LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTORI. Altre firme. => Discussione aperta da: Admin - Febbraio 06, 2008, 11:22:10 pm



Titolo: ADRIANO SOFRI -
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2008, 11:22:10 pm
da Il Foglio del 6 febbraio 2008, pag. 2

di Adriano Sofri

Trovo assai istruttiva, quanto all'assurdità o peggio dei tempi, la polemica sul bando dei radicali da parte del Partito democratico.

Un po' per lealtà, un po' perché se ne aspettavano molto meno che gli altri commensali (con quella formula pannelliana, i Capaci di tutto contro i Buoni a nulla) i radicali sono stati i più fedeli partecipi della vicenda del governo Prodi, e i meno inclini agli ultimatum e ai calcoli di botteguccia. Emma Bonino si è guadagnata, come ogni volta che le venga affidato un incarico di fiducia - come il soldato Nemecsek, pronto a immergersi nella vasca dei pesci rossi, se la consegna è quella - l'apprezzamento di tutti gli osservatori in buona fede.

Ai radicali si deve in misura decisiva il più prestigioso dei rari meriti di cui il governo può andar fiero, il voto all'O­nu per la moratoria sulla pena di morte. Ai radicali è stato fatto il torto evidente - e come tale riconosciuto in pubblico da alcuni fra i più autorevoli giuristi, in privato da tutti - di sottrarre i seggi in Senato che la lettera della legge, cioè la legge, assegnava loro, capaci oltretutto di dare al governo quella infima maggioranza che ne avrebbe protratto l'esistenza.

In una esperienza governativa lungo la quale le cose buone sono state realizzate non grazie ma nonostante o contro la coalizione di governo, e la consumazione di una maggioranza si è bruciata fino alla mortificazione e al rigetto di un intero popolo, e l'opposizione è cresciuta come un pallone gonfiato senza prendere alcuna iniziativa degna di memoria, e anzi dando prove intestine di meschinità madornale e sbandierando dalla prima ora fantastici proclami di illegittimità del risultato elettorale, i radicali hanno fatto la loro parte costruttivamente facendosene un punto d'onore, come gli ultimi giapponesi di una guerra perduta.

Nel corso di questa esperienza, e già alla sua vigilia, hanno ampiamente dissipato una rischiata confusione fra l'americanismo, che rivendicano, e il bushismo, e fra il liberismo, che rivendicano, e la legge della giungla. Vantando a ragione una estraneità ai vizi castali, e anzi una primogenitura nella denuncia della partitocrazia, si tengono alla larga dalla cresta d'onda demagogica. Hanno auspicato costantemente e vigorosamente indulto e amnistia, e non se ne sono pentiti ipocritamente quando piovevano pietre forcaiole. Hanno sostenuto, con l'esempio della vita e della morte di militanti e dirigenti politici che dalla loro solidarietà hanno tratto e soprattutto dato forza, da Luca Coscioni a Piergiorgio Welby, battaglie tra le più es­senziali per una nobile idea della politica.

Quanto all'aborto, solo una confusione fra la dolorosa libertà di scelta personale del­le donne e l'infamia delle demografie coercitive di stato può ricacciare su trincee opposte e accanite persone accomunate da un intimo amore per la vita. I radicali sono laici, ma questo non dovrebbe guastare in nessun partito, tanto meno nel Partito democratico. Qualcuno di loro sarà anche mangiapreti, ma i preti contemporanei hanno a loro volta appetito da vendere.

Insomma, la mia opinione è che l'idiosincrasia per i radicali sia una brutta malattia, che per giunta vede loro come ammalati dal cui contagio guardarsi.

Ora, in un serio partito che voglia fare da sé, ed essere davvero aperto, l'unico veto accettabile è quello contro chiunque voglia imporre veti alla partecipazione altrui. I radicali non lo fanno. Questa almeno è la mia opinione.



Titolo: SOFRI
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2008, 04:39:30 pm
L'ex leader lc: non fu terrorismo.

Il figlio del commissario: lo era, noi tra le vittime

Onu e omicidio Calabresi

Sofri riaccende la polemica

D'Ambrosio: uscita fuori luogo. Manconi: giusto chiarire il contesto



MILANO — Meglio cominciare dalla fine. «Mi dispiace: argomenti come questo hanno bisogno di spazio e delicatezza, e sopportano male la risposta del giorno dopo. Ma io, sapete, non sono mai stato un terrorista». Adriano Sofri conclude così il suo articolo di ieri su Il Foglio, una chiusa inconsueta che dimostra piena consapevolezza del fatto che le sue parole non lasceranno indifferenti. In effetti: l'ex leader di Lotta continua commenta un articolo scritto su Repubblica da Mario Calabresi, che racconta di un incontro organizzato dal segretario delle Nazioni Unite tra le vittime del terrorismo venute da ogni parte del mondo, al quale ha preso parte in quanto figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato a Milano il 17 maggio 1972 da un commando di militanti di Lc. «Desidero muovere la più ferma obiezione a questa considerazione dell'omicidio Calabresi» scrive. Lo fa a doppio titolo.

Il primo deriva dalla sua vicenda personale. Come è noto, per la giustizia italiana il mandante di quel delitto è proprio lui. Il secondo invece è di altra natura. «Mario Calabresi parla sentitamente delle vittime, "donne e uomini che stavano vivendo la loro vita e non erano in guerra con nessuno". Con Pino Pinelli e Luigi Calabresi non fu così. Non c'era una guerra, ma molti di noi erano in guerra con qualcuno». Secondo Sofri la morte di Luigi Calabresi deve essere collegata alla strage di piazza Fontana, alle accuse «premeditate e ostinate» contro gli anarchici che sono all'origine della morte di Pino Pinelli, delle quali «Luigi Calabresi fu non certo l'autore, ma un attore di primo piano di quella ostinata premeditazione ». La sua morte, scrive Sofri, non è terrorismo, ma fu semmai «l'azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca».

L'anello di Piazza Fontana, dunque. Le 16.37 di venerdì 12 dicembre 1969, quell'istante di sangue che ha fatto cambiare per sempre strada alla storia d'Italia. Ma ancora più di questa tesi, peraltro rispettabile, Adriano Sofri sa bene di aver rotto un tabù con il suo articolo. Per la prima volta contesta una iniziativa, una opinione, proveniente dalla famiglia del commissario. Mario Calabresi ha già dedicato un libro intenso e rigoroso alla sua vicenda umana, e si limita ad un commento asciutto. «Ero e rimango molto contento di aver partecipato all'iniziativa dell'Onu. Si trattava di un simposio sulle vittime del terrorismo, ed è stato emozionante, intenso, un'esperienza di grande valore».

Gerardo D'Ambrosio non ne parla volentieri. «Certo che ho letto» dice in un mugugno. Oggi senatore del Pd, negli anni Settanta è stato il giudice istruttore che ha condotto l'inchiesta sulla strage di piazza Fontana e ha pronunciato la discussa sentenza sulla fine di Pinelli, quella che ipotizzava il famoso «malore attivo» e dava un'assoluzione purtroppo postuma a Luigi Calabresi. «Davvero non capisco dove voglia andare a parare Sofri. La sua uscita è fuori luogo, fatico a capirla. Dice il falso quando attribuisce la responsabilità della pista anarchica al povero Luigi. Fu la Polizia di Roma ad ordinare il fermo di Valpreda. Ma poi, se non è stato terrorismo quel delitto, mi domando cosa può esserlo. Esiste per caso un tribunale che condannò a morte Calabresi? Non mi risulta. Quell'uomo fu vittima di una campagna di denigrazione atroce, senza precedenti e mai più ripetuta, per fortuna. Credo che suo figlio sia andato all'Onu con pieno diritto. Che sia proprio Sofri ad affermare il contrario, mi sembra grave».

Tra gli ex di Lotta Continua, Gad Lerner è uno di quelli che conosce meglio i media e la politica, e ha messo in conto reazioni come quelle di D'Ambrosio.

Si dice sicuro che Sofri non abbia alcuna intenzione di polemizzare con Mario Calabresi, ma è altrettanto consapevole che il crinale sul quale si è mosso il suo vecchio compagno questa volta è davvero stretto. «Adriano prova profondo rispetto per Mario e la sua famiglia, che vivono ancora oggi un trauma irreparabile. Ma questo non può togliere ad un uomo già privato della sua libertà il diritto alle sue opinioni. Trovo paradossale che si voglia additare tigna o superbia nel suo bisogno di ricostruire la verità storica. La storia di quegli anni non è fatta di bianco o nero, di torti e ragioni scolpite nel marmo. È giusto che se ne parli, e che Adriano mantenga la sua libertà intellettuale».

Sintetico e scandito con estrema cura il commento di Luigi Manconi: «Trovo corretto sotto il profilo storico, politico e morale richiamare il contesto in cui maturò quel delitto». Nel complesso ecosistema dei reduci di Lotta Continua, Erri De Luca si è visto attribuire la funzione di bastian contrario, se non di reprobo, proprio per via di alcune sue affermazioni sulla vicenda Calabresi. «Ma questa volta ha ragione Sofri. Pinelli, e anche piazza Fontana, sono stati cancellati dalla memoria di questo Paese. La versione di Adriano deve essere considerata con lo stesso rispetto dovuto a quella che fornisce Mario Calabresi nel suo libro».

E alla domanda più delicata, De Luca risponde netto. «Dei rapporti tra loro due non mi voglio impicciare. Sono questioni personali».

Marco Imarisio
12 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: ADRIANO SOFRI -
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 04:16:14 pm
IL COMMENTO

Sequestro di persona


di ADRIANO SOFRI


Duemila anni fa, a Roma, un capo che vedeva in grande si rammaricò che il genere umano non avesse una testa sola, per poterla mozzare di netto con un colpo solo.
Ieri, a Roma, il Senato ha decretato un colossale sequestro di persona: 60 milioni di corpi in un solo colpo. E' così vendicato l'oltraggio sacrilego della morte di una donna dopo soli diciassette anni di persistenza vegetativa, e riscritto il vocabolario italiano, dove pretendeva che una sonda infilata in gola o nella pancia di una persona fosse un trattamento terapeutico, una cura, e non un'ordinaria colazione.

Vasta la maggioranza che ha realizzato l'impresa, ben più della stessa ingente maggioranza uscita dalle urne scorse, così da corrispondere, alla rovescia, alla vastissima maggioranza di cittadini italiani che dissente dal nuovo decreto, quando non ne è atterrita o scandalizzata. Quando se ne completasse il cammino, gli italiani, dal Presidente della Repubblica all'ultimo povero Cristo, finirebbero espropriati della libertà di disporre del proprio corpo, cioè di sé: e con gli italiani chiunque si trovasse ad agonizzare in Italia per qualche circostanza di passaggio. Era il paese della dolcezza del vivere, non è nemmeno un buon paese per morire.

Certo, resta la Corte Costituzionale, finché dura. Resta il referendum: ma ai referendum le Curie hanno escogitato da tempo l'espediente - furbizia con cui soppiantare intelligenza - che lo sventi. Se non si riesca a impedirne l'attuazione, si promuoverà l'astensione: il quorum proibitivo lavora per noi. Furbizia è ormai la risorsa metodica. Fino a poco fa le Curie dicevano no a qualunque legge sul fine vita. Assediate dall'iniziativa laica e dalla pressione popolare, decisero bruscamente di accettare che la legge fosse fatta: a loro immagine, un'antilegge. L'altroieri il cardinal Bagnasco ha chiesto che ci si sbrigasse a farla. Vedete dunque che non è vero che questa Chiesa non creda all'evoluzione. Ma non è ai cardinali e ai vescovi che si devono muovere obiezioni di parole e di coscienze.

La legge è l'opera di una classe politica molto votata, e del sostegno di un'altra parte meno votata.
Quello che succederà d'ora in poi somiglierà a quello che succedeva finora. Che pazienti, famigliari, medici e infermieri faranno quando e come potranno il loro officio pietoso, mutati solennemente in fuorilegge. Finché un'altra donna, un altro uomo deciderà di sfidare pubblicamente l'usurpazione della legge, in nome della propria libertà e della Costituzione italiana, e l'Italia assisterà di nuovo col fiato sospeso a una coraggiosa agonia da una parte, e alle mene affannate delle autorità riunite dall'altra. L'Italia sta imparando dolorosamente a maneggiare in pubblico questioni di vita e di morte finora confinate, e anche protette, nelle corsie di ospedale e nelle stanze da letto di case dalle tende tirate.

Non sarà la stessa Italia, non lo è già. Cartelli esposti in pronti soccorsi e ambulatori, in tante lingue, dicono: "Noi non vi denunciamo". Tante lingue, due Italie, due cartelli opposti. Anche nel maneggiare ottimismo e trepidazione, sanità e malattia. A Bologna, un medico ha sfidato i candidati sindaco a esibire il loro certificato di sana e robusta costituzione fisica. Il presidente del consiglio è, buon per lui, ottimista e in forma, e tratta le malattie come allegre metafore. Ma le metafore tratte dalla malattia, e dalla biologia, sono brutte e pericolose. Se vuole prendersela con l'America, faccia pure; ancora meglio se volesse prendersela un po' con la Russia del suo amicone. Ma se dice: "Il virus americano", non va bene. C'è un odore di caccia all'untore, e anche di peggio. Se vuole prendersela con la magistratura, libero di farlo, salve obiezioni. Ma se dice che "la magistratura - o una sua parte - è una metastasi", offende imperdonabilmente una professione importante e coloro che la professano, e offende ancora più imperdonabilmente chi è ammalato di cancro e sa nel proprio corpo che cos'è una metastasi. Una sciagura, ma la sua, la mia, la vostra sciagura. Con la quale mi misuro io, ti misuri tu, si misura ciascuno a suo modo, espellendolo da sé e combattendolo come un nemico, sentendolo come una parte di sé, ignorandolo, vincendolo, morendone. Si prendano altrove le metafore, e anche le magistrature, e le Americhe. Si lascino i virus e le metastasi a chi sa, per sé o per i propri, di che cosa si tratti.

La politica professionale non è granché, anzi spesso - per esempio oggi - è abbastanza disgustosa, ma non è "un cancro", "un virus", "una metastasi". E tanto meno l'Aids: il cui abuso metaforico e barzellettiere surclassa tutte le altre porcherie analoghe, peste contemporanea per chi ne parla senza esserne affetto, senza pensare di poterne essere affetto, senza pensare a chi ne è affetto, senza immaginare ogni volta che apre bocca di esserne affetto. Come si dovrebbe. Ora e nell'ora della nostra morte, amen.

(26 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI.
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2009, 11:03:52 am
IL COMMENTO

La febbre del peggio

di ADRIANO SOFRI

 CADONO muri, e lasciano vedere come siamo. Non era nel patto, non c'è stato un casting, non c'erano telecamere pronte. Sono arrivate molto dopo, tutto è arrivato molto dopo. Quelli che hanno fatto in tempo a scappare hanno poi raccontato: "Senza scarpe, senza telefonini...". Avevano ragione, le scarpe sono state sempre la prima cosa nelle guerre. I telefonini sono diventati la prima, nelle paci.

Sono crollati i muri, e abbiamo visto un'umanità vera. Non che l'altra non sia vera, quella del casting e delle telecamere perenni, ma questa è un'altra cosa. Basta pensare al significato di una parola come "fratello", qui e là. Questa è fraterna. Induce a fare un discorsetto sopra lo stato d'animo degli italiani.

Mentre la luna andava verso il plenilunio, le notti scorse, si pensava a chi, all'addiaccio o venuto fuori dalle tende, se la vedesse splendere addosso dal suo cielo di rovine. I terremoti tolgono la fede ad alcuni, in altri la rinsaldano. Io non ce l'ho né la rimpiango, ma ricordo mia madre che pregava, e guardo mello schermo persone sedute in cerchio fuori dalla tenda che pregano, e pregherei con loro, se mi chiedessero di farlo. Ma per chi non abbia il conforto o l'illusione della religione, noi abbiamo Leopardi. Anche il sole di Foscolo, finché risplenderà sulle sciagure umane. Ma abbiamo soprattutto Leopardi. Abbiamo la luna.

Sappiamo che i cattivi cementieri sono farabutti e sono affar nostro, ma che la natura ci è distrattamente matrigna, e di troppo gran lunga superiore alle nostre forze; e però che la nostra natura, "incontro a questa / Congiunta esser pensando, / Siccome è il vero, ed ordinata in pria/ L'umana compagnia, / Tutti fra sé confederati estima / Gli uomini, e tutti abbraccia / Con vero amor, porgendo / Valida e pronta ed aspettando aita...".

Avete sentito, in qualche tg, la vecchia signora che dal suo giaciglio raccontava le gambe spezzate del suo pianoforte e la profanazione dei suoi libri precipitati dagli scaffali e la sua vita dirottata al tramonto? Voci di solito ignote alla tv, improvvisamente sommerse, e riemerse a un microfono importuno a mostrare un'altra Italia. Succede ogni volta. Se ne sono ricordati in tanti, in questi giorni, della Ginestra. Per giunta, i nostri contemporanei pompeiani, contenti dei deserti, più accaniti delle ginestre, non fanno che risalire verso il cratere di un Vesuvio che i vulcanologi auscultano inascoltati.

La poesia è la più forte religione civile, per questo è bene imparare a memoria da bambini, per poterla rirecitare da vecchi, come una preghiera, la notte fuori da una tenda: "Che fai tu luna in ciel..." . Gli italiani danno il meglio di sé nell'emergenza, si dice. Lo si dice, da alcuni per congratularsene, da altri per deplorarlo, per rimpiangere un paese normale che sappia vivere fuori dalla febbre del peggio e del meglio. Però forse si dovrebbe aggiungere, oggi, che l'emergenza e i suoi abusi fanno i conti con uno stato del mondo sul quale la campana è suonata già per la terza volta.

Se fosse vero che noi, e gli umani in genere - perché quello che è vero per noi è largamente vero per gli altri - fossero capaci di dare il meglio nel mezzo di un disastro e di un allarme, ebbene, è lì che siamo, benché non basti ancora a farcelo sentire vicino com'è. Vuol dire questo, la conversione "ecologica" della politica o delle private abitudini. Nei giorni dell'Aquila si è staccato dall'Antartide un iceberg "grande come la Giamaica", hanno scritto i trafiletti: e siamo andati a controllare quanto è grande la Giamaica, sperando di trovarla più piccola possibile. E la guerra, e le guerre?

Lasciatemi dire una cosa. Le persone all'Aquila, e ancora di più quelli che ci arrivavano da fuori, dicevano: "Era come la guerra", "Come un bombardamento a tappeto". Qualcuno ha osservato che il terremoto fa più paura della guerra, del bombardamento. In Italia le persone che hanno conosciuto una guerra sono ancora molte, ma diventano sempre meno. Qualcuno è andato a vederla in giro per il mondo. Non occorreva andare lontano: per esempio, appena ieri, a mezz'ora di volo dall'Abruzzo. Non so se faccia più paura un terremoto o un bombardamento aereo: gli uomini non fanno che emulare la natura, anche nello spavento. E la terra trema anche sotto le bombe. So che "la guerra" significa che contemporaneamente cento città come L'Aquila sono distrutte come L'Aquila. Pensiero difficile da pensare e sopportare, vero?

Nei giorni del terremoto, succedeva che Obama, proprio nella piazza del Castello di Praga, ritrovasse il coraggio di nominare il disarmo nucleare. Una temerarietà, piuttosto: perché la terra è un colossale arsenale nucleare di guerra, e la proliferazione interdetta non fa che crescere, e le parole di Obama erano appena state sbeffeggiate dal lancio semiserio del missile nordcoreano (scherzi che possono fare molto male, però), e India e Pakistan giocano a loro volta con quel fuoco, e l'Iran...

Ecco: sono le nostre metafore quotidiane, lo tsunami, la guerra, il terremoto. Poi ci sono le guerre vere, i terremoti veri, gli tsunami veri. Non si può immaginare di vivere in una mobilitazione permanente da tempo di guerra o di terremoto, chi abbia la provvisoria fortuna di esserne risparmiato. La vita reclama i suoi diritti. Ma non si può nemmeno far finta che esista una vita "normale" fatta di ingorghi stradali e Grande Fratello, salvo sospenderla - gli ingorghi no, il Grande Fratello - quando le macerie tracimano. E la politica? La politica campa, vivacchia, o ingrassa, da molto tempo su emergenze di dettaglio o vere a metà, dunque false del tutto. Fa le facce, incarica, rimuove, si pavoneggia, ci scherza su, perfino.

La politica seria ha da misurarsi con l'emergenza universale, e non ha bisogno di inventare nuovi strumenti per rilevare il radon predittore: le basta mettere l'orecchio sul suolo, e sentire l'eco di quello che è già successo.

P.S. Noi amiamo i bambini e i cani, no? Siamo contenti che i bambini amino i cani. Sappiamo che i cani, quando non siano pervertiti da cattivi maestri, amano i bambini. Avevamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani di Ragusa, abbiamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani dell'Aquila. Sono state due lezioni esemplari.

(9 aprile 2009)


Titolo: ADRIANO SOFRI Se Veronica diventa preda
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:41:23 pm
IL COMMENTO

Se Veronica diventa preda

di ADRIANO SOFRI



Gentile Silvio B., le dirò alcune cose sincere, da uomo a uomo. Noi uomini non siamo abituati a dirle, e tanto meno ad ascoltarle. Vale per quasi tutti noi, non solo per i bugiardi più spericolati come lei. Noi (con qualche rarissima eccezione: ci sono anche uomini davvero nobili d'animo, ma non ci riguarda) sappiamo bene di che porcherie si tratti, sia che le pratichiamo, come lei ostenta di fare, sia che ci rinunciamo, perché abbiamo imparato a vergognarcene, o semplicemente perché non abbiamo il fisico.

Lo sa lei, lo so io.

Mi hanno raccomandato di non perdermi i giornali a lei vicini: non li ho persi. Ho scorso gli editoriali, ho guardato le fotografie. Sa che cosa ho pensato? No, non che mi trovavo di fronte a qualche colonna infame, questo era ovvio, l'ha pensato chiunque. Ho guardato le fotografie - una giovane donna, un'attrice, che si scopre il seno - e mi sono chiesto come sia stato possibile che una giovane donna così bella dedicasse la propria vita a uno come lei. E' successo anche a me, mi interrogo anch'io: come sia possibile che giovani donne così belle e intelligenti dedichino la propria vita a uomini come noi. Naturalmente, un po' lo sappiamo come succede.
Che carte abbiamo in mano, per barare.

Siamo volgari abbastanza per riconoscere la reciproca volgarità. Semplicemente, ci teniamo a bada un po' di più di quanto faccia lei. Dicono tutti che gli italiani la invidiino. Sinceramente, nemmeno a questo credo. La guardo, dalla testa ai piedi, e non ci credo. Gli italiani hanno, come tanti maschi del mondo, un problema con la caduta dei capelli. Ma sanno bene che la sua non è la soluzione. Lei stesso lo sa, e non deve farsi troppe illusioni. Il cosiddetto populismo è traditore. Uno crede di aver sostituito ai cittadini un popolo, al popolo un pubblico, al pubblico una plebe: ed ecco, proprio mentre passa sotto l'arco di trionfo del suo impero di cartapesta e lancia gettoni d'oro, parte un solo fischio, e la plebe d'un tratto si rivolta e lo precipita nel fango.

L'Italia è il paese di Maramaldo, e io non voglio maramaldeggiare su lei: benché sia ora di rovesciare le parti di quel vecchio scurrile episodio, e avvertire, dal suolo su cui si giace, al prepotente che gl'incombe sopra che è un uomo morto. Noi c'intendiamo: abbiamo gli stessi trucchi, dimissionari o no, pentiti o no. Siamo capaci di molto. Di esibire le nostre liste alle europee, e vantarcene: "Dove sono le famigerate veline?" dopo aver fatto fare le ore piccole ai nostri esasperati luogotenenti a depennare capigliature bionde. Di dire: "La signora" (non so se lei ci metterebbe la maiuscola: fino a questa introspezione non arrivo), sapendo che la signora di noi sa tutto, e anche delle liste elettorali prima della purga. Magari la signora la lascerà, finalmente, e lei le scioglierà addosso la muta dei suoi cani. Diventerà la loro preda prediletta. Ma nel Parlamento Europeo (le maiuscole ce le metto io: un tocco di solennità non fa male) ci si ricorderà di Veronica. Capaci perfino di chiamare "maleodoranti e malvestite" le deputate dell'altro schieramento: ci ho pensato, e le dirò che almeno a questo non credo che avrei saputo spingermi. In fondo lei è fortunato: le circostanze le permetteranno fino alla fine di restare soprattutto un poveruomo desideroso di essere vezzeggiato e invidiato e lusingato da ammiccamenti e colpi di gomito dei suoi sudditi, a Palazzo Chigi o sul prossimo colle, mentre padri di famiglia minacciano di darsi fuoco perché la loro bellissima bambina non è stata candidata, e vanno via contenti con la sua camicia di ricambio. In altre circostanze avrebbero potuto succederle cose terribili.

Nel giro d'anni in cui lei e io nascevamo morirono chiusi in due distanti manicomii, perfettamente sani di mente, la signora Ida Dalser e suo figlio Benitino, che facevano ombra al capo del governo. Allora lo Stato era più efficiente di oggi, e misero mano a quella soluzione medici, infermieri, direttori di ospedali, questori, prefetti, commissari di polizia, segretari di fiducia. Altro che lo scherzo delle belle ragazze nelle liste elettorali. Dipende tutto dall'anagrafe.

Per ora molti italiani (e anche parecchie italiane: le è riuscito il gioco di far passare la cosa come una rivalità fra giovani e belle e attempate e risentite) ricantano ancora il vecchio ritornello: "Tra moglie e marito...". Di tutti i vizi nostri, quello è il peggiore. E' la incrollabile Protezione civile dei panni sporchi da tenere sporchi in famiglia, delle botte e delle violenze a mogli e bambini, delle malefatte di padri spirituali al segreto del confessionale, fino a esploderci nelle mani quando il delitto d'onore appena cancellato dal nostro codice si ripresenta nelle figlia ammazzata in nome di qualche sharia. Non mettere il dito: no, a condizione che non si sentano pianti troppo forti uscire dalle pareti domestiche. O, anche quando la casa è così ricca e i muri così spessi, non sia la moglie a far sapere che cosa pensa. Che né il denaro né il soffio della Storia (Dio ci perdoni) le basta a tacere il suo disgusto.

Invidiarla, gentile presidente? Mah. Ammetterò che, reietto come sono, una tentazione l'ho avuta. Non mi dispiacerebbe avere un ruolo importante nell'Italia pubblica di oggi, per le nuove opportunità che si offrono a chi sappia pensare in grande. E' da quando ero bambino che desidero fare cavallo uno dei miei senatori.

(1 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI. La minoranza manesca
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 11:23:05 am
ECONOMIA     

IL COMMENTO

La minoranza manesca
di ADRIANO SOFRI


Le discussioni franco-tedesche sul sequestro dei manager rischiano di apparire un lusso dalla Torino in cui viene spinto giù dal palco sindacale il segretario nazionale della Fiom. Bruttissimo segno.

E non basta a consolarsi la fama di irresponsabilità o peggio che accompagna il gruppo di autonomi nolani che hanno premeditato e attuato l'assalto, contando anche su una singolare ingenuità degli organizzatori.

Gianni Rinaldini è un sindacalista normale, che ha all'attivo lotte preziose per lo spirito di sacrificio e di solidarietà, come quelle contro la disciplina da caserma alla Fiat di Melfi, passate vilmente sotto silenzio, e sa misurare la minaccia dell'isolamento. La Fiat sta giocando un prestigioso azzardo internazionale, ma sui suoi lavoratori italiani pesa un azzardo doppio.

Il governo italiano, salva qualche penna di pavone, non ha speso niente, e non si è mostrato nemmeno ansioso di discutere con la Fiat le prospettive dell'operazione. Ma i sindacati, che ragioni di ansia ne hanno fin troppe, meritavano una considerazione diversa. Tanto più se si confronti il buio in cui sono rimasti col ruolo del sindacato americano - che ha "ereditato", a proprie spese, la Chrysler - e tedesco.

La manifestazione nazionale di ieri, indetta in un giorno difficile come il sabato, ha visto una partecipazione debole per numero: qualche migliaio di lavoratori, dunque con un'adesione ridotta della Fiat torinese, dell'indotto, e della città. Si può pensare che una buona parte della città sia fiera e perfino euforica per l'impresa americana. Ma certo un'altra parte è spaventata dalla portata attuale della crisi e dall'oscurità del futuro.

L'episodio torinese ha soprattutto questo significato: che l'allarme sociale gravissimo che attraversa l'Italia e può tradursi sia nella sfiducia, sia nell'adunata attorno alla Cgil (di cui pure ci sono segni importanti, benché si faccia chiasso solo attorno agli episodi di contestazione sindacale), consente a minoranze manesche di mettere sotto sequestro maggioranze incerte ed esitanti. Le minoranze manesche mirano solo a diventare un po' meno minoranze e un po' più manesche. I rappresentanti dei lavoratori devono fare gli interessi dei lavoratori. Dovrebbe essere chiaro per chiunque con chi occorra confrontarsi.

(17 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI - Il Purgatorio dei democratici
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 11:22:25 am
L'ANALISI

Il Purgatorio dei democratici

di ADRIANO SOFRI


Scommetto che molti di voi avranno reagito alla notizia che Grillo vuole candidarsi (o dice di volere) a guidare il Pd sbuffando ed esclamando: "Ma siamo seri!" Be', sbagliato. Intanto perché essere seri, è un vasto programma, e forse ormai tramontato. E poi perché un partito che si sia dato delle regole, fossero anche le più insulse (non dico una porcata di regole, ma una scemenza magari sì), non può che rispettarle.

Dunque se di qui al 23 luglio Beppe Grillo si iscrivesse davvero al più vicino circolo del Pd e raccogliesse le 2 mila firme di iscritti in almeno 5 regioni e tre circoscrizioni prescritte dallo Statuto, nessuna obiezione formale potrebbe venire alla sua candidatura. Obiezioni sostanziali sì, ma è un altro paio di maniche. Io per esempio penso che Grillo dilapidi le cose buone che gli succede di dire col modo in cui le dice: e il modo vale, nel suo caso, almeno il 51 per cento. Così, ammesso che non sia lui stesso a dire fra cinque minuti che la sua era solo "una provocazione" - del resto le provocazioni pesano- si troverà paradossale che uno si candidi a dirigere un partito di cui ha fatto il proprio bersaglio grosso.

Debole argomento anche questo, perché rinfacciare a Grillo il paradosso è come sequestrare l'idrante a un pompiere. Proprio perché parla sprezzantemente del Pd come del nulla, Grillo se ne offre come un'alternativa. L'alternativa al nulla, non è difficile da rivendicare. "Sono serissimo", ha tenuto a precisare Grillo, che detto da un comico di professione è a sua volta come il paradosso del cretese, che disse che tutti i cretesi sono bugiardi.

