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Autore Discussione: ADRIANO SOFRI -  (Letto 30133 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:37:03 pm »

   
I ragazzi che occupano l'Ilva: "Noi i padroni"

Taranto, niente blocchi in città.

L'orgoglio degli operai abbandonati dall'azienda: "Stavolta si va a Roma"

di ADRIANO SOFRI


TARANTO - Ormai le città sono due. La Taranto delle persone, e quella dell'Ilva. E come se non bastasse, proprio ora la Taranto delle persone è stata dichiarata la città più invivibile d'Italia. L'ingresso della Direzione dell'Ilva  -  un luogo tanto meno solenne ma assai più influente del Municipio cittadino  -  era sconsacrato ieri da un lenzuolo con su scritto: "Senza lavoro, nessun futuro". Dentro, la mattina, lo slogan gridato dal grosso corteo di operai che avevano lasciato i loro posti per radunarsi in quello spazio padronale era: "I padroni dell'azienda siamo noi!".

C'era il furgone dei "Liberi e pensanti", c'erano soprattutto gli operai della Movimentazione Ferroviaria. Loro sono i compagni di Claudio Marsella, di Oria, 29 anni, locomotorista, si chiama così, morto lo scorso 30 ottobre col torace schiacciato durante la manovra di aggancio di un carro. Lo avevano trovato agonizzante, perché all'Ilva per quel lavoro pesante e pericoloso si era lasciato solo un operaio per turno.

Quella notte c'erano stati altri due "incidenti" gravi, un operaio ustionato, uno intossicato dal gas. Oggi qualcuno ricorda quella giornata, la protesta dei compagni di lavorazione cui si era unito il sindacato di base, l'assenza di troppi altri, per non dire della città. Bisognava continuare con lo sciopero, dicono anche, come stanno facendo a Genova.

Io sono qui, dice uno, anche se è il mio compleanno, e tira fuori la
carta d'identità per provare che è vero. È vero, ha 37 anni, se ne ricorderà di questo compleanno, gli dicono, tanti auguri. Per un momento, le facce serie serie si fanno allegre. Sono serie anche le facce dei carabinieri e dei poliziotti in borghese che stanno anche loro a far capannello sul marciapiede: se non lo dicessero, sembrerebbero piuttosto operai. Polizia da disordine pubblico non ce n'è, se non in qualche blindato parcheggiato distante, ma non ce n'è bisogno. È tutta un'altra aria.

A mezzogiorno di ieri, all'ingresso della Direzione dell'Ilva, occupata e già disoccupata, e ora presidiata da capannelli di operai e di intervistatori di operai, ho pensato di trovarmi di fronte a una ricapitolazione della storia del capitalismo. C'erano gli operai, buttati più o meno sul lastrico alla vigilia - "messi in libertà", notevole espressione. Migliaia di messi in libertà, un'amnistia generale, un giubileo alla rovescia. C'era lo strato della famosa polvere rossa, accumulata sulle sbarre dei cancelli, su cui passare il dito e guardarsi attoniti il polpastrello arrugginito. Il capitalismo, sia detto senza offesa, spreme e scarta e impesta: ma qui, in questa istantanea di mezzogiorno di un giorno di novembre senza qualità, c'è qualcosa di più e di peculiare, che riguarda il rapporto fra il capitalismo e i capitalisti. I quali sono in galera, o in fuga dalla galera, o appena di qua dalla galera, il vecchio padrone e i suoi figli, i suoi manager, i suoi faccendieri - e poi i suoi uomini di vetrina, già prefetti, già candidati del centrosinistra, già. Forse la siderurgia, che era già finita tristemente a Bagnoli e agonizza a Piombino e fa agonizzare Trieste, sta tirando le cuoia oggi a Taranto e a Genova e nelle altre filiali italiane, in un disastro che non risparmia nessuno, compresi i burattinai, impigliati nei loro fili.

La lavorazione dell'area calda era interdetta dai magistrati, salvo il minimo necessario alla tenuta degli impianti. Invece si produceva come se niente fosse, anzi. "Il materiale è sempre arrivato, al Terzo Sporgente, e fino a ieri si facevano gli straordinari. Dovevamo bloccarla noi, la spedizione, prima della magistratura". Lunedì, quando l'ennesimo e drastico ordine della magistratura ha bloccato il materiale prodotto contravvenendo al sequestro, c'erano quattordici navi in attesa d'essere caricate, e sono lì, inutili. Dicono, gli operai dichiarati inutili: "Sono mesi che andiamo a lavorare, sapendo che cosa ci aspetta, non sapendo niente di che cosa ci aspetta, come se ogni giorno in più fosse un giorno guadagnato. Con questa sensazione di assurdità".

Sono giovani, all'Ilva, figli di pensionati e prepensionati, sì e no 35 anni di età media, non è questione di guadagnare giorni o di pensionarsi in anticipo. Dicono che ai padroni interessa solo di tirare avanti. Che investono solo per il ripristino delle macchine, che continuino a produrre. Il resto, che vada in rovina. Ci sono sette caricatori al porto, i più moderni risalgono al 1982. E i capannoni di stoccaggio, ci piove, sui rotoli a freddo che non si dovrebbero bagnare. Dove vuole andare un'azienda che pensa solo alle tonnellate, che non si preoccupa dello stoccaggio dei suoi prodotti e li manda così ai suoi clienti nel mondo?

A Taranto non si sa se il mare circonda la fabbrica, o la fabbrica accerchia e soffoca il mare. L'odore del mare sì, è stato rotto e sgominato da quello dell'Ilva. Ma il mare, i famosi due mari di Taranto, si insinua continuamente nei pensieri e nelle frasi delle persone. Sono qui dentro da vent'anni, che cosa andrò a fare? Le cozze sono amare, i pesci impiombati. ("La cozza è la cattiva coscienza di Taranto..."). L'azienda è allo sbando, dicono. È come nella stiva di un peschereccio, coi pesci tirati in secco e boccheggianti e però quelli grossi continuano a mangiare quelli piccoli.

Sono molto arrabbiati, gli operai. Forse per questo non è successo niente, ieri. Non è successo nemmeno, però, che la direzione e i capi li abbiano spinti a fare casino di strada, rifocillati dall'azienda e col salario pagato, come in qualche incresciosa giornata di primavera. Forse i padroni se lo aspettavano, dopo la messa in libertà, forse non sanno più che pesci pigliare, o sono gli operai a non abboccare. Per la prima volta, dicono, anche ai capi è stato fatto sentire che se ne vanno a casa, e il badge è stato staccato anche agli impiegati. La confusione è grande. Stamattina, agli operai che hanno occupato il territorio della direzione, i sindacalisti hanno comunicato che ai "messi in libertà" saranno pagate le giornate fino alla decisione del riesame, aspettata per martedì prossimo. Rumori, qualche petardo, poi l'uscita. Amarezza di molti, ai quali sembrava che si fosse accettata una mancia. "Perdiamo il posto di lavoro, e ce ne torniamo a casa per qualche giorno di salario".

Confusione. I badge, dicono, erano stati cambiati di recente: se lo aspettavano già. "A qualcuno il badge non marca, a qualcuno sì. A qualcuno dell'area a freddo hanno detto di venire, ma a fare che cosa? Ai più non hanno detto niente. Dicono che chi ha ferie da fare se ne sta a casa, chi non ne ha entra: poi chiamano chi ha 200 ore di ferie, e lasciano fuori chi ne ha 20".

Sono già cominciate le ritorsioni, dicono. Domani, giovedì, c'è l'incontro romano con un governo che più latitante di così non si potrebbe, e corrono voci diverse sulla partecipazione degli operai. Qualche sindacalista trascrive i nomi di chi andrà a Roma, come se si trattasse di una delegazione ristretta. Hanno detto che al massimo ci saranno dieci pullman, dice qualcuno, e dieci pullman sono appena 500 persone. Dev'essere un desiderio del governo, che non facciamo troppo rumore. Noi, dice Francesco B., delegato Fiom, ci auguriamo che venga il maggior numero. "Tanto - dicono - se fanno i furbi, veniamo con la nostra auto. Essere o non essere a Roma, è decisivo. Non a fare i vandali, a mostrare che ci siamo, e con quelli di Genova e tutti gli altri". Essere o non essere, è decisivo.

All'Ilva come alla Fiat, la domanda è se non aspettino che un alibi - il sequestro dell'area a caldo qui, la Fiom là - per andarsene. Nel frattempo, grattano il fondo del barile. Ieri, quando rientravano i 19 di Pomigliano, i 5mila di Taranto uscivano: usati tutti come ostaggi di gare e rese dei conti altrui, concorrenze economiche, impunità giudiziarie, fine dei diritti. Si capisce che rabbia e demoralizzazione vadano assieme. A chiedergli quanti sono gli operai che ormai si augurano, o sono rassegnati, che la fabbrica chiuda, rispondono all'unisono: Nessuno. Qualcuno, aggiungono risentiti, che si sta assicurando il suo vantaggio privato. Non c'è oggi, qui almeno, alle porte della città d'ombra che vuole ingoiare l'altra, la contrapposizione fra lavoro e salute, e nemmeno la loro alleanza. Chi chiede se abbiano votato per le primarie si sente mandare a quel paese. Quelli si tengono alla larga da noi, dicono. Nessuno dice che i candidati al ballottaggio dovrebbero misurarle anche su questo marciapiede le loro intenzioni: in effetti dovrebbero, credo. Ci sono tribune che vale la pena di frequentare, anche se promettono fischi. I fischi possono essere la premessa di una riaffezione alla buona politica.

(28 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/11/28/news/ilva_i_ragazzi_che_occupano_la_fabbrica_i_padroni_siamo_noi-47589629/?ref=HREA-1
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 19, 2012, 05:30:46 pm »

Consigli a Bersani sulle primarie

di ADRIANO SOFRI

Vorrei proporre un paio di argomentazioni a Bersani. Il quale invita a valutare i passi che il suo Pd compie e a metterli a confronto con l'operato altrui. Ha moltissime buone ragioni: non so se abbia ragione per intero.

Lo spettacolo offerto dagli altri partecipanti alla corsa, vecchie volpi e nuovi furetti, si fa di giorno in giorno più increscioso. Si capisce che, al confronto, esitazioni e compromessi del Pd si mostrino molto più veniali e dunque accettabili. La questione è se basti invocare questa vistosa differenza relativa, o valga la pena di perseguire più nettamente scelte indipendenti dal paragone coi concorrenti.

Prendiamo l'affare delle deroghe e del 10 per cento del "listino del segretario". Le percentuali c'entrano, e possono sembrare più o meno ragionevoli. Poi però c'è il merito. Se deroghe e listino servissero soprattutto a conservare equilibri di apparato e piazzare persone, indebolirebbero assai la novità delle primarie per i candidati al parlamento. Oltretutto i tempi così accorciati  -  non certo per scelta del Pd  -  favoriscono i candidati ereditieri di voti, gli amministratori ecc.

Nel giudizio sulla volontà del Pd di sconfessare nei fatti il meccanismo indecente della legge elettorale conterà l'esito delle primarie, ma anche la composizione delle liste riservate. Non sarebbe bello che l'innovazione venisse soprattutto dalle primarie, e la conservazione soprattutto dai listini; per giunta, dei listini è più
direttamente responsabile il segretario.

Ho orecchiato una storia ferocemente istruttiva, e la giro a Bersani, per il caso che non la conoscesse. Riguarda una zona tradizionalmente "forte" della Toscana, in cui si era svolta un'assemblea di militanti del Pd in preparazione delle primarie per la candidatura alla presidenza del Consiglio, conclusa con un voto-consultazione. Fra i 55 partecipanti, più o meno l'insieme dei membri attivi e variamente titolati, 53 si erano detti per Bersani, 2 per Renzi.

Al voto, che si è tenuto nel luogo della stessa sezione, Renzi ha stravinto, e a Bersani sono andate 53 preferenze. Ora, si è trattato di un caso estremo, ma, benché per eccesso, rivelatore. Le prossime elezioni decideranno  -  speriamo  -  di un'intera e importante legislatura: che le candidature siano complessivamente governate dalla ricerca delle migliori capacità di donne e uomini, vecchi e giovani, e condizionate molto meno (non dirò: per niente affatto, siamo umani) dall'opportunità di sistemare alcune persone e accontentare alcune cordate, sarebbe un investimento lungimirante.

Aggiungo una cosa rispetto ai radicali, non motivata dall'urgenza dell'iniziativa di Marco Pannella. Nelle scorse elezioni politiche Veltroni, che ebbe molti meriti e commise alcuni errori, rifiutò un'alleanza con radicali e socialisti, e la stipulò invece con Di Pietro, il quale si impegnò a entrare nel gruppo del Pd all'indomani dell'elezione, poi si guardò bene dal tener fede alla parola e anzi giocò a oltranza a parassitare e infilzare il Pd. Veltroni candidò bensì dei singoli radicali nelle liste del Pd. Nove di loro entrarono in parlamento (su Pannella c'era stato un veto) e costituirono una "delegazione" nel gruppo del Pd. Durante la legislatura l'uno e gli altri, Pd e Radicali, in modi e momenti diversi, hanno fatto del loro peggio per pregiudicare un impegno comune, ben al di là (è la mia opinione) dei dissensi di merito, e soprattutto per questioni che dirò caratteriali. Dirò anche che la questione caratteriale non riguarda, nella politica italiana, il solo Marco Pannella, come si finge di pensare: lui la dissimula meno, anzi la ostenta.

Ora Pannella sta cercando in maniera estrema di dare a un costante e imperterrito impegno su carceri e giustizia un improbabile sbocco elettorale. Indipendentemente dal quale, non mi è chiaro  -  a me e a molti, direi  -  perché non accogliere i radicali nella coalizione che ha giustamente compreso i socialisti. La risposta migliore punterebbe ancora una volta sull'incidente caratteriale: vacci tu a fare una riunione con Pannella. La migliore, dico, perché ce n'è un'altra. Che i radicali, con le loro manie sul fine vita e così via, siano incompatibili con uno schieramento che riconosca l'apporto decisivo dei cattolici democratici. Questa è la risposta peggiore.

(19 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/19/news/consigli_a_bersani_sulle_primarie-49058429/?ref=HREA-1
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« Risposta #32 inserito:: Maggio 25, 2013, 11:38:39 pm »

Mega-sequestro da 8 miliardi ai Riva.

Lo scandalo Ilva è il doppio dell'Imu

Sigilli a 8,1 miliardi di euro. "Accumulati ai danni dei tarantini".

Il Gip: "L'azienda ha ottenuto negli anni un indebito vantaggio economico a scapito di popolazione e ambiente"

di ADRIANO SOFRI


TANTO piovve, che diluviò. In applicazione di una legge del 2001 che prevede "la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente", la Gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della Procura di Taranto, ha deciso un sequestro senza precedenti: non degli impianti o dei prodotti, come già avvenuto, ma del patrimonio dei Riva, nella misura enorme di 8 miliardi e 100 milioni. Per intenderci, il doppio della restituzione dell'Imu... Qualunque decisione prenda il consiglio d'amministrazione convocato per stamattina, non c'era e non c'è un futuro per l'Ilva con la proprietà dei Riva. Il decreto "salva-Ilva", in vigore da dicembre, prevedeva, in caso di inadempienza, fino al passaggio all'amministrazione straordinaria. Fumo negli occhi, allora, diventato ora reale e urgente, e passato da Clini e Passera a Orlando e Zanonato.

