finiscono spesso sotto il tiro dei ribelli.

Oggi i talebani hanno l'iniziativa, Stati Uniti e Nato reagiscono. Senza disporre nemmeno lontanamente delle truppe e dei mezzi necessari all'occupazione di un territorio tanto vasto e impervio
. E in totale carenza di un obiettivo strategico chiaro e realistico. La forza dei talebani non è solo militare. Deriva soprattutto dal fallimento del regime di Kabul e dei suoi sostenitori occidentali. In molte aree, gli insorti possono garantire sicurezza e relativo 'buongoverno' - secondo gli standard locali - assai più dei funzionari teoricamente afferenti a Karzai. La cui polizia ultracorrotta, perfino più delle raffazzonate Forze armate afgane, non contribuisce a migliorare la fama del 'governo centrale'. La mano forte talebana sembra produrre più consenso di quanto non ne suscitino le truppe della coalizione. Anche perché queste, soprattutto i soldati americani, ma non solo, continuano a sparare a casaccio, a danno dei civili più che dei jihadisti.

Malgrado gli sforzi delle strutture civili e militari internazionali che si sono installate in Afghanistan dal 2002 in avanti, la condizione economica e sociale del Paese resta tragica. Non basta allestire una scuola o un ospedale se non si può garantirne la sicurezza. Ma in questo contesto, con questi attori in campo, non può darsi sicurezza. E dunque nemmeno consenso.

Il nostro fallimento si riflette sui nostri protetti locali, a cominciare da Karzai. Il quale da tempo sonda il campo nemico, cercando di cooptare qualche 'talebano buono' nel suo gabinetto di fantasmi (è arrivato a proporre di entrarvi persino al mullah Omar).

Naturalmente possiamo tirare avanti ancora per qualche anno in questo vuoto strategico. Sacrificando i nostri soldi e soprattutto i nostri soldati. Ai quali qualcuno un giorno vorrà forse comunicare - se esiste - il senso della missione. E la ricetta della frittata.

(11 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 15, 2008, 09:33:10 pm »

Lucio Caracciolo

Un'altra guerra per Bush


L'intervento di truppe americane sul terreno pachistano è un progetto in avanzata fase di definizione. Pronto a diventare operativo per evitare che le armi nucleari finiscano in mani jihadiste  George BushDopo Afghanistan e Iraq, toccherà al Pakistan? L'intervento di truppe americane sul terreno pachistano non è fantascienza, ma un progetto in avanzata fase di definizione. Pronto a diventare operativo. Motivo: le armi nucleari o altre componenti del complesso atomico pachistano potrebbero finire in mani jihadiste a causa della dissoluzione dello Stato.

A oltre sei anni dall'11 settembre, questo progetto piuttosto avventuroso è sintomatico del punto in cui si trova la guerra americana al terrorismo. Nel dicembre 2001, dopo la caduta di Kabul, Bush e Blair avevano decretato la sconfitta dei talebani e la liberazione dell'Afghanistan. Mentre l'Occidente cantava vittoria, quel (molto) che restava dei talebani attraversava il confine del tutto teorico fra Afghanistan e Pakistan, protetto dai servizi segreti di Musharraf. Nulla di straordinario né di imprevedibile. Giacché la matrice di quei combattenti era pachistana. Sotto vari profili etnico-religiosi. Ma soprattutto in senso geostrategico.

Dal punto di vista di Islamabad, quei combattenti jihadisti erano uno strumento della strategia di sicurezza nazionale. Per la quale l'Afghanistan è decisivo per almeno due motivi: offre la 'profondità strategica' necessaria a contenere la pressione dell'India, nemico storico del Pakistan; e apre la strada verso l'Asia centrale, serbatoio di risorse energetiche e terra da recuperare all'influenza panislamica.

Oggi il Pakistan sembra minacciato di disfacimento. Corroso dai separatismi storici (baluci e non solo) e dal proliferare dell'estremismo islamico, finora questo avanzo d'India prodotto dalla frettolosa partizione del Raj britannico nel 1947 si è retto essenzialmente grazie alla stretta dell'apparato militare. Il quale, d'intesa con alcuni feudatari locali (come la famiglia Bhutto nella provincia del Sindh) ha di fatto perpetuato il regime coloniale. Solo che invece degli inglesi i colonizzatori sono indigeni, in particolare l'élite militare del Punjab, il 'Piemonte' pachistano.


Per gli americani il Pakistan era e resta uno Stato di frontiera. Durante la guerra fredda, in funzione antisovietica; dopo l'11 settembre, in funzione anti-jihadista. Sicché negli anni Ottanta il Pakistan servì da base per sostenere la guerriglia dei mujahidin in Afghanistan; vent'anni dopo, fu costretto da Bush a collaborare, molto malvolentieri, alla liquidazione dei 'suoi' agenti a Kabul, i talebani. La cooperazione di Musharraf fu talmente incerta e ambigua da garantire comunque la sopravvivenza delle strutture talebane. Il famigerato mullah Omar vive tranquillo nella città pachistana di Quetta, protetto dai servizi segreti locali. E da lì continua a mantenere i collegamenti con le sue formazioni attive nella fascia a maggioranza pashtun, a cavallo della frontiera con l'Afghanistan.

Per gli Stati Uniti il ritorno al potere dei talebani a Kabul e il crollo del regime militare a Islamabad sarebbero più che catastrofici. Sancirebbero la sconfitta nella guerra inaugurata dopo l'11 settembre. E se davvero qualche fanatico arcinemico dell'America mettesse le mani su alcune componenti del sistema nucleare pachistano, il pericolo di un attacco sul territorio statunitense con armi di distruzione di massa apparirebbe imminente. Ecco perché già decine di uomini, tra spie e agenti speciali, sono in Pakistan. Per ora (quasi) in incognito, a sostegno della lotta antiterrorismo più o meno condotta da Musharraf. Domani, molti altri potrebbero aggiungersi, per mettere le mani sul nucleare pachistano, prima che lo facciano altri.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 07, 2008, 03:07:51 pm »

ESTERI IL COMMENTO

La coscienza dell'odio

di LUCIO CARACCIOLO


In Medio Oriente i pessimisti hanno quasi sempre ragione. L'orrendo attentato di ieri sera a Gerusalemme conferma lo scetticismo di quanti hanno sempre pensato che il "processo di Annapolis" fosse fumo. L'ennesimo esercizio diplomatico-mediatico totalmente estraneo alla realtà del terreno. E la realtà è che Israele si appresta a celebrare il sessantesimo anniversario della fondazione sotto il fuoco degli attentati nel cuore della sua capitale, dei razzi lanciati da Gaza verso Ashkelon e dintorni, delle incursioni terrestri contro la Striscia appena abbandonata e subito conquistata da Hamas. Se non è guerra aperta, poco ci manca.

Il Muro non basta a fermare il terrorismo palestinese. Non vi sono misure di sicurezza che possano garantire l'impenetrabilità di Israele. Né d'altra parte si può immaginare che Gerusalemme accetti di convivere con l'Hamastan alle sue porte. I leader israeliani sono alle prese con l'incompatibilità dei loro due obiettivi strategici: consolidare Israele come Stato degli ebrei e mantenere il controllo dei Territori palestinesi.

Il primo precetto nasce dal vincolo demografico: nel giro di pochi anni la somma dei palestinesi abitanti a Gaza e in Cisgiordania, più gli arabi israeliani, sarà nettamente superiore al totale degli ebrei. Se manterrà la presa su Giudea e Samaria, Israele rischierà di scivolare verso lo Stato binazionale. Un'improbabile macedonia arabo-ebraica che annienterebbe l'opera di generazioni di sionisti. Il Grande Israele è la morte di Israele. Lo sanno bene anche gli ultranazionalisti, per i quali occorre costringere i palestinesi ad arrendersi all'idea che il loro Stato si farà, semmai, oltre il Giordano. Ipotesi piuttosto avventurosa, quanto meno perché prevede un biblico trasferimento di popolazioni, oltre al crollo del regime di Amman.