Dunque rinunciamo a esclamare: "Siamo seri!" Troppo tardi. Le primarie del Pd (le prime, quelle per tesserati, le seconde, quelle aperte, aspetteranno il 25 ottobre) sono al riparo dalle scorrerie e dalle goliardie di chiunque solo grazie alla prossimità della data di scadenza, il 23 luglio. Senza di che, nessuno potrebbe frenare una valanga di candidature concorrenti, rispettabili o provocatorie, dal momento che non c'è più, e da tempo, quella intima serietà responsabile che sola, altro che gli Statuti, trattiene dal trattare il partito cui tanti affidano le proprie speranze come il bar della stazione di notte. D'altra parte, se si miri davvero a costruire un Partito democratico, perno di un'alleanza elettorale che contenda il governo del paese all'alleanza di destra, iscrizioni e candidature non possono che essere benvenute. Ci sono oggi quattro candidati, maschi. Non si potrebbe certo trovare strana o importuna una candidatura femminile. E se i radicali, che nelle liste del Pd furono eletti in Parlamento e stanno nello stesso gruppo, sia pur chiamandosi "delegazione", avessero voluto iscriversi e candidare, per esempio, Emma Bonino, che obiezione si sarebbe mossa loro? Certo non quella della doppia tessera, salvo che la doppia tessera pretenda di autorizzare una partecipazione elettorale con il centrodestra, come hanno ragionevolmente obiettato esponenti insospettabili del Pd, da Marini a Rutelli. Quanto a me, troverei normale che un'adesione al Pd coinvolgesse anche le persone che si sono appena riconosciute nel cartello di "Sinistra e libertà": solo che è troppo normale, dunque non avverrà, anzi sì, ma molto più tardi, a partita giocata. E se fra i "giovani", nome già sparpagliatissimo, qualcuno volesse fare la propria corsa, senza subordinarsi a ticket mutilanti, e sia pure senza immaginare di vincere, che argomento potrebbe trattenerlo? E anche, per fare tutta la gamma delle ipotesi, se dei concorrenti già scesi in campo pensassero che dopotutto la cosa migliore è puntare a una leadership la più autorevole possibile, e a tagliare le unghie alle vanità personali, senza affatto sacrificare la battaglia delle idee, non ci sarebbe da rallegrarsi? Naturalmente, perché le idee si diano lealmente battaglia, bisogna averne, almeno un paio.

Le cose sono a questo punto. Il Pd paga uno scotto altissimo e interminabile al divario plateale fra una buona intenzione e gli inciampi della pratica. Oltretutto, non si può ignorare come il lungo congresso promuova comportamenti di apparato incresciosamente contrari all'investimento originario sulle primarie, tesseramenti democristiani o napoletani: per non dire dei guai già consumati in una quantità di situazioni locali. E con le elezioni regionali che incombono. Del resto qualcosa incombe sempre. Incombe oggi, ieri, il rischio di rinviare l'azione politica a cielo aperto perché si è troppo concentrati a farsi la fototessera nella cabina con le tendine tirate. E incombe la liquefazione del Pd. Anche la sua rianimazione: purché si veda come stanno le cose. Dunque si attraversi il più dignitosamente possibile questo purgatorio. Senza indugiare a prendersela con i passanti che si divertano a occupare il Pd come un'allegra e sguarnita palestra di scorribande. Ma questa è l'altra faccia del desiderio di avere un partito "di tutti", e non di qualche apparato. La nottata deve passare: qualcuno ne verrà fuori sobrio, e proverà a prendersi cura della baracca. Come nella Prova d'orchestra, sarà tentato di agitare troppo la bacchetta, e gli sbronzi di poco fa saranno mogi e con la coda fra le gambe. Purché arrivi, questa mattina dopo, e l'impressione di una cosa che ricomincia e si fa seria. Non è pessimismo il mio: è che ho appena sentito uno di quelli che fanno la propria parte da tanto tempo e senza alcun interesse personale, e provava a esprimere il suo stato d'animo dopo le discussioni sul presunto stupratore romano e la sortita di Grillo e non so che altra ultima notizia. Mi ha detto: "Noi che abbiamo a cuore... - non so nemmeno più che cosa abbiamo a cuore". E' stato zitto un momento, poi ha sospirato: "Però a cuore".

(13 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI - Casalegno e la violenza in Lc «Quando non sei più innocente»
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 03:27:01 pm
Quarant’anni dopo

Sofri, Casalegno e la violenza in Lc «Quando non sei più innocente»


Gentile direttore,

ho letto l’intervista ad Andrea Casalegno. Vorrei dire che cosa penso dei punti cruciali, che vengono presentati come se rivelassero qualcosa. A cominciare dal legame fra Leonardo Marino e me. La cui evidenza è stata fin dall’inizio (dal 1988, quando fui arrestato) il filo conduttore della vicenda: il figlio chiamato Adriano, i soldi che gli avevo dato... Mi chiesero come mai gli avessi dato dei soldi, se non per comprare il suo silenzio. Perché me li aveva chiesti, spiegai, perché gli ero affezionato, perché era povero e ne aveva bisogno per la sua famiglia: e documentai cifre e circostanze. In Lotta Continua, dice Andrea, tutti pensano che Marino dica la verità. Non so. Però so la verità. Non ebbi il colloquio che Marino mi attribuì, non gli diedi alcun mandato. Io lo so, e lo sanno per certo coloro che furono testimoni dei miei movimenti nella circostanza in cui Marino volle collocare il colloquio. Non diedi alcun mandato, e dunque non coinvolsi Lotta Continua — tutte le sue persone, compreso Andrea Casalegno — nella responsabilità di un omicidio.

Di tutte le altre responsabilità mi sono fatto carico, e non certo per difendermi in un tribunale. La mia condanna— che continuo a scontare — autorizza chiunque lo voglia a dichiararmi mandante provato dell’omicidio di Calabresi. Ma la condanna non cambia la verità, né la mia saldezza nel sostenerla. Dice Andrea — pensiero che dà il titolo alla pagina — che «il germe della violenza c’era già alle origini», dunque prima della strage di piazza Fontana; e critica la definizione del 12 dicembre del ’69 come la data della «perdita dell’innocenza». Io l’ho detto da tempo. In particolare, proprio in un’intervista al Corriere del 2 aprile 2004. «Così abbiamo perduto l’innocenza. Ma oggi mi interrogo sulla sensatezza di questa formula... Si tratta dell’idea: chi è innocente scagli la prima pietra. È l’espediente che Gesù usa per non fare lapidare l’adultera.

Questo stratagemma evoca un problema morale straordinario: è proprio vero che chi è innocente può scagliare la prima pietra? Noi oggi ci comportiamo così nei confronti del racconto di piazza Fontana. Innocenti come eravamo, toccava a noi per diritto, diritto che è divenuto poi la nostra dannazione, tirare la prima pietra. Poi quando l’hai scagliata non sei più innocente. E non a caso poi ne tiri un’altra e un’altra ancora. Fino a divenire un lanciatore di pietre. Quasi un lapidatore: persino a noi successe.

La campagna contro Calabresi diventò una specie di lapidazione... In realtà innocenti non lo eravamo. La verità è che l’innocenza come condizione originaria è molto difficile da trovare. Lo choc della strage per noi fu fortissimo, un colpo che ti fa tramortire: tuttavia eravamo militanti politici con una grande voglia di fare la rivoluzione da anni. Questo rende contraddittoria e parziale quella definizione di innocenza... la trasforma in una specie di autoassoluzione un po’ troppo indulgente. Mi chiedo: senza la strage di piazza Fontana, avrei tirato la mia prima pietra o no? Secondo me sì. Anzi forse l’avevamo già tirata». E alla domanda: «Vuole dire che la violenza era già dentro il movimento?», risposi: «Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima...».

Ricordato questo, trovo sconcertante l’opinione di Andrea che «la strategia della tensione ebbe un certo ruolo nel precipitare il Paese negli anni di piombo». La strategia della tensione e delle stragi segnò un mutamento sconvolgente nella temperie umana e civile dell’Italia, nel nostro stato d’animo e nel nostro orizzonte politico. Solo alcuni di noi — quasi per una deformazione psicologica — continuano a seguire quello che si dice, settimana dietro settimana, 35 anni dopo!, al processo bresciano su piazza della Loggia: autopsia delle colpe dello Stato nelle stragi, agghiacciante quanto sfinita. E comunque, per allora e per oggi, penso che qualunque delitto privato sia incomparabile col delitto commesso da chi ha il monopolio pubblico della forza.

 Andrea Casalegno ha raccontato in un libro l’assassinio di suo padre e una storia di famiglia piena di dolore. Mi dispiace molto, e mi dispiace il sentimento che leggo nelle sue parole. Quando Carlo Casalegno fu assassinato, ne provai rabbia e pena. Anni fa scrissi ad Andrea per ricordare un episodio: «Una volta — nel 1976— ritenni che tuo padre, in un commento, avesse ingiustamente addebitato a Lotta Continua il favoreggiamento verso scelte armate clandestine. Io reagii prendendo il telefono — ero a Roma — e chiamando tuo padre, col quale ebbi una conversazione vivace e aspra, nella quale però fu reciproco il riconoscimento della sincerità e forza delle convinzioni rispettive. (Forse, nelle parole di apprezzamento che tuo padre mi rivolse, c’era soprattutto il riflesso della sua sollecitudine e rispetto per te)». Quanto a chi in quegli anni passò la linea, Andrea tiene a ripetere che si può diventare ex di qualunque cosa, ma un assassino rimane per sempre un assassino. Io non lo penso: penso che ciascuno possa cambiare, e che anche un assassino possa diventare una persona che ha commesso un assassinio. Che non solo il calendario cristiano, ma la nostra società dimostri largamente, per fortuna, che questo avviene.

Adriano Sofri

04 novembre 2009
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da corriere.it



Titolo: ADRIANO SOFRI - Caso Cucchi sono tutti colpevoli
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 11:00:18 am
COMMENTI

Caso Cucchi sono tutti colpevoli

di ADRIANO SOFRI


SI CHIAMANO celle di sicurezza. Ci si sta al sicuro. Si può star sicuri che Stefano Cucchi fu picchiato, e che in capo a cinque giorni morì. Sul resto non c'è alcuna sicurezza. Sul resto, ordinario e allucinante com'è, niente si può escludere. Nemmeno che Stefano Cucchi sia stato picchiato due, tre volte. Nemmeno che si siano dati il turno, a picchiarlo, carabinieri e agenti penitenziari, che a turno da giorni se ne accusano.

Al punto cui sono arrivate le indagini, il pestaggio sarebbe avvenuto la mattina del 16 ottobre, nel sotterraneo del tribunale romano, e gli autori, indagati per omicidio preterintenzionale, sarebbero tre agenti della polizia penitenziaria, tre uomini fra i quaranta e i cinquant'anni. Gli inquirenti hanno creduto di aggiungere che "i carabinieri sono estranei". (Alla vigilia il capo della Procura non aveva detto che il detenuto era restato quella mattina nelle mani della polizia giudiziaria che l'aveva arrestato, cioé i carabinieri?) E, indagando per omicidio colposo tre medici del reparto penitenziario dell'ospedale Pertini - il primario e due dottoresse - gli stessi inquirenti hanno definito l'avviso "un eccesso di garanzia".

Nel balletto di versioni dei giorni scorsi, i magistrati hanno deciso di fondarsi sulla testimonianza del detenuto "africano, clandestino", che avrebbe visto coi propri occhi e poi raccolto le parole di Cucchi: "Guarda come mi hanno ridotto". Altri argomenti, per il momento, restano inspiegati.

Resta inspiegato il primo referto medico, redatto a piazzale Clodio in quello stesso 16 ottobre, secondo cui Cucchi "riferisce di una caduta dalle scale alle 23 della sera precedente": sera in cui era chiuso in una caserma di carabinieri. I quattro agenti penitenziari - colleghi, certo, dei tre indiziati - che lo accompagnano quel pomeriggio a Regina Coeli completano a loro volta la frase detta al detenuto testimone: "Guarda come mi hanno ridotto ieri sera". Ieri sera vuol dire i carabinieri. Questa mattina vuol dire forse i carabinieri, forse gli agenti penitenziari, che si accusano a vicenda.

È difficile decidere se questo grottesco rinfacciarsi versioni e colpe renda più spregevole la trama che ha schiacciato Cucchi, o induca ad apprezzare, coi tempi che corrono, il fatto che almeno né carabinieri né poliziotti penitenziari negano che il giovane uomo fragile sia stato pestato e spezzato a morte. Fragile: dunque da custodire più rispettosamente e premurosamente. Abbiamo ascoltato un bel repertorio di porcherie nei giorni scorsi. Che Cucchi era tossicodipendente, ovvietà pronunciata come se fosse un'aggravante, o un'attenuante dei suoi massacratori.

La tossicodipendenza è una sciagura per chi ci incappa e per chi gli vuol bene, e diventa un danno per tutti quando il fanatismo proibizionista esalta gli affari illegali. In Italia oggi è una ragione per finire nelle celle "di sicurezza", o di galera, o nei letti di contenzione dei manicomi giudiziari - come per il coetaneo di Cucchi morto in cella a Parma, Giuseppe Saladino, che aveva rubato "le monetine dei parchimetri" - o nel reparto confino dell'ospedale Pertini. È bello, è edificante, è spettacolare che questo succeda mentre si propone di abolire, più o meno, i processi, per i ricchi e potenti. È bello e istruttivo che, per adescare l'opinione intontita, si proclami che dall'abolizione dei processi saranno esclusi i reati di maggior allarme e "i recidivi". I "recidivi" sono i tossicodipendenti, che spacciano al minuto o rubano per la dose, e spacciano di nuovo e rubano per la prossima dose, e così via.

Stefano Cucchi era uno dei tanti nostri ragazzi che possono aver spacciato per la loro dose, e non sono meno meritevoli del nostro amore e delle nostre cure. Era anche sieropositivo, ha osato dire qualcuno. Non lo era: ma non importa niente. Importa che ancora, in questo paese, persone che danno il proprio nome a leggi fautrici di dolore e delitti pronuncino il nome di una malattia come quello di una condanna. Il paese in cui si tratta ancora una malattia come una vergogna è un paese di cui vergognarsi.

Dovremmo dirlo, che siamo sieropositivi. E che nessuno chieda a nessuno se è vero o no: non cambia niente. Stefano Cucchi era un giovane uomo inerme dal viso dolce e dal corpo esposto: un corpo così è fatto per essere stretto da un abbraccio materno, per essere accarezzato da una sorella, per sentirsi la mano di un padre sulla spalla. Non per "essere scaraventato in terra e, dopo aver sbattuto violentemente il bacino procurandosi una frattura dell'osso sacro, colpito a calci", secondo la ricostruzione - provvisoria, parziale, vedrete - degli inquirenti.

Né per giacere senza soccorso, sottratto alla vista dei suoi e del mondo, dentro una branda d'ospedale carcerario, coi medici, donne e uomini (fa sempre più impressione che tocchi a donne), che lo ignorano, che forse scherzano sulle sue ossa rotte e sporgenti, che dicono che rifiuta cure e farmaci, e scrivono solo in capitulo mortis che aveva dichiarato dall'inizio di volere il proprio avvocato, e di non voler mangiare e non voler bere solo per quell'infimo fra i diritti: una confessione di fatto, che non ha impedito agli stessi medici di continuare a mentire e a manipolare la verità quando il ragazzo era morto. Abbiano pure il loro "eccesso di garanzia", in cambio. Anche questa è una creatività italiana: chiameremo di sicurezza le celle dei pestaggi, ci vanteremo della garanzia in eccesso. Del resto, siamo ancora all'inizio. Non sarà facile, per l'omicidio di Cucchi, trovare il non colpevole.

© Riproduzione riservata (14 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI - Displaced person
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 11:01:00 am
Anticipazione

Displaced person
di Adriano Sofri -


Tecnicamente profughi.

Senza carta d'identità (sul confine tra Haiti e Repubblica Dominicana come nel canale di Sicilia).

In realtà, siamo tutti a casa nostra e forestieri. E non è un paradosso


Mi pare che sia un po' decaduto, fra gli insulti, l'epiteto di "spostato". Si diceva molto, soprattutto nel meridione. Voleva dire balordo, mezzo matto. O scemo del tutto.
 
Ora si usano piuttosto perifrasi come "fuori di testa", imparentate all'effetto di qualche droga. L'idea del movimento, dell'andare fuori, c'è sempre. In "spostato" era più pregnante il rapporto col posto. È importante il posto. Si dice di una persona che "è a posto". Si dice: "Tutto a posto?". Spostato è uno che ha perduto il suo posto.
Uno fuori luogo, un pesce fuor d'acqua. La traduzione letterale, nell'inglese universale, è displaced person. Non una formula generica, ma il modo tecnico di nominare chi non ha più una casa, una patria. E nemmeno una carta d'identità. Displaced person, abbreviato in DP: così si dice nelle organizzazioni internazionali.

Prima di scrivere questo testo ho guardato le fotografie degli evacuees forzati nella Repubblica Dominicana, e le ho riguardate, e poi ho cercato di rintracciare una storia degli spostati, di imparare qualcosa e raccontarlo anche a voi che leggete. Meglio che imbastire un ennesimo tema benintenzionato sui diritti umani e chi ne è spogliato. Una ricerca senza pretese, si capisce, di quelle permesse da un giro sulla Rete. Sono partito da quel nome di displaced person, che sapevo applicato nel secondo dopoguerra europeo a un numero ingente di ebrei. Tra il ‘45 e il ‘52, oltre 250mila ebrei europei superstiti alla Shoah vissero in campi di raccolta in Germania, Austria e Italia. C'è un dettaglio agghiacciante: in parecchi casi, si trattava degli stessi campi di concentramento in cui erano stati deportati, ora riconvertiti sotto l'amministrazione degli Alleati e dell'Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration).

A proposito del posto, c'è quell'altra espressione: "Stai al posto tuo!".

Un'intimazione che viene facile rivolgere a inferiori e servi, che non dimentichino con chi hanno a che fare. E agli ebrei: "Non ho niente contro gli ebrei, purché stiano al loro posto". Gli ebrei, per definizione, non ce l'hanno il loro posto. Sono erranti, displaced, spostati. Un mio amico dice che non gli è mai così chiaro che cosa voglia dire essere ebreo come quando sente pronunciare quell'avvertimento: "Stai al tuo posto!". È durante la Seconda guerra mondiale che si inaugura l'espressione displaced person, e si diffonde soprattutto all'indomani, quando si gonfiano le migrazioni di profughi dall'Europa centrale e orientale. A quanto pare, a coniarla fu Eugene M.Kulischer. Kulischer (1881-1956), studioso di demografia e storia, di origine ebraica, figlio a sua volta di uno storico russo. La sua è la biografia esemplare di una persona displaced.

Prima lascia la Russia sovietica, nel 1920, alla volta della Germania.

da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI - L'occasione di Emma
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 10:52:32 am
L'ANALISI

L'occasione di Emma

di ADRIANO SOFRI


ROMA - Emma Bonino può essere un'ottima candidata di bandiera o una felice occasione per il Pd e l'insieme dell'opposizione.
Le buone bandiere sono un premio di consolazione, in una stagione sconsolata: ma sarebbe ora di tornare a cercare, almeno nelle elezioni, risultati veri. Ricapitoliamo ? che non vuol dire torniamo a capitolare. Alla leadership del Pd sta a cuore un'alleanza con l'Udc. È una prospettiva che ha i suoi costi "a sinistra", se dia per perduto un vasto e ormai frantumato elettorato, e un'altrettanto vasta astensione, ma ha una sua logica politica. Anche così ha i suoi ostacoli. Il primo, di procedere verso la liquidazione del famoso bipolarismo: ma si può obiettare che essa è già abbastanza un fatto compiuto. Il secondo, che l'Udc si tiene le mani libere, sicché il Pd, col suo (augurabile) 30 per cento, farebbe da vaso di coccio tra ultimatum di Casini ed esazioni di Di Pietro.

In Puglia, il Pd ha tutto il diritto di volere un proprio candidato, e di sceglierlo in funzione dell'accordo cercato con l'Udc. Ma non ha né il diritto né la ragione di imporre un veto alla candidatura di Vendola, che è il presidente uscente, e che lo diventò vincendo un'ardua sfida primaria e un'altrettanto ardua elezione. Una elementare regola avrebbe suggerito di misurarsi con la candidatura di Vendola in primarie aperte. Non lo si è voluto fare, e questo impedisce di imputare a Vendola una responsabilità di guastatore personalista. Peggio, si è insistito per candidare Emiliano, sindaco di Bari. L'idea di privarsi di uno stimato sindaco per candidarlo alla regione, e di correggere per giunta la legge che condiziona la nuova candidatura alle dimissioni dalla vecchia carica, è abbastanza scandalosa. Davvero un partito come il Pd e una coalizione di centrosinistra non trova altre o altri candidati degni se non in chi già occupa una carica importante?

Una simile ammissione di angustia si sarebbe ripetuta nel Lazio, dove il Pd puntava sullo stimato presidente della provincia, Zingaretti. Il calcolo era decisamente azzardato, tanto più nella regione reduce dalle elezioni romane in cui la staffetta ripetuta fra Veltroni e Rutelli finì nel disastro che sappiamo. E che può misurarsi senza alcun sarcasmo, ma sì con amarezza, nella situazione attuale dei protagonisti di allora: appartato Veltroni, in un altro partito Rutelli. Se Zingaretti avesse accettato (o ancora accettasse, non so: ma si mostra persona lucida e responsabile con chi già lo votò) di candidarsi, il rischio concreto sarebbe stato di perdere in un colpo regione e provincia, e andare in convento. Ma anche a non voler paventare un esito simile, e a ostentare un'implausibile audacia, restava il messaggio dato a tutti i cittadini: che per trovare un candidato degno il Pd lo debba spostare dalla carica importante che già ricopre. Messaggio inosservato, tale è l'agonia dello spirito pubblico: ma ci si fermi un momento a pensarci, in un paese di sessanta milioni, in regioni di milioni di uomini e donne, e passano per candidabili solo due o tre uomini già intronizzati ? e donne niente.

A questo punto viene la candidatura di Emma Bonino. Dire le sue virtù è imbarazzante, dato che sono diventate proverbiali come un necrologio anticipato. Il centrodestra ha in Lazio una candidata brava e popolare e, scaramucce di fuoco amico a parte, ha nelle vele il vento della disavventura di Marrazzo (e della sciagura delle sue incolpevoli amiche). Emma Bonino è capace, come e più di Renata Polverini, di consensi trasversali, e tuttavia ha fornito una prova rigorosa di fedeltà alla parola data tanto nella disgraziata legislatura precedente, da ministro, quanto nella attuale, da parlamentare radicale nel gruppo del Pd e vicepresidente del Senato. Il Pd ha ritenuto per lo più di dare questa fedeltà per dovuta e scontata, e di trascurare il confronto e perfino le buone maniere nei confronti degli alleati radicali, che spesso le sparano grosse ma stanno ai patti, a differenza di altri alleati.

Eletto segretario, Bersani andò al congresso dei radicali italiani e diede prova di attenzione e di una spiritosa affabilità. Oggi, facendo di Emma la candidata propria ? e passando serenamente dalle primarie, perché ci sono altre proposte, da Renato Nicolini, il cui pregio sta, e non sembri una battuta, in una specie di diritto acquisito a non essere preso sul serio, a Loretta Napoleoni, e agli eventuali altri ? il Pd mostrerebbe di impegnarsi a vincere le elezioni regionali, e caso mai a perderle limpidamente, e a rinunciare a farne un paragrafo della trattativa tattica con l'Udc o chissà chi altri.
Tattica sofisticatissima, dal momento che l'Udc ha una ferma predilezione per la candidata del centrodestra e soprattutto una vocazione a fissare veti politici e personali.

Differenza che Emma Bonino fa bene a sottolineare, non avendo lei veti da imporre, e perciò non amando di subirne. L'inclinazione di Bersani per la concretezza va condivisa, e suggerisce di preferire, in un territorio come le elezioni dove, a differenza che nella vita quotidiana, quello che conta non è partecipare, l'efficacia all'orgoglio di bandiera. In Piemonte, dove la partita è tra il candidato della Lega e Mercedes Bresso, la lista dei radicali italiani si apparenterebbe a quella della presidente uscente del Pd. I radicali farebbero bene a rinunciare a una concorrenza di richiamo nella Toscana di cui leggermente si dà per eterna la prevalenza del centrosinistra. La Toscana ha in Enrico Rossi un candidato autorevole, provato dalla fattiva responsabilità della sanità regionale fra le migliori, se non la migliore, in Europa, che si mostra aperto alle persone e alle loro idee, se ne hanno, Oliviero Toscani compreso. Nel Lazio, Emma Bonino, finora candidata della lista Bonino-Pannella, può diventare la più forte e competente concorrente alla presidenza della Regione. È un passaggio che dipende solo dal Pd, e sarebbe bello che il Pd la facesse dipendere solo da se stesso.
 

© Riproduzione riservata (07 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI Quando il capo non sa vedere
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2010, 09:50:02 am
IL COMMENTO

Quando il capo non sa vedere

di ADRIANO SOFRI


PRIMO: non infierire. Ma come si fa? Mettiamola così: ci sono due buone notizie. In Puglia si sono svolte le primarie con un'adesione sentita, e finalmente abbiamo il candidato. A Bologna il sindaco si è dimesso, che è proprio la cosa che andava fatta. Tutto bene, dunque.
E ora facciamo due chiacchiere. Bersani ha ribadito lealmente il sostegno del Pd a Vendola, caldo di una così larga investitura.
E ricapitolando  -  mi viene sempre questo verbo, mannaggia  -  le ragioni dell'impegno per Boccia, ha ribadito il proposito di guadagnare adesioni fuori dai confini della sinistra, dentro i quali invece è destinata a restare la candidatura di Vendola.

Una prima obiezione possibile riguarda la riduzione della ricerca di consensi cosiddetti moderati all'alleanza con l'Udc. Tanto più quando non ci si misuri con tempi tagliati e fronti uniti, come sarebbe stato se Berlusconi avesse imposto elezioni politiche anticipate. L'obiezione maggiore è un'altra: e cioè che i dirigenti del Pd commettono un serio peccato di appropriazione indebita quando parlano del "proprio" elettorato, dei "proprii" suffragi già acquisiti e bisognosi di allargamento.

Non mi riferisco tanto agli elettori che si sono presi da tempo una libera uscita dalle fedeltà di schieramento. Mi riferisco piuttosto alle persone, ancora tantissime, che si sentono tuttavia fedeli a un ideale, o almeno a un'idea, di sinistra e di democrazia, e stentano a riconoscerla nel Pd. Persone che dirottano il loro voto sulla costellazione di partiti e movimenti che affettano un'intransigenza eroica, o lo conservano al pulviscolo di etichette che furono già della sinistra malamente detta "radicale" e diventata extraparlamentare, dai verdi ai comunisti, o, più consistentemente, decidono che non voteranno più, con uno spirito amaro o punitivo.

Si faccia un conto, come suggeriscono i politici "esperti", e ne risulterà una somma di voti superiore a quella promessa dall'alleanza con l'Udc. Il saldo diventa più allarmante se si consideri la disaffezione crescente dentro la base che si definì un po' rozzamente "lo zoccolo duro" (formula non così distante da quella borsistica del "parco buoi", e non per caso). Ogni volta che i dirigenti del Pd fanno appello alla necessità di andare oltre i "propri" elettori, stanno ingannando se stessi. Frughino bene: hanno le tasche bucate. Ognuno dei voti che presumono "loro" va riguadagnato. E non al prezzo di un sovrappiù di irresponsabilità, di rinuncia all'intenzione di governare, di demagogia: al contrario.

Abbiamo intravisto sugli schermi le lunghe file di cittadini pugliesi alle primarie, e anche la folla entusiasta a festeggiarne il risultato. È improbabile che quei cittadini siano ostili per principio alle alleanze e ai ragionati compromessi: però non si rassegnano alle primarie negate per non dispiacere a Casini. Chissà quanti di quei cittadini che si sobbarcano all'impegno di una domenica d'inverno per scegliere un candidato avrebbero deciso di non andare a votare nelle elezioni "vere" se il candidato fosse stato imposto d'autorità.
I dirigenti del Pd non lo vedono? Vivono altrove, e di che cosa? Massimo D'Alema ebbe un'uscita magistrale, qualche giorno fa, quando all'improvviso dichiarò, delle cose di Puglia, di non capirci niente. È un buon punto di partenza. Le primarie per la segreteria del Pd furono in fondo, per chi non fosse legato stretto alle cordate concorrenti, un apprezzabile modo per restituire autorevolezza alla leadership di un partito che l'aveva perduta, chiunque vincesse fra candidati senz'altro rispettabili. Questa ennesima intenzione responsabile portò un numero ingente di persone a votare, e non la passione per i rivali in gara.

Ancora una volta, come ora in Puglia, le persone che vogliono bene all'Italia e alla democrazia e a un ideale, o almeno un'idea, di sinistra, si mostrarono disinteressate e lungimiranti, e disposte a dare una spinta  -  fisicamente, come si fa con una macchina che è restata col motore spento in salita  -  a chi aspirava a rappresentarle. Il piccolo gruzzolo in più di consensi che si registrò subito dopo (già dilapidato) non andava tanto alla corrente che era stata più votata, ma alla speranza che una leadership fosse stata investita, e facesse il suo mestiere. Quanto al merito, proprio dalla corrente di Bersani e di D'Alema ci si aspettava caso mai che fosse la più determinata e capace di recuperare l'adesione di quella larga diaspora perduta fra antipolitica, risentimento, giustizialismo e caudillismo  -  o pura stanchezza. Tutto precipitato nello strettissimo imbuto dell'Udc serva di due padroni, o padrona di due servi.

Ma bisogna pur limitare i danni della perdita di regioni che ci appartenevano  -  diranno i dirigenti esperti. (Dai quali ci si aspetta che prima o poi mettano all'ordine del giorno la questione sempre più spaventosa della sistemazione personale di chi "fa politica", e della sua influenza soverchiante sulla politica da fare). Ammesso che sia il punto, e non è mai bello far politica con l'acqua alla gola, o più su, il risultato è lontanissimo dal confermarne il realismo. Se non si perderà la Puglia, sarà grazie all'insipienza della destra, che a sua volta non scherza, ma non gliene importa granché, le piace così, e grazie alla ribellione degli elettori delle primarie a una politica di partito in cui l'ottusità ha fatto a gara con la prepotenza. D'Alema, che non si tira indietro dalle proprie responsabilità, farebbe però male oggi ad ammettere semplicemente una sconfitta.

Le sconfitte prevedono una misura: qui non c'è stata partita. Qui, semplicemente, uno dei contendenti "non ci aveva capito niente".
E se invece ci aveva capito, e ci si è infilato lo stesso, occorre rivolgersi ai professionisti, ma della psicoanalisi o della vita monastica. Se non si perderà il Lazio, sarà grazie alla speranza suscitata da una candidata come Emma Bonino che, qualunque opinione si abbia delle sue singole opinioni, non appartiene a quel modo di praticare la politica. Parliamo di candidati a presiedere regioni, Bonino e Vendola, che starebbero comunque al proprio posto in un Partito Democratico come quello che si era immaginato, e per il quale ancora a distanza di anni e di disinganni la gente si mette in fila d'inverno, a rimetterlo in carreggiata e dare una spinta.
 

© Riproduzione riservata (26 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI - Bambine mai nate
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2010, 10:30:48 am
LE IDEE

Bambine mai nate

di ADRIANO SOFRI


Le mimose, certo. In verità sappiamo sempre meno che cosa fare, noi uomini, l'otto marzo. Le mimose poi, serre liguri a parte, sono gli agnelli del regno vegetale. Possiamo dedicare questa data a una bambina mai nata.