Un'amministrazione straordinaria con una ridotta continuità produttiva e una effettiva bonifica costa. I miliardi sequestrati (ammesso che la Finanza li trovi tutti) non sono comunque disponibili, e il saldo dei materiali dissequestrati  -  circa 800 milioni  -  non basta. Se l'imminente piano europeo, cui lavora l'italiano Tajani, prevedesse uno speciale finanziamento bancario, non lo attuerebbe comunque, con lo spauracchio di un sequestro così enorme, senza un impegno del governo. Intanto nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull'umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio.

Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli "incidenti rilevanti" (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l'ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D'Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.

Fra i reati loro imputati, commessi fra il 1995 e oggi, si cita l'omissione di un piano di emergenza nell'eventualità di un incidente rilevante: a un'obiezione su questo punto, responsabili dell'Ilva replicarono che il rischio di incidente rilevante equivaleva a zero, e questo avvenne alla vigilia del giorno del tornado! Si sottolinea come l'azienda abbia ignorato le disposizioni dei custodi nominati dal giudice. Si ricorda la morte di tre operai nel giro di pochi mesi. La lista è lunga: emissioni cospicue nell'area dei rottami ferrosi; sversamento delle scorie liquide di acciaieria sul terreno non pavimentato; rilascio di sostanze tossiche dovute allo "slopping" e al "sovradosaggio ossigeno" (è il fenomeno che provoca i fumi di colore rosso cupo, per gli ossidi di ferro non smaltiti nell'impianto di aspirazione); frequenti emergenze all'acciaieria, ai rottami e agli altoforni, per le emissioni vaste e prolungate convogliate (le "torce", i camini coi bruciatori in testa) e diffuse (tetti degli altoforni); inadeguata manutenzione dei sistemi di recupero del gas in torcia ai convertitori; mancata comunicazione alle autorità delle gravi conseguenze degli incidenti; costante smaltimento di emissioni gassose equivalenti a rifiuti attraverso i sistemi di emergenza; scarico di rifiuti liquidi nel deposito fossili, immettendo inquinanti dal suolo non pavimentato alla falda superficiale e al mare; recupero di fanghi contaminati da diossine, furani e idrocarburi policiclici aromatici, o dei liquami derivati dalla pulizia dei nastri trasportatori, nel processo di sinterizzazione (la compattazione delle polveri); l'incredibile smaltimento di polvere di catrame e fanghi attivi, oltre che di loppa (il residuo della produzione di ghisa in altoforno) nei forni delle cokerie; miscelazione illegale di catrame con benzolo e naftalene, col doppio vantaggio di venderla e risparmiare le spese di smaltimento di rifiuti speciali; attuazione di vere discariche abusive di rifiuti pericolosi e di pneumatici su suoli non impermeabilizzati, nelle acque superficiali e sotterranee; scarichi di acque reflue industriali pericolose, oltre che nelle aree industriali, "in tutte le superfici esterne destinate a residenze e servizi, nelle strade, piste, rampe, piazzali" - cioè dovunque; e così via. Le cokerie, che già sono, con l'agglomerazione, il reparto siderurgico più nocivo, vengono abitualmente adibite a immondezzai di incinerimento di solfuri, scaglie di laminazione, fanghi di depurazione delle polveri di desolforazione ("anche da stabilimenti esterni"!). Il lessico non è fatto per essere padroneggiato dal lettore profano, ma non offusca la sostanza: praticamente tutta l'attività produttiva si svolge secondo l'accusa in modi dolosamente illegittimi.

Ciascun addebito menziona le prescrizioni impartite dai custodi, e inattuate: ai parchi minerari, ai modi di bagnatura dei cumuli, alla chiusura nastri trasportatori - e agli effetti sugli abitanti del rione Tamburi. I Gestori (poi decaduti) Ferrante e Buffo, denunciando un "allarmismo" seminato da magistrati e custodi, imputavano a questi ultimi di aver causato effetti devastanti, riducendo gli sbarchi di materie prime: in realtà impedendo la speculazione sulle tariffe e dimezzando le giacenze dei parchi minerari, con un sensibile miglioramento dentro e fuori lo stabilimento.
"Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all'Ilva, ai danni della popolazione e dell'ambiente". È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L'onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.

L'alleanza fra Ilva e governo Monti credeva di aver segnato punti decisivi: lo scorporo dell'Ilva dall'Ilvafire e dalla cassaforte della famiglia Riva, la sentenza della Consulta sulla legge salva-Ilva. Intanto però la Cassazione, che già aveva dato seccamente ragione a procura e gip di Taranto sugli arresti per i Riva e i dirigenti, aveva confermato anche l'esclusione di Ferrante dal ruolo di custode giudiziario. Proprio attorno al lavoro dei custodi - tre ingegneri, Barbara Valenzano (39 anni, gestore delle aree a caldo), Manuela Laterza (26) e Claudio Lofrumento (39), e un commercialista, Mario Tagarelli - e della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Noe, gira la prosecuzione dell'azione di procura e gip di Taranto. Per giunta, alla vigilia era stata la procura di Milano a sequestrare ai Riva un miliardo e cento milioni per frode fiscale e truffa allo Stato. A quello Stato che aveva deliberato su misura dei Riva una legge così controversa. L'affiancamento della procura (e della guardia di Finanza) di Milano metterà in imbarazzo quelli secondo cui a Taranto i magistrati sono strani e matti.

Intanto, l'Ilva ha consegnato all'operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.

(25 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/05/25/news/ilva_imu-59584396/?ref=HREC1-1
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 06, 2013, 08:29:43 am »


I confini della linea rossa

di ADRIANO SOFRI


Fra i danni collaterali della tragedia siriana c'è il rischio di una precipitosa perdita di distinzioni costruite attraverso i decenni. Ian Buruma ("La moralità delle bombe" pubblicato ieri) raccoglie un argomento che sembra di buon senso a tanti nell'angustia di questi giorni: che senso ha stabilire "linee rosse" sulle armi chimiche? Forse che gli ammazzati a colpi di proiettili e bombe convenzionali sono meno morti? Dalla Convenzione di Ginevra del 1925 a quella del 1993 è cresciuto l'orrore per le armi chimiche, da Ypres 1917 alla nostra Eritrea, alla guerra Iraq-Iran, alla curda Halabja 1988 e ai sobborghi di Damasco.

Orrore per gli effetti, per i bersagli indiscriminati, e disgusto per la slealtà estrema, erede dell'avvelenamento dei pozzi. In gara con l'orrore cresceva l'avidità di potenze grosse e piccole per il possesso di armi chimiche e biologiche che ne autorizzassero la prepotenza e promettessero, se non l'espansione vittoriosa, la rappresaglia dopo la sconfitta. Gli Stati Uniti ora segnano il passo davanti alle linea rossa che hanno voluto tracciare: può darsi che Obama avesse pronunciato l'intimazione come un esorcismo, per avere un alibi all'inerzia, e contando che Assad non ardisse di oltrepassarla. Ma le armi chimiche, con l'aggravante di colpire i civili, sono per la civiltà internazionale - cioè per la riduzione della barbarie planetaria - una cosa diversa e più grave delle armi convenzionali.

Fa impressione vedere come l'argomento apparentemente di buon senso, in realtà fra qualunquista e cinico, sull'indistinzione delle armi mortifere, faccia dimenticare, perfino a tanti che vi si sono impegnati, battaglie come quella per il bando alle cluster bombs, le bombe a grappolo, o le mine antiuomo cosiddette, che uccidono squartano e mutilano come un bombardamento "normale" - ma con un di più di inganno e adescamento di inermi. O per il bando all'uranio impoverito. Vogliamo passare dallo scandalo della manipolazione sull'esistenza di armi di distruzione di massa, alla dichiarazione della loro irrilevanza? Per far culminare questa liquidazione alla leggera di distinzioni sulle quali si costruisce pietra su pietra, frana dietro frana, riparazione dopo riparazione, la storia della civiltà - della riduzione della barbarie, delle unghie tagliate agli artigli - si chiamano in causa anche l'arma atomica e la nozione di genocidio.

"Esiste davvero una grande distinzione morale tra uccidere circa centomila persone sganciando una bomba atomica su Hiroshima e ammazzarne un numero addirittura superiore provocando una pioggia di bombe incendiarie lanciate in una sola notte sul cielo di Tokyo?" Le vittime di Tokyo furono più numerose, certo. E i bombardamenti al napalm e ai defolianti sul Vietnam non furono meno infami, e Dresda, e... Ma a Hiroshima e Nagasaki gli umani emularono per la prima volta Dio nell'unico modo in cui potevano, mostrandosi capaci di distruggere la terra di colpo, in una creazione alla rovescia. Per la prima volta e per l'ultima, finora: l'unico caso in cui hanno rinunciato a ripetersi. Finora, insisto: perché custodiscono decine di migliaia di ordigni nucleari, e decine di paesi sono pronti a dotarsene. L'ipocrisia e l'inadeguatezza del Trattato di non proliferazione nucleare saranno una ragione per liberarcene - tanto si muore comunque ammazzati?

Infine, il genocidio. "Tollerare il genocidio è intollerabile... A che punto esatto, però, occorre tracciare una linea? Quanti omicidi costituiscono un genocidio? Migliaia? Centinaia di migliaia? Milioni?". Che sia Buruma a proporre simili interrogativi mi lascia interdetto. Riformulateli a proposito di Auschwitz. Fatto? Non occorre altro, se non ricordare che il genocidio - la parola, e poi la tormentata definizione, e la Convenzione delle Nazioni Unite, insoddisfacente quanto si voglia - venne dopo, dopo che nessuno volle tracciare quella linea rossa.


(04 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/09/04/news/siria_sofri_confini_linea_rossa-65850028/?ref=HRER2-1
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 09, 2013, 04:20:35 pm »

L'abisso delle prigioni

di ADRIANO SOFRI

Per una volta, mi metterò nei panni di Giorgio Napolitano. Il quale sapeva, come me e come voi, che il suo messaggio sulle carceri gli sarebbe stato ritorto contro come un vile espediente per trarre dalle peste Silvio Berlusconi. Che ci sono esponenti politici e uomini di spettacolo che sulla rendita di insinuazioni come queste ingrassano. Che la corruzione di comportamenti e lo scandalo di sentimenti di un ventennio sfinito hanno esacerbato l'opinione.

Insomma: che si stava cacciando in un guaio grosso. E allora, perché l'ha fatto? Azzardo una risposta. Se fossi Napolitano, sarei sconvolto, come me, dallo stato delle galere. Mi ricorderei di essere andato  -  lui, non io  -  il giorno di Natale del 2005, a una "marcia per l'amnistia" indetta dai radicali. Otto anni fa: Napolitano aveva appena ottant'anni, Berlusconi stava benone, era capo del governo. A quella Marcia di Natale, Napolitano disse al cronista di Radio radicale che per lui, col suo passato, non era così insolito partecipare a un corteo, sebbene fosse diventato più raro. Ma a questa, spiegò, bisognava esserci. E mi auguro che la politica affronti il problema, aggiunse, "senza lasciar prevalere pregiudiziali, o timori non ben chiari...".

Continuo a immaginare che cosa dev'essersi detto licenziando il suo messaggio. Non se la prenderà, io sono interdetto in perpetuo. Si sarà ricordato che nel giugno 2011 partecipò a un convegno promosso da Pannella e ospitato dal Senato sulle carceri. Berlusconi stava benino, era capo del governo. Lui, il presidente, disse che era una "questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile". Disse che la questione della giustizia e specialmente delle carceri era giunta "a un punto critico insostenibile, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere". Citò "i più clamorosi fenomeni degenerativi  -  in primo luogo delle condizioni delle carceri e dei detenuti  -  e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento". Parlò di "una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana  -  fino all'impulso a togliersi la vita  -  di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell'estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile  -  che solo recenti coraggiose iniziative stanno finalmente mettendo in mora". (Macché: sono sempre lì, questo lo aggiungo io). Continuò: "Evidente è l'abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale... È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo...". E concluse: "Non dovremmo tutti essere capaci di uno scatto, di una svolta, non foss'altro per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte".

Non ci si rifletteva, da nessuna parte, o quasi. Intanto lui, Giorgio, continuava a tormentarsene, penso. Visitava galere, ascoltava invocazioni, veniva alternamente lodato e insultato da Marco Pannella, che gli ingiungeva di rivolgere un messaggio alle Camere. Napolitano è forse altrettanto impaziente di lui, ma lo dissimula meglio, e temeva che un'iniziativa così straordinaria come il messaggio presidenziale sarebbe restata in quelle circostanze lettera morta, e avrebbe fatto retrocedere piuttosto che avanzare la giusta causa e urgente. Però non perdeva occasione per ribadirla. Qualche tempo fa, all'uscita da una visita a San Vittore, a Marco Cappato che lo interpellava sull'amnistia, rispose: "Se mi fosse toccato mettere una firma lo avrei fatto non una ma dieci volte". Berlusconi stava ancora così e così.

Napolitano si sarà ricordato tutto questo. Intanto l'Europa ci condannava ripetutamente, e l'Italia, che lui supremamente rappresenta, veniva vieppiù umiliata. Avrà pensato ancora: "Mentre lasciavo il Quirinale, e avevo pronte le valigie, e mi figuravo un ozio di Capri appropriato alla mia età e ai desideri di famiglia, questo mi rimordeva sopra tutto. Quando ho disfatto le valigie, mi sono ripromesso di riprendere comunque il filo. L'ho fatto ora, prima che sia davvero troppo tardi. Tardi per le scadenze tassative cui ci obbliga l'Europa, e, più irreparabile ancora, per la nostra umanità. Il mio messaggio è là, cliccateci sopra, leggetelo, non vi accontentate di questa usurpazione giornalistica. Troverete tutto, niente di più e niente di meno di quello che penso e sento. Adesso ne ho 88, di anni. A differenza di voi giovani, posso permettermi di guardare lontano. Come volete che mi intimidisca delle speculazioni, delle insinuazioni, degli insulti? Mi dispiacciono certo le incomprensioni e le diffidenze sincere, mi auguro che vogliano misurarsi con la verità. E comunque, posso permettermi anche di dire le cose come stanno: per esempio, che chi mi accusa di voler salvare Berlusconi (che non potrebbe nemmeno San Gennaro, n. d. r.) e assicurare 'l'impunità delle caste', se ne frega del paese e della gente, e non sa quale tragedia sia quella delle carceri".

Cinque anni fa, quando fu varato un indulto mutilato dell'amnistia, che avrebbe sgombrato tribunali ostruiti da un arretrato intrattabile, favorendo prescrizioni agli abbienti e sventura ai poveri cristi, restarono con pochi altri a difendere una decisione del parlamento, lui Napolitano e Romano Prodi. Allora, lo spauracchio agitato sul futuro della democrazia era Previti: Previti restò dov'era, in un comodo domicilio, e nessuno ne ha più sentito parlare. Gridavano che il processo all'Eternit sarebbe stato insabbiato: si è tenuto ed è finito come doveva. Ammonirono che i delinquenti usciti avrebbero messo a repentaglio la sicurezza degli italiani: non successe, e fra gli usciti e i beneficiari di pene alternative ci furono assai meno recidivi. Queste ultime osservazioni, e molte altre cui rinuncio, non sono del presidente, ma mie: un po' per uno.