La seconda necessità deriva dalla coscienza dell'odio accumulato nei palestinesi, non importa di quale colore politico o religioso, dopo le umiliazioni e le vessazioni subìte dal 1948 a oggi. Una rabbiosa disperazione che induce i propositi più efferati, e sta radicando l'antiebraismo in modo indelebile nella popolazione araba della regione. Ma nessun esercito - tanto meno lo Tsahal attuale, assai meno motivato e ardimentoso di quello dei pionieri - può tenere in eterno sotto il proprio assoluto dominio una popolazione nemica. Più passano gli anni, più traspare la demoralizzazione di ufficiali e soldati costretti a fare i secondini di un popolo che non li tollera, anche se li teme.

Sicché i leader israeliani inclinano periodicamente verso l'una o l'altra priorità, senza potersi o volersi decidere. In più, oggi tutti sentono odore di elezioni e si profilano di conseguenza. A cominciare da Barak, che tiene molto a conquistarsi sul terreno di Gaza la fama di neo-falco. Per finire con Olmert, il più impopolare premier della storia dello Stato ebraico, che non vorrebbe essere ricordato dai posteri per tale primato, dopo aver già perso l'ultima campagna di Libano.

Sul fronte palestinese il quadro è ancora più sconfortante. Un popolo senza capo. Allo sbando. Abu Mazen è figura patetica, incapace di affermare una parvenza di autorità oltre il perimetro del suo quartier generale (anzi nemmeno in quello). I leader di Hamas - un'organizzazione sempre meno coesa, attraversata da lotte di clan e segnata dalle influenze esterne - sono asserragliati nella gabbia di Gaza e non riescono a uscirne. L'unico leader carismatico che potrebbe forse riunificare il campo palestinese, Marwan Barghuti, è ristretto nelle carceri israeliane, dove peraltro riceve un trattamento di riguardo: gli israeliani si riservano di giocare la carta Barghuti all'ultimo momento, se mai decideranno di aprire un serio negoziato di pace con il nemico. Per ora, non pare. Comunque, senza un interlocutore non si può trattare. E la furbizia di Sharon, che voleva negoziare con se stesso, non funziona più.

In un altro momento, gli Stati Uniti avrebbero potuto esercitare una certa pressione su entrambi i contendenti, soprattutto sui loro amici israeliani. Ma oggi Bush non ha l'autorità per dirimere la disputa. E l'opinione pubblica americana è concentrata sulle elezioni di novembre. Bisognerà probabilmente attendere il verdetto di quel voto per sperare che da Washington un nuovo, autorevole e coraggioso presidente si decida a smentire i pessimisti, imponendo quella pace che i belligeranti, oggi, non riescono nemmeno a immaginare.

(7 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 07, 2008, 03:24:31 pm »

«Non possiamo non difenderci da questa barbarie»

Wiesel: «Hanno colpito come i nazisti»

Lo scrittore, Nobel per la pace: «Anch'io allevato in una yeshiva. Mi sono sentito uno di loro»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
 

NEW YORK — «Anche se tutti gli attacchi terroristici sono intrisi di strazio e orrore, questo passerà alla storia come uno dei peggiori». Elie Wiesel, il grande scrittore sopravvissuto ad Auschwitz e Premio Nobel per la pace nel 1986, ha appreso la notizia dell'attentato al collegio rabbinico di Gerusalemme dalla radio, mentre si recava in taxi all'aeroporto. «È stato l'ennesimo tuffo al cuore, ma ancora più pungente e doloroso del solito », racconta al telefono il 79enne Wiesel, la voce rotta dalla commozione. «Un tuffo nel passato».
Immagino si riferisca ai suoi trascorsi di studente rabbinico in una yeshiva della Transilvania, di cui parla nel suo capolavoro del 1958 «La Notte»?
«Sì. Anch'io da piccolo ho frequentato la scuola religiosa per ragazzi, prima che Hitler e il nazismo spezzassero per sempre il mio sogno di diventare rabbino, come i miei nonni. Oggi mi sono identificato completamente in quei ragazzi trucidati. Mi sono sentito uno di loro».
Che cosa ricorda degli anni alla yeshiva?
«Ricordo i ripassi metodici e ripetitivi dell'alfabeto ebraico, Alef, Bet, Gimel. Ricordo le peot, i lunghi capelli ai lati del volto che anch'io avevo, nella tradizione degli ortodossi chassidici. Ricordo le grandi stanze immerse nella penombra, il silenzio, la meditazione. Ricordo lo studio del Talmud, una passione che mi ha accompagnato fino a oggi».
Si è chiesto il perché di questa mattanza?
«Non esiste un perché. Entrare nel sacro tempio del sapere, dove giovani vulnerabili e innocenti non fanno null'altro che studiare e pregare, soltanto per ucciderli, è la prova che il nemico è disposto a oltrepassare i limiti dell'umanità. Sono forse uomini quelli?».
L'attentato alza il livello dello scontro?
«Di certo dimostra che il presidente palestinese Abu Mazen non riesce a controllare il suo stesso popolo. Se ciò è vero, come pare ormai chiaro, cosa dovrebbe fare Israele?».
La sua risposta?
«Nessun Paese al mondo permetterebbe mai a dei killer di penetrare impunemente nelle sue scuole per assassinare, ferire, azzoppare e storpiare giovani innocenti. Israele non può non difendersi da questi continui attacchi».
Perché hanno colpito proprio quel bersaglio?
«Perché da sempre i nemici del popolo ebraico prendono di mira scuole e sinagoghe. Nel Medioevo, così come durante l'occupazione nazista dell'Europa, i luoghi di culto, studio e preghiera furono i primi a essere bersagliati. E, immancabilmente, i primi a essere distrutti. Penso che chi ha colpito sia animato dallo stesso odio che infiammava i criminali nazisti».
Di chi è la colpa?
«La risposta la darà l'indagine che dovrà cercare di scoprire soprattutto l'identità dei maestri di quei terroristi suicidi. Chi ha instillato nelle loro menti un odio tanto profondo da indurli a compiere quel gesto di inenarrabile crudeltà è altrettanto colpevole. Perché non ci sono parole per definire questi orrori».
Pensa che la responsabilità sia di Hamas?
«Hamas è a Gaza, non in Cisgiordania. Non credo sia stata necessariamente Hamas. Cercherei anche e soprattutto altrove».
E adesso?
«La priorità per Israele e il resto del mondo è combattere i terroristi suicidi che non sono nient'altro che criminali contro l'umanità. Il loro operato è pericoloso specialmente adesso, quando abbiamo bisogno di tutta la buona volontà del mondo per rinnovare i negoziati tra Israele e palestinesi. Che non possono né devono fermarsi».


Alessandra Farkas
07 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:26:37 am »

Lucio Caracciolo

L'eredità di George Bush


Il prossimo presidente degli Stati Uniti avrà un compito difficile. Dovrà far dimenticare all'America e al mondo gli otto anni di George W.Bush, considerati disastrosi, soprattutto in politica estera  George BushChiunque sia il prossimo presidente degli Stati Uniti, partirà con l'apertura di credito che spetta a chi segue un fallimento. Perché in America come nel resto del mondo, gli otto anni di George W. Bush sono considerati più o meno disastrosi, specie quanto alla politica estera. Ma non è affatto scritto che il nuovo inquilino della Casa Bianca possa far dimenticare gli insuccessi afghano e iracheno.