Una di cento milioni, forse duecento, che negli ultimi decenni non sono nate a causa dell'aborto forzato: da una legge di Stato o da un costume patriarcale o dalla loro combinazione. Ma cento milioni, forse duecento, fanno troppa impressione, cioè poca. Bisognerebbe guardarne una, una bambina del Punjab o dello Shanxi, e proporsi di strapparla alla sua speciale condanna a morte. C'è un'Italia che vanta il proprio impegno internazionale contro la pena di morte, c'è Nessuno tocchi Caino, c'è Sant'Egidio. Non c'è niente di paragonabile per un'infamia enorme come la cancellazione delle bambine: abortite a forza, affogate alla nascita, lasciate attaccate al cordone ombelicale a infettarsi, buttate in una discarica o in un rigagnolo di strada. Perché?

L'Economist ha appena risollevato la questione, dedicando la copertina alla strage delle bambine. Niente di nuovo, salvi i dettagli raccapriccianti che ogni ultima inchiesta porta alla luce. E la conferma della complicità fra arcaismi e tecnologia, ecografia itinerante nei villaggi a prezzi stracciati, pillole distribuite a man salva e fatte consumare fuori da ogni controllo e ogni scadenza, predilezione di sempre per il maschio e moderna aspirazione alla famiglia poco numerosa. Il Foglio, che fa del rifiuto assoluto dell'aborto la propria ragion d'essere, ha dato un gran risalto alla sortita dell'Economist, e ha fatto bene. Ma l'assimilazione fra la possibilità delle donne, delle singole donne, di abortire con un'assistenza sicura e senza essere perseguitate, e dall'altra parte la coazione statale o sociale ad abortire, è un punto debolissimo. La condanna delle demografie coatte di Stato è infatti conseguente al riconoscimento dell'autodeterminazione delle singole donne, che è a sua volta l'essenza più preziosa delle democrazie. Restino pure fedeli ai propri principii assolutisti la Chiesa cattolica o i laici persuasi della vita piena e intangibile dal momento del concepimento: ma non si rassegnino a farne un ostacolo all'impegno più comune e ampio contro il genocidio femminile - il ginocidio. E viceversa: i difensori della libertà personale delle donne non si ritraggano da quell'impegno, per la preoccupazione che riapra la strada alla persecuzione dell'aborto - come succede in certe vili prese di posizione dell'Unione europea. E, a maggior ragione, chi è allarmato per la sovrappopolazione umana non si lasci tentare dall'ammirazione per la mano libera dei regimi totalitari, capaci di arrivare in demografia e in ecologia dove le democrazie hanno le mani legate o inceppate. Questa inconfessata invidia si è tradotta non di rado nella complicità di organismi delle Nazioni Unite con le politiche di denatalità forzata e di soggezione delle donne.

Fra le innumerevoli guerre che attraversano la terra, e che usurpano lo stesso orrendo nome di guerra perché sono violenze sfrenate a senso unico, la guerra contro le donne è ferocissima: contro le bambine cui si impedisce di venire al mondo e di restarci, e contro le madri. La guerra, dice un penetrante pensiero classico, è il culmine della vocazione venatoria, la caccia all'uomo, e ha in palio la bionda Elena o le Sabine da rapire e le donne d'altri da stuprare. Si è mutata sempre più in una caccia alla donna, all'ingrosso nei territori delle culture e delle religioni patriarcali, al minuto nel femminicidio occidentale. Lo squilibrio demografico nelle zone più popolose del mondo ha raggiunto il rapporto di 100 donne per 120 uomini, e tocca in alcune regioni i 145 contro 100. Ed è ormai antico abbastanza da annoverare decine di milioni di uomini in età coniugale privi di compagne possibili: altro che proletariato.

"Entro dieci anni, un cinese su cinque non riuscirà a trovare moglie", dice la solita Accademia cinese delle scienze sociali. Disordini criminali e rivolte sociali vengono attribuiti a questa peculiare carestia, cui fa da complemento l'esportazione di donne da paesi schiantati come la Corea del Nord. È probabile che il genere umano sia alla vigilia di una mutazione tecnica e genetica che ne dirotti impensabilmente la storia naturale. Ma quanto agli umani cui ancora apparteniamo, ai mortali e ai nati di donna, nessuna mutazione è esistita altrettanto catastrofica di questa che investe il posto delle creature femminili, e già riduce di un quinto la vantata metà del cielo in mezzo mondo. E che è legata strettamente a un fenomeno sconvolgente, e singolarmente banalizzato, come la scomparsa di fratelli e sorelle - sorelle soprattutto: cui si cercherà invano un succedaneo nella retorica della sorellanza e della fraternità metaforica. Ci mancherebbe altro che si tornasse al pregiudizio antico contro il figlio unico, "viziato" - del resto sostituito oggi dal nipote unico di quattro nonni o più. Figlio e figlia unici liberamente voluti o accolti sono una meraviglia. Né ha molto fiato la disputa ricorrente sul diritto o il merito rispettivo della donna madre o della donna che non ne voglia sapere - in Francia in questi giorni ci si accapigliano di nuovo. Ma la nostra umanità perderebbe in solido le sue radici quando perdesse sorelle e fratelli, Antigone e sia pure Caino.

Adottiamola, a qualunque distanza, la bambina che il mondo non vuole, e facciamola venire al mondo. Andiamole in soccorso, e forse lei ce la farà a salvare il mondo che la bracca fin da prima della culla, fin dall'annuncio, vero Edipo dei nostri giorni. E se non a salvarlo, almeno a prolungarne per un tratto la bellezza.

© Riproduzione riservata (08 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2010, 09:26:35 am
LA POLEMICA

Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale

di ADRIANO SOFRI

Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l'antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'"anticorpo" di Berlusconi, e forse l'antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un'altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.

Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l'autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava "civile gratitudine", è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: "Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?". Già: si può davvero discutere una cosa così?

Cose da pazzi: ma c'è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un'intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c'è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L'ha voluto in parte, in un'altra parte gli è successo - è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola "successo" - e non è più in discussione.

Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: "Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere". Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un'Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una "patria", di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: "... Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos'è la vergogna".

Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell'intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona - il verbo "funzionare" riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all'Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.

Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero - non troppo. Anch'io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film "Gomorra" - e l'avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro - ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com'è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola "bellezza". La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione - stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: "Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare". Frase che deve suonare minacciosa all'egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di "né destra, né sinistra". Non immagina che si tratti d'altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti "di destra" - che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c'è un'inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.

Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell'azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l'inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del "quieto vivere". Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò - e ottenne, lui senza legittimo impedimento - la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell'economia e dell'etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.

Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, "Italianità", appena uscito per Laterza. Lo schema dell'opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L'Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d'esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all'anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C'è tanto posto.

© Riproduzione riservata (20 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI - Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2010, 03:44:53 pm
LA POLEMICA

Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale

di ADRIANO SOFRI

Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l'antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'"anticorpo" di Berlusconi, e forse l'antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un'altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.

Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l'autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava "civile gratitudine", è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: "Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?". Già: si può davvero discutere una cosa così?

Cose da pazzi: ma c'è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un'intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c'è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L'ha voluto in parte, in un'altra parte gli è successo - è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola "successo" - e non è più in discussione.

Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: "Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere". Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un'Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una "patria", di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: "... Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos'è la vergogna".

Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell'intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona - il verbo "funzionare" riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all'Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.

Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero - non troppo. Anch'io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film "Gomorra" - e l'avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro - ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com'è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola "bellezza". La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione - stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: "Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare". Frase che deve suonare minacciosa all'egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di "né destra, né sinistra". Non immagina che si tratti d'altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti "di destra" - che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c'è un'inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.

Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell'azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l'inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del "quieto vivere". Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò - e ottenne, lui senza legittimo impedimento - la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell'economia e dell'etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.

Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, "Italianità", appena uscito per Laterza. Lo schema dell'opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L'Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d'esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all'anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C'è tanto posto.

© Riproduzione riservata (20 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: ADRIANO SOFRI - La catastrofe del lavoro
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2010, 09:39:27 am
IL COMMENTO

La catastrofe del lavoro

La crisi, restituendo agli Stati un più forte intervento economico - senza per questo ridurre la sovranità delle grandi multinazionali - sospinge il lavoro salariato verso un rinnovato "sacro egoismo". Pomigliano ha reso clamorosa questa condizione

di ADRIANO SOFRI


SE esistesse oggi un'Internazionale dei lavoratori, dovrebbe ammettere una catastrofe simile a quella che travolse la Seconda Internazionale nel 1914, quando le sue sezioni nazionali aderirono al patriottismo bellico, e i solenni principii andarono a farsi benedire. L'Internazionale non esiste e la crisi finanziaria ed economica non è (per ora) una guerra armata. La Seconda Internazionale era stata largamente partecipe dei pregiudizi e delle convenienze colonialiste: differenza minore, dal momento che lavoratori e sindacati dei paesi ricchi si sono guardati finora dall'affrontare il colossale divario con la condizione del proletariato dei paesi poveri.

La crisi, restituendo agli Stati un più forte intervento economico - senza per questo ridurre la sovranità delle grandi multinazionali - sospinge il lavoro salariato verso un rinnovato "sacro egoismo". Pomigliano ha reso clamorosa questa condizione. La Cina è vicina, e gli scioperi della Honda o della taiwanese Foxconn (e i suicidi operai) mettono in vetrina l'andamento da vasi comunicanti che Scalfari ha qui illustrato: gli operai cinesi rivendicano salari meno infimi e condizioni di lavoro meno infami e gli operai occidentali diventano più cinesi. Il punto però è che la nuova Panda ha messo in concorrenza diretta lavoratori italiani e lavoratori polacchi, cioè di due paesi dell'Unione Europea. E anche se una rilocalizzazione italiana dall'est europeo è inedita, come vanta Marchionne, è vero però che da anni la minaccia di trasferire la produzione in Ungheria o in Romania è valsa a far accettare nell'industria occidentale sacrifici di lavoro e salario non molto dissimili da quelli che si impongono a Pomigliano.

In Germania, la difesa dell'occupazione è costata, ben prima della crisi finanziaria, un forte allungamento dell'orario di lavoro a parità di salario - alla Opel da 38 a 47 ore! A Bochum, nel 2004, si trattò proprio di sventare il trasferimento in Polonia. In Francia le 35 ore erano legge, e sono un ricordo imbarazzato. Oggi, alla Opel, saturati i tempi, gli operai cedono - agli investimenti aziendali, a fondo perduto - una metà di tredicesima e quattordicesima, un mese di salario. Il ritorno a un protezionismo "nazionale" fu vistoso con il prestito offerto dalla Merkel alla Magna in cambio della salvaguardia dell'occupazione tedesca, violando le regole europee sulla concorrenza. Ma si tratta di una tendenza generale, di cui gli incentivi governativi alla Fiat furono un capitolo ingente. Sarebbe interessante sapere in quante fabbriche italiane (Fiat inclusa) condizioni di lavoro largamente simili a quelle imposte a Pomigliano sono già in vigore.

Se dunque non c'è una capacità, e neanche una vera volontà - a parte la lettera "di bandiera" di un gruppo di operai di Tichy - di animare una solidarietà europea, tanto meno ci si attenterà a immaginare una simpatia e un legame fra gli operai di Pomigliano e di Tichy e gli scioperanti e i suicidi di Shenzhen, i quali per giunta fabbricano (sono 400 mila solo alla Foxconn) componenti elettroniche per il mondo intero, e non un prodotto esausto come l'auto, sia pure la nuova Panda. Nel momento in cui accentua la sua internazionalizzazione, la Fiat "nazionalizza" gli operai di Pomigliano, con un ultimatum prepotente perfino nel tono. A sua volta, in un gioco delle parti di cui non è affatto detto che sia voluto - che Sacconi e Marchionne siano in combutta: anzi - il governo prende la sfida della Fiat a pretesto per l'abolizione dei contratti nazionali, la liquidazione simbolica della Costituzione, la sostituzione dei "lavori" ai lavoratori, delle cose alle persone. (L'autocertificazione per cui oggi si pretende di rifare la Costituzione, veniva garantita dal Capezzone quondam radicale in un progettino dal titolo "Sette giorni per aprire un'impresa").

La famigerata "anomalia" di Pomigliano è perciò largamente pretestuosa: serve a far passare per una cruna il cammello del conflitto sociale e dei diritti sindacali. Un precedente prossimo c'è, ed è l'Alitalia: anche lì era facile trovare le anomalie, e fare piazza pulita delle norme. Pomigliano è "anomala" dalla fondazione, come ha raccontato Alberto Statera, con la sua combinazione fra una maggioranza di operai venuti dalla campagna e da assunzioni clientelari, e una minoranza di reduci da altre fabbriche e lotte. Si raccontava, il primo giorno dell'Alfasud, che fossero entrati in fabbrica 3 mila operai, e ne fossero usciti 2.980, perché venti erano evasi durante l'orario di lavoro, avendone già abbastanza. Ma l'industria cinese, quella che fabbrica gli iPad, è fatta largamente di contadini scappati dai villaggi.

Un dirigente mandato da Torino al passaggio dall'Iri alla Fiat, nel 1986, avrebbe poi raccontato agli intimi Pomigliano in termini più coloriti del dialogo fra Chevalley e il principe nel Gattopardo. A Pasqua, si aspettavano una gratifica e un agnello. Il manager, magari anche per l'assonanza col nome della dinastia, provò a monetizzare gli agnelli. Uno sciopero lo costrinse a cedere in extremis. Al rientro dopo la festa lo sciopero riprese, e il dirigente costernato si sentì dire che l'agnello avrebbe dovuto essere vivo, e non macellato. Bisognava che prima ci giocassero i bambini. Sarà una leggenda. Anche sull'assenteismo e sulla camorra a Pomigliano corrono storie vere e leggende, utilizzabili a piacere.

Sarà vero che al direttivo provinciale di Cisl e Uil partecipano seicento dipendenti di Pomigliano? Marchionne deve saperlo, e non da oggi. Deve averci pensato almeno da quando ribattezzò la fabbrica col nome di Giambattista Vico, per riparazione: il più grande intellettuale della Magna Grecia. Non bastava un'intitolazione a passare dall'assenteismo alla scienza nuova, e nemmeno la deportazione dei cattivi a Nola. Ma appunto, il colore locale fa comodo a tutti, e anche a rovesciarlo in un ipertaylorismo - parola buffa, perché il taylorismo è iperbolico per definizione, e caso mai bisogna ridere amaro delle chiacchiere sulla fine del lavoro manuale e della fatica. I 10 minuti in meno di pausa - su 40 - la mezz'ora di mensa spostata a fine turno, e sopprimibile, lo straordinario triplicato - da 40 a 120 ore - e una turnazione che impedisce di programmare la vita, sono già un costo carissimo. Aggiungervi le limitazioni allo sciopero e il ricatto sui primi tre giorni di malattia è una provocazione o un errore, di chi vuole usare Polonia e Cina per insediare un dispotismo asiatico in fabbrica qui, quando la speranza è che l'anelito alla dignità e alla libertà in fabbrica faccia saltare il dispotismo in Cina.

Non c'è l'Internazionale, viene fomentata la guerra fra poveri, si fa la guerra ai poveri, questa sì dappertutto. Perché l'altra lezione venuta in piena luce grazie a Pomigliano è che la storia degli operai "garantiti" opposti ai "precari" era del tutto effimera, e i nodi sono al pettine, per operai e pensionati. Termini Imerese chiude, Pomigliano chissà, Mirafiori... Chi garantisce chi? Dei due modelli presunti - lavorare di meno o consumare di più - è destinato a prevalere, da noi ricchi, il terzo: lavorare di più e consumare di meno. Il "movimento epocale" di redistribuzione del reddito, invocato da Scalfari, va insieme a un cambiamento radicale dei modi di vivere e consumare (si chiamano, chissà perché, "stili": come se ci fosse stile in una coda di autostrada). Erano provvisori i "garantiti", siamo provvisori "noi ricchi" del mondo.

Questione di tempo, e l'economia va più svelta della stessa demografia. Prediche al mondo vorace che esce dalla povertà a spallate, perché non si ingozzi di automobili e telefonini come noi, non ne possiamo fare. Abbiamo dato l'esempio dell'ubriachezza consumista, possiamo solo provare a darne uno pentito, di sobrietà. Sbrigandoci.

(22 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/22/news/sofri_pomigliano-5043267/?ref=HREA-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - Noi uomini vigliacchi, rileggiamo Cuore
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2010, 10:09:39 am
LE IDEE

Noi uomini vigliacchi, rileggiamo Cuore

Il delitto di Milano e il segreto di Larsson ripropongono un'antica domanda: io che avrei fatto?

di ADRIANO SOFRI

HO L'IMPRESSIONE che fra i sentimenti un tempo campali - per i bambini che leggevano il libro Cuore e i ragazzi che leggevano Conrad - che oggi sono sbiaditi, abbia un posto dei primi la vigliaccheria, e la sua lunga compagna, la vergogna. Ieri questo giornale le ha misurate, senza volere.La pagina 19 raccontava l'orrendo mattatoio di una strada milanese, un forsennato che si imbatte in una donna e infierisce a pugni su lei, fino a sfondarle le ossa. "Lo vedono atterriti un paio di passanti, le auto gli sfilano accanto, la portinaia chiama aiuto ma nessuno...". La pagina 20 riferiva una testimonianza su Stieg Larsson e il "segreto inconfessabile" che avrebbe ispirato i suoi romanzi: quindicenne, assistette inerte allo stupro compiuto da tre suoi amici. "La ragazza urlava ma nessuno interveniva". Ora mettiamole nella stessa pagina, queste due notizie. Le differenze si vedono bene. Nella strada di Milano, gli spettatori che si tengono alla larga hanno tutte le attenuanti: sono paralizzati dalla sorpresa e anche dalla paura, e la paura è giustificata di fronte al furore di un energumeno che scarica i suoi pugni da boxeur su una creatura senza riparo. Nel sottoscala della Casa dello Studente di Umea in cui si consuma lo stupro, a fare di Larsson un complice è "la lealtà verso gli amici". L'odiosa "lealtà" del ragazzo maschio verso gli amici maschi è altra cosa dalla paura fisica, ma può rendere altrettanto e più vigliacchi, e attaccare addosso una vergogna senza fine. Non saprei parlarne per chi è ragazzo oggi, ma quelli della mia generazione e, temo, di altre a venire, conoscono bene questa situazione, anche se abbiano avuto la fortuna di sperimentarla in circostanze meno drammatiche, e la loro sia stata solo una piccola viltà, o, com'è più frequente, una successione di piccole viltà. Le piccole viltà sono più facili da rimuovere, ma basta un incidente a tirar fuori la vergogna, e senza sconti. Si diventa maschi - temo che succeda ancora - imparando a ingannare una femmina, fosse anche la "propria", e tradire lei per non tradire la banda degli amici.

In ambedue le pagine la vittima è donna. L'ammazzamento della signora Emlou Aresu incute un terrore sacro. C'è Milano, c'è una strada che si chiama viale degli Abruzzi, c'è un ucraino venticinquenne che teme d'essere lasciato dalla sua compagna, lettone, c'è una gentile donna, madre di due figli, venuta dalle Filippine a tenere in ordine case italiane, che sarebbe tornata nelle Filippine all'indomani, che - raccontano altre donne che la vedevano passare ogni giorno - "era sempre di fretta", e così, di fretta, è arrivata al crocevia fatale. Secondo le cronache aggiornate, quel furioso, una volta in manette e con le nocche ferite, avrebbe detto di aver "solo picchiato un filippino di merda". Può darsi che fosse accecato fino a quel punto. Sua madre però dice che era uscito di casa gridando: "La prima che incontro, l'ammazzo". La prima che incontro, è un'idea che spiega tutto, come nelle canzoni: sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai, d'oro o di cazzotti a morte, secondo il caso. Una donna, una qualunque, basta perfino una filippina di merda. I criminologi dicono che sono i delitti più inevitabili, quelli "casuali". Salvo che non è davvero casuale essere donna, e filippina per giunta.

Si corre il rischio di fare i maramaldi. Di deplorare i passanti che non sono intervenuti, i passeggeri dell'autobus che hanno guardato fuori dal finestrino mentre un'anziana signora veniva derubata e malmenata, i bagnanti che continuano a prendere il sole accanto al cadavere di un annegato. Noi uomini - appunto perché siamo maschi, e solo di rado siamo filippini - dobbiamo pur chiederci che cosa avremmo fatto, se ci fossimo trovati lì. A volte, come per l'episodio del Larsson adolescente, può darsi che lì ci siamo trovati, e che dobbiamo solo ricordarcene. I romanzi venduti a milioni di copie servono a eludere la questione: riguarda altri, personaggi romanzesche. Anche la vita vera riguarda altri, salvo che ci venga addosso, "proprio a noi", come una disgrazia. In genere, non facciamo che scongiurarlo, e scansarci più che possiamo. E quando succede, e non ci si può scansare?

Naturalmente, io non so affatto come mi sarei comportato se mi fossi trovato in viale degli Abruzzi al cospetto di quel prolungato massacro. So che temo fortemente che sarei stato vile e comunque inetto, che avrei avuto paura e che magari avrei escogitato nomi pretestuosi e meno mortificanti per la mia paura. Oltretutto, c'è una differenza fra scegliere coraggio o dignità quando si abbia il tempo di riflettere e decidere, e quando d'improvviso si sia messi alla prova. La verità è che succede a tutti, tutti i giorni. E che si è perduta l'abitudine di farsi la domanda su se stessi: "Che cosa avrei fatto...?". Ogni anno, l'11 luglio, ci si ricorda - chi se ne ricorda - della strage genocida di Srebrenica. Quest'anno era il quindicennio. Ogni volta si ritorna in quel luogo del delitto immane, tra le fosse di migliaia di trucidati, si racconta di nuovo l'empia malvagità dei carnefici, il generale Mladic che dà un buffetto a un bambino atterrito davanti alle telecamere, le donne separate dagli uomini e cacciate, gli uomini sterminati e buttati nelle fosse. E si racconta di nuovo l'infamia di ufficiali e soldati olandesi con le insegne delle Nazioni Unite, che non hanno mosso un dito per impedire la strage e anzi hanno accolto gli assassini e hanno brindato con loro e hanno collaborato a radunare le greggi dei rifugiati che avevano il compito di proteggere, aspettandosene, o fingendo di aspettarsene, che servisse a sventare il peggio. Il governo olandese, a distanza di anni, pagò con la caduta quel disonore. Dopo qualche anno ancora - nel dicembre 2006 - il ministero della difesa olandese assegnò ai 500 reduci del battaglione cui era commessa la difesa di Srebrenica una medaglia, per compensarli delle accuse di cui avevano sofferto.

La viltà all'ingrosso degli Stati e delle potenze attraversa i tempi, e si è trovata anche lei nomi cattivanti, Ragion di Stato o Realpolitik, e medaglie larghe abbastanza da coprire la macchia rossa di vergogna sul petto delle uniformi. Poi ci sono le persone. A ciascuno di noi, specialmente se ha appena finito di commemorare Srebrenica e di dedicare il suo sarcasmo a un ministero olandese, o di commentare l'orrenda storia dell'altroieri a Milano, vien fatto di chiedersi: che cosa avrei fatto se fossi stato un ufficiale olandese, un passante a Milano? È la domanda che si fa chi legge Primo Levi, soprattutto se è un ragazzo e non è ancora indurito, la domanda per cui Primo Levi e altri che erano tornati da lì non vollero più vivere. C'è una differenza fra le tante, i cinquant'anni che separano Auschwitz da Srebrenica. Le cose infatti continuano a succedere. Si possono ascoltare molti consigli, e andare in palestra, e portare non so quale spray nella borsetta. Però non mi sembrerebbe inutile che i bambini e i ragazzi leggessero qualcosa che somigliasse al libro Cuore o a Lord Jim. O anche alla storia del giovane uomo maschio che si trovò a passare proprio nel punto in cui stavano per lapidare un'adultera.

(08 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/08/08/news/noi_uomini_vigliacchi_rileggiamo_cuore-6147135/?ref=HREC1-4


Titolo: ADRIANO SOFRI - Quella foto del bimbo pakistano simbolo dell'orrore dimenticato
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2010, 12:24:27 pm
IL CASO

Quella foto del bimbo pakistano simbolo dell'orrore dimenticato

Lo scatto che ritrae due fratellini coperti di mosche ha risvegliato le coscienze sull'emergenza delle alluvioni.

Sembra un quadro, ma è la drammatica realtà: quella di una crisi di fronte a cui il mondo ha chiuso gli occhi.

Cosa facciamo davanti a questa foto?

di ADRIANO SOFRI


La prima cosa che si pensa  -  no, viene prima di pensare: la prima cosa che si spera  -  è che sia un fotomontaggio, o una di quelle escogitazioni che prendono il nome di arte, che qualcuno abbia sparpagliato manciate di mosche finte a macchiare il quadro coi bambini e il pavimento di fango e stracci sul quale sono sdraiati. Poi ci si forza a guardare, l'insieme e i dettagli. L'insieme colpisce tanto più perché è una "bella fotografia", dalla composizione geometrica, le due teste accostate in primo piano, di cui si capisce che sono di bambini vivi, perché uno è attaccato al biberon, sia pure senza sollevarsi, l'altro punta il braccio destro al suolo, benché anche lui senza tirarsi su. Il biberon è vuoto. Ce n'è un'altra bottiglietta, di plastica, vuota anche quella, per terra un po' più in là. Sul biberon ci sono davvero le api finte, e uno scorcio di scritta che dice: Honey. È geografia, serve a misurare la lontananza. I due bambini in secondo piano dormono e senza il confronto coi due del primo piano sembrerebbero senza vita, avvolti alla rinfusa negli stracci. Perfino i colori sembrano sapienti, con la simmetria di rossi nella metà a sinistra di chi guarda.
 
Chi ha guardato per primo e fotografato questo quadro si chiama Mohammad Sajjad, deve aver avuto, subito prima, o subito dopo, l'impulso di cacciare quelle mosche, che del resto non si lascerebbero intimidire da un'intera armata. La fotografia, scattata il 31 agosto e distribuita dall'AP, ha fatto il giro del mondo, Internazionale l'ha pubblicata da noi a doppia pagina, il Guardian l'ha messa ieri in prima e la sua inviata, Rania Abouzeid, ha rintracciato i bambini e la loro famiglia. Sono scampati alle inondazioni che hanno infuriato sul Pakistan per più di un mese, come altri milioni, decine di milioni di sfollati. Vengono dal circondario di Peshawar, si sono accampati a un bordo di strada ad Azakhel, affiancano le auto che passano di lì e chiedono qualcosa. Questa famiglia, la madre Fatima, il padre Aslam Khan e i loro otto figli - i due in primo piano nella foto, Reza e Mahmoud, hanno due anni e sono gemelli - non sono nemmeno pachistani, ma profughi afgani, dunque scampati una volta alla disgrazia degli uomini e un'altra a quella della natura, e stanno ancora più indietro nella fila lunghissima degli infelici che tendono le mani. Ora stanno morendo di fame. "E' un mese che non hanno latte", dice la madre. Scrive la giornalista: "Quando l'abbiamo trovato, Reza era ancora attaccato allo stesso biberon. Era ancora vuoto". Prima Aslam viveva andando in giro in bicicletta a vendere pollame. Ora, attorno e dentro una tenda di fortuna, senza nessuna organizzazione umanitaria che gestisca il piccolo accampamento, senza acqua né soccorso sanitario, umani e altri animali sopravvivono nella sporcizia comune e le mosche la fanno da padrone. Per cacciarle, Fatima ha solo un ventaglio di foglie di bambù. E ha poco tempo e forze da spendere a far guerra alle mosche.

Gli stracci che si vedono nella fotografia sono tutto il loro patrimonio. Reza ha una maglietta stinta con la scritta "Apples", lettere dell'alfabeto latino, e dei disegni forse di farfalle. Nell'altra fotografia, scattata per il Guardian da Jason Tanner, ha una maglietta stinta con la scritta grande "Levi's". Tutti gli stracci sono firmati al mondo d'oggi, e anche i biberon vuoti sono colorati e allegri. La maglietta rossa del suo gemello lo copre solo fino alla pancia e ha uno strappo accanto alla cucitura. Le mosche sembrano disposte caoticamente, è probabile che si addensino e distribuiscano seguendo la sporcizia e gli umori.

I biologi chiamano commensalismo la vita comune di due esseri viventi in cui uno si ciba degli scarti dell'altro. Le mosche domestiche sono commensali dell'uomo. Queste, stanno addosso ai bambini, senza nemmeno curarsi di volare, come se i bambini stessi fossero scarti. Hanno ragione loro, hanno capito tutto? Nei giorni scorsi si è discusso, a proposito di un'idea di Hawkins, se Dio esista o no - davvero - ed eventualmente se non possa darsi il caso che Dio esista, ma non abbia creato il mondo. Non abbia creato i bambini, le inondazioni e le mosche.

Questa fotografia ha fatto un gran viaggio e ci ha portato addosso, alla distanza di un giornale tenuto fra le mani, di uno schermo di computer, i bambini Reza e Mahmoud e i loro fratellini e la miriade di mosche che li copre e s'insinua dentro gli occhi e le bocche. Non siamo più abituati a questa vista: ai bambini scartati sì, magari, succede anche in qualche greto di fiume nostro, ma alle mosche no. La carta moschicida è vietata da tempo, da noi, per ragioni igieniche. Così, benché ci sia arrivata così pericolosamente vicino, la fotografia dei bambini - la fotografia delle mosche - è destinata a tornarsene alla sua tenda di afa dolore ed escrementi. Da noi, un'immagine così la potremo trovare in qualche biennale, facsimili di bambini da esposizione o bambini veri, mosche vere o facsimili, perché bisogna pure che gli scandali avvengano, o almeno i facsimili di scandali.

Guardate: mentre scrivevo questo, mi sono interrotto due o tre volte per cacciare una mosca che mi volava fastidiosamente attorno, finché me ne sono accorto, e mi sono detto che quel gesto distratto avrebbe spiegato più del mio articolo e di altri diecimila. Mi sono anche ricordato dell'aneddoto su Giotto ragazzo, che dipinse di nascosto su un'opera di Cimabue, suo maestro, una mosca, e Cimabue cercava di cacciarla via.

(07 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/09/07/news/la_foto_di_reza-6817715/?ref=HRER2-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - L'abuso di potere/10
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2010, 07:10:20 pm
COMMENTI

L'abuso di potere/10

di ADRIANO SOFRI

Rovesciamo il tavolo. La versione della difesa è memorabile. C'è un uomo buono, e una ragazza  -  mille ragazze  -  sventata.
Ha, ancora per poco, gli occhi coperti per legge. Ma il potere risiede sulla punta dei suoi seni. La ragazza approfitta dell'uomo buono, del suo affetto indefesso e prodigo. È un abuso di potere. Noi uomini capiamo. Scuotiamo la testa, deploriamo la nostra debolezza paterna, ci diciamo che valga da lezione: alla larga dal potere che nasce dalla punta rosata dei seni, che ci taglia i capelli durante il sonno e ci vende inermi al nemico.

Sarebbe bello, eh? Le puntate precedenti hanno riportato l'abuso di potere al suo significato essenziale, prima (e dopo) qualsiasi fattispecie penale. Il potere insidia pressoché ogni relazione, e l'abuso tenta pressoché ogni potere. Il rapporto fra uomo e donna è segnato dal principio da una disuguaglianza di potere. L'espressione lusinghiera e disgustosa, "un uomo di potere", può estendersi, salvo complicazioni, a qualunque uomo nei confronti di qualunque donna. La storia universale spalleggia l'uomo che si aggiusta il nodo della cravatta preparandosi a fare la sua offerta. La complicazione sta nell'esistenza di uomini che vi si sottraggono per indole o per consapevolezza (rari) e di donne che vi si rifiutano fino alla ribellione, meno rare.