Considerando tutti questi precedenti, Napolitano ha confidato che non si potesse lealmente fraintenderlo. Che non si possa fraintendere il favore per la stessa amnistia, quando viene da giuristi come Carlo Federico Grosso, da ministri indipendenti come la signora Cancellieri, da direttori di carceri, da sindacati di agenti penitenziari, da magistrati e avvocati e operatori penitenziari. Ci sono 64.758 detenuti per una capienza di 47.615, ha scritto. Ci sono sgabuzzini provvisori di un metro per un metro adibiti a cella, senza finestre, senza una suppellettile, con un giornale sul quale fare i propri bisogni. È un po' lungo il suo messaggio, lo sa, ma si abbia cura di leggerlo. Poi lui non c'entra più. È sovrano il Parlamento. Può fare quello che crede, là sono indicate molte misure diverse, e soprattutto un criterio, e più ancora un sentimento. In Parlamento ci sarà chi è favorevole all'amnistia perché spera che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Ci sarà chi è contrario all'amnistia perché teme che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Napolitano avrà fatto la tara, e si sarà augurato che ci sia chi rifletta perché è in pena per l'inferno in cui stanno i carcerati e le loro famiglie, e per il vicolo cieco in cui si trova la giustizia. (Gli altri, quelli che sono comunque contro ogni clemenza perché sono pieni di rancore e detestano il prossimo loro, non vanno considerati in una categoria a parte, perché stanno indifferentemente nella prima e nella seconda).

Ecco, penso che sia andata più o meno così. Tornato del tutto nei miei panni, ho una cosa da dichiarare, per conflitto d'interessi. Io devo gratitudine a Napolitano, perché non mi diede la grazia. Avrei vissuto il mio tempo supplementare da graziato, sarebbe stata dura.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/09/news/l_abisso_delle_prigioni-68206323/?ref=HREA-1
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« Risposta #35 inserito:: Luglio 01, 2015, 06:15:56 pm »

La grande ritirata dai paradisi dei turisti. Il nostro mondo è sempre più piccolo
La mobilità umana oppone nuove classi: una colpita da guerre e carestie, l'altra spinta dalla voglia di conoscenza e vacanza. E sulla nostra carta ridisegnata dalle violenze ora si cancellano le frontiere: dalla Libia al Corno d'Africa, dal Sinai fino al Mar Rosso

Di ADRIANO SOFRI
27 giugno 2015

C'È UN modo peculiare per tener dietro alla rocambolesca evoluzione della scena geopolitica: star connessi al sito "Viaggiare sicuri" del Ministero degli esteri. Quegli addetti, come generali di una ritirata militare presso a farsi rotta, spostano via via più a ridosso dei nostri confini le bandierine del territorio ancora accessibile. La ritirata riguarda noi, la parte privilegiata, dalla quale si parte con documenti rispettabili, e un biglietto di andata e ritorno in tasca. Dalla parte opposta si viene arrancando, con le tasche vuote di andata e ritorno. La sicurezza, da quell'altra parte, è la più ironica delle parole. Ci si mette in viaggio a rischio della vita. Se si sopravvive, se si tocca terra d'Europa, libertà e democrazia, comincia un'altra traversata, altre soste immemorabili, sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais. Il vero discrimine del mondo di oggi, dice Zygmunt Bauman- lo ridice nel dialogo con Ezio Mauro -  non corre più fra ricchi e poveri, ma fra mobilità e fissità, fra chi resta fermo e chi si sposta. Lui parla soprattutto della finanza globale, che a differenza dal capitalismo industriale non sottostà a vincoli territoriali e si muove fulmineamente da un capo all'altro del pianeta, fino ad annichilire la capacità negoziale di lavoratori e sindacati lasciati a boccheggiare su un loro suolo prosciugato.

Ma è la mobilità umana, nella sua doppia faccia, a opporre nuove classi: l'una urtata dalle guerre e le carestie, l'altra spinta da voglia di conoscenza e vacanza. Il fantasma dell'invasione barbarica e il miraggio del turismo, intelligente o avventuroso o semplicemente piacevole. Quanto pesa, nel nostro sentimento, anche il meno malintenzionato, la carta d'identità che ci fa attraversare con piede leggero i confini di Schengen, il passaporto che ci autorizza, tutt'al più con la seccatura d'un visto, a visitare il mondo pressoché intero. Quando diciamo "extracomunitario" non pensiamo a cittadini con passaporto canadese, o svizzero. Ed ecco che il mondo dei nostri dépliants ci si stringe sotto i piedi, nelle impronte rovesciate delle stesse eruzioni che travolgono e cacciano i fuggiaschi. A marzo, dopo il Bardo, era giusto proporsi di tornare, deprecare le grandi compagnie che cancellavano quelle coste dagli itinerari, promettersi un'estate tunisina colma di bellezze archeologiche e naturali e di dedizione solidale. Ma la cosa era legata a un filo.

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA O SU REPUBBLICA+

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27 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/06/27/news/la_grande_ritirata_dai_paradisi_dei_turisti_il_nostro_mondo_e_sempre_piu_piccolo-117801117/?ref=HREA-1
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« Risposta #36 inserito:: Agosto 09, 2015, 10:49:36 am »


I puntini nel mare della nostra vergogna: annegati e aguzzini
Le autorità, ma anche i comuni cittadini, hanno una preziosa distanza da quel Mediterraneo, mezzo pieno o mezzo vuoto, dove gli esseri umani continuano a morire

Di ADRIANO SOFRI
   
La PRIMA fotografia è presa da più lontano: il mare blu appena increspato e tanti puntini neri o colorati sparpagliati, forse uccelli marini, forse esseri umani. Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c'è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un'ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa. In una foto successiva, più ravvicinata, c'è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c'è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l'hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26, tre bambini, oltre alle centinaia della stiva.

Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un'altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda ". Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L'ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola  -  La chaqueta metálica  -  e l'elmetto famoso con il motto Born to kill. Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l'unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare  -  e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta.

C'è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall'acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all'anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un'Europa civile. Il numero giusto  -  tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest'anno, che già ne conta già 2.400  -  si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell'anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso.

È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall'acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d'oro e una d'argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei.

Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: "Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!" E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un'ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio  -  cioè, dalla Tunisia, tutti  -  con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l'ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia?

Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: "300mila dollari per i sandali di diamanti". Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un'altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura.
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08 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/08/08/news/i_puntini_nel_mare_gli_annegati_e_quegli_aguzzini-120609365/?ref=HRER3-1
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 17, 2016, 10:53:51 am »

Vi scrivo da Mosul, la città irachena spaccata in due

Mondo   
Reportage dalla città irachena. Sciiti, peshmerga, yazidi, turkmeni. Turchia, Russia, Iran.
E la coalizione Internazionale.
La battaglia contro l’Isis è già un ingorgo di manovre che prepara le guerre di domani


Affidarsi ai vari portavoce è impossibile: non che tengano le bocche cucite, al contrario, annunciano ciascuno una data, da domani mattina a gennaio prossimo. Ci si regola su quello che si vede, convogli lunghissimi di blindati trasportati su grossi camion diretti al fronte di nord est attraverso il territorio curdo: sono dell’esercito iracheno, benché alcuni alzino la bandiera con il volto dell’imam Hussein, il protomartire sciita. Ci si regola su quello che si sente, un andirivieni di grossi aerei militari e di elicotteri sulle nostre teste.

Quanti scarponi sul terreno

I capi dell’esercito iracheno proclamano di essere pronti – “in 65 mila” – e di aspettare solo l’ordine da Baghdad. I peshmerga di Erbil sono pronti per definizione, e stanno zitti. I peshmerga di Suleimania e di Kirkuk avvertono che prima bisogna prendere l’ultima roccaforte irriducibile di Hawijia, già qaedista poi dell’Isis, per sgombrare l’intera riva orientale del Tigri. Hashd al Shaabi, i famigerati sciiti «paramilitari» ammoniscono che loro ci saranno – «in 24 mila» -e che non c’è bisogno di altri, tanto meno dei turchi. I curdi del Pkk e di Siria non lo dicono ma ci saranno; rivendicano una nuova divisione della provincia di Ninive in cui un territorio sia loro riservato. Gli americani dicono che non vogliono il Pkk né i paramilitari sciiti.

I turchi di Erdogan rigettano sprezzantemente gli ultimatum di Baghdad, loro sono già a Bashiqa, a un tiro di schioppo, diciamo così, da Mosul, e avanzeranno: e dietro di loro fa ormai capolino la Russia che i giri di valzer diplomatici hanno avvicinato all’unico fronte dal quale erano ancora tagliati fuori. Erdogan, che Dio lo aiuti, ha detto ieri di avere un piano B e anche uno C… Gli iraniani non hanno bisogno di dire niente, per loro parlano i governanti di Baghdad e strepitano le milizie Shaabi. Poi ci sono i battaglioni di yazidi, di assiri cristiani, di shabak e turkmeni sciiti…

I sauditi si riuniscono con gli emirati per ammonire l’Iran a stare alla larga. A terra, sia pure con la beneducata avvertenza di svolgere solo compiti di istruzione e logistica, ci sono anche i militari della coalizione, americani, francesi, italiani, britannici eccetera. Le truppe in terra, gli scarponi sul suolo famosi, sono diventati fin troppi.

La città minata a ogni passo

La direste una farsa se non fosse l’epilogo provvisorio di una tragedia. A renderla farsesca è stato il lunghissimo rinvio. Tuttavia l’alternativa non c’è, salvo lasciare per sempre Mosul al Califfato. Così da un giorno all’altro il nome di Mosul diventerà famigliare e terribile come quelli di Sarajevo e di Aleppo. Più di quelli. La riconquista è annunciata da più di due anni: dal 10 giugno 2014 in cui la capitale dell’Iraq sunnita cadde ingloriosamente nelle mani di al Baghdadi che vi si proclamò califfo. Non so se esistano precedenti di una battaglia simile. Qui si tratta di liberare da un’occupazione spietata una città che ha ancora un milione e 300mila abitanti. Molti di loro aprirono le porte all’Isis, che già da anni con altri nomi vi agiva come un governo ombra, in odio alla prepotenza del governo sciita; i più si sono ricreduti, ma temono la ferocia dei miliziani sciiti e le vendette delle minoranze cacciate.

La grande città è minata a ogni passo con quei congegni esplosivi improvvisati che sono l’arma più micidiale contro gli eserciti regolari e tecnologici. In una città così popolosa, e con le vie di fuga sbarrate ai civili, i bombardamenti e i tiri di artiglieria sono un repentaglio tremendo se non si voglia emulare la terra bruciata di Groznj e di Aleppo. Si può contare su una resistenza interna? Da molti mesi si dice di gruppi che agiscono di notte, uccidono uomini del Califfo, scrivono sui muri la M di al-Mukawama, resistenza. Sono 3mila, 5mila, si dice – esagerando. Venerdì il Califfato ha «giustiziato» 58 cospiratori, affogati e poi bruciati in una fossa comune: fra loro uno che era stato al fianco di al Baghdadi. Si è parlato di un tentato golpe – esagerando. Sta di fatto che i notabili dell’Isis hanno svenduto tutto quello che c’era da vendere nella città, facendola a pezzi, come per una liquidazione.

I tetti di Mosul la favolosa

Ci sono nomi gloriosi di città che abbiamo imparato a pronunciare solo per le cronache del terrore, Mosul, Dacca. Eppure: «Mussola (mussolina): tessuto leggerissimo a trama rada, simile alla garza. Il nome deriva dalla città di Mosul, dove gli europei la conobbero, ma era originaria di Dacca in Bangladesh». Mosul, sapete, ha un minareto pendente, «come la torre di Pisa»… Non ho mai visitato Mosul, e forse per questo il suo nome suona così favoloso alle mie orecchie. Stavo per scrivere che non l’ho mai vista, ma non è vero: l’ho vista dall’orlo della frontiera mobile che separa il territorio dell’Isis da quello curdo, ma era un altro modo di immaginarla. Prima di quel fatale giugno 2014 era un altro il nome che Mosul favolosamente evocava per lo straniero: Ninive. Ma questa gran storia la racconterò un’altra volta. L’antica Ninive, da cui oggi è chiamata la provincia, era rimasta di qua del Tigri, e Mosul era cresciuta sull’altra sponda. Più tardi la città nuova espandendosi l’avrebbe ingoiata, divenendo la seconda dell’Iraq – due milioni.

Di notte, la gente di Mosul sale furtivamente sui tetti, dove i telefoni forse prendono, e parla coi suoi parenti e amici sfollati. Quando avvistano un’auto dell’Isis spengono e scendono precipitosamente. Uno pensa alla vita a Mosul: il niqab obbligatorio, le ragazze «sposate» per forza ai combattenti, due figli su tre arruolati per forza e cambiati di nome, le teste mozzate, i roghi umani, gli «effeminati» buttati giù dalle terrazze. Il mio amico Ahmad vendeva frutta secca e dolciumi. Gli buttarono i pistacchi in mezzo alla strada. «Ma è un dono di Dio», azzardò. «Ha la forma dell’organo femminile», dichiararono quei teologi. In strada anche i lokum appesi: la forma del membro maschile. In strada i sottaceti, si avvicinano all’alcool. E i cetrioli freschi, naturalmente.

La battaglia di oggi le guerre di domani

Mosul è stretta da terra oltre che dal dominio esclusivo dei cieli da parte della coalizione. (Che cosa sarebbe se l’Isis e i suoi concorrenti islamisti disponessero di un’aviazione, come ne dispone Assad coi barili bomba e Putin coi bombardamenti a tappeto? Giorni fa un drone esplosivo ha ucciso qui due peshmerga e ferito gravemente due militari francesi, prima prova riuscita di droni da guerriglia). L’esercito iracheno, dai e dai, ha espugnato i centri della provincia di Anbar, Ramadi e soprattutto Falluja. È il protagonista designato alla riconquista di Mosul. Gli si muovono addosso le truppe «paramilitari» sciite – nome irrisorio, perché sono altrettanto militari e pagate dal governo, ma al comando di privati a loro volta al comando dell’Iran – che pretendono la propria parte, la più esosa, del bottino, e sono in guerra non con l’Isis ma coi sunniti in genere. Minacciano di vendicare a Mosul l’imam Hussein, morto a Kerbala 1336 anni fa…

I peshmerga sono ingaggiati per la battaglia, e gli americani se ne sono assunta la spesa: loro non avanzano rivendicazioni su Mosul, a differenza che sulla curda Kirkuk. La grande battaglia di tutti contro l’Isis per Mosul è già oggi un ingorgo di manovre che preparano le guerre di domani. Gli ultimi giorni sono stati riempiti dalle minacce reciproche fra Erdogan e al Abadi, il vacillante premier di Baghdad. Ieri a Baghdad il solito attentato suicida a un funerale sciita ne ha ammazzati almeno 31 e feriti 63.

La partita militare e quella del dopo

Fermando per un momento il film dell’avanzata su Mosul possiamo vedere tre linee di impegno sovrapposte. La prima è quella militare. La seconda quella dell’emergenza umanitaria: le vite da soccorrere e curare. La terza quella della ricostruzione quando la città sia stata espugnata: che ha a sua volta un aspetto di sicurezza, uno politico – chi la governerà e come – e uno urbanistico. È infatti una grande città storica che andrà a sua volta curata e guarita delle ferite subite finora, e di quelle che la battaglia ultima le infliggerà ancora. Quale preparazione abbiano raggiunto i piani militari non è dato sapere. I comandanti americani vogliono dare un’impressione di gran sicurezza e parlano dei miliziani dell’Isis a Mosul come morti che camminano. Nel secondo confronto con Trump, Hillary ha messo in rilievo il proprio personale impegno e ha fatto intendere che la liberazione di Raqqa verrà dopo quella di Mosul – oltre a ribadire la fiducia nell’apporto curdo. Resta che una battaglia che si deve prevedere lunga e durissima, se fosse scatenata oggi, invaderebbe in pieno la campagna presidenziale americana. «Ora che Trump è crollato nei sondaggi – dice il mio amico Kamo – gli americani non hanno più fretta di avanzare su Mosul».