Cominciamo dall'eredità di Bush junior. Il quale appare oggi come il leader che ha giocato e perso la carta della 'guerra al terrorismo' per affermare il 'momento unipolare'. Ossia per consolidare gli Stati Uniti come unica superpotenza. Ciò grazie all'effetto delle due campagne, previste rapide e vittoriose, su Kabul e Baghdad. È successo il contrario: le guerre sono ancora in corso e gli Usa non sanno come uscirne senza perdere la faccia. E l'insabbiamento americano ha contribuito a risvegliare gli appetiti di potenza di vecchi e nuovi rivali, dalla Russia alla Cina ad altri ancora, vincitori provvisori della 'guerra al terrorismo'. Al di là del contenimento del terrorismo islamico, sarà nel rapporto con cinesi e russi che si giocherà la grande partita geopolitica planetaria di questo secolo.

Ne sono consapevoli tutti gli aspiranti alla Casa Bianca, da Barack Obama a Hillary Clinton e a John McCain. I quali devono quindi azzeccare la quadratura del cerchio: evitare la sconfitta nella 'guerra al terrorismo' e ristabilire le distanze con Mosca e Pechino, come si conviene a chi vuole comunque dettare le regole del gioco globale. Sarebbe vano interpretare le opzioni dei diversi candidati sulla base della semplice appartenenza al campo repubblicano o democratico. Lo spartiacque è molto più profondo e sottile: divide i realisti dagli idealisti. Certo, nessuno dei due gruppi è tagliato con l'accetta e la politica provvede a correggere preconcetti troppo rigidi (vale anche per l'ultimo quadriennio Bush, molto più pragmatico del primo). Ma in linea di principio tutti i presidenti americani sono chiamati a pagare un omaggio, spesso sincero, all'idealismo, salvo annacquarlo nel trial and error di ogni giorno.


Sotto Bush, la componente idealista - o meglio rivoluzionaria - ha preso inizialmente il sopravvento, lasciandosi peraltro utilizzare da interessi poco trasparenti (Cheney e il suo mondo imprenditoriale) e ancor meno patriottici. Negli ultimi anni, alla Casa Bianca è prevalsa la tecnocrazia istintivamente conservatrice, dai militari all'intelligence alla diplomazia e a parte del grande business, che ha cercato di impedire che l'avventurismo bushiano producesse altri danni.

È così che è stata bloccata in extremis la guerra all'Iran. Ma il dilemma resta: bombardare l'Iran o accettare la bomba iraniana? Sarà questa la prima sfida strategica del futuro presidente. A quanto pare McCain, alle strette, opterebbe per la prima ipotesi, e così pure Hillary, mentre Obama inclinerebbe per la scelta conservativa. In ogni caso l'Iran è la chiave di volta per stabilizzare l'Iraq e l'Afghanistan, per uscire dalle due campagne almeno con un 'pareggio', se non effettivo almeno tale nella percezione e nel giudizio dell'opinione pubblica americana. Teheran o la si blandisce o la si distrugge. Continuando a non scegliere, non si sciolgono i nodi della guerra al terrorismo. Ma solo dopo aver chiuso in qualche modo questa partita, il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America potrà dedicarsi a quella decisiva: come convivere con cinesi e russi nel secolo XXI.

(17 aprile 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:32:21 pm »

Dov'è finita la sinistra?

Lucio Caracciolo


In Europa i socialisti rimangolo al governo solo in Spagna. Una situazione dovuta all'assenza dei grandi obiettivi ormai ottenuti alla fine del secolo scorso dalle socialdemocrazie europee  Il premier spagnolo ZapateroSe restiamo alla superficie, constatiamo che della sinistra di governo europea non resta molto, dopo le batoste in Italia e in Gran Bretagna. Fra i grandi paesi europei, solo la Spagna è retta dai socialisti. In Germania la Spd, per quanto in crisi profonda, partecipa alla grande coalizione come azionista di minoranza. Dobbiamo dedurne che la sinistra europea ha esaurito la sua spinta propulsiva, come si sarebbe detto qualche anno fa? E che cosa ne consegue?

A scavare leggermente più a fondo, sotto l'affresco fin troppo mediatizzato delle recenti sconfitte elettorali - e fatte salve le notevoli differenze fra i diversi contesti - si scopre una trama meno univoca. Sullo sfondo, la ragione prima delle difficoltà delle sinistre, almeno di quelle riformiste: il Novecento si è chiuso sulla loro vittoria. I diritti di base dei lavoratori, la democrazia, lo Stato sociale, le libertà civili, sono realtà più o meno affermate nell'Europa occidentale. Dopo la fine della Guerra Fredda, fra molte contraddizioni, si stanno consolidando almeno in alcuni degli ex satelliti europei di Mosca. Non è facile - anzi è impossibile - reinventare un altro set di obiettivi paragonabili a quello per cui generazioni di militanti progressisti si sono dedicate da oltre un secolo.

Ha ancora senso, dunque, la sinistra? Non è una grandiosa ma ormai esausta pianta, che ha dato quanto poteva? Negli ultimi dieci-vent'anni molte persone culturalmente e biograficamente di sinistra sembrano essersene convinte, anche se non tutti lo confessano. Soprattutto ne sono convinti alcuni leader politici della sinistra, o almeno da essa provenienti. Per i quali si tratta di dichiarare chiusa la grande stagione novecentesca della socialdemocrazia e degli altri riformismi (comunismo italiano, entro certo limiti, compreso), inclusi i partiti strutturati sul territorio, di massa e con un forte grado di democrazia interna che quella vicenda hanno segnato.


Che cosa resta? Una politica molto leggera, fatta di riferimenti ecumenici, in cui termini come 'socialismo' o persino 'sinistra' sono banditi perché compromettenti. Non sufficientemente universali. Una politica a tutto spin. Che ha abbandonato una radicata cultura politica non per fondarne una nuova, ma illudendosi che non serva averne una propria. Che basti metterne insieme pezzi pescati ovunque, come in una scatola di Meccano. Se però alla fine resta solo la comunicazione, non c'è talento o carisma di leader che possa surrogare l'identità collettiva. La parabola del laburismo inglese, dal grande comunicatore Blair a 'Mr. Bean' Brown, insegna. Ex comunisti italiani e, in parte, socialisti francesi - insieme a molti altri - hanno provato a emulare il neolaburismo, con i risultati che conosciamo. E con la destra che si riscopre 'sociale', rubando alla sinistra metodi, obiettivi e infine elettori.

In un mondo complessivamente più ricco ma molto più diseguale, prima o poi la sinistra dovrà riscoprire la necessità di se stessa. Fuori d'Europa lo si vede già. Qui da noi, non ancora, con la notevole eccezione di Zapatero. Quante altre batoste serviranno per accorgersene?

(09 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 11, 2008, 09:54:43 pm »

Caracciolo: «Saakashvili ha forzato il gioco ma ha sbagliato i conti»

Davide Vannucci


La Georgia accusa la Russia di aver invaso uno Stato sovrano. Mosca parla di reazione legittima ed evoca lo spettro di un genocidio anti-russo nell’Ossezia del Sud. Proviamo a vederci più chiaro assieme a Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica «Limes».

Professor Caracciolo, lo scoppio delle ostilità ha coinciso con l’inizio delle Olimpiadi. È un caso o il frutto di una strategia ben precisa?
«Beh, chi ha attaccato ha pensato che avrebbe goduto di maggiore copertura, perché gli occhi del mondo erano rivolti verso Pechino, ma la strategia georgiana non ha funzionato».

Quindi la forzatura è venuta da Tbilisi?
«Personalmente ritengo che Saakashvili abbia mandato allo sbaraglio il suo Paese, sapendo bene quale sarebbe stata la reazione russa».

Bush l’ha definita spropositata.
«È stata una reazione devastante, dati i rapporti di forza, ma assolutamente prevedibile. Dopo aver ceduto negli anni ‘90 i territori del’Impero, la Russia non può permettersi di perdere un altro pezzo».

Lei ha usato il termine Impero...
«Sì, la mentalità russa non è cambiata. Del resto, Mosca considera la Georgia una periferia dell’Impero, mentre l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, de facto, fanno parte della Federazione».

La forma, insomma, conta poco...
«No, il potere esercitato su queste terre, per le quali c’è stato un semi-riconoscimento, è informale. In Ossezia del Sud la Russia ha stanziato proprie truppe. E non cederà mai».