Alcune società rendono impervia la ribellione delle donne e la schiacciano ferocemente, facendo della forza pubblica la garante e complice della prepotenza patriarcale. Altre società imparano a favorirla, e lasciano progressivamente soli gli uomini che se ne sentano offesi e sopraffatti, e non di rado reagiscono esercitando la loro bruta forza privata. Se questo è vero, e una sproporzione di potere e una tentazione di abusarne accompagna in modo che vuol apparire naturale la relazione fra uomo e donna, figurarsi la relazione fra una ragazza di diciassette anni in fuga da famiglia, carta d'identità a rischio e clausura in comunità, e il vecchio uomo più ricco e potente del reame.

È la favola di sempre mutata in caricatura grottesca. Il rospo bacia la bella e resta rospo, la bella finisce in questura fra la sezione furti e la buoncostume. Questa smisuratezza misura la miseria della questione. Non è infatti il signor B. a unirsi per una sera o due alla signorina R.: è l'ammontare del patrimonio intestato al signor B. ad afferrare il giro di vita della signorina R., farle fare un paio di piroette e rimetterla in strada con la mancia. Il signor B. è una funzione del suo reddito  -  e, in addizione, del suo rango, cioè il filmino in cui racconta quella dell'ebreo e dell'orso a un re e gioca allo schiaffo del soldato con un imperatore, da mostrare alle signorine all'acme della nottata  -  dunque è altrettanto triste e mortificato del ragioniere che materialmente gli prepara le buste a tariffa differenziata, nottata dietro nottata, e chissà che vita fantastica e sessuale ha il ragioniere, e su lui sì che un Gogol contemporaneo saprebbe scrivere un romanzo immortale (Nikolaj Gogol', il romano, non Google, l'americano), sul signor B. non ci proverebbe nemmeno il signor Balzac.

Ora, in questa spropositatezza  -  una pretty woman cui invece di Richard Gere è toccato il nostro, e invece del delizioso direttore d'albergo Hector Elizondo è toccato un malinconico caposcorta scampato al Copasir  -  è facile immaginare che alle ragazze novissime che sognano il casting istigate dalle novissime mamme (ma già Anna Magnani in Bellissima, 1951: però lei alla fine s'incazza forte) giri la testa e batta il cuore. Macché. Non gli batte il cuore, si direbbe. Vanno lì e già nei furgoni si dicono che bisogna fotografare più che si può, un giorno potrebbe tornare utile. Si direbbe che non si innamorino del signor B. Già: provateci voi. Innamoratevi voi del signor B., o del signor Lele M. Provano un trasporto per i suoi record  -  al governo, nelle televisioni, nella classifica dei redditi  -  e sanno distinguere fra i record e lui. Abusano di lui? In un certo senso.

Si potrebbe perfino compiangere la sorte di B., poiché tutto quello che tocca diventa euro e gli si ritorce contro. Ma non si può, non si riesce, non ancora, almeno. Forse fra poco, quando la muta di cani che divorano le briciole sotto il suo letto gli azzannerà le mani e scodinzolerà all'ufficiale giudiziario. Per ora lui sta completamente al gioco, convinto di poterselo permettere, di potersi pagare tutto, dunque permettere tutto. Ha rinunciato a essere amato, gli servono i surrogati, qualche piccola folla che applauda di giorno, qualche comitiva di femmine di notte, che facciano marchette ma, mi raccomando, non lo dicano a voce alta. Le ragazze pensano di usarlo, lui sa di abusarne. Poi non esita a dichiararsene vittima, della malavita o della ragazza R. che, sleale, gli ha fatto credere di essere maggiorenne e, dettaglio immortale, nipote di Mubarak. (In tutta questa storia nessuno ancora ha chiesto al signore o alla signora Mubarak  -  la zia  -  che cosa ne pensino; e nemmeno ai padri pachistani che sgozzano la figlia adolescente che vuole decidere della propria capigliatura, o agli sventurati padri italiani marescialli che la sparano, la figlia tredicenne, perché va su Facebook.

Voglio proporre un confronto, per spiegarla bene la cosa, com'è davvero. Prendete il vecchio pensionato vedovo accudito da una badante o relegato a un ospizio cui si faccia sposare un fiore di ragazza bielorussa, così, per darle la cittadinanza e magari anche una reversibilità pensionistica. Uno di quei matrimoni combinati per denaro o per raggiro. Il vecchio pensionato ne avrà in cambio, chissà, un bacio sulla guancia da lei al momento della cerimonia, prima che i suoi papponi la portino via ridendo. Oppure prendete un uomo italiano anziano e benestante che vada a comprarsi un fiore di ragazza romena e se la porti in casa, vitto e alloggio e magari qualcosa da mandare ai suoi, in cambio di tutti i servizi, e con la corda corta, e se la tirasse troppo, botte. Chi abusa di chi?

Ecco, il signor B. è anche lui benestante, ma molto di più, al punto che di questi matrimoni in saldo può permettersene una dozzina per notte, un numero di cellulare per certificato nuziale, il ragioniere che prepara la busta di liquidazione e la mattina dopo chi s'è visto s'è visto. Turismo sessuale, senza muoversi da Palazzo, parità da un milione a zero, furgoni che vengono furgoni che vanno. Avevo un amico tanti anni fa, operaio alla Dalmine, voleva far presa su una ragazza di fuori in una sala da ballo, le disse che si chiamava T. di nome e Dalmine di cognome. Non sapeva che era un paese. Figurarsi se vi chiamate davvero Dalmine. Lui però era un bel ragazzo.

Veniamo al punto. La volgarità è sempre esistita, e siamo in tanti, noi uomini, a essere vissuti molto al di sopra delle nostre possibilità, in fatto di donne. Zeus l'immortale, altro che centovent'anni, e la sua immortalità la portava benino, si tramutava anche lui in una volgarissima pioggia di euro per prendersi senza precauzioni la disgraziata Danae, e la ingravidò, e non doveva aver raggiunto nemmeno lei la maggiore età. Ma la scoperta, salvo errore, che questi stuoli di signorine restano attaccate al signor B., o se lo vendono alla prima telecamera, ma comunque non si innamorano di lui  -  e vorrei vedere  -  ha una portata più generale. Ha a che fare con la persuasione, ennesimamente ripetuta, che B. sia "in sintonia col paese", che la gente si riconosca in lui, che "gli italiani" siano fatti così, che ogni scandalo rafforzi lo zoccolo durissimo dei suoi amatori e invidiatori. Non ci credo, non più, non abbastanza.

B. era la malattia, ma ha cominciato a diventare il vaccino. "Gli italiani" non possono dividersi fra amanti della Costituzione e amanti della prostituzione. È di ieri la mirabolante riforma prostituzionale che vuole toglierle dalla strada e confinarle a Palazzo. E non c'è stato nemmeno bisogno dei due terzi dei voti, né della doppia lettura parlamentare. Un potere madornale, un abuso madornale. Se la ricorderà, il signor B. quella famosa barzelletta che, riadattata, suona così. "Papà, il signor B. è fatto come noi?" "No, mooolto di più".

(07 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/07/news/sofri-8834437/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Il permesso di manifestare
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2010, 10:52:05 am
IL COMMENTO

Il permesso di manifestare

di ADRIANO SOFRI

IL GOVERNO annuncia un pugno più duro con le manifestazioni politiche, a cominciare dalle prossime degli studenti e degli universitari. Il governo non si risparmia. Fa le veci del Parlamento. Fa le veci della magistratura, si impegna all'unisono, interni e giustizia, a spiegarle che i ragazzi fermati vanno tenuti in galera. Si profonde in avvertimenti sul ritorno del Sessantotto e degli anni di piombo. Dal'45 al Sessantotto erano passati 23 anni. Dal Sessantotto a oggi 42. I "ragazzi" di oggi, dai 41 anni in giù, sono nati dopo il Sessantotto, e dai 40 in giù dopo lo sbarco sulla luna.

Che studenti ricercatori operai vadano sui tetti al governo sembra seccante, ma fino a un certo punto. Da lì possono solo scendere, o buttandosi di sotto, e non c'è problema, o dalle scale, e basta aspettarli e rimetterli al loro posto. Che dai tetti scendano nelle strade e le riempiano e tornino ad avere insieme obiettivi definiti e un'ispirazione generale, che ripudino una presunta riforma e non ne possano più di un'intera idea del senso della vita, questo il governo non può sopportarlo. Il governo ha tutto il potere, e lo venera come un sacramento, il Parlamento è un incidente sempre più superfluo, giustizia e stampa (non servili) cerimonie fastidiose, le polizie  -  quando non manifestano a loro volta contro il governo  -  un privato servizio d'ordine.

La cosa è culminata  -  per il momento  -  nell'invenzione del Viminale: l'estensione del Daspo alle manifestazioni politiche  -  cioè alla politica. Essendo le manifestazioni politiche appunto il modo di manifestarsi della politica, la proposta vale né più né meno all'esonero di polizia di un certo numero di cittadini  -  "ritenuti pericolosi"  -  dalla politica, e dunque, per completare il giro di parole e di fatti, dalla cittadinanza. Ascoltare la trovata e sorridere  -  o ridere francamente  -  è fin troppo facile. "Li vogliamo vedere, a decidere chi può partecipare a un corteo o a un comizio, e poi a impedirglielo". Ma il bello delle trovate reazionarie sta proprio lì: che vengano sparate nonostante la loro enormità, anzi, grazie alla loro assurdità. Gli anziani si ricorderanno le polemiche roventi sulle leggi d'eccezione e il fermo di polizia. Ma il fermo di polizia, anche il più arbitrario per durata e modalità, pretende almeno di far seguire l'arbitrio a un reato commesso. Qui il fermo ne precede la presunzione, vagheggia una legislazione dei sospetti. Alle manifestazioni politiche possono partecipare solo i buoni cittadini: i cattivi no. Chi sono i cattivi? Quelli che, se si permettesse loro di partecipare alle manifestazioni politiche, si comporterebbero male. Logico, magnifico. Vengo anch'io. No tu no. E perché? Perché no. Il Viminale non vuole. Per il nostro bene.

L'idea del Daspo politico è così genialmente ministeriale da lasciare ammirati e senza parole. All'inizio; poi le parole vengono, altro che se vengono. Una volta che vi siate informati su che cos'è (è il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive, scritto così) perché non applicare il Daspo anche agli accessi alle Autostrade Italiane? Ho appena sentito dalle autorità preposte che la colpa di ieri è degli automobilisti sventati che sfidano la sorte senza attenersi alle raccomandazioni dei cartelloni stradali ("catene a bordo" eccetera: anche in treno?). Dunque Daspo ai caselli. Manifestanti o automobilisti, basterà dotare le polizie (e le forze armate, per la sinergia) di un elenco dei facinorosi, da compulsare al momento della loro discesa in strada. Del resto, diciamocelo: elenchi così ci sono già, pubblici e privati.

Per le incombenti manifestazioni studentesche basterà disporre di un primo catalogo approssimativo: due o tre milioni di nomi e cognomi. Del resto, avvenne già. Anzi, geniale com'è, l'idea ministeriale rischia di essere troppo modesta rispetto ai precedenti classici. Fascismo o "socialismo reale" non sapevano forse assicurare l'ordine pubblico e lo svolgimento ordinato delle libere manifestazioni, piuttosto che con la bruta repressione, con una accurata azione preventiva (di igiene, vorrei dire, ora che questa sintomatica parola  -  "la guerra, igiene del mondo"  -  è stata rimessa all'onore del mondo stesso)? Andando più per le spicce, quei regimi non si limitavano ad applicare un Daspo antemarcia ai sospetti dissidenti per le eventuali loro manifestazioni pubbliche, ma per le proprie. Alla vigilia delle quali gli oppositori, meticolosamente schedati senza bisogno di computer, quando non fossero già al sicuro in galera o al confino, venivano arrestati o consegnati agli arresti a domicilio. E la piazza delle manifestazioni di regime ne risultava sgombra dal rischio di incidenti: igiene, appunto, piazza pulita di rivoltosi, violenti e altri rifiuti organici.

Si applichi dunque il Daspo alle manifestazioni politiche, ma se ne escludano le manifestazioni di opposizione al governo  -  non occorre vietarle, basta abolirle  -  e lo si applichi rigorosamente a quelle del Pdl, della Lega e delle forze loro alleate e genuinamente fasciste, dai cui paraggi saranno allontanati i membri dell'Elenco Facinorosi, e concentrati per il tempo necessario alla sicurezza collettiva e all'ordinato esercizio del diritto di manifestazione  -  36 ore minimo  -  fra Incisa Valdarno e Firenze Sud. A bordo. In catene.

(19 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/19/news/sofri_commento-10378340/?ref=HREC1-3


Titolo: ADRIANO SOFRI - Una lezione ai maschi
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 11:03:35 am
IL COMMENTO

Una lezione ai maschi

di ADRIANO SOFRI


È inevitabile che le manifestazioni collettive sollevino qualche dubbio, e anche quella delle donne di domenica.
Non avevo mai sentito tante buone ragioni per aderire a una manifestazione. E non avevo mai sentito pretesti così capziosi e vanesi per non aderire. Lo svolgimento è stato magnifico.

Tanto tempo fa, noi uomini (molti di noi, almeno) che respingevamo con sdegno l'eventualità di stare mai dalla parte dei padroni, fummo costretti a un estremo imbarazzo, o a vergognarci francamente, quando di colpo ci venne rinfacciato di essere i padroni nel rapporto con le "nostre" donne, e le altre. Non era facile reagire: diventare donne, o un altro dei generi possibili, riesce solo a pochi, e restare maschi sapendo di essere in torto era seccante. A parte qualche provvedimento di correzione personale  - palliativi, del resto -  l'ideale era che le donne contassero per la maggioranza che sono, e per l'intelligenza peculiare di cui qualche millennio di raggiri e prepotenze le ha dotate, e allora gli uomini potessero rivendicarsi tali a ricominciare da una leale condizione di minorità.

Che questo avvenisse nell'arco della nostra esistenza personale, nonostante la longevità moderna, era da escludere. E per giunta la storia mondiale è andata in un modo tale che gli uomini si sono presi una quantità di rivalse, cruente o no, sulla risalita delle donne. Naturalmente donne e uomini sono categorie troppo generali perché si trascuri il rilievo dei casi individuali, cioè delle persone.
Va da sé che anche delle donne possono essere scemissime, e titolari di dicastero.

Tuttavia la statistica conserva una sua presa. Ho visto che fra pochi giorni si apre a Bruxelles una importante fiera del libro intitolata "Il mondo appartiene alle donne". Immagino che sia un auspicio, e anche così lascia perplessi, per quell'intonazione proprietaria, peraltro giustificata dalla convinzione opposta, data per ovvia, che il mondo appartenga agli uomini. (Tant'è vero che dicemmo "uomini" invece che maschi o esseri umani, per annetterci le donne).

Noi uomini non possiamo convocare una nostra manifestazione, perché tutte le manifestazioni sono state nostre  - abbiamo finito a volte per invadere di forza quelle di sole donne. Non proclamiamo mai di fare qualcosa "in quanto uomini", perché tutto quello che facciamo lo facciamo in quanto uomini. Possiamo immaginare ora che il mondo non ci appartenga più, o almeno che noi tutti, donne e uomini, e cavalli e tonni rossi, gli apparteniamo quanto lui appartiene a noi.

Ci vorrà parecchio tempo, nella migliore delle ipotesi. Però, per uomini fieri e sportivi e azionisti e allegri di minoranza come ci figuriamo, sarà bellissimo dividerci accanitamente sull'accettabilità delle quote celesti, e sfilare con i cartelli che dicono: "Non siamo panda giganti", e alla fine indire cortei in 2.300 città ammettendo, anzi richiedendo, la partecipazione di donne. Da domenica, ci siamo un po' meno lontani.

(15 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: ADRIANO SOFRI - Se io fossi un tunisino
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2011, 06:13:52 pm
Se io fossi un tunisino

di ADRIANO SOFRI

METTIAMO che io sia un tunisino di vent'anni su uno spiazzo di Lampedusa. Aspetto di essere imbarcato ma sotto il maestrale il mare urla e biancheggia. La polizia ci ha tolto, uno per uno, le cinture dei calzoni e i lacci delle scarpe. (Dove le metteranno? Ce le restituiranno?).

Perché ce le tolgono? Come potremmo minacciarli con i lacci da scarpa? Forse vogliono impedirci di impiccarci. Ma allora sta per succedere qualcosa di così terribile che vorremo suicidarci? In ogni caso, è davvero umiliante essere spogliati dei lacci e restare coi pantaloni in mano.

Mettiamo che io sia un poliziotto di vent'anni e stia ritirando lacci e cinture a questi tunisini, ragazzi per lo più, che continuano a dire "Italia Italia" e "Libertà libertà". Mi hanno mandato qua - avrei voluto venirci in vacanza - e da 48 ore stiamo occupandoci, senza dormire e mangiando male, di questi disgraziati che non mangiano e non dormono. Pare che, una volta salpati, li porteremo indietro a loro insaputa in Tunisia. Sarà per questo che gli leviamo cinture e lacci, perché non si impicchino per disperazione. Ma se si immagina che possano farlo, che cos'altro si deve aspettarsi che facciano?

Mettiamo che io sia un abitante di Lampedusa, non so, un pescatore. Non ho niente, davvero, contro questi spiaggiati. Le loro facce mi sono familiari, con tanti di loro ho parlato. So quanti se ne perdono in questo mare di annegati. So che vengono a cercare l'Italia, l'Europa, e l'Europa e l'Italia li fermano qui, a Lampedusa, e la mia isola diventa una zattera alla deriva che affonda sotto il peso dei suoi naufraghi, e nessuno vuole soccorrerla.

Mettiamo che io sia io. Mi è facile (all'inizio, almeno) mettermi nei panni di un ragazzo tunisino o di un poliziotto in trasferta a Lampedusa. Nei panni miei, mi chiedo costernato come siamo arrivati a questo punto. Dopotutto, sono sì e no due mesi. Si è gridato all'invasione, all'Europa indifferente, e si è lasciato che l'alta marea di persone sommergesse Lampedusa, giorno dietro giorno, fino a devastarne la vita quotidiana, e abbandonando all'indecenza i nuovi arrivati. Dapprincipio mi sono detto, ci siamo detti in tanti, che era la scelta deliberata e allegra di un governo alle prese con un mare di guai: era così infatti, e poi la Libia e il Giappone sarebbero arrivati di rincalzo a far da palo a un governo che intanto borseggiava il processo breve e qualche altra porcheria d'interesse privato. Fino al giorno in cui il gioco si è svelato teatralmente sulla doppia scena della visita del capo del governo a Lampedusa, un'esibizione con pochi eguali nella storia del caudillismo contemporaneo, e del parlamento, un parlamento senza eguali nella democrazia contemporanea. Ma intanto si capiva che il cinismo grossolano di quel calcolo si andava ritorcendo giorno dietro giorno contro i suoi autori, e che prendeva il sopravvento la loro insipienza. Hanno detto di tutto - che li pagheremo perché tornino indietro, che gli faremo un campo di tende perché restino nell'isola, che li manderemo a casa della Merkel, che li riporteremo manu militari al loro paese, nolenti loro e il loro governo e le loro acque territoriali: e fatto niente.

Il maestrale ha regalato una dilazione di forza maggiore. Ma le scadenze sempre più solenni e ultimative del capo e dei suoi uomini - 24 ore, 48, 60, e tutto sarà risolto! - suonavano vecchie, e mostravano la sostanza. C'è una moltitudine di rifiuti da smaltire, come a Napoli, come all'Aquila. Monnezza a Napoli, terremotati all'Aquila, rifiuti extracomunitari a Lampedusa: e la stessa soluzione, spazzarli qua e là, alla rinfusa, con le cattive o con le buone - le buone, una villa trattata su e-bay, un nobel o un casinò a Chiaiano o Lampedusa o Manduria. Quanto alle cattive, basta un tipo addolcito dalla malattia che biascica "Fuori dalle palle!", e l'intendenza seguirà. Così la vergogna travolge gli argini, sommerge prima i piani alti, poi i mediani, infine anche i piani bassi e gli scantinati.

In questa combinazione di trivialità, incapacità e inumanità non è facile dire che cosa bisognerebbe fare. È più facile farlo. O almeno, qualcuno lo fa. Ieri monsignor Crociata ha comunicato per conto della Cei che "come Chiesa italiana attraverso le diocesi e le strutture della Caritas, abbiamo individuato 2.500 posti disponibili per accogliere altrettanti immigrati in 93 diocesi italiane". Il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ha sventato l'ukaz ministeriale che concentrava e recintava nella palude di Coltano (Pisa) centinaia di migranti così da avventarli contro la gente del posto e, capolavoro, i residenti rom, offrendo di ospitare lo stesso numero di persone in strutture di località diverse e in gruppi di poche decine, e "senza filo spinato". Immagino che iniziative così ce ne siano tante e ignorate, a compensare gli smaglianti rifiuti di autorità varie di ogni latitudine - e specialmente delle più alte. Andrebbero censite e messe a frutto, tanto più di fronte alla disfatta di un modo di governo che si nutre propagandisticamente dell'emergenza e nell'emergenza vera soccombe.

Mettiamo dunque che io sia io, nei miei panni, e ciascuno di noi si metta nei suoi panni personali. La cosa ci riguarda? O pretendiamo che la nostra condizione di individui ci esoneri (e ci impoverisca) di una parte di responsabilità? Ci sono tutti questi esseri umani che si mettono in viaggio avventurosamente e dolorosamente in cerca di una vita migliore, che somigli un poco di più alla nostra.

Vedete, ogni discorso sull'immigrazione, sui profughi e sui viaggiatori (i "clandestini"!) che non rinunci del tutto alla nostalgia per una fraternità umana, viene tacciato subito di buonismo, cioè di una bontà di maniera. E messo a tacere dalla frase definitiva: "Prenditeli a casa tua!" La frase è cattivista, ma ha una sua utilità, e non è affatto imbattibile. Non solo perché ci sono molte persone che se li prendono, "a casa propria". Ma mi interessa che cosa fanno gli altri, che cosa facciamo noi altri. Avere una casa propria, e "una stanza tutta per sé", è ancora un gran privilegio sul nostro pianeta, ma è anche una condizione preziosa di libertà e di civiltà. I privilegi, anche quelli che non implicano una soperchieria diretta sulla povertà altrui, sono a rischio. I nostri pezzi grossi si riempiono la bocca di parole tolte al loro contesto reale. Berlusconi ieri, Dio lo perdoni e non lo sentano a Sendai, ammoniva sullo "tsunami umano" che ci sta travolgendo; e in Tunisia sono entrati 200 mila profughi dalla Libia. Così è per la parola "invasione": "È una vera e propria invasione!". No, naturalmente. Non è un'invasione vera e propria. Ma le invasioni succedono davvero, sono successe al tramonto di altri imperi, e quando succedono, abbiano una ragione o no (se la fanno, una ragione), entrano senza bussare.

Finché dura, assottigliandosi, l'età del nostro privilegio, piuttosto che gridare "Fuori dalle palle!", conviene versare il nostro modesto contributo supplementare per l'usufrutto del metro quadrato che ci è toccato in sorte. Se non siamo tipi da spartire il mantello col povero che trema, e anzi per tenercelo, il mantello, regalargli un cappotto in saldo, prima che gli venga un'altra idea. Spendere qualche energia e qualche soldo in aiuti, prima di rovinarsi in guardie giurate. Ho detto che conviene: se poi ci riuscisse di farlo con una specie di gioia, sarebbe fantastico.

(02 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/02


Titolo: ADRIANO SOFRI - Se a Napoli arrivassero gli angeli della monnezza
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2011, 05:13:16 pm
   
IL CASO

Se a Napoli arrivassero gli angeli della monnezza

di ADRIANO SOFRI

Immagino come un dopoguerra, un film di persone che scendano in strada a prendere ciascuna il proprio sacco di spazzatura e se ne rientrino in casa. Confronto la monnezza a Napoli col fango dell'Arno a Firenze nel 1966. Che cos'hanno in comune, direte, a parte l'impiego metaforico del termine alluvione anche a Napoli?

Che l'una fosse un disastro naturale e l'altra umano, non è così decisivo. Nel 1966 l'incuria umana trasformò un accidente naturale in disastro: a questi fiumi rovinosi si apprestino argini e ripari nei tempi quieti, diceva Machiavelli, in modo che l'impeto loro non risulti così licenzioso e dannoso. Oggi inettitudine e corruzione di umani danno alla monnezza napoletana la portata di una catastrofe naturale. Ormai è difficile che i grandi disastri avvengano senza un concorso di colpa - come a Fukushima.

Però là c'erano i libri, qua la monnezza. Infatti: sgombrare dall'una vuol dire far posto agli altri, in tutti i sensi. Si pretende che Napoli sia affare dei napoletani. A uno strano finale va avviandosi l'anniversario dell'unità d'Italia. Uno spiazzo padano in cui gridare Secessione. Una città del cuore (dell'aneddoto sul Cavour morente: "Questi nostri poveri napoletani...") che si vuol mandare alla deriva. Eppure è bella l'idea che l'atto finale delle celebrazioni del 150enario abbia a che fare col riscatto dalla monnezza, e vi metta mano ogni parte del paese. "Quand'è che si vota di nuovo?", chiede un giovane in una vignetta dei giorni scorsi. La buona volontà c'è, aspetta solo i varchi da cui passare. Si chiamarono angeli del fango, con una dose di retorica melensa, i ragazzi di Firenze 1966, che infatti aspettavano il loro varco. Verrebbero a Napoli, i loro coetanei d'oggi, a passarsi di mano in mano i sacchi di spazzatura, se solo ci fosse alla fine un posto in cui depositarli. Sarebbe bello che ci venissero lo stesso, così, per prendersi il loro sacchetto e tornarsene via, un altro modo per votare, e per dire che abbiamo capito alcune cose semplici. Che i commissariamenti governativi sono serviti a rendere perenne l'emergenza e i suoi guadagni, e a saldare un sistema Commissariato-Impregilo-Camorra. Che si pretende che i rifiuti non partano da Napoli alla volta di altre regioni e si scarica da anni una valanga di rifiuti speciali dal nord alla Campania. Che è davvero possibile raggiungere una percentuale oltre il 60 per cento di raccolta differenziata nel giro di mesi, e che ci sono riuscite Salerno e Portici e Mugnano, che non sono in Finlandia. E che l'impegno per lo sgombero della monnezza coincide con quello contro la camorra: per esempio, spiega Guido Viale, nella discarica vuota nel Casertano controllata dalla famiglia Schiavone. Una tipica situazione risorgimentale, no?

Se da 17 anni si è fatto in modo di perpetuare un'emergenza della spazzatura che danna l'intera vita economica e civile di una metropoli mediterranea ed europea, è evidente ora il desiderio di trarne una rivalsa nei confronti del bruciante risultato elettorale: qualcosa come il "cacerolazo" cileno del 1972. La nuova amministrazione napoletana è stata investita da un voto che indica un desiderio irruento e profondo di rinnovamento e di pulizia. Ha ereditato la montagna di rifiuti. È grottesco che l'eccesso di zelo di De Magistris sui "cinque giorni" (nella città, del resto, delle Quattro Giornate, e c'era ben altro da spazzar via), gratuito com'era, faccia da pretesto a un impudente rovesciamento di responsabilità, e che Berlusconi arrivi a dire che dovrà ancora pensarci lui. Sarà bene che ci pensiamo tutti quanti, e che i governi di regioni che hanno dichiarato la propria solidale disponibilità, e lo fecero già in passato, sentano il sostegno dei cittadini, e si vergognino quelli che ostentano il proprio egoismo. (Si rilegga il riconoscimento dell'ex sindaco Formentini su Milano invasa dalla monnezza e soccorsa dal Bersani presidente dell'Emilia Romagna nel 1995).
Chiunque, se gli chiediate che cosa associa al nome di Napoli negli ultimi anni, risponderà "la monnezza". Lasciategli un minuto in più, e gli verranno in mente altre cose. Un presidente della Repubblica, naturalmente. E il libro italiano di gran lunga più amato, Gomorra. Un altro libro esce ora, e così nettamente l'editore Sellerio lo presenta: "Era dal tempo della Lettera a una professoressa che non leggevamo pagine così emozionanti". Si intitola Insegnare al principe di Danimarca, l'ha scritto Carla Melazzini, racconta fatti e riflessioni di un'esperienza ardua e formidabile come quella dei maestri di strada del Progetto Chance, che raccolgono ragazzi "dispersi" della Napoli un tempo operaia di Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, oggi ribattezzata "il triangolo della morte". Scarti, quei bambini, che vengono ordinariamente smaltiti nel "Sistema". Quanta ricchezza contengano, e quali lezioni vengano sulla città e il nostro tempo dal punto di vista di chi si dedica a loro, è difficile da immaginare per chi segua, fra l'angoscia e il fastidio o l'abitudine, le cronache sui mucchi di monnezza. "Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l'intensità e la consequenzialità del principe Amleto?"

Non si fa letteratura in questo resoconto, caso mai la si traduce nelle cose: "Lessi in una classe le prime righe della Metamorfosi, poi chiesi ai ragazzi chi dei membri della loro famiglia, secondo loro, avrebbe accettato di prendersi cura del povero Gregor Samsa trasformato in un immondo scarafaggio. I maschi all'unanimità risposero "la mamma". Perché? Ovvio: perché "pure 'o scarrafone è bello a mamma soja". Il giorno dopo ero in biblioteca, si affaccia Gianni, il più piccolo e brutto della classe, chiedendo timidamente: "Professoré, lo tenete qui il libro dello scarrafone?"".

Scriveva l'autrice (è morta un anno fa, immaturamente): "Quando le nostre alunne vogliono significarci che non sono venute a scuola per poter fare i servizi domestici, fanno un ampio gesto col braccio che mima lo svuotamento a terra di un intero recipiente di detersivo... Lo sporco deve essere espulso, finché non ne rimanga traccia dentro la casa... La stessa ossessione espulsiva è vigente nei confronti di mosche e altri insetti, del sudore, degli odori (a questi ragazzi è difficilissimo far fare esercizio fisico, perché non tollerano di sudare). Gettano ogni cosa nello spazio esterno a sé. L'essenziale è che sia "fuori". Quelli per i quali l'essenziale è che i rifiuti siano "fuori" sono i diretti discendenti di quelli che con i rifiuti hanno coabitato per tanto tempo, che come rifiuti sono stati sempre trattati. Il ragazzo che dieci anni fa ci disse "spendite tanti soldi pè munnezza comme nuje!", aveva una casa luccicante di pulizia ed era, come gli altri, un consumista coatto. Successivamente ha fatto in modo di mettere in pratica il concetto che aveva di se stesso".
Di una rivoluzione ha bisogno, e però ha un'imprevista opportunità, Napoli, e noi con lei. Sgombrare la monnezza e imparare a riusarla non è che la premessa. Issarono un tricolore sul mucchio di spazzatura. In un certo senso, era una buona idea.