Mancano anche le tende

Sulla preparazione all’emergenza umanitaria si sa di più, che è molto indietro. Dopodomani arriverà in Kurdistan Filippo Grandi che è a capo dell’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati. In questi giorni si è svolta una missione dell’ambasciatore italiano in Iraq, Carnelos, che ha visitato la diga di Mosul e tutte le principali città del Krg, compresa Kirkuk, e ha ascoltato le preoccupazioni per l’afflusso possibile di sfollati da Mosul – 250mila ne aspettano solo a Dohuk, che già ne trabocca.

I fondi per i rifugiati sono prosciugati e si rischia che i fuggiaschi di Mosul vadano sotto i ponti o affollino gli scheletri dei palazzi in costruzione. C’è bisogno di tutto, a partire dalle tende. In Kurdistan ci sono ancora 30 gradi di giorno, ma l’autunno avanza e le notti in montagna sono fredde. Si può immaginare che cosa significhi far fronte a un esodo di un milione di persone, che si suppone improvviso. Per giunta, il controllo degli sfollati, in particolare degli uomini, sarà lungo e scrupoloso per la paura che vi si infiltrino miliziani dell’Isis. Si può aggiungere che il coordinamento fra le innumerevoli agenzie – dell’Onu, delle Ong, dei governi e delle amministrazioni curde e irachene – pone problemi meno esplosivi ma non meno complicati di quelli fra gli eserciti rivali nella controffensiva su Mosul.

Che cosa farà l’Isis? Che cosa farà la gente?

Mosul è spaccata in due dal Tigri, e la riva sinistra è quella della antica Ninive e della parte più nuova della città. Da questa parte arriveranno le forze della coalizione. Sulla riva destra sorge il centro storico di Mosul, nel quale l’Isis è arroccata. Sei ponti principali uniscono le due rive ed è ovvio supporre che vengano fatti saltare al momento dell’avanzata. La popolazione sceglierà di fuggire o di rintanarsi nelle case e pregare il suo Dio? E che possibilità avrà di fuggire? Certo l’Isis vorrà valersene per farsene scudo o per imputare ai suoi nemici la carneficina. Si teme anche che l’allarme sugli scudi umani faccia da schermo a operazioni indiscriminate della coalizione o di sue fazioni: una Aleppo trasferita a Mosul. C’è infine la domanda sulle vere intenzioni dell’Isis – intendo il nerbo dei suoi miliziani, forse 5mila, non i suoi aggiunti, bambini-soldato compresi: vorrà battersi alla morte, o sceglierà di svignarsela?

Si vocifera di un corridoio che la coalizione lasci loro per riparare in Siria, e di spostamenti già avvenuti verso Raqqa di miliziani e famiglie. Mosul era la città del fior fiore della leadership politica e militare del vecchio Baath sunnita e di Saddam. Magari qualcuno di quei marpioni, accantonati dagli americani e montati in sella con il califfato sta meditando di tornare a tagliarsi la barba.

Da - http://www.unita.tv/focus/reportage-mosul-iraq-sofri-isis/
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 31, 2016, 07:04:22 pm »

Le peripezie di una fotografia curda
Reportage   

Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia per la mia fotografia che tanto mi piaceva. Ma la realtà ha superato la fantasia

Un pomeriggio del 2015 mi ero innamorato di una fotografia. L’avevo trovata esposta al museo dei tessuti, nella Cittadella, il qalat, di Erbil.
La didascalia diceva: «21 marzo 1970. Foto scattata da un maestro di scuola nel giorno di Newroz /il Capodanno curdo/. Mamosta Jalal, Erbil».

Desiderai rintracciare la storia di quella fotografia. La didascalia era laconica e quasi misteriosa. Il luogo non sembra Erbil, sia pure la Erbil del 1970, ma piuttosto uno dei suggestivi villaggi curdi dalle case sovrapposte. Interrogai qualcuno, inutilmente. Provai con la rete. Mamosta significa maestro, Maestro Jalal, può significare un generico attributo rispettoso. Trovai un libro di memorie di Jalal Barzanji, Man in Blue Pyiamas, pubblicato in Canada nel 2001, racconta gli anni in cui l’autore, poeta e giornalista, era stato incarcerato e torturato dagli scherani di Saddam, dal 1986 al 1988. Gli altri prigionieri gli si rivolgono con l’appellativo Mamosta Jalal – mi sarebbe piaciuto che fosse l’autore della foto, ma non era possibile: è nato nel 1953, e nel 1970 aveva solo 17 anni. Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia mia alla fotografia. Se l’avessi fatto, come fra poco vedremo, mi sarei reso piuttosto ridicolo.

La fotografia è bellissima a prima vista. Guardata in un’epoca di selfie induce a una invincibile nostalgia. L’idea è che tutti i vivi vi siano compresi, donne e uomini, piccoli e grandi, vecchi e giovani. I bordi, soprattutto a sinistra, mostrano che molte altre persone sono rimaste fuori dall’obiettivo. Sembra un giudizio universale tenuto in un giorno di festa e senza dannati. Un popolo che si mette così in posa testimonia di una comunità unita e solidale formidabile: l’incarnazione dell’idea mitica che ci facciamo della nazione curda. Un popolo che si mette così in posa per lasciare un ricordo di sé nel giorno del nuovo anno è difficile da piegare per qualunque nemico. Non voglio vantarmi di avere scoperto il dettaglio più singolare, che mi è stato invece segnalato dal giovane cassiere del piccolo museo. Tutti i personaggi della fotografia indossano i costumi tradizionali curdi, ad eccezione di uno: il giovane all’estrema destra di chi guarda, vestito in giacca e pantaloni.

Un pomeriggio di ottobre del 2016 sono tornato al Museo del tessuto con la mia cara fotografa, Neige. Volevo avere una copia migliore della fotografia, che nella mia aveva il riflesso del vetro sotto cui è incorniciata. Ho trovato una sorpresa, la didascalia è cambiata e questa volta è molto più dettagliata. Dice: «Questa fotografia fu scattata il 21 marzo (Newroz) 1970 da un maestro di scuola, Mamosta Jalal, di Erbil. Essa mostra il villaggio di Roste, che si trova a nord est di Soran. È uno dei più remoti villaggi della regione di Balakyati, situata in fondo a una valle profonda, vicino al confine iraniano. È una precoce fotografia a colori e costituisce un’unica testimonianza del villaggio e del suo popolo, e racconta molte storie, non solo del villaggio ma dell’intero popolo curdo. Sebbene Roste esista ancora, non ha più questo aspetto. Durante la campagna di distruzione condotta da Saddam contro i curdi, Roste fu uno dei primi villaggi a venire spianato dai bulldozer nel 1977. Altri 120 villaggi nella regione di Balakyati e altri 4 mila nel Kurdistan subirono lo stesso destino. La loro gente venne dispersa allora dopo centinaia di anni in cui vi aveva dimorato. Noterete che tutte le persone nella foto indossano il costume curdo».

La nuova didascalia era ancora laconica sull’autore della foto, ma faceva fare un gran passo avanti alla mia curiosità e sembrava confermare la prima impressione, che la posa di quella gente così raccolta offrisse un ritratto in miniatura dell’unità dell’intero popolo curdo. Il vice-direttore del museo fu molto gentile, staccò la foto dal muro per posarla sul pavimento e permettere a Neige di rifotografarla senza il riflesso, e soprattutto mi disse che lui no, ma suo fratello, che avrei potuto incontrare la mattina dopo, aveva notizie sul fotografo.

Diventai allegro come quando si apre uno spiraglio su una cosa misteriosa e fa pensare che fra poco se ne verrà a capo: domani mattina, addirittura. Intanto scendemmo dalla Cittadella e andammo alla famosa Casa del Tè Machko, che è scavata proprio dentro le sue mura ed è il più illustre punto di ritrovo degli artisti, gli intellettuali, i politici scontenti, i turisti, le spie e gli sfaccendati di Erbil. Era ancora il primo pomeriggio e Machko non era così affollato, ma c’era il mio amico curdo-italiano-francese Ali Hadi, che è un pittore di fama. La conoscenza con Ali è una delle tante coincidenze di cui il Kurdistan è prodigo, perché lui era stato studente all’Accademia di Belle Arti di Firenze negli anni in cui io vi insegnavo, e ora lui insegna all’Accademia di Erbil.

Insomma ci siamo abbracciati, abbiamo chiesto il nostro tè, gli ho presentato Neige e gli ho subito raccontato che venivamo dalla visita al museo e che ero contento perché avevo trovato una traccia a proposito di una fotografia eccetera eccetera. Stette ad ascoltarmi cortesemente, infatti è un uomo molto cortese, ma a un certo punto si fece più attento e interessato, finché mi interruppe calorosamente: «Ma è suo padre!», e indicò un giovane seduto di fronte a noi con altri, tutti suoi allievi. «Il fotografo, Jalal, è suo padre!». Ho appena detto delle coincidenze curde: questa però! Stava scherzando? Macché.

Quel giovanotto dalla bella faccia si chiama Dara Jalal, è il figlio del «mamosta» Jalal, si è appena diplomato all’Accade – mia, fa il pittore e il fotografo – e insomma ho combinato sui due piedi un incontro con suo padre. Il quale frequenta tutti i giorni la piazza della Cittadella, ma in un’altra casa da tè riservata ai pensionati, sotto il minareto antico sovrastato dal gran nido della cicogna protettrice di Erbil. Avevo trovato il mio fotografo. Neige purtroppo partiva. Avrei preferito che fotografasse lei il fotografo ritrovato: pazienza. Dunque ci siamo incontrati, e sono stato ammesso alla casa da tè dei pensionati, a pieno titolo del resto.

Il fotografo ha 73 anni, uno meno di me, è alto e ha una bella faccia scavata e dei baffetti, si chiama Jalal Majeed Amin. È nato in un villaggio vicino a Erbil-Hawler e si è trasferito in città a dieci anni. È diventato maestro nel 1965 e «sono stato maestro per tutta la vita». Dopo un anno di insegnamento impiegò tutto quello che aveva messo da parte per comprare una Kodak Retina 1B. Fotografava in positivo, le diapositive doveva procurarsele da Bagdad. Fotografava senza altro fine che il proprio piacere. È stata la sua passione principale, l’altra gli scacchi, in cui è maestro. Fu mandato a insegnare prima a Pendro, sulle montagne di Shirwan-Mazin, per 5 anni, poi alla scuola elementare di Roste, e ci rimase tre anni, dal 1970 al 1973. Gli racconto perché la sua fotografia mi è piaciuta tanto. Anche i dettagli: il giovanotto, unico vestito all’occidentale… «Davvero?», dice incredulo. Saranno state 500 famiglie, dice. Gli chiedo come ha fatto a radunare tanta gente per la fotografia, come li ha persuasi… Qui c’è il colpo di scena: alla lettera. «Ma no, non erano affatto in posa. Vedi l’angolino bianco in basso a sinistra? Era un pezzo di palcoscenico. Si stava recitando, era il teatro, per la festa di Newroz, la gente era lì per guardare lo spettacolo». «Aspetta», dice, e tira fuori un’altra diapositiva, che riprende la scena dal punto di vista degli spettatori. Questa.

Infatti, aggiunge Jalal, ho rifatto ogni anno la fotografia nello stesso luogo. Questo basta a far crollare la mia immaginazione su quel popolo così unito e disciplinato e sul maestro fotografo che l’aveva persuaso a radunarsi per la fotografia collettiva. I tetti digradanti non erano che la galleria del villaggio mutato per un giorno all’anno in teatro all’aperto. Jalal mi mostra un’altra panoramica della stessa folla, ripresa da un punto di vista obliquo. Questa

È quasi altrettanto bella, ma non si lascia scambiare per una posa collettiva in memoria del popolo curdo unito. In compenso ha qualche mucca, le uniche disinteressate a guardare verso il palcoscenico. Insomma, gli dico, la mia ammirazione per l’assemblea popolare sui tetti era solo un equivoco. «Ma no, la vita del villaggio era davvero solidale. D’inverno si portava la legna per tutti. Tutti insieme costruivano le case. E si difendevano quando ce n’era bisogno». Ma la sua fotografia com’è finita al museo? «L’hanno comprata al bazar, dove avevano fatto dei poster, senza sapere chi fosse l’autore. Non c’è scritto niente». E come mai? «Nel 1996 avevo venduto il permesso di farne copie a un commerciante, Rahman, che ora è morto. Avevamo fame. Mi diede 3.000 dinari, più o meno 35 dollari. Lui la mandò a riprodurre in Turchia, e lì si rifiutarono di stampare anche una sola parola, perché era in curdo, così scomparve anche il mio nome e il poster diventò anonimo». Che storia: la tua fotografia se n’è andata per il mondo da una parte e tu dall’altra. «Anche la mia Kodak l’avevo venduta, nel 1990: per 5 kg di farina. E una serie di 25 diapo per altri 3.000 dinari. Nel 1977 mi ero sposato e avevamo cinque figli, 2 maschi e tre femmine». Nel 1978 Jalal smise di fotografare, e non ha più ricominciato.

Un autoscatto di Jalal, al centro, sul Helgourd, 3.607 m., nei monti Zagros,1972. Sotto, il maestro Jalal fotografato per me da suo figlio Dara. Le sue fotografie le ha proiettate qualche volta qui a Erbil al Circolo degli insegnanti. Solo nel 2007 ha avuto una mostra modesta a Suleimania, alla Zamwagallery. La fotografia di cui mi sono innamorato io è in copertina, sulla controcopertina c’è una folla formidabile di bambine ragazze e donne coloratissime: è un’adunanza del Partito Comunista iracheno, più di quarant’anni fa. Oggi non si vedrebbe più.

Le coincidenze hanno un’appendice. Mamosta Jalal mi regala il sobrio catalogo della mostra. C’è una pagina scritta, e Lokman, il mio amico curdo-italiano, me la traduce. È di Rostam Aghale, un artista di Suleimania: mi ha preceduto per filo e per segno. Aveva visto a casa sua nel Newroz del 1980 la fotografia su una rivista, «Autonomy», e ne era stato colpito. Non c’era il nome del fotografo. Nel settembre 2006 viene a Erbil e al museo ritrova la foto, senza nome. Ma qui è il direttore, il signor Lolan, a dirglielo: Jalal Majid Amin. «Nel mondo degli artisti, mai sentito nominare». In un secondo viaggio Aghale incontra Jalal. Come faceva, scrive, a fare foto così belle di paesaggi e villaggi con una Kodak senza zoom? È arrivata così la prima mostra di Jalal, «Il fotografo del villaggio di Roste».

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-peripezie-di-una-fotografia-curda/
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« Risposta #39 inserito:: Novembre 05, 2016, 10:56:34 am »

Mosul, l’altra riva del fiume

Mondo   
Il racconto di guerra di Adriano Sofri

Ieri gli scontri sono continuati nel sobborgo di Gobjali, più rarefatti, e la «Brigata d’Oro» irachena si è dedicata soprattutto alla ripulitura degli spazi conquistati.