La Russia di Putin o quella di Medvedev?
«Da quello che abbiamo visto finora il potere è saldamente nelle mani di Putin. Medvedev, al momento, è una figura pallida, che non ha ancora affermato una sua personalità. E la Russia di Putin non arretrerà. Questo lo sapevano tutti, compreso Saakashvili».

Allora, perché questa prova di forza? Forse perché si sentiva sicuro, per via dell’ombrello americano?
«Saakashvili, per natura, è un avventuriero e credo che abbia agito di testa sua. Gli Usa, alla fase finale di un’amministrazione “poco brillante”, sono impegnati in una lunga campagna elettorale. È difficile che qualcuno, a Washington, sia disposto ad appoggiare una guerra contro la Russia».

E allora, perché?
«Probabilmente il presidente georgiano ha fatto un ragionamento legato ai rapporti di forza interni. Ha annullato l’opposizione, la quale, per motivi patriottici, deve schierarsi con lui. Lo stato di guerra gli conferisce poteri pressoché assoluti. Dal punto di vista interno, tutto questo lo rafforza. A meno che...»

A meno che?
«A meno che il conflitto non si trasformi in una rotta. Allora sarebbero gli stessi georgiani a chiedergli di rendere conto delle sue azioni».

Allora, quale potrebbe essere una via d’uscita?
«L’unica via d’uscita è il ritorno allo status quo ante, prima che la Georgia tentasse di riconquistare l’Ossezia meridionale».

Altrimenti?
«Altrimenti c’è il rischio di un’ulteriore escalation, di un allargamento del conflitto a tutta l’area che va dal Mar Nero al Caucaso».

Perché «ulteriore» escalation?
«Perché in realtà gli scontri tra osseti e georgiani erano all’ordine del giorno da parecchio tempo. Ora il tutto è diventato più visibile, perché l’intensità dello scontro è cresciuta».

Col rischio di coinvolgere il Daghestan, la Cecenia, scatenando altre guerre etniche...
«Certo, c’è il rischio che si possano incendiare aree interne della Federazione Russa. Ma l’aggettivo etnico non spiega molto, anzi crea confusione. Perché si tratta di guerre fra capiclan, appoggiati dalle grandi potenze».

Davanti a un’Onu inerte.
«L’Onu funziona solo se c’è un accordo tra i 5 membri del Consiglio di Sicurezza. Questo accordo spesso non c’è, come in questo caso. L’Onu inciderebbe solo se si abolisse il potere di veto. Ma nessuno di quei 5 Paesi ha interesse a che questo avvenga».

L’universalimo perde colpi. L’Onu, la tregua olimpica violata...
«Anche la tregua olimpica è un esercizio retorico. Non c’è nessun leader politico disposto a rinunciare ai suoi progetti per via delle Olimpiadi. Non è mai accaduto e probabilmente non accadrà mai».

Pubblicato il: 11.08.08
Modificato il: 11.08.08 alle ore 8.10   
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 11, 2008, 09:57:33 pm »

Ranieri: «La terra del petrolio celava un conflitto “congelato”»


Silvia Garambois


«C’è da augurarsi che i russi raccolgano la richiesta di cessate il fuoco che arriva dalla comunità internazionale: dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, dalle Nazioni Unite»: Umberto Ranieri, che è stato Sottosegretario agli esteri in tre diversi Governi, a partire dal ‘98, e che ha seguito direttamente anche le tensioni provocate dal dissolvimento dell’Urss, ritiene fondamentale che oggi «la diplomazia europea e statunitense lavorino per giungere a una sospensione delle ostilità: è la condizione perché riprenda il negoziato».

E in questo quadro, come giudica l’intervento di Berlusconi, la sua telefonata a Putin?
«Serve una vera azione politica, l’Italia può fare la sua parte, perché ha un buon rapporto sia con la Russia che con la Georgia. È necessario che lo Stato si adoperi per il cessate il fuoco. Ma in simili emergenze tutto può essere utile, possono servire persino i buoni rapporti personali tra i leader. C’è da augurarsi che addirittura in nome di questa amicizia Berlusconi possa convincere il premier russo a una sospensione dell’azione militare da parte di Mosca».

E sul piano più strettamente politico, come giudica l’intervento di queste ore?
«L’iniziativa dell’Unione europea, la missione insieme all’Osce e alle Nazioni Unite in Georgia per valutare sul terreno la situazione è molto importante, può spingere ad una tregua».

Ci si poteva attendere questo conflitto, si poteva prevenirlo?
«Sono problemi che nascono da lontano. Conflitti emersi con la fine della guerra fredda, quando le Repubbliche ex-sovietiche hanno sì ottenuto l’indipendenza, ma avevano al loro interno territori a maggioranza di popolazione russa, che non volevano la separazione, come l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Nel gergo diplomatico si chiamavano “conflitti congelati”, in realtà sono stati conflitti dimenticati».

E poi c’è la questione del petrolio...
«Nel Caucaso e in Georgia ci sono anche interessi legati alle grandi pipeline, le reti degli oleodotti, che hanno accentuato il conflitto tra Mosca e Tbilisi. Dalla Georgia, infatti, parte l’unico oleodotto che porta il petrolio direttamente dal Caspio alla coste turche del Mediterraneo, senza passare per la Russia».

Quali sono le prospettive politiche?
«È necessario garantire l’integrità del territorio della Repubblica georgiana e al tempo stesso il rispetto della forte autonomia della popolazione di origine russa, attraverso un rapporto positivo tra Tbilisi e Mosca. Tbilisi ha compiuto una mossa sconsiderata e autolesionista: la sua reazione alla provocazione, con l’invasione dell’Ossezia, ha innescato un conflitto disastroso, che rischia di compromettere il suo avvicinamento alla Ue e soprattutto - nei tempi rapidi che Tbilisi auspicava - con la Nato. Ma a pagare il prezzo più alto, come sempre, sono le popolazioni civili».

Pubblicato il: 11.08.08
Modificato il: 11.08.08 alle ore 8.09   
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:26:35 pm »

Lucio Caracciolo


Mosca si gioca il futuro


Il conflitto tra Georgia e Russia è un capitolo fondamentale del riassestamento degli equilibri di potenza in Eurasia e nel mondo  Sfollati dall'Ossezia del SudLa posta in gioco principale nella guerra georgiana è il rango della Russia. Può tornare a giocare da protagonista sulla scena mondiale in quanto grande potenza eurasiatica, oppure no? La questione divide l'Occidente. Basta osservare come i partner atlantici hanno reagito al conflitto tra Georgia e Russia. I loro approcci si possono dividere in tre categorie: russofobi, antirussi e accomodanti.

Al primo gruppo sono iscritte Polonia, Lettonia, Estonia e Lituania. Il loro riflesso immediato, quando i tank russi sono entrati in Ossezia del Sud, è stato di denunciare l''imperialismo' e il 'revisionismo' di Mosca. Per queste nazioni, lungamente soggette al tallone russo, Putin rappresenta solo una reincarnazione di Stalin. Dunque il Nemico.

Il secondo e molto più rilevante drappello è guidato dagli Stati Uniti, affiancati dalla Gran Bretagna e da alcuni Stati dell'Europa centrale e settentrionale (a cominciare dalla Svezia, più atlantica di molti paesi Nato). Bush non ha né voglia né interesse ad aprire un fronte caldo con la Russia. Allo stesso tempo, rifiuta l'idea di trattarla da vero partner. Intende invece consolidare il risultato della guerra fredda, negando a Putin il diritto a ricostituire un suo impero esterno. Per questo usa anche la russofobia dei vicini di Mosca per garantirsi dall'espansionismo russo. Il caso georgiano, dalla 'rivoluzione delle rose' fino alla guerra per l'Ossezia del Sud (e per Abkhazia), è esemplare di tale strategia.