(28 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/06/28/news/se_a_napoli_arrivassero_gli_angeli_della_monnezza-18334812/?ref=HRER2-1#commenta


Titolo: ADRIANO SOFRI - Kalashnikov e telefonini lo scempio del branco
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:15:54 pm
GHEDDAFI

Kalashnikov e telefonini lo scempio del branco

Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Ma hanno i cellulari.

di ADRIANO SOFRI


La guerra non è che la caccia all'uomo. E anche il più abominevole tiranno esce da sé quando è ridotto a un animale braccato e denudato, e costringe chi guarda da lontano alla vergogna e alla pietà. Le scene finali di Sirte sono immagini di caccia antica, la preda sbigottita e insanguinata, il branco sfrenato e invasato. Non l'hanno divorato, Muammar Gheddafi: è la sola differenza. Gli umani non cacciano per nutrirsi.

Quando finalmente Ettore si vergogna di fuggire e affronta Achille, deciso a uccidere o morire, lo invita al rispetto reciproco del vinto. Gheddafi non è certo Ettore, al contrario, un torturatore della propria gente, né la brigata di Misurata somiglia ad Achille (se non, forse, per quella olimpica protezione della Nato). Se ne fa beffa il furioso Achille, "ti divorerei brano a brano", dice, e lo finisce, e gli altri Achei accorrono e non ce n'è uno che non affondi il proprio colpo nel cadavere, e il vincitore gli fora i piedi e lo lega al carro e lo trascina di corsa facendone scempio.

Gli dei e gli eroi se ne sono andati da tempo, coprendosi il viso, ma la scena è ancora quella. Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini. A distanza di minuti, avreste visto sul vostro schermo Ettore atterrato, e i vigliacchi trafiggerne e insultarne il cadavere, e Achille bucarne i calcagni e attaccarlo al suo pick-up. L'uomo è rimasto antiquato, o è pronto a ridiventarlo:
e meraviglioso e tremendo è il corto circuito fra la sua antichità e i droni che gli volano sulla testa e colpiscono con esattezza e buttano in un tubo da topi il cacciatore mutato in preda e glielo mandano in mano, mani di prestidigitatori di kalashnikov e telefonini. Ci sono le foto di Misurata, il cadavere disteso, a torso nudo, lavato, e circondato da maschi in posa ciascuno dei quali brandisce il telefonino: e qualche ispirato artista contemporaneo, come lo Jan Fabre che ha messo alla Vergine della prima Pietà di Michelangelo la faccia di un teschio, avrà già pensato di rifare una Deposizione in cui Maria e le pie donne e Giovanni e Nicodemo tengano in mano un telefonino.

Nel linciaggio della Sirte la combinazione fra l'antiquato animale umano e l'ipermodernità ha preso la forma degli aerei del cielo e degli indigeni sulla terra, arcangeli disabitati gli uni e creature imbelvite gli altri, la Nato e i fanti, ignari i primi del linciaggio, che devono fingere di non volere, responsabili e anzi fieri ed ebbri i secondi: e contenti tutti, perché il processo di un tiranno così longevo e intimo è sempre una minaccia micidiale per i piani alti. Nessuna cospirazione: non ce n'è bisogno. Solo una divisione del lavoro. Chi mette in fuga dall'alto, chi stana dal basso, come in una buona battuta di caccia. Alla muta non occorre suggerire niente, è fatta di uomini giovani ed eccitati, hanno avuto padri torturati, sorelle violate, compagni ammazzati, sentono l'odore della vendetta e della gloria.

L'odore della foto di gruppo è più forte dell'odore del sangue per il branco dei lupi. Non fanno il conto, in quel momento esaltante, esultante, dell'effetto che la scena farà più lontano, nel tempo o nello spazio. Il nemico giurato che ha ancora la forza di tirare su il braccio sinistro e pulirsi il sangue dal viso e guardarsi attonito la mano insanguinata e mostrarla anche a loro, sbigottito, come a dire "Guardate che cosa avete fatto" - pare che abbia detto cose simili, "Chi siete?", e "Perché lo fate?", istupidito dal corpo che cede e dalla vecchia abitudine a non capacitarsi.

Non esistono cadaveri vilipesi e martoriati che possano essere esposti a lungo a vantaggio dei giustizieri. C'è sempre un Cristo, un Hussein, nella memoria. Gli americani l'avevano capito, con Osama, e quel precedente modera oggi le loro deplorazioni. La differenza, più sottile di una carta velina, fra la barbarie e la civiltà sta nel processo; più esattamente fra il processo popolare, la gogna, i prigionieri neri legati alle canne delle mitragliatrici e trasportati in giro come trofei, e il processo regolare. Il quale, con tutte le ipocrisie che volete, ha intanto bandito la pena di morte, eppure si occupa dei crimini più feroci contro l'umanità, mentre certi Stati la tengono ancora per crimini di particolari. Per i ribelli terra terra, e per i grandi delle democrazie, il processo è ancora un lusso da donnette, o il peggiore degli imbarazzi.

Riguardate questi video, e chiudete gli occhi, perché l'audio è forse più terribile. Poi riguardate, e immaginate di leggere l'avvertenza: "Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità", prima di un canto dell'Iliade o di un passo della Bibbia. Deve tremare un mondo che tenga accanto così spaventosamente una tragedia arcaica - il tiranno e i suoi figli e la sua tribù e le fosse - con la sofisticazione di armi e comunicazioni e con la voglia di liberazione. Gheddafi era lui stesso al colmo di questa aberrazione, e l'ha passata di mano ai suoi sacrificatori, come l'orpello della pistola dorata. Naturalmente, bisogna andare avanti, provare ogni volta a ricucire gli strappi, capire. Ieri a Damasco si gridava già: "Ora tocca a te, Bashar".

(22 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/esteri/2011/10/22/news/carnefici_telefonino-23652478/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Disporre della propria vita lusso supremo della civiltà
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2011, 10:57:30 am
IL DIBATTITO

Disporre della propria vita lusso supremo della civiltà

La decisione di Lucio Magri ci mette di fronte a vicende dolorose che non è possibile affrontare solo con leggi o regolamenti.

Teniamoci la contraddizione: la scelta è un bene prezioso ma se lo fa chi ami ti ribelli

di ADRIANO SOFRI


E DI NUOVO qualcuno, qualche specialista, ci ammonisce: "Non siamo padroni della nostra vita". "Non siamo padroni", questa sì che è una bella espressione, sarebbe piaciuta anche a Lucio Magri. Ma se vogliono metterci in balia di un altro padrone, allora siamo pronti a rubargliela e riprendercela, "la nostra vita". Quando non si sia a questo punto, quando non si voglia pignorarci la vita, lasciamo diritti e doveri ai codici, avere e dare ai registri contabili. Teniamoci la contraddizione. Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l'eventualità che una persona che amo scelga di morire. Non solo: nessuna proclamazione sulla virtù del suicidio mi impedirà di desiderare che il mio prossimo improvviso, l'uomo della spalletta del ponte, rinunci al suo salto, e di tendergli una mano perché torni di qua.

Il suicidio è un sublime tema filosofico e un grandioso tema sociologico e statistico, ma è un altro affare nei fatti, e nei fatti i suicidi sono altrettanto diversi quante sono le persone che li compiono. Nei commenti a vicende come questa non vale la pena di attardarsi fra l'uno o l'altro partito preso religioso, che riescono a ripetersi imperterriti nella loro lingua morta. C'è una pena che cambia di colpo le cose, e non è affatto così condizionata dall'una o dall'altra fede, dall'esistenza o dall'assenza di una fede. Il suicidio assistito  -  prende un suono sindacale, come tutte le
formule burocratiche. Ha un risvolto, il suicidio abbandonato, spoliato. Stiamo parlando oggi di un uomo vicino agli ottant'anni, che era andato e tornato, è andato e non è più tornato, dunque era libero. Ne aveva novantacinque Mario Monicelli, che si schiantò davvero come il sarto di Ulm, e non si illudeva affatto di volare.

Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati. Mi colpisce un'affinità fra il suicidio degli adolescenti (la loro seconda causa di morte, se non sbaglio, dopo i disastri stradali) e quello dei detenuti che si ammazzano nei primi tempi della loro galera, spesso senza essere stati giudicati. Nella loro primavera, non alla fine di un inverno. La galera è fatta per indurre chi ci incappa (anche i guardiani) alla disperazione e all'insensatezza, dunque all'incombenza e alla tentazione del suicidio, e al tempo stesso è regolata in modo da simulare il divieto del suicidio. Vi tolgono la cintura dei calzoni e dell'accappatoio, il fornellino del gas, i vetri e tutto ciò che taglia. Basta pensare per un momento  - immaginarlo, immaginarvisi  -  a uno che annodi di nascosto i lacci delle scarpe, ammesso che sia riuscito a tenerseli, e scelga con cura il minuto necessario a sventare lo sguardo d'altri in quella ressa, per capire che cos'è un suicidio non assistito. Si chiedono, i giornali, quale ultimo lago svizzero, quale ultimo pensiero abbiano attraversato la mente del morente: nella cella sordida cui alludo ogni energia estrema, ogni ultimo pensiero è riservato a un muro sporco e alla determinazione millimetrica necessaria a farcela. Ma questo non è un ennesimo articolo sul carcere, insinuato surrettiziamente nella commozione per la morte di Magri. Parlo di tutti, dei liberi, e del punto in cui prigionia e libertà si rovesciano l'una nell'altra. Il nervo più profondo del totalitarismo sta nella pretesa capricciosa che le democrazie riservano ai regolamenti penitenziari, salvo trasferirle ai testamenti biologici: di impedirti di vivere e di impedirti di morire. Di renderti impossibile la vita e la morte. Le reti o le barriere piazzate lungo il Ponte di Spoleto o attorno alla Torre di Pisa servono a non sporcare il greto e il selciato, non a dissuadere i suicidi.

La lezione dello stoicismo, gli amici convocati, il convito, la conversazione e il commiato, resta magnifica, ma è davvero distante. Vicina a noi è l'aberrazione dei suicidi-omicidi, questa sì un'epidemia contagiosa e gregaria e orrenda, ebbra dell'illusione di non morire soli e non uccidere soli; ora imprevedibilmente riscattata da gesti oscuri come quello di Sidi Bouzid (la città tunisina dove un ambulante si diede fuoco dando il via alla "rivoluzione dei gelsomini", ndr.). Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati. Che questo venga da una malattia senza riparo e piena di mortificazione, o da un'anima vedova e spezzata, o dall'offesa di una bambina cui siano stati tagliati a forza i capelli, non è questione da dibattito. Né la distinzione fra una malattia "terminale" e una depressione: certo che una depressione si può curare, ma credete che Magri non lo sapesse? Si può volere con ogni fibra di un corpo martoriato la vita fino all'ultimo istante, e si può ripudiarla anche quando si sia un corpo sano.

In ogni caso faremo di tutto perché i nostri cari, e magari il nostro prossimo, restino attaccati alla propria vita. Ma desidereremo una Svizzera per noi e dunque per tutti. La ricetta, "Si sciolgono 15 grammi di pentobarbital di sodio in un bicchiere d'acqua...", non è cinica là e affabile qua, dove dev'essere spacciata di nascosto. È strana, la Svizzera, lo è proverbialmente. Ha le banche, i caveau, è neutrale e affarista. È terra di rifugio, neutrale e accogliente. Noi siamo, quanto a caveau, una Svizzera colossale, e quanto ad accoglienza, una penisola di piccole Svizzere clandestine, in cui si muore al nero. Certo la ricetta e la liceità dell'assistenza al suicida non tolgono il dolore, la disperazione e lo schianto. Immagino che anche in Svizzera una tromba delle scale possa attirare più che una bevanda antiemetica. Primo Levi era un chimico, avrebbe saputo come fare.

Voglio dire un'ultima cosa. Il lusso supremo della civiltà umana sta nel disporre di una propria vita personale, dunque di una propria personale morte. Vite e morti venivano e vengono spazzate e mietute all'ingrosso, senza riguardo all'età  -  anzi, con una predilezione per i giovani. Quando succede, si può provare a resistere oltre ogni limite immaginato, scampare, e cedere poi quando sia passata la tempesta, e le persone restituite a un loro destino individuale. Améry, Levi... Adesso stiamo pensando a uno di noi, che siamo appena diventati sette miliardi. Questo lusso prezioso è ogni giorno a repentaglio. Nelle altre pagine i titoli sull'euro, su Durban, su Teheran, parlano d'altro, parlano di quell'antico anonimo mercato all'ingrosso delle vite e delle morti.

(01 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/12/01/news/sofri_diritto_morire-25879004/?ref=HREC1-3


Titolo: ADRIANO SOFRI - Il bimbo "Piangevano, gli ho dato le mie coperte"
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:55:16 am
Il racconto

Il bimbo davanti alla balena spiaggiata "Piangevano, gli ho dato le mie coperte"

Il naufragio della Costa Concordia al largo all'Isola del Giglio raccontata dagli abitanti.

Che sono corsi in strada per dare una mano

di ADRIANO SOFRI

ISOLA DEL GIGLIO - Leonardo tiene le mani sprofondate nelle tasche e parla col mento dentro il colletto, come un lupo di mare. Ha un suo battellino a remi, ha dieci anni, fa la quarta. "La mamma mi dice: 'Oh, apri la finestra'. C'era il saluto della nave". Al Giglio - spiega la mamma - il suono della sirena si dice "tufare": la tufa era la conchiglia in cui soffiare. "Ho salutato. Loro erano in pericolo, noi non ce eravamo accorti, aspettavamo i tre fischi. Poi abbiamo capito e l'allegria è finita. Hanno buttato l'ancora, i megafoni dicevano Calma, i passeggeri urlavano. Il babbo è uscito con la barca ad aiutare. Il babbo è pescatore, meccanico e ormeggiatore. Quando hanno cominciato ad arrivare le scialuppe ero già sulla punta del molo. Arrivavano zuppi. La mamma mi ha detto: adesso tu vai a letto. Ma adesso io non avevo sonno. Portavamo le persone alla chiesa, abbiamo distribuito l'acqua, il tè e le coperte. Piangevano, volevano andare a casa, non si capivano. I bambini piccoli li mandavamo all'hotel Bahamas o all'asilo".

Hai immaginato che toccasse a te? Di trovarti nei panni zuppi? "Sicuro, perché l'anno scorso c'ero io sulla stessa nave. Siamo partiti da Civitavecchia e poi abbiamo fatto Barcellona, le Canarie, Madeira, Malaga e ritorno". E quando siete passati dal Giglio avete tufato?
"No, quella volta eravamo passati più lontano". Quanti siete voi bambini e ragazzi d'inverno, al Giglio? "Una trentina in tutto alle elementari, una ventina alla media". E il tuo migliore amico chi è? "Giuseppe, ha due anni di più. Lui però non abita sul porto, perciò dormiva". Quanto ci metteranno a raddrizzare la nave? Hai visto le persone che cercano di risospingere in mare le grandi balene spiaggiate? "Con le balene avrei un po' paura. Secondo me ci metteranno un annetto".

E tutto questo subbuglio, le telecamere e i giornalisti e l'avventura, a parte il dispiacere per le persone che sono morte e sono state male, ti piace? "No, mi piace solo di avere aiutato. Ora non possiamo fare le gare di bicicletta". D'inverno preferiresti stare qui o in città? "Qui si possono fare più cose, e io pesco dei pesci, in città c'è il parco giochi". "Allora perché - protesta la mamma - mi hai risposto 'Ci vai tu, io resto col mio babbo'?". Hai letto un libro quest'anno? "Tom Sawyer a scuola e La scuola degli Acchiappadraghi a casa". Che cosa c'era nella tasca di Tom Sawyer? "Una pallina, un topo morto legato col filo, un pezzo di gomma, una scatola di petardi e una piccola pulce".

Li ho incontrati che uscivano dalla chiesa, Leonardo e la mamma, Paola. Lei racconta come tutti abbiano dato quello che potevano, così all'improvviso: coperte di casa, indumenti. Li riavrete mai? "Non ci abbiamo nemmeno pensato. Don Sandro, alla Caritas di Porto Santo Stefano, dice che qualcosa rimanderanno. La provvidenza è stata suor Lina, che era missionaria in Venezuela ed è parsimoniosa e all'asilo aveva messo insieme una quantità di coperte e vestiti. Ci sono altre due suore, giovani, una filippina e una indonesiana, Wilma e Maria. Nella chiesa, dopo il viavai dei passeggeri è arrivata la bassa forza dell'equipaggio, e si sono seduti a bere il tè a occhi bassi e stavano zitti zitti, finché suor Wilma e suor Maria hanno scambiato con loro due parole e loro erano filippini e indonesiani, è stata un'emozione fortissima, e le due suorine si sono illuminate come candele, e poi non la smettevano di chiedere e raccontare e meravigliarsi di che vita fanno".

Il famoso curato è don Lorenzo, sul portone ha affisso un foglio col suo numero di cellulare: 333 2658575. Caduto nella tentazione delle telecamere? Non scherziamo, dice, quel foglio è attaccato lì da sempre, chiunque può trovarmi quando ne ha bisogno. Lo trovo in sacrestia che ripiega tovaglie ricamate e frangiate d'oro che fino a poco fa sono servite per avvolgere persone intirizzite. È qui da tre mesi, ha tante storie alle spalle e poca voglia di perdere tempo a raccontarle, fu attratto dal cristianesimo sociale, poi fu monaco cistercense per una ventina d'anni, poi parroco di paesi. Quando ha preso le sue coperte ed è sceso in chiesa e qualcuno gliele ha chieste si è scusato: "Sono prima per i bambini". Non hanno protestato. Erano molto dignitosi, dice, e ormai non erano più atterriti, non c'è stata rabbia né litigi, erano solo seduti a cercare di riscaldarsi, "ma non dimenticherò mai gli occhi spaesati, smarriti".

Don Lorenzo crede che sulla terra "c'è posto per tutti e per tutto: purché l'uomo non sia arrogante, non creda di bastare a se stesso".
Uno dei suoi fedeli mi dice: "Tante disgrazie di colpo da noi: il naufragio, e la signora che è morta". Nel seguito della conversazione viene fuori che la signora che è morta aveva 92 anni.
Arrivano in sacrestia il corrispondente del Times e un veterinario a chiedere notizie del cane malato di don Lorenzo.
Resto a parlare col veterinario, si chiama Antonello, ha 39 anni, lavora a Prato. È arrivato proprio venerdì sera per stare un fine settimana nella sua isola, non veniva da agosto.

"Sono uscito per spostare la macchina e ho visto la nave. Mi sembrava inclinata. Ho chiamato il babbo: "È inclinata forte!" "Ma va".
Sono tornato a guardare e ho richiamato: "Sta affondando!" "Ma su!" Quando l'ha vista! Meno male che ero tornato a far numero: c'erano due carabinieri, due vigili urbani, mio fratello e qualche altro ragazzo. Arrivano le scialuppe, c'è una famigliola francese, la mamma ha indosso solo la biancheria, un bambino zuppo, gli metto su il mio cappellino e la mia maglia, poi vado a prendere quello che ho di maglie, calzini... Qualcuno mi dice: "Money money", volevano pagarmeli!". Qualche passeggero aveva degli animali? "Non ne ho visto nessuno.
Però nella concitazione ieri è andato sotto un'auto un canino del Giglio, poveretto".

C'è un giovane comandante di nave, coi bambini. "Le isole, chi non le conosce, meglio che stia alla larga. In Italia la sicurezza non è più la prima cosa. Orari lunghi, meno personale, filippini che non parlano l'inglese, che non hanno nessun brevetto. Ho lavorato in Inghilterra con equipaggi indiani, ma erano marinai provetti". Tutti credono di sapere che cosa è successo, ma hanno una riserva a pronunciarsi sul comandante, per non infierire, o perché sentono che perfino una pazzia inaudita come questa può capitare, tant'è vero che è capitata. Uno che ha fatto 40 anni di mare da nostromo e ne ha più di 80 non vuol sentir parlare di Titanic. Il Titanic nella piscina di casa, bofonchia amaro.

Anch'io rilutto al paragone col Titanic, soprattutto perché il Titanic è svaporato fino a diventare una grandiosa metafora, e invece le tragedie, anche quelle assurde in una tinozza, devono restare attaccate almeno per un po' alla realtà, al buio, all'acqua gelata, ai morti e i feriti e gli spaventati, ai bambini turisti e a quelli dell'arcipelago toscano, alle suore e ai mezzi marinai pakistani. Quando si è così a mal partito, tutto fa da metafora. Uno racconta che, con quella balena colorata lì davanti, ha sognato che l'Italia intera, la penisola, si piegava sul fianco del Tirreno, come la Costa Concordia, e valla a raddrizzare. Ero venuto col governatore della Toscana, come ora li chiamano. "E pensare - ha detto - che la parola governo viene dal greco e significa pilotare la nave".

(16 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/01/16/news/bimbo_coperte_costa_concordia-28198057/?ref=HREA-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - Piazza Fontana, la verità di Sofri
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2012, 09:53:38 am
Il caso

Piazza Fontana, la verità di Sofri

Un instant-book di 132 pagine su internet per contestare la tesi del libro al quale si sono ispirati gli autori del film di Marco Tullio Giordana, quella dell'attentato "duplicato". "Una ricostruzione assurda, puntellata su fonti anonime"


ROMA - La vicenda giudiziaria di Piazza Fontana si è chiusa, finora, senza colpevolI. La verità storica, invece, ha raggiunto delle certezze che hanno nomi, volti, sigle e identificano senza dubbi la matrice materiale neofascista della strage in un contesto da Guerra fredda che nell'attentato ha visto attivi e complici servizi di intelligence italiani e atlantici. Ora, però, il film di Marco Tullio Giordana ("Romanzo di una strage") e soprattutto il libro al quale si è "liberamente ispirato" per la sceneggiatura, tentano di rimettere in discussione questa verità storica con un'operazione di revisione pericolosa per la memoria, e dunque per il presente, del Paese.

E' questa la ragione che ha spinto Adriano Sofri a pubblicare oggi sul web una sorta di instant-book di 132 pagine sulla strage, dal titolo "43 anni". Nel testo, anticipato in parte dal Foglio e online sul sito www.43anni.it 1, facendo uso abbondante di documenti e testimonianze tratte dalle varie inchieste, Sofri contesta la tesi fondamentale su cui è costruito il libro "Il segreto di Piazza Fontana", scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli e pubblicato dall'editore Ponte alle grazie: quel 12 dicembre del 1969, in sintesi, secondo Cucchiarelli, alla Banca dell'Agricoltura furono portate due bombe, da due persone diverse, appartenenti a fronti politici diversi; una, anarchica, doveva fare solo rumore; l'altra, quella fascista, doveva fare una strage.

Secondo la tesi del libro, i neofascisti dopo aver infiltrato i circoli anarchici e appreso del progetto di attentato dimostrativo, ne "duplicarono" l'esecuzione, arruolando un "sosia" di Pietro Valpreda e "clonando" la borsa con l'esplosivo per confondere i testimoni. L'operazione, secondo Cucchiarelli, sarebbe riuscita perfettamente.

Sofri contesta da cima a fondo la ricostruzione del libro, giudicandola insensata, assurda e puntellata nelle sue ipotesi sulle dichiarazioni di fonti anonime, e dunque senza alcuna attendibilità valutabile, oltre che spesso in contrasto con le carte dei processi. E aggiunge: "Il film, avendo conservato questa tesi e avendola - grazie al cielo - spogliata dell'attribuzione agli anarchici delle bombe 'innocue', l'ha resa gratuita, dunque ancora più assurda: bombe d'ordine o parafasciste che 'raddoppiano' bombe fasciste".

(31 marzo 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/31/news/piazza_fontana_la_verit_di_sofri-32515232/?ref=HREC1-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - L'uomo della speranza
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:57:29 am
Il commento

L'uomo della speranza

di ADRIANO SOFRI

Leggo che la tesi teologica di Carlo Maria Martini, nel 1958, ebbe per oggetto il "problema storico della risurrezione", dove le due parole, storia e risurrezione, sembrano contraddirsi, o almeno succedersi, e che l'una finisca dove l'altra comincia.

Eugenio Scalfari ha ricordato come, a più di mezzo secolo di distanza, alla domanda su quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù, Martini gli avesse risposto: "La Resurrezione, quando scoperchia il sepolcro e appare a Maria Maddalena". Quel punto è anche il confine invalicabile che separa il credente cristiano dal non credente. Nel dialogo fra Scalfari e Martini pubblicato qui nel maggio 2010 era stato il cardinale a proporre come argomento la Resurrezione. In quella occasione, dopo che si furono confrontati sulle reciproche idee di speranza e carità, Scalfari lo interrogò sul romanzo di Tolstoj, Resurrezione. Martini riassunse la vicenda del romanzo - con un lapsus del ricordo, facendo del principe protagonista un condannato e deportato, invece che l'uomo pentito che segue volontariamente nella deportazione la donna che aveva offeso - e concluse che era quello esattamente il percorso della conversione e della resurrezione. Era anche il punto finale comune: le resurrezioni degli esseri umani su questa terra. Il cardinale Martini è stato, fin da giovane e poi sempre, un visitatore di carceri, convinto, come detta invano anche la Costituzione dello Stato, che ai poveri cristi che le affollano sia data la speranza di risuscitare, due, tre volte, prima di quella ultima - o prima d'esser morti del tutto.

Non so oggi, ma una volta per i ragazzini tirati su nella fede la chiesa era anche una possibilità di immaginare la più straordinaria promozione sociale o la più emozionante avventura. Di diventare Papa - tutti possono diventare Papa, non è come fare il farmacista - o missionario in Congo o in Patagonia. Così rileggo le biografie di Martini, persona pur aliena dall'avventura fisica. Un ragazzino che decide che la sua vita sarà quella di un uomo di chiesa. A 17 anni, 1944, l'ingresso nella Compagnia di Gesù. Prete a 25. Biblista prestigioso, che affianca al magistero romano una personale messa alla prova accanto ai propri poveri - il rischio della chiesa è infatti di lodare la povertà e scansare i poveri: mette allegria il racconto delle persone di Sant'Egidio, su Martini che accudisce un anziano povero irascibile e anticlericale, come il non credente che vada ad accudire il povero bigotto e si sorbisca sorridendo le sue geremiadi. Poi la scelta imprevista di Karol Wojtyla che lo toglie all'accademia e lo manda, lui mai stato curato d'anime, arcivescovo a Milano, la più grande e delicata diocesi del mondo: ci resterà 22 anni, gli anni del terrorismo e poi della cosiddetta tangentopoli. Si sono ricordati episodi di riscatto civile e umano che furono allora inutilmente controversi e che ebbero invece un sapore manzoniano: i militanti di Prima Linea che se ne congedarono depositando il loro arsenale di armi in vescovado, la decisione dell'arcivescovo di dare il battesimo ai due gemelli concepiti in un'aula di tribunale da due di quei militanti, che l'avevano chiesto. Le iniziative pastorali, il "Farsi prossimo", la Cattedra cosiddetta dei non credenti. Ieri ho sentito un passante milanese, intervistato da un notiziario, che diceva: "Dialogava con tutti, ebrei, musulmani, buddisti, perfino coi non credenti". Mi è venuto da sorridere per quel "perfino". È successo infatti alla nostra società di essere talmente assorbita dalla nozione della necessità di un confronto fra le religioni - quando non da un'ottimistica fiducia nella fratellanza (sorellanza meno...) fra "le tre grandi religioni monoteiste" - da dimenticare che il pregio più caro della nostra civiltà, pagato a così caro prezzo, sta nella confidenza e nella naturalezza con cui conviviamo, nella stessa famiglia, nella stessa cerchia di amici, negli stessi partiti e sindacati e tram e bar e chiese e stadi, fra credenti e non credenti. L'ecumenismo non esisterebbe senza questa premessa. Leggo di Martini che diceva che in ognuno di noi c'è il coraggio e la paura, e altrove diceva: "Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda...". Forse per lui questo voleva dire che il coraggio coincida con la fede e la paura con la sua assenza: non è così per me, ma questa confidenza, questo scambio fra i due sentimenti, fra le due persone, è il contenuto più prezioso della nostra vita comune, e il più messo a repentaglio da una premura esclusiva per il "dialogo fra le religioni", di cui certo nessuno può sottovalutare l'importanza.

Martini è stato anche, hanno ricordato tutti, l'interprete di "un'altra chiesa", forse sopravvalutandone la divergenza: è un fatto che si augurava una conversione in capite et in membris. Si chiama in causa il relativismo, cui sarebbe stato incline, all'opposto del Ratzinger di cui è stato grande elettore. Non so, anche Martini parlava di "una società sottoposta alla deriva dell'arbitrio". E Ratzinger ricorse a sua volta al paradosso di un "assolutismo relativista". Il fatto è che un relativismo assoluto è una boutade, buona ad autorizzare il dogmatismo assoluto. Mi pare che la differenza stia altrove, e abbia a che fare con una cosa decisiva per tutti, e per i gesuiti specialmente, come la casistica. La casistica è Welby, è Eluana, voi, io, ciascuno di noi. Il dogmatismo che elogia l'assolutezza è disposto a passare sopra ai casi singolari, magari coi cingoli, come nella scelta di Piergiorgio Welby e nel rifiuto al suo funerale. Martini vi si sottraeva, in quello come in tanti altri casi, che esemplificavano in carne e ossa le questioni dichiarate graziosamente "eticamente sensibili". Non parlava di omosessualità senza immaginare o ricordare persone omosessuali che aveva incontrato, né di profilattici, né di aborto, né di celibato dei preti (e nubilato di suore) o di pedofilia, di divorziati e risposati. Così, esemplarmente, sull'eutanasia: "Non si può mai approvare... E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé... Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica...".

Ammesso che io non sbagli, questa differenza ha molto a che fare con il modello dei vangeli. Quanto alla volontà di non sottoporsi a un accanimento terapeutico (espressione dubbia anche questa, perché l'aggettivo terapeutico ci entra abusivamente, ed è l'accanimento a farla da padrone) non c'è niente di cui discutere, niente che non rientri nello spirito e nella lettera dello stesso catechismo cattolico: se non fosse che uomini (e donne) pubblici e laici pretendono di fare dell'accanimento sui corpi altrui una legge dello Stato, e di gabellarla per sacralità della vita.

(02 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/02/news/l_uomo_della_speranza-41832004/?ref=HRER3-1


Titolo: A. SOFRI - Alcoa, quegli operai con il volto nascosto e l'elmetto Cgil
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2012, 08:43:07 pm
La storia

Alcoa, quegli operai in cima al silo con il volto nascosto e l'elmetto Cgil

La protesta a 66 metri di altezza, o quella nel fondo di una miniera, costringe a porsi il problema degli 'invisibili', della dignità del lavoro, dei nuovi disperati. Perché i lavoratori di oggi sono come i detenuti

di ADRIANO SOFRI

LA FOTOGRAFIA, quella o una simile, l'avete vista tutti ieri sui giornali. Ci sono i tre operai dell'Alcoa 1 all'interno della piccola tenda nella quale hanno trascorso 4 giorni (e notti, soprattutto) a 66 metri di altezza, sopra una vecchia torre cisterna. Indossano le tute da lavoro. Hanno i visi coperti da passamontagna neri, come quelli dei Nocs (non so voi: io ho appreso solo in questa circostanza che si chiamano mephisto) o dei banditi. E poiché hanno inalberato uno striscione che dice: DISPOSTI A TUTTO, qualcuno ha pensato di assistere a una versione inedita di passaggio alla clandestinità, condotto sotto tutti i riflettori.

Che cosa vogliono dire quei passamontagna neri? Loro sapranno spiegarlo, noi spettatori distanti intanto possiamo chiederci che cosa dicono a noi. E prima di tutto che in quel travisamento non c'è niente che faccia credere a un'intenzione di mascherare il proposito di delitti imminenti. Chi siano quei tre lavoratori lo sanno benissimo i loro compagni, la polizia, i giornalisti e chiunque voglia saperlo. Dunque non sono la pattuglia d'avanguardia di una nuova genia di clandestini armati.