I fiumi sono fatti per distinguere e unire le due metà delle città. Per dare una fisionomia diversa a ciascuna metà –trastevere, l’oltrarno, la rive gauche- e però congiungerle come una cerniera, come il bordo fra due pagine.

Mosul ha la sua riva sinistra e la sua riva destra, fortissimamente caratterizzate e fittamente cucite insieme dai ponti e da un viavai di imbarcazioni. La riva sinistra, che era stata già la splendida Ninive, fu poi la parte povera, una città di ripiego che guardava con soggezione alla Mosul della ricchezza e dei pascià.

Ora si combatte ancora sulla riva sinistra, ma presto la battaglia si sposterà sul fiume, ridiventato una spaccatura fra due città. Di là c’è quel milione e oltre di persone il cui destino è appeso ai fili di una violenza imprevedibile. Più che mai, con la distanza bruciata, ci si chiede che cosa proverebbe quella gente di fronte alla disinvolta lungimiranza con cui altrove ci si intrattiene sul dopo Mosul.

Lunedì il consigliere del segretario generale Onu per la Prevenzione del Genocidio, il senegalese Adama Dieng, ha pubblicato una dichiarazione su Mosul. Il suo allarme ha il merito di cominciare dalla condanna ribadita «dell’assoluto disprezzo per i diritti umani e il diritto internazionale da parte dell’Isis, appena confermato dai sequestri e dalle uccisioni di massa di civili e dal loro uso come scudi umani, dal ricorso a armi chimiche e da rappresaglie indiscriminate».

Il giorno prima l’Isis aveva tentato di deportare da Hammam al-Alil 25 mila persone da ammassare in una base militare già adibita a mattatoio umano. Formulato questo allarme, e raccomandata la documentazione dei crimini per cui un giorno i responsabili dell’Isis dovranno comparire davanti a un Tribunale Internazionale, Dieng ricorda al governo iracheno l’obbligo di perseguire immediatamente qualunque rappresaglia da parte delle sue forze regolari o delle forze loro associate –leggi le milizie sciite. Esprimendo la preoccupazione di violenze settarie sciite contro i sunniti Dieng aiuta a ricordare come l’esistenza stessa di forze armate sul fondamento di un’appartenenza religiosa sia inconcepibile, almeno quando la religione di quelle forze è al potere, come nel caso dell’Iraq –anzi, è doppiamente al potere, a Bagdad e a Teheran.

«Bagdad non ha un amico migliore di Ankara»
Ieri, le milizie sciite hanno dichiarato ulteriori avanzate nella direzione di Tal Afar, che avrebbe messo sotto il loro controllo le principali vie di comunicazione fra l’Isis di Mosul e quella di Raqqa. Ancora ieri la febbre fra turchi e iracheni sembra essersi repentinamente abbassata.

Dopo che il primo ministro Abadi aveva avvertito i turchi che avrebbero «pagato caro» la decisione di far guerra all’Iraq, il governo turco ha rimpiazzato la voce del ministro della difesa con quella del ministro degli esteri, che ha soavemente dichiarato che «Bagdad non ha alcun amico che le sia più amico di Ankara». E una così intima amicizia non sarà guastata dalle mene di «altri paesi» –cenno sobrio all’Iran. Ieri ancora la truppa sunnita arabo-turcmena addestrata dai turchi nel campo del distretto di Bashiqa, rinominata «I Guardiani di Niniveh», ha vantato la liberazione dall’Isis della zona di Abassiyah, fino a «meno di 3 km a sudovest di Mosul». (Non lontano cioè dall’area in cui operano le milizie sciite).

Il momento di Hawijia
A sera di ieri si è avuta notizia di raid aerei americani e alleati su Hawijia e Riaz, che fanno pensare che sia arrivato il momento tante volte rinviato della liberazione di Hawijia, l’irriducibile roccaforte dell’Isis a sud di Kirkuk. Là l’azione sul terreno spetterà ai peshmerga del PUK, che non hanno rivendicazioni su Hawijia ma ne subiscono gli attentati su Kirkuk. A Suleimaniah però si ritiene che l’azione militare inaugurata dai raid aerei non abbia di mira direttamente Hawijia, nemmeno questa volta, ma l’allargamento del suo territorio liberato così che la marcia irachena da sud a nord non debba trovarsi in una strettoia. Anche qui un grosso problema è posto dalla pretesa di Hashd al-Shaabi sciita di intervenire, respinta da curdi e americani. Io non scrivo dal fronte di Mosul, mi muovo altrove, come potete leggere qui oltre.

Leggo e guardo anch’io, col vantaggio della vicinanza, le testimonianze di chi vi si trova: i servizi televisivi di Lucia Goracci, fra quelli che riesco a vedere. Voglio citare un video pubblicato dalla curda (di Erbil) agenzia Rudaw, breve quasi come un batter d’occhi. Più esattamente, breve come il gesto di liberare la testa e il viso da un velo nero. È una giovane donna, dev’essere appena scappata, e fa quel gesto prima ancora di fermare la propria corsa. In tempo per tornare a essere se stessa.

Da - http://www.unita.tv/focus/mosul-laltra-riva-del-fiume/
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 08, 2016, 10:54:43 pm »

Viaggiare prendendola larga: il mio viaggio a Ninive

Reportage   
Sofri   

Passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà.

Ieri gli scontri sono continuati nel sobborgo di Gobjali, più rarefatti, e la «Brigata d’Oro » irachena si è dedicata soprattutto alla ripulitura degli spazi conquistati.

L’ingresso delle truppe irachene è avvenuto nella parte orientale di Mosul, sulla «riva sinistra» del Tigri. Si leggono i nomi dei villaggi e dei sobborghi in cui infuria la battaglia: Bazwaiya, Tehrawa, Gogjali, alKarama, Jdeidet al-Mufti…In trasparenza, dietro questi nomi a noi nuovi, se ne legge uno carico di gloria e cenere: Ninive.

Le rovine di Ninive stanno a un passo dal sito della battaglia. È lei quella metà orientale di Mosul. Pochi nomi sono capaci dell’evocazione suscitata da Ninive, dalla sua dea Ishtar dell’amore e della guerra, dal palazzo impareggiabile di Sennacherib e dalla biblioteca di Assurbanipal e dalla condanna del Dio biblico. La Ninive splendore e terrore dei fasti di Assurnasirpal: «Scorticai tutti i capi della rivolta, e con la loro pelle rivestii la colonna; alcuni murai all’interno, altri infilzai su pali… Molti prigionieri arsi nel fuoco… Ad alcuni tagliai le mani e le dita, e ad altri il naso, gli orecchi e le dita, a molti cavai gli occhi. Feci una colonna coi viventi e un’altra con le teste, e legai le loro teste a pali tutt’attorno alla città. Bruciai nel fuoco i loro giovani e le loro ragazze…».

La spietatezza non è un’ultima notizia. Si potrebbe annotare che quelli cavavano occhi e innalzavano palazzi e templi e statue; questi cavano occhi e demoliscono i resti di templi e statue.

Da noi il nome di Mosul è associato alla diga, che ne dista, a monte, fra una trentina e una cinquantina di km. I progetti erano iniziati fin dalla metà del Novecento, impegnando una quantità di imprese internazionali. Che la fondazione fosse di un gesso solubile era noto dall’inizio, e che bisognasse riempirla di cemento e malta prima di costruirci sopra. Ma una volta avviati i lavori, nel 1981, l’impresa italo-tedesca che aveva ricevuto l’appalto fu sollecitata a sbrigarsi, e ripiegò su un espediente tecnico che andrebbe intitolato a Sisifo: si scavò una galleria attraverso la quale sarebbe stato iniettato in permanenza il materiale di riempimento, così da compensare la fondazione gessosa che si squagliava. Saddam Hussein volle intitolarsi la diga, e del resto si intitolava più o meno tutto l’Iraq.

La costruzione fu completata nel 1984 e nella primavera del 1985 l’acqua trattenuta del Tigri inondò il vasto invaso sommergendo una miriade di siti archeologici. Questa sì è una gran storia.

L’Iraq e l’Iran erano in guerra, per otto anni, 1981-1988, e più di un milione di morti. L’archeologia era un lusso superfluo se non molesto. Gli archeologi disperati riuscirono a strappare la concessione di scavare quanto potevano, fino allo scadere del tempo –alla rottura delle acque, per così dire.

Arrivarono missioni archeologiche da molti paesi, anche dall’Italia, naturalmente. Il territorio apparteneva, allora come oggi, al governatorato della curda Dohuk. Ho ripescato un resoconto finale patrocinato dalle autorità irachene: una lettura troppo tecnica per le mie competenze, ma a grattarci dentro affiorava l’angoscia per un mondo riperduto.

C’era una introduzione ufficiale, conteneva naturalmente un paragone coi «barbari iraniani, che non sanno che cosa sia cultura e civiltà» –riferito al regime khomeinista non è inappropriato- e una dedica a Saddam, «vessillo di cultura e di pace». Sperticata, come quelle di Assurnasirpal. Vediamo. C’è una missione polacca, si occupa dei siti paleolitici di Nemrik, Tell Rijim e Tell Raffaan.

«I risultati preliminari dell’ispezione compiuta nella microregione di Raffaan mostra che il primo insediamento umano nella valle del Tigri a nord di Mosul rappresenta il più antico stadio nello sviluppo della cultura umana». Che non è poco, ma subito dopo avverte che è solo perché hanno scavato qui: anche altrove, tutt’attorno, dev’essere così. I polacchi fanno la loro terza e ultima campagna di scavo nel 1985. Hanno per così dire l’acqua alla gola: «Il livello del Lago Saddam continua a salire».

Si concentrano sui resti del vasellame di Ninive 5 e sull’esplorazione degli strati di ceramica di Khabur (1900-1400 a.C.). Trovano sepolture, vasi, manufatti in bronzo, sculture. Crateri e vasetti dipinti, a motivi geometrici e animali stilizzati, calici, sigilli assiri in stile line are. Ci sono i giapponesi, lavorano ai tell (collinette) di Jigan, Fisna, Musharifa, Der Hall. «Almeno 150 siti archeologici saranno sommersi dall’acqua», scrivono. Il più vasto è Tell Jigan, al momento c’è un villaggio yazida –sarà sommerso anche lui. «Attualmente gli abitanti dei villaggi risiedono attorno al tell, impegnati nell’agricoltura o nella raccolta di ciottoli lungo il Tigri per società di costruzione». I ritrovamenti coinvolgono 6 diversi livelli, dal periodo Hassuna (5600-5000 a.C.) al primo tempo islamico.

Gli inglesi del British Museum scavano a loro volta a Khirbet Khatuniyeh, 30 km a nordovest di Mosul. Continuano freneticamente dal 13 febbraio al 3 aprile, giorno in cui l’acqua li sommerge. Madame du Barry sul patibolo implorò: «Un istante ancora, signor boia».
È una leggenda, ma sarebbe verosimile che l’avessero detto davvero quei bravi archeologi giapponesi e i loro colleghi mentre l’acqua montava. E però proprio l’ultimo giorno estraggono il pezzo più prezioso: un rhyton per libagione in terracotta -una coppa per bere- che termina in una testa di ariete dipinta a strisce rosse. Simile al rhyton trovato in una tomba di Nimrud, che però è privo della decorazione a pittura.

Spostandosi dal basso in alto man mano che l’acqua sale gli inglesi riescono ancora a condurre una campagna di scavo fin nel 1986, nell’area di Tell Abu Dhahir. Attraversano otto strati: parto-ellenistico, tardo assiro, Khabur, Taya o accadico, Ninive 5 dipinto, Uruk, Ubaid, e Hassuna, l’ultimo, che poggia sul suolo vergine. La missione francese del 1983-84 opera a Khirbet Derak e Kutan, trova soprattutto documenti importanti delle culture Halaf e Ninive 5, sigilli impressi su bitume ecc. Gli Halafiti (6°- 5° millennio a.C.?) allevavano anche maiali, dunque erano sedentari –i suini non sono capaci di transumanza.

C’è nel 1984 anche una spedizione italo-tedesca: Frederick Mario Sales da Venezia, Sebastiano Tusa da Roma, Gernot Wilhelm da Amburgo e Carlo Zaccagnini da Bologna. Lavorano a Tell Jikan, Tell Karrana, Tell Khirbet Salih. Una campagna tedesca si svolge ancora nel 1985 a Hirbet Aqar Babira. Sempre nel 1985, da marzo a maggio, avviene una spedizione sovietica al Tell Sheikh Homsy, a pochi km dalla cittadina petrolifera yazida di Zummar.

Anche Zummar verrà sommersa, Saddam ne fa costruire un doppione più in là, e poi sommerge anche quello con la sua campagna di arabizzazione forzata. Quando il livello dell’acqua è particolarmente basso, ne riemergono cupole e cime di minareti della vecchia Zummar. Come da noi in Lucchesia, quando il lago di Vagli si svuota e riaffiorano le case e i campanili di Careggine, con quell’aria di spettri pieni di rimp rove ro. L’ultima volta che ho visitato la diga era maggio. Era deserta, c’era uno che ci pescava dentro con una lenza arrangiata, è piena di grasse carpe.

Il peshmerga che mi accompagnava si lavò le mani i piedi e la faccia nell’acqua e fece le sue preghiere. Il livello dell’invaso era decisamente basso. Era vietato fare fotografie. Era vietato ai lavoratori parlare con gli estranei. Stupidaggini. È ancora tutto vietato. I giornalisti ci vanno, fanno fotografie e video, riprendono i bersaglieri incolpevoli e tornano a casa col loro pescato. I bersaglieri si annoiano, essenzialmente. Stanno in un recinto dentro un altro recinto. La mensa è ottima, pare.

A maggio i tecnici della Trevi erano appena venuti. Non li vidi, ma ne incontrai un gruppo all’aeroporto di Erbil. Una decina, piuttosto giovani ed energici, qualcuno scrive sul portatile, qualcuno guarda fotografie, altri aspettano e basta. Gli guardo le scarpe, guardo le mie, e riconosco la stessa polvere spessa. Venite dalla diga, dico. Infatti, sono consulenti di rientro dall’ispezione. Uno scrive un diario, lo faccio sempre quando vado in giro per il mondo, a caldo, dice, una volta a casa non è più la stessa cosa.
I vostri erano preoccupati di sapere che venivate alla diga di Mosul? Non gliel’abbiamo detto, rispondono. Io ho detto che andavo a Doha, dice uno, e un altro: io a Istanbul. Chiedo come hanno trovato gli impianti. Si vede che sono senza manutenzione da trent’anni, dicono, ma all’origine sono ottimi, impianti e macchinari. Poi uno si alza e va a sussurrare agli altri che è meglio stare zitti, ha letto in rete una mia cronaca dalla diga. Mi viene da sorridere. Non vi preoccupate, dico, me ne fotto degli scoop.

Me ne fotto tuttora degli scoop. Ora Mosul è vicina, e anche le canaglie Daesh e la miscela di liberatori, e soprattutto un milione e più di persone minacciate. E ancora la vicinanza di quella antica Ninive a farsi sentire. Anche lei ricavò la propria grandezza dalla ferocia, ma il tempo che è scorso mette una specie di anestesia morale sui suoi strati archeologici. I morti ammazzati furono anche allora troppi per uscire dalla contabilità e meritarsi una commemorazione: restano Ishtar dai seni rotondi e dal ventre materno e dalla vendetta crudele e il mirabile leone scolpito trafitto e morente ma messo in salvo al British Museum. Bisogna fare dei giri larghi, nel Kurdistan di oggi.