Il terzo e più variegato troncone comprende la Germania e gran parte dell'Europa occidentale, Italia compresa. Paesi vitalmente legati alla Russia in quanto fornitrice energetica, ma anche insensibili alla russofobia polacco-baltica. Possono svolgere solo un ruolo minore, accennare mediazioni ad uso della propria opinione pubblica. O poco più.

In questo contesto è più facile inquadrare le ragioni che hanno spinto Saakashvili e Putin allo scontro. Il leader filo americano (o meglio, ultramericano) di Tbilisi ha giocato una partita disperata lanciando le sue truppe in Ossezia del Sud. Obiettivo: guadagnarsi il biglietto d'ingresso nella Nato, dunque la sicurezza contro le mire di Mosca. Forse Saakashvili sperava di avere le spalle coperte da Washington. O qualcuno, in questa caotica coda della disastrosa amministrazione Bush, glielo ha lasciato credere, usandolo in chiave di contenimento delle ambizioni russe.

Il leader russo non aspettava altro per far capire agli occidentali che la musica è cambiata: la Russia non è più un avanzo di Unione Sovietica, ma una grande potenza in ricomposizione, che intende partecipare da coprotagonista alla gestione del mondo. Con le buone (energie) o con le cattive (guerra), questo è l'obiettivo strategico di Mosca.

È troppo presto per stabilire chi emergerà come vincitore, anche se i rapporti di forze militari non lasciano troppe speranze alla Georgia. L'importante è sapere che non si tratta di una tragica vicenda periferica, ma di un capitolo fondamentale del riassestamento degli equilibri di potenza in Eurasia e nel mondo. Noi non siamo certo in prima linea. Ma le conseguenze dell'incendio osseto, che può estendersi in qualsiasi momento all'intera regione intermedia fra Asia ed Europa centrata su mar Nero e Caucaso, ricadranno anche su di noi. Ciò rende ancora più deprimente la nostra verbosa impotenza.

(14 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 17, 2008, 11:26:23 pm »

Georgia, chi ha vinto la guerra

Adriano Guerra


Chi, conclusasi - forse - la guerra, vincerà adesso la pace? C'è chi dice che la partita sarebbe già stata decisa dalla Russia che portando impunemente i suoi tanks sino a Gori avrebbe creato le condizioni per dettare al mondo - non solo alla Georgia ma anche all' Europa e agli Stati uniti - le sue condizioni. La Russia ha certamente impedito alla Georgia di ristabilire con un raid militare contro i separatisti dell'Ossetia) i suoi diritti di stato sovrano ma di fatto - e proprio perché ha mostrato di non avere troppi scrupoli nell'impiego della forza anche al di là delle sue frontiere nell'area dell'ex Urss considerata una specie di cortile di casa - dopo aver riconquistato l'Ossetia del Sud non è in grado di accogliere la richiesta dei secessionisti. Deve anzi ritirare le sue forze al punto di partenza. Non solo. Se con la guerra la Russia ha certamente alimentato paure e posto problemi ai paesi vicini il risultato conseguito non può però dirsi a lei favorevole: la Georgia, l'Ucraina, le repubbliche baltiche, e persino la Bielorussia ,sin qui fedele alleata di Mosca, lungi dal fare ammenda e di tornare sotto l'ala protettrice della Russia, hanno fatto rotta ancora di più verso Occidente. L'Ucraina, oltre ad aver aperto una nuova crisi attorno alla concessione della base di Sebastopoli alla flotta russa del mar Nero, ha chiesto di poter collegare il suo sistema radar a quello occidentale e la Georgia ha deciso in fretta e furia non solo di uscire dalla Comunità degli Stati indipendenti (Csi), l'organismo nato senza mai però assumere una dimensione reale, dopo il crollo dell'Urss, ma di concedere agli Stati uniti nuovi diritti sul suolo georgiano così da mettere subito in chiaro che l'alleanza del paese con l'Occidente non è in discussione. Quanto alla Polonia non certo a caso proprio nei giorni della guerra ha firmato l'accordo per l'installazione nel suo territorio delle apparecchiature dello scudo spaziale americano.

La Russia deve poi fare i conti con la controffensiva politico-diplomatica avviata da Bush che è proprio perché è stato sin qui - come è stato detto - l'unico perdente, è ora impegnato al massimo allo scopo se non di vincere almeno di non perdere la pace. In patria, a 155 giorni dalle elezioni presidenziali, il capo della Casa Bianca è sotto tiro sulla politica estera come, forse, non lo è mai stato. Ad avanzare critiche non sono infatti soltanto coloro che da sempre avversano la politica neo-con dell'interventismo dalla quale è nata la tragedia irachena. Ora è il Wall Street Journal ad accusare il Presidente di aver lasciato senza sostegno i suoi alleati georgiani e di aver offerto poi al presidente francese Sarkosy la possibilità di assumere quel ruolo di condottiero dell'Occidente che durante la seconda guerra mondiale era stato di Winston Churchill. Per rispondere all'editoriale del Wall Street Journal Bush la Casa Bianca ha diffuso addirittura un comunicato ufficiale che già nel titolo ("Bush ha agito per assicurare pace, sicurezza e aiuti umanitari alla Georgia") diceva come a Washington ci si stesse orientando, nello stesso momento in cui si continuava a condurre una forte campagna di parole contro la Russia di Putin, ad aderire alla iniziativa mediatrice che Sarkosy stava nel frattempo conducendo a nome dell'Europa. Gli Stati uniti avviavano insomma una ritirata che andava ad aggiungersi a quelle già compiute."Un tardivo riconoscimento della realtà, non una conversione sulla via di Damasco", ha detto il consigliere per la politica estera di Barak Obama che ha aggiunto: "Ormai però è troppo tardi. L'immagine dell'America è peggiorata drammaticamente".

Al di là delle discussioni e delle polemiche suscitate all'interno del paese, la controffensiva politico-americana che si sta dispiegando pone problemi seri come si è detto alla Russia e anche certamente ai paesi europei. Se infatti, aderendo e anzi sostenendo - come si è visto con la missione di Condoleeza Rice a Tbilisi - il piano di pace europeo, gli Stati uniti ne garantiscono la validità, dall'altra, fornendo garanzie alla Georgia sull'integrità territoriale del paese nonché sul mantenimento della presenza politico e militare negli Stati uniti nell'area, danno di esso un'interpretazione limitativa e non facilmente accettabile da Mosca. Ne derivano - testimoniate dal continuo rinvio da parte di Mosca del ritiro delle forze ancora presenti a Gori e in altre località georgiane - possibili difficoltà per l'immediato futuro. Da qui la necessità, e lo spazio, per un'iniziativa europea che tragga, come è stato sin qui, la sua ragione d'essere nell'operare come forza di mediazione e non come parte in causa. Non si tratta, naturalmente, di non avanzare critiche all'interventismo di Putin (è certamente positivo il fatto a questo riguardo che la Merkel si sia schierata su questo punto con le stesse parole di Bush definendo l'intervento russo nella Georgia un'"Iniziativa sproporzionata") o di cessare di intervenire su Bush perché la linea dell'allargamento dell' Unione europea all'Ucraina e alla Georgia non diventi automatico ingresso dei due paesi nella Nato. Ma si tratta di avanzare proposte che siano tali da mantenere aperta una fase di negoziati che, per essere proficua, non può certamente essere breve. Un nodo che certamente non è possibile sciogliere ora e che deve dunque essere affrontato con saggezza per impedire che tutto torni rapidamente in alto mare è quello che riguarda il destino futuro delle due repubbliche secessioniste in terra georgiana. Da qualche parte è stata avanzata la proposta di concedere all'Ossetia del Sud, così come all'Abkhazia, qualcosa di più dell'autonomia e qualcosa di meno dell'indipendenza formale, nel quadro di una "Georgia federale". Potrebbe essere una prima proposta utile per andare incontro ad una situazione che la guerra appena conclusa - si pensi alle vittime, alle centinaia di migliaia di ai profughi osseti che in parte hanno trovato rifugio nel Nord e a quelli della minoranza georgiana che hanno raggiunto Tbilisi - ha certamente reso ancora più complessa. Un altro non meno importante nodo è quello che riguarda la questione più generale dell'atteggiamento dell'Europa di fronte alla Russia di oggi. Quel che occorre - e questa opinione sta prendendo fortunatamente sempre più piede - è qui una politica più sicura e ferma. Da una parte per dire nel modo più netto che Mosca non può decidere cosa possono e non possono fare i paesi confinanti. Dall'altra per porre fine all'"errore" - e qui citiamo dall'intervista di ieri di D'Alema all'Unità - consistente nel "dare la sensazione di una politica di allargamento della Nato che portava con se forzature, come quella del sistema antimissile, che hanno accentuato la sensazione di un accerchiamento della Russia, rafforzando le posizioni più militariste e antioccidentali al suo interno". Ecco il possibile tema di alcuni interventi che i nostri governanti dovrebbero fare, anche - perché no - al telefono, senza muoversi da casa o dalla spiaggia, presso i loro "amici" di Washington, Parigi, Bonn ecc.