Se non ci si accontenta di guardare le facce coperte, si resterà colpiti subito dopo dal fatto che quei lavoratori in lotta hanno scelto anche di tenere in testa i caschi di sicurezza, e su un casco si legge distintamente, accanto alla sigla dell'Alcoa, quella della Cgil. Vorrà dire qualcosa
anche questa combinazione di una scelta estrema  -  non nel vecchio senso dell'estremismo politico, ma in quello della messa in gioco della propria incolumità e della vita stessa  -  e della rivendicazione di un'appartenenza sindacale. Non importa che la Cgil approvi o no, o dica di approvare e in realtà tema sommamente, o chissà che altro, una simile forma di lotta: la Cgil è anche quell'operaio a 66 metri, e lui l'ha fatta figurare nella stessa fotografia del passamontagna e delle mani conserte, chiuse in attesa di qualcosa.

Dice forse, quella fotografia, che i tre e i tanti loro compagni che li stanno aspettando a terra, sono davvero "disposti a tutto", e al tempo stesso che sono persone normali, che lavorano e credono nella dignità  -  nell'"onore", hanno detto  -  del lavoro. Dice forse che a furia di essere trattati da invisibili ("invisibili", già si definivano così anche gli operai dell'Ilva, e anche i cittadini dei Tamburi, prima che si accendessero le luci) si rendono deliberatamente invisibili, così che chi guarda sia finalmente costretto a chiedersi che faccia abbiano.

Dice forse che si sta facendo retrocedere a tappe forzate la classe operaia agli stadi dai quali uscì lentamente e a un prezzo di sangue, i fuorilegge che diventarono operai agli operai che si vogliono far tornare fuorilegge. Dice che non si tratta della messinscena, né di un modo drammatico di partecipare dell'universale aspirazione ai riflettori, ma di una vera tragedia. Uno dei tre che tiene sul viso il passamontagna come per dichiararsi uguale agli altri, a innumerevoli altri, nel Sulcis e molto più lontano, ha rischiato davvero su quella torre e ancora ieri, alla partenza ennesima per una piazza di Roma. "Chiamaci disperati", hanno detto a Paolo Berizzi, che sta raccontando qui la loro vicissitudine. "Disperato 1", "Disperato 2", "Disperato 3": a che numero si fermerebbe questa nomenclatura, anche solo per la Sardegna?

Chi guardi poco meno che distrattamente quella fotografia rinuncerà subito a vederci un annuncio di violenza oscura, e proverà un moto forte di solidarietà e di simpatia per quel quarto stato che vuole continuare ad andare a testa alta. Ma bisogna andare avanti, nella riflessione e nelle sue conseguenze. Cominciò qualche anno fa, un genere di ricorso a forme di lotta che richiamassero spettacolarmente l'attenzione, e qualcuno, per sciocchezza o per zelo combattivo, proclamò che stava facendosi strada un nuovo modo di lottare, corrispondente alle condizioni nuovissime della società: gli immigrati senza nome e senza polpastrelli, i precari istruiti, colti, impegnati e buttati via.

La lotta cominciò ad arrampicarsi sui tetti, seguita dalle telecamere. Provai a dire allora, solo per cognizione di causa, che quelle nuove iniziative erano anche una estensione sociale di altre vecchissime, come quelle dei detenuti. Che i detenuti anche loro, ormai tanto tempo fa, avevano scoperto di poter lottare, ma che per loro le vie d'uscita orizzontali erano sbarrate, e però, oltre che scavar cunicoli col cucchiaio, potevano salire sui tetti, e guardare finalmente il cielo e farsi guardare da terra. Sventolavano lenzuoli, avevano i torsi nudi, tenevano un fazzoletto sul viso  -  anche allora, non perché pensassero di diventare irriconoscibili.

Una frontiera molto sottile separa la scelta nonviolenta di testimoniare con il proprio corpo dalla necessità disperata di usare la sofferenza del proprio corpo perché non resta altro. L'autolesionismo è affare quotidiano delle galere, decine di migliaia di detenuti si tagliano le vene ogni anno, e i dati finiscono nelle statistiche non lette del ministero della Giustizia.

L'altro giorno, quando ho visto un minatore della Carbosulcis 2 tirare fuori il temperino e tagliarsi davanti a compagni e telecamere, un uomo lucido ed esperto, un capo operaio, ho riconosciuto un gesto visto tante volte. Quel capo operaio aveva messo insieme a suo modo cose inconciliabili, come il casco con la sigla sindacale e il passamontagna. I lavoratori si battono oggi come detenuti in un carcere, come autoreclusi in un fondo di miniera minato: c'è di che interrogarsi, no?

Giorni fa un commento di Di Vico sul Corriere notava come le "forme estreme" di lotta "taglino fuori" i sindacati, che ne devono essere preoccupati. Vorrei prendere la cosa dall'altro capo, e dire che i sindacati debbano allarmarsi all'estremo di "tagliare fuori" forme di lotta che non sono più collettive alla vecchia maniera, ma non sono nemmeno "individualiste". E che mostrano, se ancora se ne dubitasse, come sia andata svanendo la distinzione, e ancor più l'opposizione, fra lavoratori "garantiti" e precari. Andare a testa alta, è il programma comune. Ora si dice: "Metterci la faccia", non è granché, spesso chi lo dice ha una faccia impresentabile. Quanto a perdere la faccia, non saprei riconoscere in una fotografia la fisionomia e l'abbigliamento di uno solo dei padroni multinazionali dell'Alcoa, né di chi ha trattato con loro le tariffe elettriche agevolate, eccetera. A loro modo, sono felicemente invisibili.
 

(10 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/10/news/alcoa_quegli_operai_in_cima_al_silo_con_il_volto_nascosto_e_l_elmetto_cgil-42254115/?ref=HREC1-1


Titolo: ADRIANO SOFRI. Il Pd oltre le primarie
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2012, 04:09:24 pm
La polemica

Il Pd oltre le primarie

di ADRIANO SOFRI

IGNORANDO per un momento la vertenza sul regolamento delle primarie, vorrei dire perché la situazione non potrebbe essere più favorevole al Pd. La premessa è che il tracollo del centrodestra, Lega e Pdl, è il regalo insperato che insipienza, volgarità e ingordigia dei nuovi ricchi del governo e del sottogoverno hanno fatto al Pd, che non vi ha avuto un gran merito.

Oltretutto la Lega aveva occupato lo spazio del rancore xenofobo e razzista. Così che il suo sprofondamento lo indirizza, non in una dichiarata estrema destra, ma nella reazione antipolitica, elettoralista o astensionista. Il Pd può essere il beneficiario di questo passaggio insieme drammatico e buffonesco, e può anche esserne travolto.

Ci sono moltissime ragioni di delusione nei confronti del Pd, della sua deliberata confusione e della sua inefficacia; ma è infantile o vanesio non vederne la differenza dalla maggioranza berlusconista, anche dentro la grottesca necessità del sostegno comune al governo Monti. Chi veda lo scandalo di una crisi che esaspera le disuguaglianze ed espropria la politica democratica deve scegliere se confidare esclusivamente nei tempi lunghissimi della costruzione minoritaria di una conversione sociale ed ecologica, dando per indifferente un'alternativa di governo vicina, o se riconoscere nella vittoria del Pd una condizione più favorevole alla difesa del lavoro e degli impoveriti, al rovesciamento del ricatto finanziario e a un europeismo e un internazionalismo dei diritti. Nel secondo caso la sorte del Pd ha un'importanza determinante. Perché dunque mi pare che la situazione non potrebbe essere più favorevole per il Pd?

Perché le circostanze, abbastanza fortuitamente, hanno fatto sì che nelle primarie si giochi una posta essenziale. I suoi protagonisti, Bersani e Renzi (Vendola ha una grande responsabilità, ma è fuori dal Pd), hanno finito per incarnare un dilemma cruciale del nostro tempo. Renzi lo immagina e lo fa immaginare come un tempo novissimo. Bersani lo immagina e lo fa immaginare come un tempo di trasformazione.

Renzi non è candidato di programmi, troppo affini a una linea politica, troppo affine a sua volta a parole come destra e sinistra, perché la sua offerta viene prima dei programmi: è il "tutti a casa", il ricominciare daccapo, la definizione di sé secondo "quel che non siamo, quel che non vogliamo". La sua idea forte è che la politica vigente, anche quella non compromessa col malaffare, sia ancora dentro il Novecento, e non abbia capito quanto il mondo e i suoi linguaggi siano nuovi.

È un'idea nient'affatto distante da quella che sventola il movimento 5 stelle, salvo che Renzi la trasferisce dentro il Pd, di cui ha sperimentato la debolissima resistenza agli assalti (un suicidio collettivo di vecchie volpi nel caso delle primarie per Firenze) e il credito e il seguito residuo che può dare. Il giovanilismo di Renzi sarebbe poco attraente se non coincidesse con il rigetto popolare e populista verso un'intera classe dirigente, e con l'impazienza verso i partiti storici.

Oltretutto, nel Pd, benché abbia le ali impiombate dai notabili, un ricambio di generazione si compie, e non solo di facciata: nella Toscana di Renzi molti dirigenti del Pd sono più giovani di lui. Renzi gioca a modo suo la carta di un entrismo, perché l'entrismo storico (la tattica di stare dentro i partiti comunisti per condizionarli dissimulando la propria eterodossia) era il colmo della dedizione ideologica, mentre Renzi è per così dire il colmo del disinteresse per l'ideologia, che può voler dire della spregiudicatezza senza principii o di un eclettismo pragmatista.

All'obiezione: con quale competenza starai di fronte ai capi delle potenze internazionali, Renzi può rispondere con un'alzata di spalle. La competenza ho il tempo di farmela. Se non fosse che il mondo è terribilmente cambiato, e così in fretta, e sempre più in fretta vada cambiando sotto il nostro naso raffreddato, si potrebbe concludere che Renzi propone una variante dell'antica tabula rasa, della piazza pulita (termini in voga nelle nostre arene) che fondava le rivoluzioni. A essere un po' cattivi, una tabula rasa "per le dame".

E però Renzi non ha a che fare con Berlusconi, e il paragone è visceralmente sentito ma del tutto insussistente, e quando dichiara che il primo rottamato da lui sarebbe Berlusconi, Renzi non fa solo una battuta per respingerne il furbo corteggiamento, dice una cosa vera. Renzi non è miliardario, non è vecchio, non è arrapatissimo: è il portabandiera estemporaneo dell'idea diffusa che bisogni liberarsi di ogni arretrato e riguardare la realtà con occhi nuovi e ingenui. Non è un leader carismatico e non ci prova, non è un profeta-buffone: è un ragazzo svelto, e la sua idea di modernità mira alla velocità. Non è detto che sveltezza e velocità coincidano, non è detto nemmeno che più veloce sia di per sé più buono. Col che siamo a Bersani.

È curioso che l'improntitudine di Renzi abbia sigillato la sfida con Bersani dentro una doppia terminologia automobilistica, la rottamazione contro l'usato sicuro, in un'epoca in cui l'automobile va in rimessa. Nemmeno Bersani è un leader carismatico, e lo sa fin troppo: a furia di rinfacciarglielo gli avevano messo addosso un po' di complesso da "figlio della serva", poi è arrivato Crozza e gliel'ha tolto. Raro caso in cui un comico ha dato molto a un politico, e il politico ha restituito moltissimo a un comico. Che i due contendenti non siano "carismatici" è affare di cui congratularsi, dopo la sbornia. Bersani è appunto affidabile, sa che cosa significhi amministrare e governare, ha una sensibilità sociale incomparabile con quella del suo rivale. Ma non sarà questo a decidere.

L'offerta di Bersani si è fatta molto più chiara grazie alla sfida di Renzi. La dico con le parole che mi sembrarono decisive al momento di congedarsi dal sogno della palingenesi politica: qualunque cimento intraprendessimo, da allora in poi, non avremmo avuto altra eredità cui affidarci se non quel nostro (e di tanti altri prima di noi) passato esausto. Non il poetico "Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", la cui incertezza Renzi ha mutato in baldanza e buttato in politica, ma quello stesso pensiero con l'aggiunta di un minuscolo avverbio di tempo: più.

Ciò che non siamo più, ciò che non vogliamo più. Non voglio chiudere Bersani nelle mie parolette, ma il vero senso della sua candidatura mi pare consistere di quello: c'è un passato che si è ereditato e cui si è appartenuti, benché non al punto di finirne ostaggi, e la distanza presa da quel passato è un criterio prezioso per misurarsi col futuro. L'usato sicuro dice male questa condizione, ne fa una rassicurazione moderata e intimidita. Al contrario, essa ha bisogno di radicalità almeno quanto la scommessa di ripartire da zero.

Vincendo chiaramente le primarie aperte, Bersani avrebbe le mani molto più libere per compiere lo svecchiamento e il rinnovamento indispensabili, senza cedere alla demagogia. La questione del governo tornerebbe nel campo della politica elettiva, e al tempo stesso si limiterebbe la distorsione delle elezioni verso la vendetta antipolitica e la lotteria degli aspiranti. I cambiamenti avverranno, sono già avvenuti, spettacolosi.

Ma non c'è ingenuità in politica che rifaccia il mondo. È la storia di Mani pulite, ma soprattutto dell'ecologismo e del femminismo: cioè dei punti di vista che più di tutti avrebbero richiesto una rottura antropologica. I candidati principali alle primarie sono maschi. Anche qui si può immaginare una differenza fra chi non è più maschilista  - piuttosto: si sforza di non esserlo più -  e chi crede di non esserlo mai stato, di essere venuto dopo l'invenzione dei vaccini. E ancora, fidarsi di più di un antinuclearista di sempre, o di un nuclearista pentito? Il fatto è che la storia del genere umano è andata avanti così a lungo, così generosamente e così ottusamente, in una direzione, che non esiste un solo campo in cui un acquisto non abbia bisogno di un passo indietro, una nuova strada non sia anche la retrocessione da un vicolo cieco.

Insomma, le primarie per la candidatura sono una vera scelta fra i modi possibili di trattare la cosa pubblica e la scritta che corre sul suo imballaggio: Fragile.

(06 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/06/news/il_pd_oltre_le_primarie-43954832/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Taranto, niente blocchi in città.
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2012, 11:37:03 pm
   
I ragazzi che occupano l'Ilva: "Noi i padroni"

Taranto, niente blocchi in città.

L'orgoglio degli operai abbandonati dall'azienda: "Stavolta si va a Roma"

di ADRIANO SOFRI


TARANTO - Ormai le città sono due. La Taranto delle persone, e quella dell'Ilva. E come se non bastasse, proprio ora la Taranto delle persone è stata dichiarata la città più invivibile d'Italia. L'ingresso della Direzione dell'Ilva  -  un luogo tanto meno solenne ma assai più influente del Municipio cittadino  -  era sconsacrato ieri da un lenzuolo con su scritto: "Senza lavoro, nessun futuro". Dentro, la mattina, lo slogan gridato dal grosso corteo di operai che avevano lasciato i loro posti per radunarsi in quello spazio padronale era: "I padroni dell'azienda siamo noi!".

C'era il furgone dei "Liberi e pensanti", c'erano soprattutto gli operai della Movimentazione Ferroviaria. Loro sono i compagni di Claudio Marsella, di Oria, 29 anni, locomotorista, si chiama così, morto lo scorso 30 ottobre col torace schiacciato durante la manovra di aggancio di un carro. Lo avevano trovato agonizzante, perché all'Ilva per quel lavoro pesante e pericoloso si era lasciato solo un operaio per turno.

Quella notte c'erano stati altri due "incidenti" gravi, un operaio ustionato, uno intossicato dal gas. Oggi qualcuno ricorda quella giornata, la protesta dei compagni di lavorazione cui si era unito il sindacato di base, l'assenza di troppi altri, per non dire della città. Bisognava continuare con lo sciopero, dicono anche, come stanno facendo a Genova.

Io sono qui, dice uno, anche se è il mio compleanno, e tira fuori la
carta d'identità per provare che è vero. È vero, ha 37 anni, se ne ricorderà di questo compleanno, gli dicono, tanti auguri. Per un momento, le facce serie serie si fanno allegre. Sono serie anche le facce dei carabinieri e dei poliziotti in borghese che stanno anche loro a far capannello sul marciapiede: se non lo dicessero, sembrerebbero piuttosto operai. Polizia da disordine pubblico non ce n'è, se non in qualche blindato parcheggiato distante, ma non ce n'è bisogno. È tutta un'altra aria.

A mezzogiorno di ieri, all'ingresso della Direzione dell'Ilva, occupata e già disoccupata, e ora presidiata da capannelli di operai e di intervistatori di operai, ho pensato di trovarmi di fronte a una ricapitolazione della storia del capitalismo. C'erano gli operai, buttati più o meno sul lastrico alla vigilia - "messi in libertà", notevole espressione. Migliaia di messi in libertà, un'amnistia generale, un giubileo alla rovescia. C'era lo strato della famosa polvere rossa, accumulata sulle sbarre dei cancelli, su cui passare il dito e guardarsi attoniti il polpastrello arrugginito. Il capitalismo, sia detto senza offesa, spreme e scarta e impesta: ma qui, in questa istantanea di mezzogiorno di un giorno di novembre senza qualità, c'è qualcosa di più e di peculiare, che riguarda il rapporto fra il capitalismo e i capitalisti. I quali sono in galera, o in fuga dalla galera, o appena di qua dalla galera, il vecchio padrone e i suoi figli, i suoi manager, i suoi faccendieri - e poi i suoi uomini di vetrina, già prefetti, già candidati del centrosinistra, già. Forse la siderurgia, che era già finita tristemente a Bagnoli e agonizza a Piombino e fa agonizzare Trieste, sta tirando le cuoia oggi a Taranto e a Genova e nelle altre filiali italiane, in un disastro che non risparmia nessuno, compresi i burattinai, impigliati nei loro fili.

La lavorazione dell'area calda era interdetta dai magistrati, salvo il minimo necessario alla tenuta degli impianti. Invece si produceva come se niente fosse, anzi. "Il materiale è sempre arrivato, al Terzo Sporgente, e fino a ieri si facevano gli straordinari. Dovevamo bloccarla noi, la spedizione, prima della magistratura". Lunedì, quando l'ennesimo e drastico ordine della magistratura ha bloccato il materiale prodotto contravvenendo al sequestro, c'erano quattordici navi in attesa d'essere caricate, e sono lì, inutili. Dicono, gli operai dichiarati inutili: "Sono mesi che andiamo a lavorare, sapendo che cosa ci aspetta, non sapendo niente di che cosa ci aspetta, come se ogni giorno in più fosse un giorno guadagnato. Con questa sensazione di assurdità".

Sono giovani, all'Ilva, figli di pensionati e prepensionati, sì e no 35 anni di età media, non è questione di guadagnare giorni o di pensionarsi in anticipo. Dicono che ai padroni interessa solo di tirare avanti. Che investono solo per il ripristino delle macchine, che continuino a produrre. Il resto, che vada in rovina. Ci sono sette caricatori al porto, i più moderni risalgono al 1982. E i capannoni di stoccaggio, ci piove, sui rotoli a freddo che non si dovrebbero bagnare. Dove vuole andare un'azienda che pensa solo alle tonnellate, che non si preoccupa dello stoccaggio dei suoi prodotti e li manda così ai suoi clienti nel mondo?

A Taranto non si sa se il mare circonda la fabbrica, o la fabbrica accerchia e soffoca il mare. L'odore del mare sì, è stato rotto e sgominato da quello dell'Ilva. Ma il mare, i famosi due mari di Taranto, si insinua continuamente nei pensieri e nelle frasi delle persone. Sono qui dentro da vent'anni, che cosa andrò a fare? Le cozze sono amare, i pesci impiombati. ("La cozza è la cattiva coscienza di Taranto..."). L'azienda è allo sbando, dicono. È come nella stiva di un peschereccio, coi pesci tirati in secco e boccheggianti e però quelli grossi continuano a mangiare quelli piccoli.

Sono molto arrabbiati, gli operai. Forse per questo non è successo niente, ieri. Non è successo nemmeno, però, che la direzione e i capi li abbiano spinti a fare casino di strada, rifocillati dall'azienda e col salario pagato, come in qualche incresciosa giornata di primavera. Forse i padroni se lo aspettavano, dopo la messa in libertà, forse non sanno più che pesci pigliare, o sono gli operai a non abboccare. Per la prima volta, dicono, anche ai capi è stato fatto sentire che se ne vanno a casa, e il badge è stato staccato anche agli impiegati. La confusione è grande. Stamattina, agli operai che hanno occupato il territorio della direzione, i sindacalisti hanno comunicato che ai "messi in libertà" saranno pagate le giornate fino alla decisione del riesame, aspettata per martedì prossimo. Rumori, qualche petardo, poi l'uscita. Amarezza di molti, ai quali sembrava che si fosse accettata una mancia. "Perdiamo il posto di lavoro, e ce ne torniamo a casa per qualche giorno di salario".

Confusione. I badge, dicono, erano stati cambiati di recente: se lo aspettavano già. "A qualcuno il badge non marca, a qualcuno sì. A qualcuno dell'area a freddo hanno detto di venire, ma a fare che cosa? Ai più non hanno detto niente. Dicono che chi ha ferie da fare se ne sta a casa, chi non ne ha entra: poi chiamano chi ha 200 ore di ferie, e lasciano fuori chi ne ha 20".

Sono già cominciate le ritorsioni, dicono. Domani, giovedì, c'è l'incontro romano con un governo che più latitante di così non si potrebbe, e corrono voci diverse sulla partecipazione degli operai. Qualche sindacalista trascrive i nomi di chi andrà a Roma, come se si trattasse di una delegazione ristretta. Hanno detto che al massimo ci saranno dieci pullman, dice qualcuno, e dieci pullman sono appena 500 persone. Dev'essere un desiderio del governo, che non facciamo troppo rumore. Noi, dice Francesco B., delegato Fiom, ci auguriamo che venga il maggior numero. "Tanto - dicono - se fanno i furbi, veniamo con la nostra auto. Essere o non essere a Roma, è decisivo. Non a fare i vandali, a mostrare che ci siamo, e con quelli di Genova e tutti gli altri". Essere o non essere, è decisivo.

All'Ilva come alla Fiat, la domanda è se non aspettino che un alibi - il sequestro dell'area a caldo qui, la Fiom là - per andarsene. Nel frattempo, grattano il fondo del barile. Ieri, quando rientravano i 19 di Pomigliano, i 5mila di Taranto uscivano: usati tutti come ostaggi di gare e rese dei conti altrui, concorrenze economiche, impunità giudiziarie, fine dei diritti. Si capisce che rabbia e demoralizzazione vadano assieme. A chiedergli quanti sono gli operai che ormai si augurano, o sono rassegnati, che la fabbrica chiuda, rispondono all'unisono: Nessuno. Qualcuno, aggiungono risentiti, che si sta assicurando il suo vantaggio privato. Non c'è oggi, qui almeno, alle porte della città d'ombra che vuole ingoiare l'altra, la contrapposizione fra lavoro e salute, e nemmeno la loro alleanza. Chi chiede se abbiano votato per le primarie si sente mandare a quel paese. Quelli si tengono alla larga da noi, dicono. Nessuno dice che i candidati al ballottaggio dovrebbero misurarle anche su questo marciapiede le loro intenzioni: in effetti dovrebbero, credo. Ci sono tribune che vale la pena di frequentare, anche se promettono fischi. I fischi possono essere la premessa di una riaffezione alla buona politica.

(28 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/11/28/news/ilva_i_ragazzi_che_occupano_la_fabbrica_i_padroni_siamo_noi-47589629/?ref=HREA-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - Consigli a Bersani sulle primarie
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2012, 05:30:46 pm
Consigli a Bersani sulle primarie

di ADRIANO SOFRI

Vorrei proporre un paio di argomentazioni a Bersani. Il quale invita a valutare i passi che il suo Pd compie e a metterli a confronto con l'operato altrui. Ha moltissime buone ragioni: non so se abbia ragione per intero.

Lo spettacolo offerto dagli altri partecipanti alla corsa, vecchie volpi e nuovi furetti, si fa di giorno in giorno più increscioso. Si capisce che, al confronto, esitazioni e compromessi del Pd si mostrino molto più veniali e dunque accettabili. La questione è se basti invocare questa vistosa differenza relativa, o valga la pena di perseguire più nettamente scelte indipendenti dal paragone coi concorrenti.

Prendiamo l'affare delle deroghe e del 10 per cento del "listino del segretario". Le percentuali c'entrano, e possono sembrare più o meno ragionevoli. Poi però c'è il merito. Se deroghe e listino servissero soprattutto a conservare equilibri di apparato e piazzare persone, indebolirebbero assai la novità delle primarie per i candidati al parlamento. Oltretutto i tempi così accorciati  -  non certo per scelta del Pd  -  favoriscono i candidati ereditieri di voti, gli amministratori ecc.

Nel giudizio sulla volontà del Pd di sconfessare nei fatti il meccanismo indecente della legge elettorale conterà l'esito delle primarie, ma anche la composizione delle liste riservate. Non sarebbe bello che l'innovazione venisse soprattutto dalle primarie, e la conservazione soprattutto dai listini; per giunta, dei listini è più
direttamente responsabile il segretario.

Ho orecchiato una storia ferocemente istruttiva, e la giro a Bersani, per il caso che non la conoscesse. Riguarda una zona tradizionalmente "forte" della Toscana, in cui si era svolta un'assemblea di militanti del Pd in preparazione delle primarie per la candidatura alla presidenza del Consiglio, conclusa con un voto-consultazione. Fra i 55 partecipanti, più o meno l'insieme dei membri attivi e variamente titolati, 53 si erano detti per Bersani, 2 per Renzi.

Al voto, che si è tenuto nel luogo della stessa sezione, Renzi ha stravinto, e a Bersani sono andate 53 preferenze. Ora, si è trattato di un caso estremo, ma, benché per eccesso, rivelatore. Le prossime elezioni decideranno  -  speriamo  -  di un'intera e importante legislatura: che le candidature siano complessivamente governate dalla ricerca delle migliori capacità di donne e uomini, vecchi e giovani, e condizionate molto meno (non dirò: per niente affatto, siamo umani) dall'opportunità di sistemare alcune persone e accontentare alcune cordate, sarebbe un investimento lungimirante.

Aggiungo una cosa rispetto ai radicali, non motivata dall'urgenza dell'iniziativa di Marco Pannella. Nelle scorse elezioni politiche Veltroni, che ebbe molti meriti e commise alcuni errori, rifiutò un'alleanza con radicali e socialisti, e la stipulò invece con Di Pietro, il quale si impegnò a entrare nel gruppo del Pd all'indomani dell'elezione, poi si guardò bene dal tener fede alla parola e anzi giocò a oltranza a parassitare e infilzare il Pd. Veltroni candidò bensì dei singoli radicali nelle liste del Pd. Nove di loro entrarono in parlamento (su Pannella c'era stato un veto) e costituirono una "delegazione" nel gruppo del Pd. Durante la legislatura l'uno e gli altri, Pd e Radicali, in modi e momenti diversi, hanno fatto del loro peggio per pregiudicare un impegno comune, ben al di là (è la mia opinione) dei dissensi di merito, e soprattutto per questioni che dirò caratteriali. Dirò anche che la questione caratteriale non riguarda, nella politica italiana, il solo Marco Pannella, come si finge di pensare: lui la dissimula meno, anzi la ostenta.

Ora Pannella sta cercando in maniera estrema di dare a un costante e imperterrito impegno su carceri e giustizia un improbabile sbocco elettorale. Indipendentemente dal quale, non mi è chiaro  -  a me e a molti, direi  -  perché non accogliere i radicali nella coalizione che ha giustamente compreso i socialisti. La risposta migliore punterebbe ancora una volta sull'incidente caratteriale: vacci tu a fare una riunione con Pannella. La migliore, dico, perché ce n'è un'altra. Che i radicali, con le loro manie sul fine vita e così via, siano incompatibili con uno schieramento che riconosca l'apporto decisivo dei cattolici democratici. Questa è la risposta peggiore.

(19 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/19/news/consigli_a_bersani_sulle_primarie-49058429/?ref=HREA-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - Mega-sequestro da 8 miliardi ai Riva.
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2013, 11:38:39 pm
Mega-sequestro da 8 miliardi ai Riva.

Lo scandalo Ilva è il doppio dell'Imu

Sigilli a 8,1 miliardi di euro. "Accumulati ai danni dei tarantini".

Il Gip: "L'azienda ha ottenuto negli anni un indebito vantaggio economico a scapito di popolazione e ambiente"

di ADRIANO SOFRI


TANTO piovve, che diluviò. In applicazione di una legge del 2001 che prevede "la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente", la Gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della Procura di Taranto, ha deciso un sequestro senza precedenti: non degli impianti o dei prodotti, come già avvenuto, ma del patrimonio dei Riva, nella misura enorme di 8 miliardi e 100 milioni. Per intenderci, il doppio della restituzione dell'Imu... Qualunque decisione prenda il consiglio d'amministrazione convocato per stamattina, non c'era e non c'è un futuro per l'Ilva con la proprietà dei Riva. Il decreto "salva-Ilva", in vigore da dicembre, prevedeva, in caso di inadempienza, fino al passaggio all'amministrazione straordinaria. Fumo negli occhi, allora, diventato ora reale e urgente, e passato da Clini e Passera a Orlando e Zanonato.

Un'amministrazione straordinaria con una ridotta continuità produttiva e una effettiva bonifica costa. I miliardi sequestrati (ammesso che la Finanza li trovi tutti) non sono comunque disponibili, e il saldo dei materiali dissequestrati  -  circa 800 milioni  -  non basta. Se l'imminente piano europeo, cui lavora l'italiano Tajani, prevedesse uno speciale finanziamento bancario, non lo attuerebbe comunque, con lo spauracchio di un sequestro così enorme, senza un impegno del governo. Intanto nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull'umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio.

Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli "incidenti rilevanti" (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l'ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D'Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.

Fra i reati loro imputati, commessi fra il 1995 e oggi, si cita l'omissione di un piano di emergenza nell'eventualità di un incidente rilevante: a un'obiezione su questo punto, responsabili dell'Ilva replicarono che il rischio di incidente rilevante equivaleva a zero, e questo avvenne alla vigilia del giorno del tornado! Si sottolinea come l'azienda abbia ignorato le disposizioni dei custodi nominati dal giudice. Si ricorda la morte di tre operai nel giro di pochi mesi. La lista è lunga: emissioni cospicue nell'area dei rottami ferrosi; sversamento delle scorie liquide di acciaieria sul terreno non pavimentato; rilascio di sostanze tossiche dovute allo "slopping" e al "sovradosaggio ossigeno" (è il fenomeno che provoca i fumi di colore rosso cupo, per gli ossidi di ferro non smaltiti nell'impianto di aspirazione); frequenti emergenze all'acciaieria, ai rottami e agli altoforni, per le emissioni vaste e prolungate convogliate (le "torce", i camini coi bruciatori in testa) e diffuse (tetti degli altoforni); inadeguata manutenzione dei sistemi di recupero del gas in torcia ai convertitori; mancata comunicazione alle autorità delle gravi conseguenze degli incidenti; costante smaltimento di emissioni gassose equivalenti a rifiuti attraverso i sistemi di emergenza; scarico di rifiuti liquidi nel deposito fossili, immettendo inquinanti dal suolo non pavimentato alla falda superficiale e al mare; recupero di fanghi contaminati da diossine, furani e idrocarburi policiclici aromatici, o dei liquami derivati dalla pulizia dei nastri trasportatori, nel processo di sinterizzazione (la compattazione delle polveri); l'incredibile smaltimento di polvere di catrame e fanghi attivi, oltre che di loppa (il residuo della produzione di ghisa in altoforno) nei forni delle cokerie; miscelazione illegale di catrame con benzolo e naftalene, col doppio vantaggio di venderla e risparmiare le spese di smaltimento di rifiuti speciali; attuazione di vere discariche abusive di rifiuti pericolosi e di pneumatici su suoli non impermeabilizzati, nelle acque superficiali e sotterranee; scarichi di acque reflue industriali pericolose, oltre che nelle aree industriali, "in tutte le superfici esterne destinate a residenze e servizi, nelle strade, piste, rampe, piazzali" - cioè dovunque; e così via. Le cokerie, che già sono, con l'agglomerazione, il reparto siderurgico più nocivo, vengono abitualmente adibite a immondezzai di incinerimento di solfuri, scaglie di laminazione, fanghi di depurazione delle polveri di desolforazione ("anche da stabilimenti esterni"!). Il lessico non è fatto per essere padroneggiato dal lettore profano, ma non offusca la sostanza: praticamente tutta l'attività produttiva si svolge secondo l'accusa in modi dolosamente illegittimi.