Il Kurdistan stesso gira attorno a Ninive e a Mosul come per accerchiarla, dopo esserne stato accerchiato: il monte Sinjar, Zakho, Duhok, Erbil, Makhmour, Kirkuk…Sono passato da Akre, dove la città vecchia è tutta arrampicata, ho visitato il caravanserraglio, che dentro è in rovina ma ha ancora un maestoso portale.

È venuto a interpellarmi bruscamente un anziano male in arnese ma aitante, mi ha chiesto se fossi ungherese. No, gli ho detto, mi dispiace. Ma parli ungherese, ha insistito, un po’minaccioso. Nemmeno, ho detto, mi dispiace. Mi hanno tradotto la sua storia: era in galera sotto Saddam, è stato in cella con un ungherese e ha imparato i rudimenti della lingua e non trova mai nessuno con cui praticarli. Mi dispiace, gli ho detto: però sono stato in galera. Sono arrivato fino ad Amedi –Amadyah , vicina a tutti i confini, favolosa in cima a un monte capitozzato, assira e curda ed ebraica e cristiana: la città dei re magi.

Turismo non ce n’è, naturalmente, tutto va in pezzi. Sceso da Amedi ho preso un tè nel piccolo centro lungo la strada, in una pizzeria gestita dal signor Taha Amide, formidabile faccia di caratterista che mi rivolge la parola in olandese, poi in tedesco, poi in italiano. Gli chiedo quante lingue conosca, dunque, dice, vediamo: olandese, tedesco, italiano poco, arabo, curdo naturalmente, tutte le lingue curde, e poi spagnolo e turco, e inglese, ma poco.

Di notte passiamo da una strada interna minore per tornare a Erbil, avevamo voglia di vedere Barzan, il villaggio natale di Mustafa Barzani, che vi è sepolto, e il Memoriale a lui dedicato. Ma abbiamo fatto tardi ed è una notte di buio pesto. La strada è sorprendentemente dissestata per un luogo così storico, che è ancora la dimora dei Barzani. Forse vogliono tenerla al riparo dalla folla. Il presidente Massud, figlio di Mustafa, ha popolato la zona di animali selvatici vietando la caccia in qualunque periodo dell’anno. In questa zona avrebbe dovuto essere costruita una diga sul Grande Zab, che raddoppiasse quella di Mosul e ne dimezzasse la portata, per ridurne il pericolo. Ma i Barzani, si dice, non hanno intenzione di sacrificare il loro terreno ancestrale.

Ninive passò, passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà e l’im presa di iniezioni di cemento e le coalizioni e gli imperi di Erdogan e degli ayatollah sciiti e di Riyadh wahhabita. Al museo di Erbil incontro quattro giovani italiani, di Milano, Roma, Genova, che in un cortiletto sgangherato spolverano e catalogano i sassi che hanno scavato a Makhmour, sotto un cielo nero di petrolio incendiato. Toccherà a loro.

Da - http://www.unita.tv/focus/viaggiare-prendendola-larga-attorno-a-ninive/
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« Risposta #41 inserito:: Novembre 08, 2016, 11:00:56 pm »

Ecco i nemici del Califfo

Reportage   
Mosul   

Con l’Unicef nel campo profughi a Dibaga.
Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, ora accoglie oltre 5mila famiglie

Ieri siamo andati con l’Unicef a Dibaga. Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, poi è diventato una città di qualche decina di migliaia di abitanti –ieri ne aveva 32.040, per 5142 famiglie. Di questi, 16.200 hanno meno di 18 anni. La maggioranza ha molto meno di 18 anni. Sapete com’è andare per un campo di profughi, e in questi giorni per di più si pensa ai numeri degli sfollati in Italia.

Una guerra è diversa dal terremoto. Il terremoto non ha nemici, benché possa essere crudelissimo. Una guerra li ha e si gonfia di odio. Dapprincipio, in un campo, si è confusi e spaesati perché non ci sono persone, ma mucchi di persone, bambini che fanno ressa, che spingono per arrivare a toccarti. Dura poco, perché prendono l’iniziativa e si fanno riconoscere una per una, uno per uno, con una specie di discrezione invadente: ti si aggrappano, e poi si staccano per passare la mano ai prossimi. Si prende e si dà una confidenza piena nel giro di qualche minuto. Poche ore prima che venissimo qua il Califfo, quell’al-Baghdadi, aveva fatto diffondere –o chi per lui – un messaggio roboante. Resistere e morire, attaccare a morte sauditi e turchi, colpire dovunque e preferire la Libia, come meta personale.

Il Califfo probabilmente pensa di voler bene ai bambini. Fa loro l’onore di renderli guerrieri e tagliagole fin da piccoli, di toglierli da casa e da scuola e forgiarli come uomini (e donne, molto meno, naturalmente) nuovi. Ha stampato dei manuali scolastici adatti ai suoi programmi: una sola materia. Gli altri, i bambini destinati a essere bambini, sono i suoi nemici.

Sono questi che ci sciamano addosso per darci la mano, per dire tenkiù, per guardare la fotografia –per farla, anche: oggi pubblichiamo le nostre ma solo perché non ci eravamo preparati a raccogliere le loro, che sarebbero un impareggiabile reportage sul campo. Il campo –i campi, perché si sono moltiplicati- ha fame di spazio per le tende, e l’Unicef e le altre buone volontà devono sgomitare per guadagnare uno spazio alle scuole. C’è il sole di nuovo caldo oggi, una fila di bambini con un tesserino d’identità in mano, passano davanti a un tavolino dove un grosso signore burbero prende i loro dati e dà un foglietto, col quale, lì accanto, ritirano lo “school bag”, lo zainetto celestenazioniunite che intanto gli addetti stanno riempiendo di: quaderni, matite e, meraviglia, un temperamatite.

Quando l’orario della distribuzione finisce, e anche i bags, i bambini restati senza sono tanti, e tristi come se avessero perduto un patrimonio. Ci chiedono di aiutarli a ricevere quello che gli spetta, spieghiamo di no, vaglielo a spiegare. Chiedo di tradurre che domani, glieli daranno domani. Domani no, corregge il traduttore, è venerdì, è festa. Ve li daranno dopodomani. Facciamo il giro delle classi. Che cosa vorrebbero diventare, domande così. Dentista, uno. E imparare l’inglese, dicono in coro le bambine. Se sai l’inglese parli con tutti. Inshallah –come si dice in inglese? «Godwilling», ma il concetto è un altro.

C’è una zona di «transito» riservata agli uomini che la polizia controlla prima di accettarli, può durare un’ora, o settimane. Gli uomini sono molto meno numerosi delle donne: alcuni perché sono andati con l’Isis. Qui arrivano meno dalla zona di Mosul, più da quelle di Hawijia, Qayyara. Stanno seduti, i mariti da un lato della rete le mogli dall’altro, a parlarsi, o a starsene zitti. Specialmente i nuovi venuti hanno paura di essere riconosciuti, delle rappresaglie sui parenti. Hanno racconti terribili, naturalmente. Da Mosul sono usciti ancora in meno di 40 mila, e soprattutto dal circondario. Però a Mosul il disastro deve ancora arrivare. I nuovi venuti aspettano l’inverno che si annuncia. Sara, 7 anni, che viene da Jara La, Makhmour, dalla fotografa non si stacca più invece. Non le manca la sua casa, le dice. E come mai? Perché mi sono liberata dal gatto di mio fratello, non lo potevo soffrire. Ha 4 fratelli e 4 sorelle, hanno pagato uno spallone 100 euro l’uno, in 11, per scappare.

In tv le piacciono i film di paura e i fantasmi, questi perché volano. Vuole fare il dottore, perché il camice è bello e può ascoltare il cuore degli altri con lo stetoscopio. Maria, che è un’italiana dell’Unicef, ha trovato dei bambini che saltano alla corda con dei fili elettrici, tranne uno bravissimo che invece ha una vera corda, con le maniglie e tutto. E’ la sola cosa che si è portato via scappando da casa. Una sorella di Sara si chiama Athra, ha 19 anni, era in casa di uno zio. Aprì la porta e si trovò davanti i ceffi dei Daesh. Ebbe una tale paura che per un mese e mezzo non uscì più dalla casa. Quando è venuta via si è coperta di nero dalla testa ai piedi, anche le mani, ma a un posto di blocco dei Daesh hanno fatto una scenata a suo padre perché lei aveva gli occhi scoperti


………………………………………………………………..


Le tre guerre di Erdogan
Medio Oriente   
Erdogan, un avventurista, che gioca d’azzardo su tre fronti

Adriano Sofri   · 5 novembre 2016
Si era detto: quante guerre si dirameranno dal tronco della guerra all’Isis e alla sua roccaforte principale, Mosul. Si era calcolato: 10, forse 12. Forse bisogna dare un colpo di freno e uno di acceleratore.

Di freno: perché si è presentata, e ancora si continua, una prima tappa della battaglia per Mosul come se Mosul fosse già presa, e invece si è presa e solo in parte solo la sponda orientale di Mosul, e vi si combatterà ancora a lungo, e ieri la resistenza è stata più forte che mai, e al di là del fiume aspettano le migliaia di miliziani dell’Isis, suicidi e soprattutto omicidi, e il milione e oltre di persone chiuse come in un recinto di mattatoio.

E un colpo di acceleratore, perché le tensioni pronte a esplodere dopo Mosul hanno fretta di divampare mentre ancora bisogna combattere e vincere quella guerra dichiarata ipocritamente comune. In questo rincaro c’è un giocatore che vuole surclassare gli altri con le sue puntate d’azzardo: Recep Tayyp Erdogan.

Fate un conto. Erdogan è uscito trionfante da un colpo militare (serio, non di facciata, e non privo di ragioni) e ha liquidato, sotto il nome di cospirazione gulenista, una vasta parte della società civile turca: scuole, tribunali, polizia, esercito, giornali e tv e radio… Ai curdi, che sono per lui prima che un problema politico una intima ossessione, aveva già mosso guerra per terra e per cielo, trovando nella loro organizzazione militare, il PKK, il Partito dei Lavoratori Curdo, un nemico altrettanto risoluto.

Ieri, con l’arresto dei due copresidenti dello HDP, il Partito Democratico dei Popoli curdo, e di una decina di parlamentari, dopo che il parlamento aveva votato a maggio una svergognata esclusione dello HDP dall’immunità, il regime turco ha fatto terra bruciata della distinzione fra una via democratica curda e una della lotta armata, e ha compiuto un passo decisivo nella trasformazione del confronto militare fra il proprio esercito e quello partigiano del PKK in una vera guerra civile. E i curdi in Turchia sono fra i 20 e i 25 milioni, e hanno un loro antico e fiero territorio.

Ieri un membro influente dello storico partito kemalista, CHP, il Partito Popolare Repubblicano, il secondo partito turco (lo HDP è il terzo) che era stato prodigo di riconoscimenti a Erdogan all’indomani del colpo militare, ha dichiarato che la repressione dei leader e dei parlamentari dello HDP equivaleva a un secondo bombardamento del parlamento.

Sempre ieri, il PKK ha detto che il tempo delle parole è finito: era finito già per il PKK, e nella sua determinazione combattente c’era stata anche la volontà di recuperare la propria egemonia rispetto alla via parlamentare del partito di Demirtas, quello che confidava nelle “p a ro l e”. Del resto che ieri sia finita la democrazia in Turchia, come hanno decretato in molti, è vero, e la sola obiezione che può avanzarsi riguarda la convinzione che fosse già finita l’altroieri.

Noto qui la nettezza del giudizio del presidente del consiglio italiano, che sulla Turchia di Erdogan non aveva avuto indulgenze e ipocrisie, ed è una buona cosa. Questa interna è la prima e per il momento principale delle guerre guerreggiate di Erdogan, che ne ha almeno altre due. La seconda si svolge oltre il confine siriano, dove le forze armate turche intervengono per terra e per cielo contro l’Isis –cui avevano elargito a lungo un sostegno attivo o passivo- e soprattutto contro i curdi siriani di Rojava, il Kurdistan d’occidente, che resistendo all’Isis e tenendo a distanza le truppe di Assad hanno guadagnato un proprio territorio minacciosamente allungato lungo la frontiera con la Turchia.

Questo secondo fronte delle guerre di Erdogan è minato da ogni lato: la Turchia era riuscita a iscrivere il PKK nella lista nera del terrorismo riconosciuta da Unione Europea e Stati Uniti, ma non ha ottenuto lo stesso risultato col PYD curdosiriano, il Partito dell’Unione Democratica, che è però tutt’uno col PKK, e ha costituito finora il principale alleato sul terreno degli americani e alleati, e continuerà a costituirlo, salvo uno scandaloso voltafaccia, fino alla presa di Raqqa, capitale siriana dell’Isis.

Erdogan non è mai stato in così malandati rapporti con gli Stati Uniti e la Nato, né con la Germania, nonostante la compravendita di fuggiaschi siriani, e finalmente il rinfocolato amore con la Russia non è così caloroso da risarcirlo: Putin resta il capo di u n’internazionale sciita.

C’è una terza guerra, in Iraq, e ora ha il nome di battaglia di Mosul. Anche qui Erdogan ha giocato da avventurista. Aveva piazzato suoi militari, uomini e armi, vicino a Bashiqa, tenuta dall’Isis ma già terra di yazidi e cristiani. E gli yazidi sono, dopo il massacro e la fuga sul monte Sinjar, devoti del PKK e dei curdi siriani che li difesero valorosamente nella rotta iniziale dei peshmerga di Barzani. Militari e armi turche in territorio iracheno erano fino a poco fa un episodio minore, minimizzato dagli stessi turchi come un addestramento di truppe locali su invito del governo di Erbil, né confermato né smentito.

Improvvisamente, iniziata l’offensiva per Mosul, Erdogan ha alzato la posta del suo intervento iracheno oltre l’immaginazione: Mosul è turca, ha ammonito, ed è turca Kirkuk e tutto il vilayet ottomano di Mosul e Ninive. Turco dunque tutto il Kurdistan iracheno, quello che si è già conquistato dal 2003 un’indipendenza di fatto e conta i giorni per prenderselo di diritto, e turco tutto quello smisurato petrolio e gas. Proclami reciprocamente bellicosi si sono scambiati fra governo turco e governo iracheno, alternati da propositi più concilianti, ma le mine sono molte e pronte a scoppiare. Prima fra tutte l’avanzata delle milizie iracheno-sciite verso, almeno così pretendono (“siamo a 15 km.”), il centro strategico di Tell Afar, oggi dell’Isis e già turcmeno, che la Turchia ha fissato come linea rossa al proprio intervento militare, benché sia Iraq.

E del resto le milizie sciite vogliono dire Iran, e l’eventuale guerra per Tell Afar sarebbe un’enne sima guerra interposta, qui fra Turchia e Iran. Cerca guai, Erdogan. Si dirà che è così sicuro di sé, così al riparo grazie al consenso che si è procurato nell’esaltato sentimento nazionale e nell’epurazione di massa dei dissenzienti o anche solo degli infidi, da poter giocare la sua doppia e tripla partita al rialzo. Vedremo.