Pubblicato il: 17.08.08
Modificato il: 17.08.08 alle ore 7.21   
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 13, 2008, 12:37:56 am »

Lucio Caracciolo


Ma Berlino non è leader


Fino a qualche anno fa in molti scommettevano nella Germania come nuovo leader in Europa. Ma l'egemonia tedesca sembra ancora lontana  Quindici anni fa molti scommettevano sulla Germania riunificata come nuovo leader europeo. Oggi, a un anno dalle elezioni politiche che dovrebbero dirimere a favore di Angela Merkel - ma è ancora presto per stabilirlo - la querelle prodotta nel suo governo dalla forzosa coabitazione con una Spd in crisi d'identità, questo traguardo sembra lontano. Perché? Al di là delle contingenze politiche ed economiche e dei talenti individuali (e Merkel, a suo modo, è un talento), ad impedire l'egemonia tedesca contribuiscono alcuni fattori strutturali.

Primo: ai tedeschi manca la mentalità del paese leader. Sarà il passato che non passa, sarà il benessere diffuso e rassicurante, sarà la paura di se stessi: fatto è che nell'attuale classe politica tedesca, salvo eccezioni, non è radicata la consapevolezza di un proprio diritto-dovere a guidare gli altri Paesi europei. Si preferisce condividere le responsabilità con gli altri (talvolta nascondersi dietro gli altri). Con i francesi, per consuetudine ormai sessantennale, anche se i tempi d'oro della coppia Bonn-Parigi sono irrimediabilmente trascorsi e la chimica personale fra Merkel e Sarkozy è piuttosto disastrosa. E con gli inglesi, in quanto grande potenza residuale e partner privilegiato degli Stati Uniti.

Secondo: il trio di testa Berlino-Parigi-Londra è comunque lungi dal determinare una politica unitaria in ambito Ue. I 27 sono troppi, troppo diversi, troppo divisi per poter affidare a chiunque, compresi i cosiddetti Tre Grandi, il compito di parlare e agire per tutta la famiglia.

Terzo: Washington e Mosca restano due punti di riferimento esterni imprescindibili. Ma sempre più difficilmente conciliabili. La crisi georgiana è stato solo l'ultimo dei molti test recenti che hanno costretto Berlino a barcamenarsi fra Nato e gas russo, fra affinità politico-ideali con l'America e la necessità di stretti rapporti con Putin per ragioni di sicurezza energetica e strategica.

Lo storico gap fra potenza economica e potenza politica, che segna la Germania Federale da quando esiste, non è dunque colmato. E non lo sarà nel futuro prevedibile. Se si pensa ai mal di pancia con cui i vecchi germanofobi - dalla Thatcher a Mitterrand ad Andreotti - soffrirono la caduta del Muro, diciannove anni or sono, fa quasi sorridere constatare come le loro paure siano state smentite dai fatti. Allo stesso tempo, senza questa atavica, impalpabile ma finora non del tutto eliminabile paura della Germania (diffusa persino fra alcuni tedeschi) non riusciremmo a comprendere come uno Stato delle dimensioni demografiche, culturali ed economiche della Germania stenti ad assurgere a riferimento per il nostro continente.

Ciò non può lasciarci indifferenti come italiani. Dopo aver coltivato per i decenni della Guerra fredda parallelismi, affinità e intese con la Germania di Bonn, abbiamo disperso in poco tempo quel patrimonio. Semplicemente, non abbiamo voluto prendere atto di come i nostri partner tedeschi siano cambiati, e soprattutto di come siamo cambiati noi dai tempi della Prima Repubblica e della 'soglia di Gorizia'. Prima recupereremo il senso della realtà, e quindi della necessità di un vero rapporto strategico con la Germania, meglio sarà per noi. Certo non possiamo sperare che a far la prima mossa siano i tedeschi: hanno altre priorità.

(12 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 15, 2008, 09:51:24 pm »

ESTERI       

Il premier e il presidente russo parlano della crisi georgiana

L'8 agosto è stato per noi come l'11 settembre per l'America

Lo sfogo di Putin e Medvedev "Stanchi delle ingerenze Usa"

di LUCIO CARACCIOLO

 

MOSCA - "Chi te lo fa fare? Sei un presidente giovane, liberale, a che ti serve tutto questo?". Mentre i tank di Mosca, respinto l'attacco georgiano in Ossezia del Sud, erano in vista di Tbilisi, George W. Bush si rivolgeva quasi paternamente al suo omologo russo, in carica da nemmeno cento giorni. A raccontarlo è lo stesso Dmitri Medvedev. Siamo nel salone delle feste dei magazzini Gum, affacciato sul mausoleo di Lenin. Intorno al tavolo, un gruppo di giornalisti ed esperti americani, europei e asiatici, riuniti dal Club Valdai per quattro giorni di incontri informali con i principali leader russi, a cominciare da Putin e dallo stesso Medvedev. "Ho risposto a Bush che non è che io avessi bisogno di fare qualcosa, ma ci sono situazioni in cui l'immagine non conta nulla e l'azione efficace è tutto", continua Medvedev. E tiene a farci sapere di aver smontato il suo interlocutore: "In questo contesto tu avresti fatto lo stessa cosa, forse più duramente, gli ho detto. Lui non mi ha replicato".

Molti, anche in Russia, considerano Medvedev un passacarte di Putin. Non ha né potrà forse avere l'autorevolezza del suo mentore, il restauratore dell'impero russo. Ma la sua performance da comandante in capo delle Forze armate durante la vittoriosa campagna di Georgia ne ha innalzato la statura. E poi il Cremlino conferisce a chiunque vi si insedi un'aura regale. Fatto è che in poche settimane il gradimento popolare del neopresidente è notevolmente cresciuto. E lui se lo sente addosso: "Dopo il Caucaso ho acquistato una migliore comprensione delle cose, quest'esperienza mi ha dato più sicurezza". Medvedev ha preso gusto al potere, e si vede. Non è affatto scontato che stia lì per scaldare la poltrona in vista del ritorno del leader massimo.

Quale che sia la dinamica psicopolitica di questo strano consolato, la squadra di Putin sembra piuttosto compatta. E univoca nel messaggio al mondo esterno. Medvedev lo riassume così: "L'8 agosto per la Russia è stato un po' come l'11 settembre per l'America. Quando la Georgia, appoggiata da un grande Stato che vuole fissare le regole del gioco internazionale, ha cinicamente attaccato l'Ossezia del Sud e ha sparato sui nostri peacekeepers, il mondo è cambiato e sono cambiate le nostre priorità".