Ciascun addebito menziona le prescrizioni impartite dai custodi, e inattuate: ai parchi minerari, ai modi di bagnatura dei cumuli, alla chiusura nastri trasportatori - e agli effetti sugli abitanti del rione Tamburi. I Gestori (poi decaduti) Ferrante e Buffo, denunciando un "allarmismo" seminato da magistrati e custodi, imputavano a questi ultimi di aver causato effetti devastanti, riducendo gli sbarchi di materie prime: in realtà impedendo la speculazione sulle tariffe e dimezzando le giacenze dei parchi minerari, con un sensibile miglioramento dentro e fuori lo stabilimento.
"Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all'Ilva, ai danni della popolazione e dell'ambiente". È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L'onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.

L'alleanza fra Ilva e governo Monti credeva di aver segnato punti decisivi: lo scorporo dell'Ilva dall'Ilvafire e dalla cassaforte della famiglia Riva, la sentenza della Consulta sulla legge salva-Ilva. Intanto però la Cassazione, che già aveva dato seccamente ragione a procura e gip di Taranto sugli arresti per i Riva e i dirigenti, aveva confermato anche l'esclusione di Ferrante dal ruolo di custode giudiziario. Proprio attorno al lavoro dei custodi - tre ingegneri, Barbara Valenzano (39 anni, gestore delle aree a caldo), Manuela Laterza (26) e Claudio Lofrumento (39), e un commercialista, Mario Tagarelli - e della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Noe, gira la prosecuzione dell'azione di procura e gip di Taranto. Per giunta, alla vigilia era stata la procura di Milano a sequestrare ai Riva un miliardo e cento milioni per frode fiscale e truffa allo Stato. A quello Stato che aveva deliberato su misura dei Riva una legge così controversa. L'affiancamento della procura (e della guardia di Finanza) di Milano metterà in imbarazzo quelli secondo cui a Taranto i magistrati sono strani e matti.

Intanto, l'Ilva ha consegnato all'operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.

(25 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/05/25/news/ilva_imu-59584396/?ref=HREC1-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - I confini della linea rossa
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 08:29:43 am

I confini della linea rossa

di ADRIANO SOFRI


Fra i danni collaterali della tragedia siriana c'è il rischio di una precipitosa perdita di distinzioni costruite attraverso i decenni. Ian Buruma ("La moralità delle bombe" pubblicato ieri) raccoglie un argomento che sembra di buon senso a tanti nell'angustia di questi giorni: che senso ha stabilire "linee rosse" sulle armi chimiche? Forse che gli ammazzati a colpi di proiettili e bombe convenzionali sono meno morti? Dalla Convenzione di Ginevra del 1925 a quella del 1993 è cresciuto l'orrore per le armi chimiche, da Ypres 1917 alla nostra Eritrea, alla guerra Iraq-Iran, alla curda Halabja 1988 e ai sobborghi di Damasco.

Orrore per gli effetti, per i bersagli indiscriminati, e disgusto per la slealtà estrema, erede dell'avvelenamento dei pozzi. In gara con l'orrore cresceva l'avidità di potenze grosse e piccole per il possesso di armi chimiche e biologiche che ne autorizzassero la prepotenza e promettessero, se non l'espansione vittoriosa, la rappresaglia dopo la sconfitta. Gli Stati Uniti ora segnano il passo davanti alle linea rossa che hanno voluto tracciare: può darsi che Obama avesse pronunciato l'intimazione come un esorcismo, per avere un alibi all'inerzia, e contando che Assad non ardisse di oltrepassarla. Ma le armi chimiche, con l'aggravante di colpire i civili, sono per la civiltà internazionale - cioè per la riduzione della barbarie planetaria - una cosa diversa e più grave delle armi convenzionali.

Fa impressione vedere come l'argomento apparentemente di buon senso, in realtà fra qualunquista e cinico, sull'indistinzione delle armi mortifere, faccia dimenticare, perfino a tanti che vi si sono impegnati, battaglie come quella per il bando alle cluster bombs, le bombe a grappolo, o le mine antiuomo cosiddette, che uccidono squartano e mutilano come un bombardamento "normale" - ma con un di più di inganno e adescamento di inermi. O per il bando all'uranio impoverito. Vogliamo passare dallo scandalo della manipolazione sull'esistenza di armi di distruzione di massa, alla dichiarazione della loro irrilevanza? Per far culminare questa liquidazione alla leggera di distinzioni sulle quali si costruisce pietra su pietra, frana dietro frana, riparazione dopo riparazione, la storia della civiltà - della riduzione della barbarie, delle unghie tagliate agli artigli - si chiamano in causa anche l'arma atomica e la nozione di genocidio.

"Esiste davvero una grande distinzione morale tra uccidere circa centomila persone sganciando una bomba atomica su Hiroshima e ammazzarne un numero addirittura superiore provocando una pioggia di bombe incendiarie lanciate in una sola notte sul cielo di Tokyo?" Le vittime di Tokyo furono più numerose, certo. E i bombardamenti al napalm e ai defolianti sul Vietnam non furono meno infami, e Dresda, e... Ma a Hiroshima e Nagasaki gli umani emularono per la prima volta Dio nell'unico modo in cui potevano, mostrandosi capaci di distruggere la terra di colpo, in una creazione alla rovescia. Per la prima volta e per l'ultima, finora: l'unico caso in cui hanno rinunciato a ripetersi. Finora, insisto: perché custodiscono decine di migliaia di ordigni nucleari, e decine di paesi sono pronti a dotarsene. L'ipocrisia e l'inadeguatezza del Trattato di non proliferazione nucleare saranno una ragione per liberarcene - tanto si muore comunque ammazzati?

Infine, il genocidio. "Tollerare il genocidio è intollerabile... A che punto esatto, però, occorre tracciare una linea? Quanti omicidi costituiscono un genocidio? Migliaia? Centinaia di migliaia? Milioni?". Che sia Buruma a proporre simili interrogativi mi lascia interdetto. Riformulateli a proposito di Auschwitz. Fatto? Non occorre altro, se non ricordare che il genocidio - la parola, e poi la tormentata definizione, e la Convenzione delle Nazioni Unite, insoddisfacente quanto si voglia - venne dopo, dopo che nessuno volle tracciare quella linea rossa.


(04 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/09/04/news/siria_sofri_confini_linea_rossa-65850028/?ref=HRER2-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - L'abisso delle prigioni
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2013, 04:20:35 pm
L'abisso delle prigioni

di ADRIANO SOFRI

Per una volta, mi metterò nei panni di Giorgio Napolitano. Il quale sapeva, come me e come voi, che il suo messaggio sulle carceri gli sarebbe stato ritorto contro come un vile espediente per trarre dalle peste Silvio Berlusconi. Che ci sono esponenti politici e uomini di spettacolo che sulla rendita di insinuazioni come queste ingrassano. Che la corruzione di comportamenti e lo scandalo di sentimenti di un ventennio sfinito hanno esacerbato l'opinione.

Insomma: che si stava cacciando in un guaio grosso. E allora, perché l'ha fatto? Azzardo una risposta. Se fossi Napolitano, sarei sconvolto, come me, dallo stato delle galere. Mi ricorderei di essere andato  -  lui, non io  -  il giorno di Natale del 2005, a una "marcia per l'amnistia" indetta dai radicali. Otto anni fa: Napolitano aveva appena ottant'anni, Berlusconi stava benone, era capo del governo. A quella Marcia di Natale, Napolitano disse al cronista di Radio radicale che per lui, col suo passato, non era così insolito partecipare a un corteo, sebbene fosse diventato più raro. Ma a questa, spiegò, bisognava esserci. E mi auguro che la politica affronti il problema, aggiunse, "senza lasciar prevalere pregiudiziali, o timori non ben chiari...".

Continuo a immaginare che cosa dev'essersi detto licenziando il suo messaggio. Non se la prenderà, io sono interdetto in perpetuo. Si sarà ricordato che nel giugno 2011 partecipò a un convegno promosso da Pannella e ospitato dal Senato sulle carceri. Berlusconi stava benino, era capo del governo. Lui, il presidente, disse che era una "questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile". Disse che la questione della giustizia e specialmente delle carceri era giunta "a un punto critico insostenibile, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere". Citò "i più clamorosi fenomeni degenerativi  -  in primo luogo delle condizioni delle carceri e dei detenuti  -  e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento". Parlò di "una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana  -  fino all'impulso a togliersi la vita  -  di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell'estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile  -  che solo recenti coraggiose iniziative stanno finalmente mettendo in mora". (Macché: sono sempre lì, questo lo aggiungo io). Continuò: "Evidente è l'abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale... È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo...". E concluse: "Non dovremmo tutti essere capaci di uno scatto, di una svolta, non foss'altro per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte".

Non ci si rifletteva, da nessuna parte, o quasi. Intanto lui, Giorgio, continuava a tormentarsene, penso. Visitava galere, ascoltava invocazioni, veniva alternamente lodato e insultato da Marco Pannella, che gli ingiungeva di rivolgere un messaggio alle Camere. Napolitano è forse altrettanto impaziente di lui, ma lo dissimula meglio, e temeva che un'iniziativa così straordinaria come il messaggio presidenziale sarebbe restata in quelle circostanze lettera morta, e avrebbe fatto retrocedere piuttosto che avanzare la giusta causa e urgente. Però non perdeva occasione per ribadirla. Qualche tempo fa, all'uscita da una visita a San Vittore, a Marco Cappato che lo interpellava sull'amnistia, rispose: "Se mi fosse toccato mettere una firma lo avrei fatto non una ma dieci volte". Berlusconi stava ancora così e così.

Napolitano si sarà ricordato tutto questo. Intanto l'Europa ci condannava ripetutamente, e l'Italia, che lui supremamente rappresenta, veniva vieppiù umiliata. Avrà pensato ancora: "Mentre lasciavo il Quirinale, e avevo pronte le valigie, e mi figuravo un ozio di Capri appropriato alla mia età e ai desideri di famiglia, questo mi rimordeva sopra tutto. Quando ho disfatto le valigie, mi sono ripromesso di riprendere comunque il filo. L'ho fatto ora, prima che sia davvero troppo tardi. Tardi per le scadenze tassative cui ci obbliga l'Europa, e, più irreparabile ancora, per la nostra umanità. Il mio messaggio è là, cliccateci sopra, leggetelo, non vi accontentate di questa usurpazione giornalistica. Troverete tutto, niente di più e niente di meno di quello che penso e sento. Adesso ne ho 88, di anni. A differenza di voi giovani, posso permettermi di guardare lontano. Come volete che mi intimidisca delle speculazioni, delle insinuazioni, degli insulti? Mi dispiacciono certo le incomprensioni e le diffidenze sincere, mi auguro che vogliano misurarsi con la verità. E comunque, posso permettermi anche di dire le cose come stanno: per esempio, che chi mi accusa di voler salvare Berlusconi (che non potrebbe nemmeno San Gennaro, n. d. r.) e assicurare 'l'impunità delle caste', se ne frega del paese e della gente, e non sa quale tragedia sia quella delle carceri".

Cinque anni fa, quando fu varato un indulto mutilato dell'amnistia, che avrebbe sgombrato tribunali ostruiti da un arretrato intrattabile, favorendo prescrizioni agli abbienti e sventura ai poveri cristi, restarono con pochi altri a difendere una decisione del parlamento, lui Napolitano e Romano Prodi. Allora, lo spauracchio agitato sul futuro della democrazia era Previti: Previti restò dov'era, in un comodo domicilio, e nessuno ne ha più sentito parlare. Gridavano che il processo all'Eternit sarebbe stato insabbiato: si è tenuto ed è finito come doveva. Ammonirono che i delinquenti usciti avrebbero messo a repentaglio la sicurezza degli italiani: non successe, e fra gli usciti e i beneficiari di pene alternative ci furono assai meno recidivi. Queste ultime osservazioni, e molte altre cui rinuncio, non sono del presidente, ma mie: un po' per uno.

Considerando tutti questi precedenti, Napolitano ha confidato che non si potesse lealmente fraintenderlo. Che non si possa fraintendere il favore per la stessa amnistia, quando viene da giuristi come Carlo Federico Grosso, da ministri indipendenti come la signora Cancellieri, da direttori di carceri, da sindacati di agenti penitenziari, da magistrati e avvocati e operatori penitenziari. Ci sono 64.758 detenuti per una capienza di 47.615, ha scritto. Ci sono sgabuzzini provvisori di un metro per un metro adibiti a cella, senza finestre, senza una suppellettile, con un giornale sul quale fare i propri bisogni. È un po' lungo il suo messaggio, lo sa, ma si abbia cura di leggerlo. Poi lui non c'entra più. È sovrano il Parlamento. Può fare quello che crede, là sono indicate molte misure diverse, e soprattutto un criterio, e più ancora un sentimento. In Parlamento ci sarà chi è favorevole all'amnistia perché spera che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Ci sarà chi è contrario all'amnistia perché teme che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Napolitano avrà fatto la tara, e si sarà augurato che ci sia chi rifletta perché è in pena per l'inferno in cui stanno i carcerati e le loro famiglie, e per il vicolo cieco in cui si trova la giustizia. (Gli altri, quelli che sono comunque contro ogni clemenza perché sono pieni di rancore e detestano il prossimo loro, non vanno considerati in una categoria a parte, perché stanno indifferentemente nella prima e nella seconda).

Ecco, penso che sia andata più o meno così. Tornato del tutto nei miei panni, ho una cosa da dichiarare, per conflitto d'interessi. Io devo gratitudine a Napolitano, perché non mi diede la grazia. Avrei vissuto il mio tempo supplementare da graziato, sarebbe stata dura.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/09/news/l_abisso_delle_prigioni-68206323/?ref=HREA-1


Titolo: ADRIANO SOFRI. La grande ritirata dai paradisi dei turisti.
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2015, 06:15:56 pm
La grande ritirata dai paradisi dei turisti. Il nostro mondo è sempre più piccolo
La mobilità umana oppone nuove classi: una colpita da guerre e carestie, l'altra spinta dalla voglia di conoscenza e vacanza. E sulla nostra carta ridisegnata dalle violenze ora si cancellano le frontiere: dalla Libia al Corno d'Africa, dal Sinai fino al Mar Rosso

Di ADRIANO SOFRI
27 giugno 2015

C'È UN modo peculiare per tener dietro alla rocambolesca evoluzione della scena geopolitica: star connessi al sito "Viaggiare sicuri" del Ministero degli esteri. Quegli addetti, come generali di una ritirata militare presso a farsi rotta, spostano via via più a ridosso dei nostri confini le bandierine del territorio ancora accessibile. La ritirata riguarda noi, la parte privilegiata, dalla quale si parte con documenti rispettabili, e un biglietto di andata e ritorno in tasca. Dalla parte opposta si viene arrancando, con le tasche vuote di andata e ritorno. La sicurezza, da quell'altra parte, è la più ironica delle parole. Ci si mette in viaggio a rischio della vita. Se si sopravvive, se si tocca terra d'Europa, libertà e democrazia, comincia un'altra traversata, altre soste immemorabili, sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais. Il vero discrimine del mondo di oggi, dice Zygmunt Bauman- lo ridice nel dialogo con Ezio Mauro -  non corre più fra ricchi e poveri, ma fra mobilità e fissità, fra chi resta fermo e chi si sposta. Lui parla soprattutto della finanza globale, che a differenza dal capitalismo industriale non sottostà a vincoli territoriali e si muove fulmineamente da un capo all'altro del pianeta, fino ad annichilire la capacità negoziale di lavoratori e sindacati lasciati a boccheggiare su un loro suolo prosciugato.

Ma è la mobilità umana, nella sua doppia faccia, a opporre nuove classi: l'una urtata dalle guerre e le carestie, l'altra spinta da voglia di conoscenza e vacanza. Il fantasma dell'invasione barbarica e il miraggio del turismo, intelligente o avventuroso o semplicemente piacevole. Quanto pesa, nel nostro sentimento, anche il meno malintenzionato, la carta d'identità che ci fa attraversare con piede leggero i confini di Schengen, il passaporto che ci autorizza, tutt'al più con la seccatura d'un visto, a visitare il mondo pressoché intero. Quando diciamo "extracomunitario" non pensiamo a cittadini con passaporto canadese, o svizzero. Ed ecco che il mondo dei nostri dépliants ci si stringe sotto i piedi, nelle impronte rovesciate delle stesse eruzioni che travolgono e cacciano i fuggiaschi. A marzo, dopo il Bardo, era giusto proporsi di tornare, deprecare le grandi compagnie che cancellavano quelle coste dagli itinerari, promettersi un'estate tunisina colma di bellezze archeologiche e naturali e di dedizione solidale. Ma la cosa era legata a un filo.

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27 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/06/27/news/la_grande_ritirata_dai_paradisi_dei_turisti_il_nostro_mondo_e_sempre_piu_piccolo-117801117/?ref=HREA-1


Titolo: ADRIANO SOFRI - I puntini nel mare della nostra vergogna: annegati e aguzzini
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 10:49:36 am

I puntini nel mare della nostra vergogna: annegati e aguzzini
Le autorità, ma anche i comuni cittadini, hanno una preziosa distanza da quel Mediterraneo, mezzo pieno o mezzo vuoto, dove gli esseri umani continuano a morire

Di ADRIANO SOFRI
   
La PRIMA fotografia è presa da più lontano: il mare blu appena increspato e tanti puntini neri o colorati sparpagliati, forse uccelli marini, forse esseri umani. Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c'è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un'ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa. In una foto successiva, più ravvicinata, c'è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c'è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l'hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26, tre bambini, oltre alle centinaia della stiva.

Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un'altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda ". Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L'ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola  -  La chaqueta metálica  -  e l'elmetto famoso con il motto Born to kill. Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l'unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare  -  e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta.

C'è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall'acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all'anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un'Europa civile. Il numero giusto  -  tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest'anno, che già ne conta già 2.400  -  si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell'anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso.

È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall'acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d'oro e una d'argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei.

Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: "Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!" E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un'ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio  -  cioè, dalla Tunisia, tutti  -  con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l'ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia?

Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: "300mila dollari per i sandali di diamanti". Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un'altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura.
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08 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/08/08/news/i_puntini_nel_mare_gli_annegati_e_quegli_aguzzini-120609365/?ref=HRER3-1


Titolo: Adriano Sofri. Vi scrivo da Mosul, la città irachena spaccata in due
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 17, 2016, 10:53:51 am
Vi scrivo da Mosul, la città irachena spaccata in due

Mondo   
Reportage dalla città irachena. Sciiti, peshmerga, yazidi, turkmeni. Turchia, Russia, Iran.
E la coalizione Internazionale.
La battaglia contro l’Isis è già un ingorgo di manovre che prepara le guerre di domani


Affidarsi ai vari portavoce è impossibile: non che tengano le bocche cucite, al contrario, annunciano ciascuno una data, da domani mattina a gennaio prossimo. Ci si regola su quello che si vede, convogli lunghissimi di blindati trasportati su grossi camion diretti al fronte di nord est attraverso il territorio curdo: sono dell’esercito iracheno, benché alcuni alzino la bandiera con il volto dell’imam Hussein, il protomartire sciita. Ci si regola su quello che si sente, un andirivieni di grossi aerei militari e di elicotteri sulle nostre teste.

Quanti scarponi sul terreno

I capi dell’esercito iracheno proclamano di essere pronti – “in 65 mila” – e di aspettare solo l’ordine da Baghdad. I peshmerga di Erbil sono pronti per definizione, e stanno zitti. I peshmerga di Suleimania e di Kirkuk avvertono che prima bisogna prendere l’ultima roccaforte irriducibile di Hawijia, già qaedista poi dell’Isis, per sgombrare l’intera riva orientale del Tigri. Hashd al Shaabi, i famigerati sciiti «paramilitari» ammoniscono che loro ci saranno – «in 24 mila» -e che non c’è bisogno di altri, tanto meno dei turchi. I curdi del Pkk e di Siria non lo dicono ma ci saranno; rivendicano una nuova divisione della provincia di Ninive in cui un territorio sia loro riservato. Gli americani dicono che non vogliono il Pkk né i paramilitari sciiti.

I turchi di Erdogan rigettano sprezzantemente gli ultimatum di Baghdad, loro sono già a Bashiqa, a un tiro di schioppo, diciamo così, da Mosul, e avanzeranno: e dietro di loro fa ormai capolino la Russia che i giri di valzer diplomatici hanno avvicinato all’unico fronte dal quale erano ancora tagliati fuori. Erdogan, che Dio lo aiuti, ha detto ieri di avere un piano B e anche uno C… Gli iraniani non hanno bisogno di dire niente, per loro parlano i governanti di Baghdad e strepitano le milizie Shaabi. Poi ci sono i battaglioni di yazidi, di assiri cristiani, di shabak e turkmeni sciiti…

I sauditi si riuniscono con gli emirati per ammonire l’Iran a stare alla larga. A terra, sia pure con la beneducata avvertenza di svolgere solo compiti di istruzione e logistica, ci sono anche i militari della coalizione, americani, francesi, italiani, britannici eccetera. Le truppe in terra, gli scarponi sul suolo famosi, sono diventati fin troppi.

La città minata a ogni passo

La direste una farsa se non fosse l’epilogo provvisorio di una tragedia. A renderla farsesca è stato il lunghissimo rinvio. Tuttavia l’alternativa non c’è, salvo lasciare per sempre Mosul al Califfato. Così da un giorno all’altro il nome di Mosul diventerà famigliare e terribile come quelli di Sarajevo e di Aleppo. Più di quelli. La riconquista è annunciata da più di due anni: dal 10 giugno 2014 in cui la capitale dell’Iraq sunnita cadde ingloriosamente nelle mani di al Baghdadi che vi si proclamò califfo. Non so se esistano precedenti di una battaglia simile. Qui si tratta di liberare da un’occupazione spietata una città che ha ancora un milione e 300mila abitanti. Molti di loro aprirono le porte all’Isis, che già da anni con altri nomi vi agiva come un governo ombra, in odio alla prepotenza del governo sciita; i più si sono ricreduti, ma temono la ferocia dei miliziani sciiti e le vendette delle minoranze cacciate.

La grande città è minata a ogni passo con quei congegni esplosivi improvvisati che sono l’arma più micidiale contro gli eserciti regolari e tecnologici. In una città così popolosa, e con le vie di fuga sbarrate ai civili, i bombardamenti e i tiri di artiglieria sono un repentaglio tremendo se non si voglia emulare la terra bruciata di Groznj e di Aleppo. Si può contare su una resistenza interna? Da molti mesi si dice di gruppi che agiscono di notte, uccidono uomini del Califfo, scrivono sui muri la M di al-Mukawama, resistenza. Sono 3mila, 5mila, si dice – esagerando. Venerdì il Califfato ha «giustiziato» 58 cospiratori, affogati e poi bruciati in una fossa comune: fra loro uno che era stato al fianco di al Baghdadi. Si è parlato di un tentato golpe – esagerando. Sta di fatto che i notabili dell’Isis hanno svenduto tutto quello che c’era da vendere nella città, facendola a pezzi, come per una liquidazione.

I tetti di Mosul la favolosa

Ci sono nomi gloriosi di città che abbiamo imparato a pronunciare solo per le cronache del terrore, Mosul, Dacca. Eppure: «Mussola (mussolina): tessuto leggerissimo a trama rada, simile alla garza. Il nome deriva dalla città di Mosul, dove gli europei la conobbero, ma era originaria di Dacca in Bangladesh». Mosul, sapete, ha un minareto pendente, «come la torre di Pisa»… Non ho mai visitato Mosul, e forse per questo il suo nome suona così favoloso alle mie orecchie. Stavo per scrivere che non l’ho mai vista, ma non è vero: l’ho vista dall’orlo della frontiera mobile che separa il territorio dell’Isis da quello curdo, ma era un altro modo di immaginarla. Prima di quel fatale giugno 2014 era un altro il nome che Mosul favolosamente evocava per lo straniero: Ninive. Ma questa gran storia la racconterò un’altra volta. L’antica Ninive, da cui oggi è chiamata la provincia, era rimasta di qua del Tigri, e Mosul era cresciuta sull’altra sponda. Più tardi la città nuova espandendosi l’avrebbe ingoiata, divenendo la seconda dell’Iraq – due milioni.

Di notte, la gente di Mosul sale furtivamente sui tetti, dove i telefoni forse prendono, e parla coi suoi parenti e amici sfollati. Quando avvistano un’auto dell’Isis spengono e scendono precipitosamente. Uno pensa alla vita a Mosul: il niqab obbligatorio, le ragazze «sposate» per forza ai combattenti, due figli su tre arruolati per forza e cambiati di nome, le teste mozzate, i roghi umani, gli «effeminati» buttati giù dalle terrazze. Il mio amico Ahmad vendeva frutta secca e dolciumi. Gli buttarono i pistacchi in mezzo alla strada. «Ma è un dono di Dio», azzardò. «Ha la forma dell’organo femminile», dichiararono quei teologi. In strada anche i lokum appesi: la forma del membro maschile. In strada i sottaceti, si avvicinano all’alcool. E i cetrioli freschi, naturalmente.

La battaglia di oggi le guerre di domani

Mosul è stretta da terra oltre che dal dominio esclusivo dei cieli da parte della coalizione. (Che cosa sarebbe se l’Isis e i suoi concorrenti islamisti disponessero di un’aviazione, come ne dispone Assad coi barili bomba e Putin coi bombardamenti a tappeto? Giorni fa un drone esplosivo ha ucciso qui due peshmerga e ferito gravemente due militari francesi, prima prova riuscita di droni da guerriglia). L’esercito iracheno, dai e dai, ha espugnato i centri della provincia di Anbar, Ramadi e soprattutto Falluja. È il protagonista designato alla riconquista di Mosul. Gli si muovono addosso le truppe «paramilitari» sciite – nome irrisorio, perché sono altrettanto militari e pagate dal governo, ma al comando di privati a loro volta al comando dell’Iran – che pretendono la propria parte, la più esosa, del bottino, e sono in guerra non con l’Isis ma coi sunniti in genere. Minacciano di vendicare a Mosul l’imam Hussein, morto a Kerbala 1336 anni fa…

I peshmerga sono ingaggiati per la battaglia, e gli americani se ne sono assunta la spesa: loro non avanzano rivendicazioni su Mosul, a differenza che sulla curda Kirkuk. La grande battaglia di tutti contro l’Isis per Mosul è già oggi un ingorgo di manovre che preparano le guerre di domani. Gli ultimi giorni sono stati riempiti dalle minacce reciproche fra Erdogan e al Abadi, il vacillante premier di Baghdad. Ieri a Baghdad il solito attentato suicida a un funerale sciita ne ha ammazzati almeno 31 e feriti 63.

La partita militare e quella del dopo

Fermando per un momento il film dell’avanzata su Mosul possiamo vedere tre linee di impegno sovrapposte. La prima è quella militare. La seconda quella dell’emergenza umanitaria: le vite da soccorrere e curare. La terza quella della ricostruzione quando la città sia stata espugnata: che ha a sua volta un aspetto di sicurezza, uno politico – chi la governerà e come – e uno urbanistico. È infatti una grande città storica che andrà a sua volta curata e guarita delle ferite subite finora, e di quelle che la battaglia ultima le infliggerà ancora. Quale preparazione abbiano raggiunto i piani militari non è dato sapere. I comandanti americani vogliono dare un’impressione di gran sicurezza e parlano dei miliziani dell’Isis a Mosul come morti che camminano. Nel secondo confronto con Trump, Hillary ha messo in rilievo il proprio personale impegno e ha fatto intendere che la liberazione di Raqqa verrà dopo quella di Mosul – oltre a ribadire la fiducia nell’apporto curdo. Resta che una battaglia che si deve prevedere lunga e durissima, se fosse scatenata oggi, invaderebbe in pieno la campagna presidenziale americana. «Ora che Trump è crollato nei sondaggi – dice il mio amico Kamo – gli americani non hanno più fretta di avanzare su Mosul».

Mancano anche le tende

Sulla preparazione all’emergenza umanitaria si sa di più, che è molto indietro. Dopodomani arriverà in Kurdistan Filippo Grandi che è a capo dell’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati. In questi giorni si è svolta una missione dell’ambasciatore italiano in Iraq, Carnelos, che ha visitato la diga di Mosul e tutte le principali città del Krg, compresa Kirkuk, e ha ascoltato le preoccupazioni per l’afflusso possibile di sfollati da Mosul – 250mila ne aspettano solo a Dohuk, che già ne trabocca.

I fondi per i rifugiati sono prosciugati e si rischia che i fuggiaschi di Mosul vadano sotto i ponti o affollino gli scheletri dei palazzi in costruzione. C’è bisogno di tutto, a partire dalle tende. In Kurdistan ci sono ancora 30 gradi di giorno, ma l’autunno avanza e le notti in montagna sono fredde. Si può immaginare che cosa significhi far fronte a un esodo di un milione di persone, che si suppone improvviso. Per giunta, il controllo degli sfollati, in particolare degli uomini, sarà lungo e scrupoloso per la paura che vi si infiltrino miliziani dell’Isis. Si può aggiungere che il coordinamento fra le innumerevoli agenzie – dell’Onu, delle Ong, dei governi e delle amministrazioni curde e irachene – pone problemi meno esplosivi ma non meno complicati di quelli fra gli eserciti rivali nella controffensiva su Mosul.

Che cosa farà l’Isis? Che cosa farà la gente?

Mosul è spaccata in due dal Tigri, e la riva sinistra è quella della antica Ninive e della parte più nuova della città. Da questa parte arriveranno le forze della coalizione. Sulla riva destra sorge il centro storico di Mosul, nel quale l’Isis è arroccata. Sei ponti principali uniscono le due rive ed è ovvio supporre che vengano fatti saltare al momento dell’avanzata. La popolazione sceglierà di fuggire o di rintanarsi nelle case e pregare il suo Dio? E che possibilità avrà di fuggire? Certo l’Isis vorrà valersene per farsene scudo o per imputare ai suoi nemici la carneficina. Si teme anche che l’allarme sugli scudi umani faccia da schermo a operazioni indiscriminate della coalizione o di sue fazioni: una Aleppo trasferita a Mosul. C’è infine la domanda sulle vere intenzioni dell’Isis – intendo il nerbo dei suoi miliziani, forse 5mila, non i suoi aggiunti, bambini-soldato compresi: vorrà battersi alla morte, o sceglierà di svignarsela?