Ma è una pazzia cronicizzare una guerra civile in casa contro un nemico strenuo come il popolo curdo, dopo che suoi esponenti lucidi e brillanti come il Demirtas ieri arrestato avevano fatto intravedere una possibilità di conciliazione e convivenza civile e laica. L’aveva suggerita anche il vecchio Abdullah “Apo” Ocalan che nel suo ergastolo isolato ha maturato una conversione politica e umana sorprendente, benché esposta ancora in un impianto ortodosso, verso femminismo, ecologia, rifiuto dell’aspirazione statale e perfino non violenza. E Ocalan è più che mai un mito vivente per i curdi militanti in Turchia e in Siria (e in Iran e in buona parte in Iraq).

In uno scontro armato con truppe irachene, irregolari o no, attorno alla battaglia per Mosul i turchi comprometterebbero del tutto i propri rapporti con gli americani senza vedersene compensati dai russi. Intanto, l’aggressione indiscriminata all’intera leadership curda di Turchia ha già messo l’alleato stretto di Erdogan in Kurdistan, il presidente Barzani, in un imbarazzo micidiale. Il PKK è la bestia nera del PDK di Barzani, che mal ne sopporta l’esilio armato dentro i propri confini, sui monti Qandil, alla frontiera con l’Iran, e ancora peggio il radicamento all’a l t ro capo del suo Kurdistan, sul monte Sinjar. Il partito rivale del PDK di Barzani, il PUK di Suleimania e Kirkuk, ha buoni rapporti col PKK, e la sua base lo ammira.

Il programma turco di distruggerne le basi nel KRG col consenso anche solo tacito di Barzani, all’indomani della battaglia di Mosul, è reso oggi più irreale e molto più temerario –meno male, si potrebbe d i re. E torniamo a Mosul. Tutto vale a distoglierne l’attenzione. A Mosul le vite di più di un milione di persone sono minacciate. Quanto importano, e a chi? Ho accennato alle tre guerre che Erdogan ha mosso, ubriaco del proprio potere. Ce n’è una quarta che si è tirato addosso, enunciata nel discorso del farabutto che volle farsi Califfo, e incita a far scorrere fiumi di sangue in Turchia (e in Arabia Saudita). A mordere la mano che ieri gli fu tesa

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« Risposta #42 inserito:: Novembre 14, 2016, 04:56:48 pm »

Adriano Sofri   

· 13 novembre 2016
L’Isis e cosa resta dell’Europa

L’Europa deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi: l’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era)

Ieri, nell’anniversario degli attentati di novembre a Parigi, il primo ministro francese Manuel Valls scriveva che “in materia di Difesa, non possono più esserci passeggeri clandestini. Siamo tutti sulla stessa barca! La Francia assume oggi una grossa parte dello sforzo, per colpire Daesh nelle sue roccaforti, in Iraq e in Siria, e combattere i gruppi jihadisti in Africa. Non può essere l’unica”. È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande).

È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande) quello della Francia «lasciata sola» a battersi per conto dell’Europa nel Sahel e nel Vicino Oriente, e a «salvare l’onore dell’Europa», come disse Jean-Claude Juncker facendogli eco. Valls vi aggiunge ora la considerazione che «gli Stati Uniti sono sempre meno coinvolti nelle questioni mondiali». Questa lubrificata frase vuol dire che con Trump nessuno, tanto meno Trump, ha la minima idea su che cosa faranno gli Stati Uniti nel mondo. Dunque la cosa più ragionevole e più urgente è di immaginare che dia davvero seguito ai proclami sul ridimensionamento della Nato e procurarsi gli strumenti per debellare l’Isis, che dopotutto è un problema europeo infinitamente più di quanto sia americano. Europeo come il Bataclan, e come i fuggiaschi che premono ai nostri confini. L’elezione di Trump è venuta nel pieno di una controffensiva per la liberazione di Mosul dall’Isis attesa da oltre due anni, e raddoppiata dall’operazione per isolare Raqqa. Sono le due capitali dell’Isis in Iraq e in Siria. Si era pensato che l’offensiva fosse stata lanciata per decorare la fine del mandato di Obama, o per anticipare la linea più risoluta che Hillary prometteva di tenere. Ora l’affare è passato a Trump, tanto più che è piuttosto escluso che Mosul sia liberata da qui al cambio alla Casa Bianca. Un giornalismo mediamente cialtrone aveva dato Mosul pressoché per conquistata una dozzina di giorni fa, quando la forza speciale «antiterrorismo» irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis.

Da allora l’avanzata non ha fatto sostanziali passi avanti e a volte ne ha fatti indietro, colpita dalle autobombe e gli attaccanti suicidi dell’Isis sbucati fuori dalle gallerie sotterranee o nascosti nelle case.

La battaglia di Mosul durerà a lungo e a ogni giorno cresce la minaccia spaventosa che incombe su una popolazione che ancora supera il milione. Tutto ciò era previsto.
Gli attacchi aerei sono largamente frustrati quando i bersagli si nascondono dentro una folla di civili, e in una folla di civili che vi corre incontro sventolando stracci bianchi è difficile distinguere i fuggiaschi dagli attentatori suicidi, specialmente se sono bambini violentati a questo. Si sapeva anche che le truppe in campo contro l’Isis non sono le meglio addestrate alla specie di estrema guerriglia urbana che Mosul impone. L’Iraq di Saddam aveva un reparto speciale agguerrito per la repressione urbana, dissolto come l’insieme dell’esercito, e l’antiterrorismo addestrato dagli americani manca di una pratica sul campo. Ramadi fu liberata radendola pressoché al suolo. Gli stessi peshmerga, che non operano a Mosul, erano campioni di guerra partigiana sulle montagne ma non hanno esperienza di guerriglia di città. Su questa situazione –dove l’Isis moltiplica la ferocia esemplare del terrore, come nei corpi impiccati ai semafori di cui avete sentito incombe l’incognita della vittoria di Trump.

Delle cose che aveva annunciato in campagna elettorale son piene le fosse, davvero. L’offensiva di Mosul era un disastro, lui avrebbe fatto fuori l’Isis in 30 giorni, bisognava smettere di proteggere degli infidi nemici di Assad e lasciar fare a lui e a Putin… E far pagare il conto agli alleati, e indurli, chi non ce l’ha, a dotarsi della bomba atomica, per esempio l’Arabia Saudita. Lungi dall’essere una battuta, è la prospettiva più verosimile per la Corea del Sud e per lo stesso Giappone, una volta che non si senta più difeso dagli Stati Uniti. Comunque vada, l’Europa, in corsa qua e là per emulare un risultato elettorale come quello americano dopo averlo anticipato, quel che resta dell’Europa, diciamo, deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi. L’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era).

Nella ritirata eventualmente suonata da Trump sono compresi i colpi di testa internazionali cui ricorrere per rimediare ai disastri della ritirata. All’interno, almeno per due anni Trump non ha un’opposizione che ne limi il potere. All’estero, non ce l’ha per definizione. La gente del Dipartimento di Stato, del Pentagono, dell’Intelligence, lo calmerà, si dice, faranno finta di obbedire e invece no, o solo un poco… Magnifica prospettiva. Intanto Trump può forse investire Vladimir Putin, il protettore di Milosevic e di Bashar el Assad, della missione di gendarme del mondo. Non è una sua personale pazzia: da noi in tanti non vedevano l’ora, a destra e a sinistra.

Da - http://www.unita.tv/focus/lisis-e-cosa-resta-delleuropa
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« Risposta #43 inserito:: Novembre 21, 2016, 11:33:12 am »

Opinioni

Adriano Sofri   
· 20 novembre 2016

Benedetto Croce, Trump e noi

Usa2016   

L’altro giorno a Palazzo Strozzi, all’Istituto di Studi sul Rinascimento a Firenze, veniva presentato il bel volume delle opere di Benedetto Croce dedicato a “Etica e politica”, curato da Alfonso Musci (Bibliopolis Edizioni)

Era inevitabile che negli interventi si evocasse la rappresentazione che Croce diede del fascismo come una «malattia morale», una «parentesi» nella continuità della storia civile d’Italia. Quella interpretazione, come si sa, sollevò molte e sentite obiezioni. Si rimproverò a Croce di aver voluto, minimizzando il legame fra il fascismo e la parzialità dello Stato liberale che l’aveva preceduto, minimizzare sulla propria personale indulgenza verso il primo fascismo. All’opposto della tesi sul fascismo come una parentesi era stata l’idea di Piero Gobetti: per lui il fascismo (delle origini, dal momento che scriveva nel 1923 e sarebbe morto venticinquenne nel 1926) era stato una rivelazione della storia d’Italia, l’autobiografia di una nazione che non aveva conosciuto una vera rivoluzione, nella Riforma cristiana né nel Risorgimento.

Croce aveva impiegato la metafora della parentesi nel momento in cui il regime fascista cominciava a disfarsi. Più tardi, in un clima politico meno militante, parecchi studiosi hanno sottolineato come Croce avesse fatto ricorso a quelle immagini (il morbo morale, la parentesi) negli interventi giornalistici e politici più che nei più meditati scritti storici, col fine di riabilitare il ruolo dell’Italia nel mondo del dopoguerra e di tutelarla da una umiliazione esorbitante da parte dei vincitori, e intanto di avvertire come il fascismo fosse stato un fenomeno internazionale. Croce aveva infatti sostenuto la sua tesi per la prima volta sul New York Times, il 14 ottobre 1943: “Il fascismo come pericolo mondiale”.

Là scriveva che i miti in voga al trapasso fra Ottocento e Novecento, superomismo e nostalgia assolutista e rivoluzionarismo marxistico, non avevano avuto la forza «di turbare il senno e l’equilibrio politico italiano /…/ e nessuno di essi sarebbe prevalso se non fosse intervenuta la guerra del 1914, che fornì il materiale umano, o, come si dice, la “massa di manovra” al fascismo, e ne preparò le condizioni politiche propizie». Dunque era stata la grande guerra a far deragliare il senno italiano, e a incubare nel fascismo «non un morbus italicus, ma un morbo contemporaneo che l’Italia per prima ha sofferto e sul quale può istruire gli altri popoli con le sue dolorose esperienze».
È curioso che in questo primo scritto la metafora della parentesi venisse applicata da Croce non al fascismo ma alla guerra: «Certo la parte eletta dei combattenti non si comporto a questo modo, e, chiusa la lunga parentesi della guerra, ripigliò con fervore gli studi interrotti, le opere cominciate e gli uffici ai quali aveva atteso da giovane, e similmente i contadini che tornarono ai loro campi…».

Intervenendo nel luglio 1947 all’Assemblea Costituente per rifiutare la firma a un trattato di pace ritenuto inutilmente punitivo, Croce ribadiva che «cosa affatto estranea alla sua /dell’Italia/ tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta, ma da competizioni di altre potenze, la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui».

L’esorcismo della storia messa fra parentesi

Nel dopoguerra la controversia si inasprì piuttosto che attenuarsi, perché la tesi della parentesi ora non riguardava più solo né tanto la continuità fra l’Italia liberale prefascista e il fascismo, ma, all’altro capo, la continuità fra il regime fascista e l’Italia repubblicana. Si capisce: una parentesi può indicare qualcosa di grave, magari gravissimo, e tuttavia inessenziale, qualcosa che si apre e che si chiude. (A scuola avevamo sempre un compagno che non si ricordava mai di chiudere le parentesi e diventava la dannazione dell’insegnante). Parentesi chiusa, si dice: e così si intendeva che fosse del fascismo. Non poteva contentarsene l’antifascismo più rigoroso e consapevole delle radici profonde e illese che l’illibertà fasciste aveva nella società e soprattutto nell’apparato statale italiano. Però in quella formula della parentesi c’era e c’è un’accezione più generica e condivisa, un desiderio, un auspicio intimo e consolatorio, che la parte ripudiata della storia, pur tradotta in un lungo dominio –un ventennio, nel caso del fascismo- fosse e sia estranea al vero corso della storia, al suo senso, dunque destinata a esserne finalmente superata e accantonata.

“Non praevalebunt”, era l’esortazione di fondo di Croce, ha ricordato nella discussione fiorentina il professore di politica, oggi parlamentare democratico, Carlo Galli. Non praevalebunt, aggiungo, è un altro modo, incoraggiante appunto, di ammettere che intanto hanno prevalso, stanno prevalendo: gli altri, gli avversari, i nemici, quelli del morbo morale o dell’autobiografia di una nazione incompiuta.

Lo stesso Croce, abbiamo visto sopra, aveva menzionato con naturalezza “la parentesi della guerra”, che a sua volta avrebbe imposto di stabilire se fosse stata una parentesi o una rivelazione della storia d’E u ro p a e del mondo. Croce ne era così persuaso, quanto all’Italia, che aveva fermato al 1915 la sua Storia d’Italia dal 1871 al 191 5 , concedendole un anno supplementare rispetto al 1914 della “cesura drammatica della prima guerra mond i a l e”, di cui recita il risvolto della ristampa Adelphi.

La parentesi berlusconiana e quella trumpiana

Ora noi siamo abituati a mettere fra parentesi, a condannare alla reclusione fra due parentesi, ciò che temiamo, detestiamo e sentiamo come pressoché inspiegabile e insensato tanto delle nostre vite personali –le malattie soprattutto, appunto- quanto delle nostre vicende collettive. Noi, se non siamo stati berlusconiani, al contrario, diciamo: “la parentesi berlusconiana”. Lo dicevamo quando era ancora aperta e, come quella dello scolaro renitente, nessuno avrebbe saputo dire se e quando si sarebbe richiusa. La parentesi berlusconiana è durata anche lei molti anni –con intermittenze, le parentesi dei governi Prodi e poco più, ma in questo caso parentesi voleva dire proprio la durata breve e pressoché incidentale, e così ci prepariamo a parlare della parentesi Renzi.

La parentesi berlusconiana è stata vissuta per lo più dai suoi avversari non come un fenomeno di alternanza politica e governativa, ma come l’irruzione di un corpo estraneo nella normalità politica, come una recidiva malattia morale. Lo era stata già il Partito Socialista di Bettino Craxi, benché la formazione di lui fosse la più tradizionalmente politica, della politique politicienne, che si potesse richiedere. Con Berlusconi il corpo estraneo si fece estraneo fino alla caricatura e, complementarmente, all’oltraggio.

Senonché la politica e la vita pubblica in generale non fanno altro che riprodurre corpi e modi estranei, di durata e successo alterno e comunque capaci di prendere il campo. Dopo il Craxi così inteso («un cinghiale entrato nella vigna del Signore», come diceva Leone X di Martin Lutero nella sua Bolla di scomunica) e Berlusconi, è venuto il corpo estraneo di Beppe Grillo –a non voler considerare i numerosi attori e pagliacci minori, pure per lunghi momenti in grado di far la faccia dell’orco e spaventare i bambini. Davanti al successo esoso dei 5 stelle ci si è chiesti, chi non inclinava a imbarcarvisi, «quanto sarebbe durata la parentesi dei grillini».

Ce lo si è richiesto a Roma dopo il trionfo della sindaca Raggi: «Quanto durerà la parentesi della sindaca Raggi?» –qualcuno si è illuso che potesse durare un mesetto sì e no, poi è sceso il silenzio. Adesso tutto ciò ha preso una portata mondiale: “La parentesi Donald Trump”. Un corpo più estraneo di così era difficile da immaginare, tuttavia qualcuno l’aveva immaginato, e soprattutto si era immaginato lui. Noi no, noi non abbiamo voluto. Non erano i sondaggi a sbagliare, eravamo noi. «Non ci posso credere!», è questa la reazione di noi, quelli dalla parte normale della storia, dalla parte del senso e della ragione, dentro le strade, fuori dalle parentesi. Trump ha prevalso, dunque è di nuovo il momento di dire: «Non praevalebunt!». È una parentesi, è incredibile che si sia aperta, prima o poi si chiuderà. E potremo ricominciare da dove eravamo arrivati. Heri dicebamus… Ma dove eravamo arrivati? Che cosa cazzo dicevamo ieri?