Ne deriva il concetto di fondo, martellato dai leader russi, da Putin in giù, durante tutte le nostre conversazioni: la Russia è stanca. Vent'anni di umiliazioni, per un colosso di antico lignaggio imperiale, sono troppi. Non ci volete nella vostra famiglia? Pazienza, ce ne costruiremo una nostra, insieme ad amici vecchi e nuovi. Non solo con i vicini postsovietici, ma anche con i governi amici nel mondo arabo, in Asia, America Latina e Africa, che negli anni Novanta abbiamo trascurato. Finché non vi accorgerete che il mondo non può essere retto da un solo paese, che la Nato appartiene alla storia e che urge una nuova architettura di sicurezza eurasiatica, basata sull'equilibrio della potenza e su regole condivise.

Quando ci riceve a tavola nel centro termale Rus', a Soci, Putin non ha ancora smaltito l'irritazione per il modo in cui la stampa occidentale ha in genere riferito della guerra. "Sono sorpreso di quanto potente sia la macchina propagandistica del cosiddetto Occidente", esordisce. Più che la rabbia per come i nostri media hanno coperto la guerra del Caucaso, scatenata dall'innominabile Saakashvili (sul quale Medvedev avrà parole sprezzanti, dandogli del drogato - "sappiamo che prende narcotici"), conta il giudizio sulla crisi del blocco che ha vinto la guerra fredda. "L'Occidente non è omogeneo, non è un monolite. Le decisioni unilaterali americane lo stanno distruggendo. Nessuno ne può più di questo modo di agire".

Putin non avrebbe spedito i suoi tank fino a 15 chilometri da Tbilisi ("l'avremmo potuta prendere in quattro ore, se avessimo voluto") se non fosse stato convinto della debolezza americana e delle divisioni nel campo euroatlantico. Attaccando i russi nel momento di massima confusione a Washington, nella fase terminale di un'amministrazione allo sbando, Saakashvili ha offerto a Putin non solo l'opportunità di sfogare sui georgiani le frustrazioni accumulate per anni, ma di far emergere le fratture fra europei occidentali, sensibili alle ragioni russe, e quella parte dell'establishment americano per cui la Russia è solo una riedizione dell'Urss. E a chi rimarca la sproporzione fra attacco georgiano e reazione russa, Putin replica: "E che avremmo dovuto fare, tirare con la fionda?".

Ma il premier non ha alcuna intenzione di rompere con il "cosiddetto Occidente", semmai di far leva sulle sue contraddizioni. Il dimezzamento degli investimenti esteri in Russia quest'anno, rispetto al 2007 (da circa 80 a 40 miliardi di euro), deve preoccuparlo: "Siamo consapevoli del nostro potenziale. Non facciamo rumore di sciabole". La Russia non vuole né può isolarsi. Cerca "una partnership su basi paritarie". Certo, osserva Putin accennando alla veranda, affacciata sul Mar Nero, "la flotta Usa a dieci miglia di qui è un bell'esempio di trattamento equanime dei partner".

Putin tiene a distinguere tra Bush, o meglio "George", e i suoi "falchi", a cominciare da Cheney. Lui come tutti i dirigenti russi sembra convinto che a scatenare i georgiani in Ossezia del Sud sia stata l'ala dura dell'amministrazione, forse all'insaputa del presidente: "Le mie relazioni con George sono veramente buone. Lo rispetto e lo considero una persona onorevole". Per concludere ironico: "Ho sempre trattato George meglio di molti americani".

Putin ricorda l'improvvisato incontro di Pechino, la notte dell'attacco georgiano su Tskinvali, quando di fronte alle sue proteste Bush gli assicurò: "Nessuno vuole la guerra". Il premier russo si aspettava che l'amico George avrebbe fermato Saakashvili. Ma evidentemente nell'amministrazione hanno prevalso i falchi: "La corte fa il re e la corte non voleva che lui fermasse i georgiani". Uno dei suoi più stretti collaboratori soggiunge: "Condy Rice ci aveva assicurato che se Saakashvili avesse tentato di risolvere con la forza la questione ossetina si sarebbe potuto scordare l'ingresso nella Nato. E invece...".

Al fondo, Putin e Medvedev non riescono a emanciparsi dall'ombra dell'Unione Sovietica. Sono consapevoli di essere percepiti da molti occidentali, tra cui almeno uno dei due candidati alla Casa Bianca, come gli eredi di Lenin e Stalin. "Liberatevi dei sovietologi, ce ne sono ancora troppi in giro. Non si può capire la Russia con le categorie della guerra fredda", ammonisce il presidente, "perché noi ci fondiamo su un sistema di valori completamente diverso". Lui che aveva 25 anni quando lo stendardo con falce e martello fu ammainato al Cremlino, non ha nostalgia del passato: "Io nell'Urss mi annoiavo". E Putin, che pure ha definito il crollo dell'Unione Sovietica "una catastrofe geopolitica", specifica: "Io sono un conservatore, ma non nel senso che i comunisti davano al termine". Dicono che in quel momento, sulla Piazza Rossa, la salma di Lenin abbia avuto un fremito.

(15 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 04, 2008, 03:49:38 pm »

Lucio Caracciolo


Assedio a Sebastopoli


Il rischio di una crisi russo--ucraina è preso in considerazione negli Statoi Uniti e in Europa. Fra i problemi c'è quello dell'adesione alla Nato  Il presidente ucraino Viktor YushchenkoDopo la Georgia, l'Ucraina? Il rischio di una crisi o addirittura di una guerra russo-ucraina è preso sul serio a Washington come nelle principali capitali europee. Dove si ricorda bene il monito di Vladimir Putin al presidente americano uscente, durante l'ultimo vertice Nato di Kiev (4 aprile), quando si discuteva il futuro atlantico delle due Repubbliche ex sovietiche: "Capisci George, l'Ucraina non è nemmeno uno Stato! Che cos'è l'Ucraina? Parte del suo territorio è Europa orientale. Ma l'altra parte, quella più importante, gliel'abbiamo regalata noi!".

Il riferimento di Putin era in specie alla Crimea. Questa penisola, vocazionalmente vicina a Mosca, ospita la base navale di Sebastopoli, dov'è all'àncora la flotta russa del mar Nero, in base a un accordo che scadrà fra un decennio. Quel territorio venne ceduto dall'ucraino Krusciov alla Repubblica sovietica di Ucraina nel 1954, ma a Mosca quel 'regalo' non è mai andato giù. E oggi molti, attorno a Putin, considerano che in caso il governo di Kiev decidesse di forzare i tempi per l'adesione alla Nato, dovrebbe rinunciare a una buona porzione dell'Ucraina orientale, a cominciare dalla stessa Crimea. Come ricorda uno dei più autorevoli analisti strategici russi, Sergej Karaganov, l'Ucraina vista da Mosca "è la culla della Russia, anzi più russa della Russia".

Rivendicazioni e manipolazioni storiche a parte, la prospettiva di adesione alla Nato è dirimente nella frattura fra i due leader della rivoluzione arancione (2004), sponsorizzata dagli americani, che in Occidente aveva suscitato molte simpatie e speranze. Viktor Yushchenko, presidente debole ma deciso a non arrendersi, si presenta come campione dell'atlantismo e come difensore dell'Ucraina contro le brame imperialistiche di Putin e Medvedev. Yulia Timoshenko, da capo del governo, si è invece smarcata dall'ortodossia Nato e sembra perseguire una rotta neutralista. Alcuni sono convinti che abbia stretto un patto segreto con Putin, durante una sua recente visita a Mosca. In sostanza, i russi l'appoggerebbero - orientando in suo favore, in vista del voto presidenziale dell'anno prossimo, l'elettorato ucraino sensibile al richiamo della 'madre Russia' e favorendo un'intesa con il loro leader locale di riferimento, Viktor Yanukovich - in cambio della rinuncia di Timoshenko a bussare alla porta della Nato.


La tensione fra i due ex partner arancioni è ormai cronica. Ciò che a Mosca non dispiace affatto. Yushchenko non gode al Cremlino e dintorni di una fama molto migliore di quella di Saakashvili, il collega georgiano con cui i leader russi non vogliono avere più nulla a che fare, considerandolo 'un cadavere politico'.