La Brexit, Trump e i prossimi casi di ubriachezza molesta

Ho fatto qualche osservazione del genere, quasi per scherzo, all’incontro dell’altro giorno su Benedetto Croce e l’edizione critica di Etica e politica. Oltretutto l’ambiente si prestava. Era la sala adiacente al salone più grande in cui si leggono e consultano i libri della Biblioteca del Rinascimento, al terzo piano di Palazzo Strozzi. Uno di quei posti meravigliosi e poco frequentati di cui l’Italia e perfino Firenze è ancora piena, dove si può andare, specialmente se piove, gratis, e sfogliare riviste, arrampicarsi lungo gli scaffali, o semplicemente guardare fuori dall’alto dei secoli.

Gli oratori del nostro incontro erano seduti davanti a una pala di Cosimo Rosselli raffigurante la Madonna col Bambino e Santi, e insomma tutto sembrava dar ragione alla scommessa di Croce sull’Italia turbata bensì da improvvise deflagrazioni magari importate da fuori ma alla lunga salda sul senno e l’equilibrio della sua storia civile. Un luogo in cui anche l’arredamento vale a riscattare uno spirito di élite mortificato da una cronaca becera. Del resto non è forse questa la discussione che furoreggia dopo l’elezione di Trump?

Se si sia così rivelata una vera e sommersa anima americana appena scalfita dalla parentesi di Barack e Michelle Obama, o se si tratti piuttosto di un sia pur colossale incidente, un po’ come per la Brexit nel Regno Unito, una di quelle sventatezze che prendono un popolo, o la sua maggioranza regolamentare, verso un certo giorno, e il giorno dopo lo costringono a svegliarsi con la testa pesante e il cuore pentito? Noi italiani, un po’ per il senno e l’equilibrio, un po’ per la parentesi berlusconiana, siamo i meglio piazzati per soccorrere i tramortiti americani. E infatti il giorno dopo un editoriale sul New York Times firmato da Luigi Zingales spiegava “Il modo giusto per resistere a Trump”: «Ora che Trump è stato eletto presidente, il parallelo con Berlusconi può offrire una lezione importante su come evitare che una vittoria di stretta misura si trasformi in un guaio ventennale».

“A two-decade affair”. Un’altra parentesi di vent’anni, prima che il mondo ricominci a girare nel verso giusto, quello della storia, il nostro. È come con le guerre, che per definizione sono delle parentesi, anche le più tragiche: cominciano, anzi scoppiano, come i temporali, e bisogna aspettare che finiscano, come i temporali. Delle parentesi nella storia pacifica del genere umano. Ogni tanto, quando fra una guerra e la prossima l’intervallo è troppo breve, la storiografia si rassegna a cambiare passo e la chiama come un’unica lunghissima guerra europea, con l’intervallo di una pace precaria, in cui la guerra interrotta nel ‘18 ha un ventennio per incubare la guerra prossima. Revisioni della storiografia a parte, noi continuiamo a dirci che la storia ci ha fatto un altro tiro mancino, ha aperto una nuova parentesi, e comunque passerà. Prima o poi. Non praevalebunt.

I più attempati di noi, fra sé e sé, si dicono che, salvo un impeachment o un altro imprevisto, dopo aver visto arrivare la parentesi di Trump non avranno il tempo di vederla chiudersi. Nel breve periodo siamo morti. «Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato /il trattato di pace/, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere» (così Benedetto Croce). Ci sono anche dei momenti in cui noi, “noi”, ci chiediamo se forse non siamo noi, la nostra parte, il nostro senso della storia, a trovarci sempre più stretti dalla transitoria malsania dei tempi dentro una parentesi che si vuole chiudere. Ci vuole chiudere.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/trump-e-noi-fra-parentesi/
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 28, 2016, 08:41:53 pm »

Opinioni
Adriano Sofri    26 novembre 2016

Gli eroi non muoiono vecchi
Un uomo sopravvissuto a se stesso, che si è tramutato in un monarca con successione dinastica

Bisogna morire giovani per essere amati con tutto il cuore. Come Camilo Cienfuegos, come il Che, che tanto giovane non era più. Fidel si è tenuto alla sua vecchiaia, e anche noi che gli sopravviviamo, e siamo tentati di rinfacciargliela. Quando desiderammo la rivoluzione ci sembrò di dover scegliere fra due modi, uno cinese, maniaco del metodo, e uno cubano, votato all’irregolarità. Teorizzarono ambedue la guerra di guerriglia, ma i cinesi erano glabri come porcellane e i cubani irsuti di barbe.

I rivoluzionari del Terzo mondo oscillarono fra gli uni e gli altri. Il modello cubano era spartito a sua volta fra due immagini: un eroe morto e un padre della patria vivo. Il Che non diventò mai un padre della patria, restò sempre un figlio, il beniamino. Un cubano di adozione, dunque il più cubano dei cubani, tuttavia sempre uno venuto dall’Argentina e incontrato in Messico e andato a farsi ammazzare in Bolivia. La superficie glabra dei ritratti cinesi sembrava confermare il luogo comune dell’impenetrabilità orientale.

Erano barbudos i cubani, nella loro foggia selvatica, in memoria della sierra e la selva. Barba e baffi sono così decisivi per Guevara che li taglia per travestirsi, all’ingresso in Bolivia, e somiglia così a un anonimo viaggiatore di commercio. Si capisce che, anche quanto a capigliature e vestiario, i giovani degli anni ’60 prediligessero i cubani. La rivoluzione, scrisse Sciascia, può fare a meno delle barbe, la contestazione no.

L’Unione Sovietica era fuori causa, esempio di rivoluzione tradita e di imperialismo mascherato di socialismo. I socialismi “non allineati”, ammesso che fossero presi in conto, sapevano di mezze misure e i rivoluzionari detestano le mezze misure. Fu molto amato il Vietnam di Ho Chi Min e di Giap, e i giovani arrivarono anche in Europa a immaginare di partire per battersi al loro fianco, come avevano fatto i (pochi) loro padri in Spagna, ma era una situazione troppo distante e singolare per diventare un modello. Restava la scelta: Cuba o Cina. La Cina aveva rotto con l’Urss, denunciava il rinnegamento del Marxismo-leninismo e i Partiti comunisti legati a Mosca, a cominciare dal Pci. In Europa, i suoi legami si riducevano, oltre che ai tremendi partitini emme-elle rossi e neri, alla Romania di Ceausescu e all’Albania di Enver Hoxha. Una tirannia brutale e grossolana, e un’altra che aveva serrato il suo paese in una galera disseminata di bunker. Cuba appariva libertaria, scanzonata e avventurosa, oltre che avventurista. L’avventura era il cuore del sogno rivoluzionario dei giovani occidentali fra gli anni ’60 e ’70. Si detestavano i ruoli predestinati, era passato poco tempo da una guerra mostruosa ma sembrava già abbastanza per prendersela con una pace ipocrita e una generazione di padri accomodati nella vita sazia. C’era lo scandalo per la fame e l’umiliazione degli ultimi della terra, che sempre deve ferire le nuove generazioni. C’erano altre guerre, tenute a distanza: il Congo, l’Angola, il Mozambico, infamie degli ultimi colonialismi, e l’Indocina prima francese poi americana. L’America era il nemico principale, anche per gli odiatori dell’Urss: cui si imputava anche che non combattesse abbastanza gli Stati Uniti. C’entrava anche la convinzione che con l’America e con le democrazie “borghe – si”in genere la partita fosse aperta, mentre la tirannide sovietica sulla Russia e i satelliti sembrava incrollabile se non dopo che si fosse scosso l’occidente. Insomma: Cuba e Cina. Cioè Mao e Fidel… Anzi no: perché Cuba era stata ed era ancora Fidel o il Che. Una eccentrica reincarnazione della sfida di Stalin e Trotsky. Niente di paragonabile quanto al sangue versato, né quanto alla furia ideologica.

Le guerre per un paragrafo o per una traduzione che decimarono gli apparati bolscevichi non avevano spazio in una dirigenza cubana cresciuta senza vincoli dogmatici e tanto meno marxisti, in cui il comunismo fu un’adesione tarda e condizionata dall’esterno. Rossana Rossanda riferì di aver raccontato lei, con Karol, a Fidel Castro, che Trotsky era stato assassinato su commissione di Stalin, e lui ne fu sbalordito: eppure aveva vissuto al Messico, e Ramón Mercader, l’assassino di Trotsky, visse fra Mosca e Cuba, dove morì nel 1978.

C’è un economista qui? Era stato comunista Raúl, ma fra il Che e Fidel il più marxista caso mai era il primo, mentre il secondo all’origine era un avvocato legalitario e patriota. C’è quell’aneddoto formidabile, sulla riunione dopo la conquista del potere in cui Fidel chiede: «C’è un economista fra voi?», e il Che alza la mano e viene nominato sui due piedi direttore della Banca Centrale di Cuba. All’uscita il Che chiede a Fidel: «Ma come ti è venuto in mente di mettermi a capo della Banca?» e Fidel: «Ho chiesto se c’era un economista», e il Che: «Ma io avevo capito un comunista!». Il Che era la rivoluzione ininterrotta e la sua esportazione internazionale, Fidel il socialismo in un piccolo paese solo e il realismo politico addobbato di retorica. Una divisione dei compiti, o piuttosto una divergenza che ne avrebbe separato i destini e per Guevara sarebbe finita nel mattatoio della Higuera.

Il Che era il romanticismo rivoluzionario (così argentino!) combinato del resto con un militarismo guerrigliero spietato lugubre e anche compiaciuto. Recitano le righe finali del messaggio alla Tricontinental di Algeri, 1967, «Creare due, tre, molti Vietnam: in qualsiasi luogo ci sorprenda la morte, sia essa benvenuta, purché questo nostro grido di guerra giunga a un orecchio sensibile e un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino a intonare il canto funebre con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria». Il Che delle magliette e di un filone letterario e cinematografico di gran successo ha finito per diventare una specie di hippy poetico e sentimentale, che non era affatto.

E se è vero che un vibrar di chitarra si accompagna sempre alla voce dei rivoluzionari cubani e latinoamericani, bisogna affiancargli quel canto funebre e quel crepitio di raffiche, se non si vuole tradirne la verità. Tanto più che, pur nell’eclettismo che caratterizza i cubani, il Che fu il più impegnato nel tentativo di dare una sistemazione alle loro esperienze, dalla teorizzazione del “fuoco” guerrigliero al tentativo di elaborare rapporti economici più indipendenti dagli interessi e dagli incentivi individuali, al tempo in cui dirigeva la Banca di Cuba e ne firmava le banconote… A questa complicazione della figura del Che appartiene anche la più famosa e venerata delle sue espressioni: «Bisogna indurirsi senza perdere la propria tenerezza». L’accento batteva sulla seconda metà: senza perdere la propria tenerezza. Rassicurava chi si vergognasse della tenerezza come di una debolezza piccolo-borghese.

La durezza invece, ci si sarebbe vergognati di metterla in dubbio, così come la capacità di odiare il nemico. Autorizzava qualche sentimentalismo –mitra e social club e barbe lunghe e mal curate, la cifra latina in concorrenza con l’impassibile e liscia ideologia asiatica- ma lo riservava ai propri compagni, da ripagare con l’implacabilità verso il nemico. Il Che diventava dunque colui che si era ricordato della tenerezza. Però la frase andava letta anche a ritroso: Bisogna intenerirsi senza perdere la propria durezza. Quando un ragazzo inerme, con un suo sacchetto di plastica, scherzò a costo della vita coi carri armati della Tiananmen il 5 giugno del 1989, segnò un passaggio d’epoca: e con lui il soldato alla guida del tank che rifiutò di travolgerlo.

Cosa resta – Gli eroi non diventano vecchi. Chi diventa vecchio smette piano piano di essere un eroe, e a volte tradisce del tutto la propria gioventù. Ce ne sono stati, di veri eroi, anche da noi: Carlo Pisacane, per esempio. “Sacrificio senza speranza di premio”. Quanto a Garibaldi, sulla cui filigrana tanta parte del mito del Che Guevara si è modellata, seppe tenersi alla larga dal potere costituito e invecchiare accanto al suo sacco di legumi a Caprera. Fidel è sopravvissuto di molto a se stesso, si è tramutato in un monarca, ha voluto una successione dinastica. I suoi sostenitori irriducibili hanno accettato di giustificargli tutto, in nome di una perenne condizione di necessità: l’accerchia – mento, l’embargo yanqui… Ma le rivoluzioni che finiscono nella coda stretta del partito unico, del potere a vita, dell’intolleranza del dissenso e del sequestro di un popolo dentro le frontiere, rinnegano se stesse.

Quando, a dicembre del 2011, morì il Caro Leader di Pyongyang, Kim Jong Il, il blog di Yoani Sanchez raccontò che a Cuba erano stati indetti tre giorni di lutto e bandiere a mezz’asta, e paragonò il proprio paese a quella grottesca prigione a cielo aperto. Il paragone era troppo duro da sostenere, ma per un momento fu inevitabile giustapporre le formule nordcoreane –il Leader Perpetuo, il Caro Leader, il Leader Supremo- a quella di Castro, che pure voleva suonare di una benignità ironica: il Líder Maximo. Cuba è piccola, ed era proprio questo a segnare un punto per lei nella gara alla leadership rivoluzionaria. Perché la rivoluzione è sempre, al suo inizio, roba di minoranze. C’èuna fierezza speciale nel piccolo David che ogni volta di nuovo affronta Golia. I cubani sono una dozzina di milioni. Erano sì e no sette milioni nel 1956.

Il Granma misurava 18 metri, era progettato per 12 persone, salparono dal Messico in 82, compreso il Che, Raúl Castro e Camilo Cienfuegos: allo sbarco e alla ritirata sulla Sierra sopravvissero solo in dodici. Due anni e mezzo dopo la rivoluzione aveva trionfato. Si capisce che avesse entusiasmato gli animi ribelli di tutto il mondo, e promosso impetuosamente l’idea che tutto fosse possibile, per chi fortemente volesse. “Soggettivi – s m o”, l’avrebbe chiamato il marxismoleninismo ortodosso, “avventurismo. Ho letto da qualche parte: «Un ricciolo strappato al cadavere di Che Guevara da un agente della Cia fu venduto nel 2007 per centomila dollari». Mi auguro che fosse una notizia falsa, o almeno falso il ricciolo. A Cuba i pellegrinaggi politici non sono mai finiti del tutto, ed ebbero sempre anche, a differenza di quelli tetri e reggimentali in altri paradisi comunisti, un versante turistico. C’erano donne, mare, allegria, canzoni, la trasgressione che il regime cubano lascia sopravvivere anche nei momenti più odiosamente repressivi. Più probabilmente è la gente cubana che non viene piegata. È un fatto che Fidel – titolare del raccapricciante record ufficiale di attentati falliti a suo danno: 638 – è stato il meno ortodosso dei capi rivoluzionari. Provate a chiedervi che cosa resti delle leggendarie ore e ore di suoi discorsi, a parte la frase che pronunciò al processo per l’assalto al Moncada nel 1953: «La storia mi assolverà». Del Che gli scritti restano, Fidel è uomo da orali. Restano di lui, a lettere cubitali, degli slogan.

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