L'esito della partita ucraina dipenderà molto dall'atteggiamento di ciò che resta dello schieramento occidentale. Gli europei sono al solito divisi fra Germania, Francia, Italia, Spagna e altri veterocontinentali, disposti ad ascoltare Putin e a non spingere per il rapido ingresso di Kiev nell'Alleanza Atlantica, e Gran Bretagna, Polonia e baltici, sensibili agli argomenti di Yushchenko. La parola decisiva non verrà detta probabilmente al prossimo vertice Nato di dicembre. Sarà il nuovo presidente americano a sciogliere questo nodo. Quale che sia la sua scelta, cambierà il quadro dei rapporti fra Mosca e Washington.

(03 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 09, 2008, 12:11:28 am »

Lucio Caracciolo.

Si ridisegna la mappa geopolitica globale

Quale mondo dopo il crollo


di Lucio Caracciolo


Il crack finanziario ha importanti conseguenze sul piano geopolitico.

La crisi non può essere circoscritta all'economia. Tre scenari su scala globale. I vostri commenti.


(08/10/08)

 
Il crollo del sistema finanziario americano sta riscrivendo i rapporti di forza complessivi su scala mondiale. Non è possibile circoscrivere la crisi all’ambito finanziario o economico, per almeno tre ragioni.

Primo: il sistema centrato sul dollaro è ramificato in quasi ogni regione del mondo.

Secondo: quel sistema si regge sull’egemonia americana, fondata sulla combinazione di hard e soft power – strapotere militare e capacità di influenza politico/culturale. Quando quei due strumenti entrano in crisi – come abbondantemente dimostrato dalla “guerra al terrorismo” e dal collasso delle banche (ombra e non ombra) e delle Borse – è tutto il meccanismo ad incepparsi. Il paradosso per cui la massima potenza mondiale è anche il maggior debitore globale si spiega solo sullo sfondo di tale primazia a 360 gradi, ormai in evidente affanno. E la radice principale della crisi attuale sta nella difficoltà di tenere in vita quel tipo di equilibrio.

Terzo: la crisi americana costringe concorrenti e partner a riposizionarsi. Nessuno può permettersi il lusso di restare fermo, in balìa dello tsunami. Quando la tempesta sarà passata – e non sappiamo né quando né come – le classifiche della potenza globale saranno riscritte.

Su questi temi si concentra il prossimo volume di Limes (5/08), in uscita il 17 ottobre, dal titolo “IL MONDO DOPO WALL STREET”.

Un bilancio provvisorio delle conseguenze geopolitiche del crollo del sistema finanziario a stelle e strisce e delle sue ripercussioni globali, Europa e Italia comprese. Esaminando la tenuta delle vecchie barriere e l’emergere di nuove per effetto della tempesta in corso.

In particolare, su scala globale potrebbero determinarsi i seguenti tre scenari:

1. Chimerica. Un accordo fra la maggiore potenza mondiale (Usa), indebitata fino al collo, e il suo grande creditore (Cina), che è insieme l’unico sfidante prevedibile per succederle come egemone in questo secolo. L’osmosi economica sino-americana potrebbe produrre un concordato complessivo fra i due superpartner, legati da fortissimi interessi reciproci.

2. Eurussia. L’interdipendenza energetica fra Europa occidentale e Russia potrebbe svilupparsi fino a investire il complesso delle relazioni fra Germania, Francia, Italia, Spagna e altre nazioni euroccidentali e il colosso russo, anch’esso fortemente segnato dalla crisi, in particolare in quanto economia fondata sulle materie prime, idrocarburi in testa. Questa macroarea potrebbe poi stabilire rapporti con Chimerica (o con uno dei suoi due partner) su basi totalmente nuove.

3. Caos o peggio nuove guerre, fino a un nuovo conflitto mondiale. Ipotesi catastrofica ma non per questo impossibile. Semplicemente, il sistema va del tutto fuori controllo. Si salva chi può. Con tutti i mezzi disponibili, violenza compresa.

Si tratta di macroscenari di medio periodo. Altri possono essere legittimamente disegnati. Invitiamo i nostri lettori a commentarli, o a proporne di loro. Nella fiducia che, bene o male, dopo Wall Street ci sarà ancora un mondo.


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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 18, 2008, 12:14:47 pm »

Lucio Caracciolo


L'Europa che verrà


La tempesta finanziaria ed economica scoppiata in America e diffusa in tutto il mondo obbliga i paesi dell'Unione europea a verificare senso e strutture dell'impresa comunitaria  È nelle crisi che persone e istituzioni rivelano se stesse. La tempesta finanziaria ed economica scoppiata in America e diffusa in tutto il mondo obbliga i paesi dell'Unione europea a verificare senso e strutture dell'impresa comunitaria. Dopo l'abituale cacofonia iniziale, in cui ciascuno pensava di fare a modo suo, qualcosa pare essere finalmente scattato nell'animo dei nostri leader. Il meeting dei responsabili dei governi di Eurolandia, domenica 12 ottobre a Parigi, ha preso atto della necessità di una risposta comune. Per ora non siamo molto oltre la dichiarazione di princìpi, in particolare la disponibilità a salvare le banche in dissesto, peraltro difficile da mettere in atto nel caso di collassi a catena. Ma al di là delle misure immediate, che poi inevitabilmente saranno prese dai governi nazionali e dai loro organi, interessa qui stabilire se da questa emergenza può scaturire il rilancio dell'integrazione europea, ed eventualmente in quali termini e tempi.

Il fallimento di Lehman e i dissesti che ne sono seguiti, minacciando anche le più solide banche europee, hanno rivelato infatti quel che già sapevamo, ma facevamo finta di ignorare: né nell'Unione europea a 27 - ma nemmeno nell'Eurolandia a 15, domani a 16 con l'accesso della Slovacchia previsto il primo gennaio prossimo - esiste un'autorità comunitaria dotata dei poteri necessari per intervenire nella crisi in corso. Più in generale, non c'è un'istituzione che possa svolgere la necessaria vigilanza sulle banche per limitare il rischio di analoghi dissesti futuri.

Di qui il ragionamento si potrebbe allargare alla mancanza di autorità nell'Unione europea. Oggi l'Ue è la somma algebrica delle politiche nazionali, o poco più. L'organo dirimente non è la Commissione, ma il Consiglio europeo, cioè l'istanza intergovernativa per definizione. Se non c'è un esecutivo che ordini, al massimo ci si coordina. L'effetto non può essere lo stesso. Anche perché qualsiasi coordinamento efficace presuppone una gerarchia, sia quanto all'impulso politico che alla verifica dei suoi risultati. E questa gerarchia europea non c'è.

Se vogliamo utilizzare l'emergenza per ridare spinta e direzione all'integrazione europea, dobbiamo quindi pensare 'out of the box', fuori degli schemi, come amano dire gli americani. Partendo da una constatazione: anche in questa vicenda l'Unione a 27 si è dimostrata irriducibile a un approccio comune. A questo punto ci si domanda cosa mai debba accadere per generare tale miracolo. Forse la guerra mondiale? Qualcosa di meglio è venuto, se non altro nelle intenzioni, da Eurolandia, sia pure più a parole che nei fatti. Ma si tratta palesemente di ambiti troppo eterogenei. È quindi probabile che l'unico percorso utile per rafforzare l'integrazione europea si rivelerà la costituzione di nuclei confederati di paesi affini per interessi e culture nella più vasta cornice dell'Unione. È quello che informalmente sta già accadendo. E che potrebbe trovare impulso ulteriore dall'emergenza. L'alternativa è continuare nel bluff attuale, facendo finta che esista un'Europa che non c'è. Il che, sotto questa tempesta, equivarrebbe alla rinuncia totale dei politici europei alle loro responsabilità.

(17 ottobre 2008)

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