Si vocifera di un corridoio che la coalizione lasci loro per riparare in Siria, e di spostamenti già avvenuti verso Raqqa di miliziani e famiglie. Mosul era la città del fior fiore della leadership politica e militare del vecchio Baath sunnita e di Saddam. Magari qualcuno di quei marpioni, accantonati dagli americani e montati in sella con il califfato sta meditando di tornare a tagliarsi la barba.

Da - http://www.unita.tv/focus/reportage-mosul-iraq-sofri-isis/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Le peripezie di una fotografia curda
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 31, 2016, 07:04:22 pm
Le peripezie di una fotografia curda
Reportage   

Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia per la mia fotografia che tanto mi piaceva. Ma la realtà ha superato la fantasia

Un pomeriggio del 2015 mi ero innamorato di una fotografia. L’avevo trovata esposta al museo dei tessuti, nella Cittadella, il qalat, di Erbil.
La didascalia diceva: «21 marzo 1970. Foto scattata da un maestro di scuola nel giorno di Newroz /il Capodanno curdo/. Mamosta Jalal, Erbil».

Desiderai rintracciare la storia di quella fotografia. La didascalia era laconica e quasi misteriosa. Il luogo non sembra Erbil, sia pure la Erbil del 1970, ma piuttosto uno dei suggestivi villaggi curdi dalle case sovrapposte. Interrogai qualcuno, inutilmente. Provai con la rete. Mamosta significa maestro, Maestro Jalal, può significare un generico attributo rispettoso. Trovai un libro di memorie di Jalal Barzanji, Man in Blue Pyiamas, pubblicato in Canada nel 2001, racconta gli anni in cui l’autore, poeta e giornalista, era stato incarcerato e torturato dagli scherani di Saddam, dal 1986 al 1988. Gli altri prigionieri gli si rivolgono con l’appellativo Mamosta Jalal – mi sarebbe piaciuto che fosse l’autore della foto, ma non era possibile: è nato nel 1953, e nel 1970 aveva solo 17 anni. Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia mia alla fotografia. Se l’avessi fatto, come fra poco vedremo, mi sarei reso piuttosto ridicolo.

La fotografia è bellissima a prima vista. Guardata in un’epoca di selfie induce a una invincibile nostalgia. L’idea è che tutti i vivi vi siano compresi, donne e uomini, piccoli e grandi, vecchi e giovani. I bordi, soprattutto a sinistra, mostrano che molte altre persone sono rimaste fuori dall’obiettivo. Sembra un giudizio universale tenuto in un giorno di festa e senza dannati. Un popolo che si mette così in posa testimonia di una comunità unita e solidale formidabile: l’incarnazione dell’idea mitica che ci facciamo della nazione curda. Un popolo che si mette così in posa per lasciare un ricordo di sé nel giorno del nuovo anno è difficile da piegare per qualunque nemico. Non voglio vantarmi di avere scoperto il dettaglio più singolare, che mi è stato invece segnalato dal giovane cassiere del piccolo museo. Tutti i personaggi della fotografia indossano i costumi tradizionali curdi, ad eccezione di uno: il giovane all’estrema destra di chi guarda, vestito in giacca e pantaloni.

Un pomeriggio di ottobre del 2016 sono tornato al Museo del tessuto con la mia cara fotografa, Neige. Volevo avere una copia migliore della fotografia, che nella mia aveva il riflesso del vetro sotto cui è incorniciata. Ho trovato una sorpresa, la didascalia è cambiata e questa volta è molto più dettagliata. Dice: «Questa fotografia fu scattata il 21 marzo (Newroz) 1970 da un maestro di scuola, Mamosta Jalal, di Erbil. Essa mostra il villaggio di Roste, che si trova a nord est di Soran. È uno dei più remoti villaggi della regione di Balakyati, situata in fondo a una valle profonda, vicino al confine iraniano. È una precoce fotografia a colori e costituisce un’unica testimonianza del villaggio e del suo popolo, e racconta molte storie, non solo del villaggio ma dell’intero popolo curdo. Sebbene Roste esista ancora, non ha più questo aspetto. Durante la campagna di distruzione condotta da Saddam contro i curdi, Roste fu uno dei primi villaggi a venire spianato dai bulldozer nel 1977. Altri 120 villaggi nella regione di Balakyati e altri 4 mila nel Kurdistan subirono lo stesso destino. La loro gente venne dispersa allora dopo centinaia di anni in cui vi aveva dimorato. Noterete che tutte le persone nella foto indossano il costume curdo».

La nuova didascalia era ancora laconica sull’autore della foto, ma faceva fare un gran passo avanti alla mia curiosità e sembrava confermare la prima impressione, che la posa di quella gente così raccolta offrisse un ritratto in miniatura dell’unità dell’intero popolo curdo. Il vice-direttore del museo fu molto gentile, staccò la foto dal muro per posarla sul pavimento e permettere a Neige di rifotografarla senza il riflesso, e soprattutto mi disse che lui no, ma suo fratello, che avrei potuto incontrare la mattina dopo, aveva notizie sul fotografo.

Diventai allegro come quando si apre uno spiraglio su una cosa misteriosa e fa pensare che fra poco se ne verrà a capo: domani mattina, addirittura. Intanto scendemmo dalla Cittadella e andammo alla famosa Casa del Tè Machko, che è scavata proprio dentro le sue mura ed è il più illustre punto di ritrovo degli artisti, gli intellettuali, i politici scontenti, i turisti, le spie e gli sfaccendati di Erbil. Era ancora il primo pomeriggio e Machko non era così affollato, ma c’era il mio amico curdo-italiano-francese Ali Hadi, che è un pittore di fama. La conoscenza con Ali è una delle tante coincidenze di cui il Kurdistan è prodigo, perché lui era stato studente all’Accademia di Belle Arti di Firenze negli anni in cui io vi insegnavo, e ora lui insegna all’Accademia di Erbil.

Insomma ci siamo abbracciati, abbiamo chiesto il nostro tè, gli ho presentato Neige e gli ho subito raccontato che venivamo dalla visita al museo e che ero contento perché avevo trovato una traccia a proposito di una fotografia eccetera eccetera. Stette ad ascoltarmi cortesemente, infatti è un uomo molto cortese, ma a un certo punto si fece più attento e interessato, finché mi interruppe calorosamente: «Ma è suo padre!», e indicò un giovane seduto di fronte a noi con altri, tutti suoi allievi. «Il fotografo, Jalal, è suo padre!». Ho appena detto delle coincidenze curde: questa però! Stava scherzando? Macché.

Quel giovanotto dalla bella faccia si chiama Dara Jalal, è il figlio del «mamosta» Jalal, si è appena diplomato all’Accade – mia, fa il pittore e il fotografo – e insomma ho combinato sui due piedi un incontro con suo padre. Il quale frequenta tutti i giorni la piazza della Cittadella, ma in un’altra casa da tè riservata ai pensionati, sotto il minareto antico sovrastato dal gran nido della cicogna protettrice di Erbil. Avevo trovato il mio fotografo. Neige purtroppo partiva. Avrei preferito che fotografasse lei il fotografo ritrovato: pazienza. Dunque ci siamo incontrati, e sono stato ammesso alla casa da tè dei pensionati, a pieno titolo del resto.

Il fotografo ha 73 anni, uno meno di me, è alto e ha una bella faccia scavata e dei baffetti, si chiama Jalal Majeed Amin. È nato in un villaggio vicino a Erbil-Hawler e si è trasferito in città a dieci anni. È diventato maestro nel 1965 e «sono stato maestro per tutta la vita». Dopo un anno di insegnamento impiegò tutto quello che aveva messo da parte per comprare una Kodak Retina 1B. Fotografava in positivo, le diapositive doveva procurarsele da Bagdad. Fotografava senza altro fine che il proprio piacere. È stata la sua passione principale, l’altra gli scacchi, in cui è maestro. Fu mandato a insegnare prima a Pendro, sulle montagne di Shirwan-Mazin, per 5 anni, poi alla scuola elementare di Roste, e ci rimase tre anni, dal 1970 al 1973. Gli racconto perché la sua fotografia mi è piaciuta tanto. Anche i dettagli: il giovanotto, unico vestito all’occidentale… «Davvero?», dice incredulo. Saranno state 500 famiglie, dice. Gli chiedo come ha fatto a radunare tanta gente per la fotografia, come li ha persuasi… Qui c’è il colpo di scena: alla lettera. «Ma no, non erano affatto in posa. Vedi l’angolino bianco in basso a sinistra? Era un pezzo di palcoscenico. Si stava recitando, era il teatro, per la festa di Newroz, la gente era lì per guardare lo spettacolo». «Aspetta», dice, e tira fuori un’altra diapositiva, che riprende la scena dal punto di vista degli spettatori. Questa.

Infatti, aggiunge Jalal, ho rifatto ogni anno la fotografia nello stesso luogo. Questo basta a far crollare la mia immaginazione su quel popolo così unito e disciplinato e sul maestro fotografo che l’aveva persuaso a radunarsi per la fotografia collettiva. I tetti digradanti non erano che la galleria del villaggio mutato per un giorno all’anno in teatro all’aperto. Jalal mi mostra un’altra panoramica della stessa folla, ripresa da un punto di vista obliquo. Questa

È quasi altrettanto bella, ma non si lascia scambiare per una posa collettiva in memoria del popolo curdo unito. In compenso ha qualche mucca, le uniche disinteressate a guardare verso il palcoscenico. Insomma, gli dico, la mia ammirazione per l’assemblea popolare sui tetti era solo un equivoco. «Ma no, la vita del villaggio era davvero solidale. D’inverno si portava la legna per tutti. Tutti insieme costruivano le case. E si difendevano quando ce n’era bisogno». Ma la sua fotografia com’è finita al museo? «L’hanno comprata al bazar, dove avevano fatto dei poster, senza sapere chi fosse l’autore. Non c’è scritto niente». E come mai? «Nel 1996 avevo venduto il permesso di farne copie a un commerciante, Rahman, che ora è morto. Avevamo fame. Mi diede 3.000 dinari, più o meno 35 dollari. Lui la mandò a riprodurre in Turchia, e lì si rifiutarono di stampare anche una sola parola, perché era in curdo, così scomparve anche il mio nome e il poster diventò anonimo». Che storia: la tua fotografia se n’è andata per il mondo da una parte e tu dall’altra. «Anche la mia Kodak l’avevo venduta, nel 1990: per 5 kg di farina. E una serie di 25 diapo per altri 3.000 dinari. Nel 1977 mi ero sposato e avevamo cinque figli, 2 maschi e tre femmine». Nel 1978 Jalal smise di fotografare, e non ha più ricominciato.

Un autoscatto di Jalal, al centro, sul Helgourd, 3.607 m., nei monti Zagros,1972. Sotto, il maestro Jalal fotografato per me da suo figlio Dara. Le sue fotografie le ha proiettate qualche volta qui a Erbil al Circolo degli insegnanti. Solo nel 2007 ha avuto una mostra modesta a Suleimania, alla Zamwagallery. La fotografia di cui mi sono innamorato io è in copertina, sulla controcopertina c’è una folla formidabile di bambine ragazze e donne coloratissime: è un’adunanza del Partito Comunista iracheno, più di quarant’anni fa. Oggi non si vedrebbe più.

Le coincidenze hanno un’appendice. Mamosta Jalal mi regala il sobrio catalogo della mostra. C’è una pagina scritta, e Lokman, il mio amico curdo-italiano, me la traduce. È di Rostam Aghale, un artista di Suleimania: mi ha preceduto per filo e per segno. Aveva visto a casa sua nel Newroz del 1980 la fotografia su una rivista, «Autonomy», e ne era stato colpito. Non c’era il nome del fotografo. Nel settembre 2006 viene a Erbil e al museo ritrova la foto, senza nome. Ma qui è il direttore, il signor Lolan, a dirglielo: Jalal Majid Amin. «Nel mondo degli artisti, mai sentito nominare». In un secondo viaggio Aghale incontra Jalal. Come faceva, scrive, a fare foto così belle di paesaggi e villaggi con una Kodak senza zoom? È arrivata così la prima mostra di Jalal, «Il fotografo del villaggio di Roste».

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-peripezie-di-una-fotografia-curda/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Mosul, l’altra riva del fiume
Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 10:56:34 am
Mosul, l’altra riva del fiume

Mondo   
Il racconto di guerra di Adriano Sofri

Ieri gli scontri sono continuati nel sobborgo di Gobjali, più rarefatti, e la «Brigata d’Oro» irachena si è dedicata soprattutto alla ripulitura degli spazi conquistati.

I fiumi sono fatti per distinguere e unire le due metà delle città. Per dare una fisionomia diversa a ciascuna metà –trastevere, l’oltrarno, la rive gauche- e però congiungerle come una cerniera, come il bordo fra due pagine.

Mosul ha la sua riva sinistra e la sua riva destra, fortissimamente caratterizzate e fittamente cucite insieme dai ponti e da un viavai di imbarcazioni. La riva sinistra, che era stata già la splendida Ninive, fu poi la parte povera, una città di ripiego che guardava con soggezione alla Mosul della ricchezza e dei pascià.

Ora si combatte ancora sulla riva sinistra, ma presto la battaglia si sposterà sul fiume, ridiventato una spaccatura fra due città. Di là c’è quel milione e oltre di persone il cui destino è appeso ai fili di una violenza imprevedibile. Più che mai, con la distanza bruciata, ci si chiede che cosa proverebbe quella gente di fronte alla disinvolta lungimiranza con cui altrove ci si intrattiene sul dopo Mosul.

Lunedì il consigliere del segretario generale Onu per la Prevenzione del Genocidio, il senegalese Adama Dieng, ha pubblicato una dichiarazione su Mosul. Il suo allarme ha il merito di cominciare dalla condanna ribadita «dell’assoluto disprezzo per i diritti umani e il diritto internazionale da parte dell’Isis, appena confermato dai sequestri e dalle uccisioni di massa di civili e dal loro uso come scudi umani, dal ricorso a armi chimiche e da rappresaglie indiscriminate».

Il giorno prima l’Isis aveva tentato di deportare da Hammam al-Alil 25 mila persone da ammassare in una base militare già adibita a mattatoio umano. Formulato questo allarme, e raccomandata la documentazione dei crimini per cui un giorno i responsabili dell’Isis dovranno comparire davanti a un Tribunale Internazionale, Dieng ricorda al governo iracheno l’obbligo di perseguire immediatamente qualunque rappresaglia da parte delle sue forze regolari o delle forze loro associate –leggi le milizie sciite. Esprimendo la preoccupazione di violenze settarie sciite contro i sunniti Dieng aiuta a ricordare come l’esistenza stessa di forze armate sul fondamento di un’appartenenza religiosa sia inconcepibile, almeno quando la religione di quelle forze è al potere, come nel caso dell’Iraq –anzi, è doppiamente al potere, a Bagdad e a Teheran.

«Bagdad non ha un amico migliore di Ankara»
Ieri, le milizie sciite hanno dichiarato ulteriori avanzate nella direzione di Tal Afar, che avrebbe messo sotto il loro controllo le principali vie di comunicazione fra l’Isis di Mosul e quella di Raqqa. Ancora ieri la febbre fra turchi e iracheni sembra essersi repentinamente abbassata.

Dopo che il primo ministro Abadi aveva avvertito i turchi che avrebbero «pagato caro» la decisione di far guerra all’Iraq, il governo turco ha rimpiazzato la voce del ministro della difesa con quella del ministro degli esteri, che ha soavemente dichiarato che «Bagdad non ha alcun amico che le sia più amico di Ankara». E una così intima amicizia non sarà guastata dalle mene di «altri paesi» –cenno sobrio all’Iran. Ieri ancora la truppa sunnita arabo-turcmena addestrata dai turchi nel campo del distretto di Bashiqa, rinominata «I Guardiani di Niniveh», ha vantato la liberazione dall’Isis della zona di Abassiyah, fino a «meno di 3 km a sudovest di Mosul». (Non lontano cioè dall’area in cui operano le milizie sciite).

Il momento di Hawijia
A sera di ieri si è avuta notizia di raid aerei americani e alleati su Hawijia e Riaz, che fanno pensare che sia arrivato il momento tante volte rinviato della liberazione di Hawijia, l’irriducibile roccaforte dell’Isis a sud di Kirkuk. Là l’azione sul terreno spetterà ai peshmerga del PUK, che non hanno rivendicazioni su Hawijia ma ne subiscono gli attentati su Kirkuk. A Suleimaniah però si ritiene che l’azione militare inaugurata dai raid aerei non abbia di mira direttamente Hawijia, nemmeno questa volta, ma l’allargamento del suo territorio liberato così che la marcia irachena da sud a nord non debba trovarsi in una strettoia. Anche qui un grosso problema è posto dalla pretesa di Hashd al-Shaabi sciita di intervenire, respinta da curdi e americani. Io non scrivo dal fronte di Mosul, mi muovo altrove, come potete leggere qui oltre.

Leggo e guardo anch’io, col vantaggio della vicinanza, le testimonianze di chi vi si trova: i servizi televisivi di Lucia Goracci, fra quelli che riesco a vedere. Voglio citare un video pubblicato dalla curda (di Erbil) agenzia Rudaw, breve quasi come un batter d’occhi. Più esattamente, breve come il gesto di liberare la testa e il viso da un velo nero. È una giovane donna, dev’essere appena scappata, e fa quel gesto prima ancora di fermare la propria corsa. In tempo per tornare a essere se stessa.

Da - http://www.unita.tv/focus/mosul-laltra-riva-del-fiume/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Viaggiare prendendola larga: il mio viaggio a Ninive
Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 10:54:43 pm
Viaggiare prendendola larga: il mio viaggio a Ninive

Reportage   
Sofri   

Passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà.

Ieri gli scontri sono continuati nel sobborgo di Gobjali, più rarefatti, e la «Brigata d’Oro » irachena si è dedicata soprattutto alla ripulitura degli spazi conquistati.

L’ingresso delle truppe irachene è avvenuto nella parte orientale di Mosul, sulla «riva sinistra» del Tigri. Si leggono i nomi dei villaggi e dei sobborghi in cui infuria la battaglia: Bazwaiya, Tehrawa, Gogjali, alKarama, Jdeidet al-Mufti…In trasparenza, dietro questi nomi a noi nuovi, se ne legge uno carico di gloria e cenere: Ninive.

Le rovine di Ninive stanno a un passo dal sito della battaglia. È lei quella metà orientale di Mosul. Pochi nomi sono capaci dell’evocazione suscitata da Ninive, dalla sua dea Ishtar dell’amore e della guerra, dal palazzo impareggiabile di Sennacherib e dalla biblioteca di Assurbanipal e dalla condanna del Dio biblico. La Ninive splendore e terrore dei fasti di Assurnasirpal: «Scorticai tutti i capi della rivolta, e con la loro pelle rivestii la colonna; alcuni murai all’interno, altri infilzai su pali… Molti prigionieri arsi nel fuoco… Ad alcuni tagliai le mani e le dita, e ad altri il naso, gli orecchi e le dita, a molti cavai gli occhi. Feci una colonna coi viventi e un’altra con le teste, e legai le loro teste a pali tutt’attorno alla città. Bruciai nel fuoco i loro giovani e le loro ragazze…».

La spietatezza non è un’ultima notizia. Si potrebbe annotare che quelli cavavano occhi e innalzavano palazzi e templi e statue; questi cavano occhi e demoliscono i resti di templi e statue.

Da noi il nome di Mosul è associato alla diga, che ne dista, a monte, fra una trentina e una cinquantina di km. I progetti erano iniziati fin dalla metà del Novecento, impegnando una quantità di imprese internazionali. Che la fondazione fosse di un gesso solubile era noto dall’inizio, e che bisognasse riempirla di cemento e malta prima di costruirci sopra. Ma una volta avviati i lavori, nel 1981, l’impresa italo-tedesca che aveva ricevuto l’appalto fu sollecitata a sbrigarsi, e ripiegò su un espediente tecnico che andrebbe intitolato a Sisifo: si scavò una galleria attraverso la quale sarebbe stato iniettato in permanenza il materiale di riempimento, così da compensare la fondazione gessosa che si squagliava. Saddam Hussein volle intitolarsi la diga, e del resto si intitolava più o meno tutto l’Iraq.

La costruzione fu completata nel 1984 e nella primavera del 1985 l’acqua trattenuta del Tigri inondò il vasto invaso sommergendo una miriade di siti archeologici. Questa sì è una gran storia.

L’Iraq e l’Iran erano in guerra, per otto anni, 1981-1988, e più di un milione di morti. L’archeologia era un lusso superfluo se non molesto. Gli archeologi disperati riuscirono a strappare la concessione di scavare quanto potevano, fino allo scadere del tempo –alla rottura delle acque, per così dire.

Arrivarono missioni archeologiche da molti paesi, anche dall’Italia, naturalmente. Il territorio apparteneva, allora come oggi, al governatorato della curda Dohuk. Ho ripescato un resoconto finale patrocinato dalle autorità irachene: una lettura troppo tecnica per le mie competenze, ma a grattarci dentro affiorava l’angoscia per un mondo riperduto.

C’era una introduzione ufficiale, conteneva naturalmente un paragone coi «barbari iraniani, che non sanno che cosa sia cultura e civiltà» –riferito al regime khomeinista non è inappropriato- e una dedica a Saddam, «vessillo di cultura e di pace». Sperticata, come quelle di Assurnasirpal. Vediamo. C’è una missione polacca, si occupa dei siti paleolitici di Nemrik, Tell Rijim e Tell Raffaan.

«I risultati preliminari dell’ispezione compiuta nella microregione di Raffaan mostra che il primo insediamento umano nella valle del Tigri a nord di Mosul rappresenta il più antico stadio nello sviluppo della cultura umana». Che non è poco, ma subito dopo avverte che è solo perché hanno scavato qui: anche altrove, tutt’attorno, dev’essere così. I polacchi fanno la loro terza e ultima campagna di scavo nel 1985. Hanno per così dire l’acqua alla gola: «Il livello del Lago Saddam continua a salire».

Si concentrano sui resti del vasellame di Ninive 5 e sull’esplorazione degli strati di ceramica di Khabur (1900-1400 a.C.). Trovano sepolture, vasi, manufatti in bronzo, sculture. Crateri e vasetti dipinti, a motivi geometrici e animali stilizzati, calici, sigilli assiri in stile line are. Ci sono i giapponesi, lavorano ai tell (collinette) di Jigan, Fisna, Musharifa, Der Hall. «Almeno 150 siti archeologici saranno sommersi dall’acqua», scrivono. Il più vasto è Tell Jigan, al momento c’è un villaggio yazida –sarà sommerso anche lui. «Attualmente gli abitanti dei villaggi risiedono attorno al tell, impegnati nell’agricoltura o nella raccolta di ciottoli lungo il Tigri per società di costruzione». I ritrovamenti coinvolgono 6 diversi livelli, dal periodo Hassuna (5600-5000 a.C.) al primo tempo islamico.

Gli inglesi del British Museum scavano a loro volta a Khirbet Khatuniyeh, 30 km a nordovest di Mosul. Continuano freneticamente dal 13 febbraio al 3 aprile, giorno in cui l’acqua li sommerge. Madame du Barry sul patibolo implorò: «Un istante ancora, signor boia».
È una leggenda, ma sarebbe verosimile che l’avessero detto davvero quei bravi archeologi giapponesi e i loro colleghi mentre l’acqua montava. E però proprio l’ultimo giorno estraggono il pezzo più prezioso: un rhyton per libagione in terracotta -una coppa per bere- che termina in una testa di ariete dipinta a strisce rosse. Simile al rhyton trovato in una tomba di Nimrud, che però è privo della decorazione a pittura.

Spostandosi dal basso in alto man mano che l’acqua sale gli inglesi riescono ancora a condurre una campagna di scavo fin nel 1986, nell’area di Tell Abu Dhahir. Attraversano otto strati: parto-ellenistico, tardo assiro, Khabur, Taya o accadico, Ninive 5 dipinto, Uruk, Ubaid, e Hassuna, l’ultimo, che poggia sul suolo vergine. La missione francese del 1983-84 opera a Khirbet Derak e Kutan, trova soprattutto documenti importanti delle culture Halaf e Ninive 5, sigilli impressi su bitume ecc. Gli Halafiti (6°- 5° millennio a.C.?) allevavano anche maiali, dunque erano sedentari –i suini non sono capaci di transumanza.

C’è nel 1984 anche una spedizione italo-tedesca: Frederick Mario Sales da Venezia, Sebastiano Tusa da Roma, Gernot Wilhelm da Amburgo e Carlo Zaccagnini da Bologna. Lavorano a Tell Jikan, Tell Karrana, Tell Khirbet Salih. Una campagna tedesca si svolge ancora nel 1985 a Hirbet Aqar Babira. Sempre nel 1985, da marzo a maggio, avviene una spedizione sovietica al Tell Sheikh Homsy, a pochi km dalla cittadina petrolifera yazida di Zummar.

Anche Zummar verrà sommersa, Saddam ne fa costruire un doppione più in là, e poi sommerge anche quello con la sua campagna di arabizzazione forzata. Quando il livello dell’acqua è particolarmente basso, ne riemergono cupole e cime di minareti della vecchia Zummar. Come da noi in Lucchesia, quando il lago di Vagli si svuota e riaffiorano le case e i campanili di Careggine, con quell’aria di spettri pieni di rimp rove ro. L’ultima volta che ho visitato la diga era maggio. Era deserta, c’era uno che ci pescava dentro con una lenza arrangiata, è piena di grasse carpe.

Il peshmerga che mi accompagnava si lavò le mani i piedi e la faccia nell’acqua e fece le sue preghiere. Il livello dell’invaso era decisamente basso. Era vietato fare fotografie. Era vietato ai lavoratori parlare con gli estranei. Stupidaggini. È ancora tutto vietato. I giornalisti ci vanno, fanno fotografie e video, riprendono i bersaglieri incolpevoli e tornano a casa col loro pescato. I bersaglieri si annoiano, essenzialmente. Stanno in un recinto dentro un altro recinto. La mensa è ottima, pare.

A maggio i tecnici della Trevi erano appena venuti. Non li vidi, ma ne incontrai un gruppo all’aeroporto di Erbil. Una decina, piuttosto giovani ed energici, qualcuno scrive sul portatile, qualcuno guarda fotografie, altri aspettano e basta. Gli guardo le scarpe, guardo le mie, e riconosco la stessa polvere spessa. Venite dalla diga, dico. Infatti, sono consulenti di rientro dall’ispezione. Uno scrive un diario, lo faccio sempre quando vado in giro per il mondo, a caldo, dice, una volta a casa non è più la stessa cosa.
I vostri erano preoccupati di sapere che venivate alla diga di Mosul? Non gliel’abbiamo detto, rispondono. Io ho detto che andavo a Doha, dice uno, e un altro: io a Istanbul. Chiedo come hanno trovato gli impianti. Si vede che sono senza manutenzione da trent’anni, dicono, ma all’origine sono ottimi, impianti e macchinari. Poi uno si alza e va a sussurrare agli altri che è meglio stare zitti, ha letto in rete una mia cronaca dalla diga. Mi viene da sorridere. Non vi preoccupate, dico, me ne fotto degli scoop.

Me ne fotto tuttora degli scoop. Ora Mosul è vicina, e anche le canaglie Daesh e la miscela di liberatori, e soprattutto un milione e più di persone minacciate. E ancora la vicinanza di quella antica Ninive a farsi sentire. Anche lei ricavò la propria grandezza dalla ferocia, ma il tempo che è scorso mette una specie di anestesia morale sui suoi strati archeologici. I morti ammazzati furono anche allora troppi per uscire dalla contabilità e meritarsi una commemorazione: restano Ishtar dai seni rotondi e dal ventre materno e dalla vendetta crudele e il mirabile leone scolpito trafitto e morente ma messo in salvo al British Museum. Bisogna fare dei giri larghi, nel Kurdistan di oggi.

Il Kurdistan stesso gira attorno a Ninive e a Mosul come per accerchiarla, dopo esserne stato accerchiato: il monte Sinjar, Zakho, Duhok, Erbil, Makhmour, Kirkuk…Sono passato da Akre, dove la città vecchia è tutta arrampicata, ho visitato il caravanserraglio, che dentro è in rovina ma ha ancora un maestoso portale.

È venuto a interpellarmi bruscamente un anziano male in arnese ma aitante, mi ha chiesto se fossi ungherese. No, gli ho detto, mi dispiace. Ma parli ungherese, ha insistito, un po’minaccioso. Nemmeno, ho detto, mi dispiace. Mi hanno tradotto la sua storia: era in galera sotto Saddam, è stato in cella con un ungherese e ha imparato i rudimenti della lingua e non trova mai nessuno con cui praticarli. Mi dispiace, gli ho detto: però sono stato in galera. Sono arrivato fino ad Amedi –Amadyah , vicina a tutti i confini, favolosa in cima a un monte capitozzato, assira e curda ed ebraica e cristiana: la città dei re magi.

Turismo non ce n’è, naturalmente, tutto va in pezzi. Sceso da Amedi ho preso un tè nel piccolo centro lungo la strada, in una pizzeria gestita dal signor Taha Amide, formidabile faccia di caratterista che mi rivolge la parola in olandese, poi in tedesco, poi in italiano. Gli chiedo quante lingue conosca, dunque, dice, vediamo: olandese, tedesco, italiano poco, arabo, curdo naturalmente, tutte le lingue curde, e poi spagnolo e turco, e inglese, ma poco.

Di notte passiamo da una strada interna minore per tornare a Erbil, avevamo voglia di vedere Barzan, il villaggio natale di Mustafa Barzani, che vi è sepolto, e il Memoriale a lui dedicato. Ma abbiamo fatto tardi ed è una notte di buio pesto. La strada è sorprendentemente dissestata per un luogo così storico, che è ancora la dimora dei Barzani. Forse vogliono tenerla al riparo dalla folla. Il presidente Massud, figlio di Mustafa, ha popolato la zona di animali selvatici vietando la caccia in qualunque periodo dell’anno. In questa zona avrebbe dovuto essere costruita una diga sul Grande Zab, che raddoppiasse quella di Mosul e ne dimezzasse la portata, per ridurne il pericolo. Ma i Barzani, si dice, non hanno intenzione di sacrificare il loro terreno ancestrale.

Ninive passò, passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà e l’im presa di iniezioni di cemento e le coalizioni e gli imperi di Erdogan e degli ayatollah sciiti e di Riyadh wahhabita. Al museo di Erbil incontro quattro giovani italiani, di Milano, Roma, Genova, che in un cortiletto sgangherato spolverano e catalogano i sassi che hanno scavato a Makhmour, sotto un cielo nero di petrolio incendiato. Toccherà a loro.

Da - http://www.unita.tv/focus/viaggiare-prendendola-larga-attorno-a-ninive/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Ecco i nemici del Califfo
Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 11:00:56 pm
Ecco i nemici del Califfo

Reportage   
Mosul   

Con l’Unicef nel campo profughi a Dibaga.
Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, ora accoglie oltre 5mila famiglie

Ieri siamo andati con l’Unicef a Dibaga. Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, poi è diventato una città di qualche decina di migliaia di abitanti –ieri ne aveva 32.040, per 5142 famiglie. Di questi, 16.200 hanno meno di 18 anni. La maggioranza ha molto meno di 18 anni. Sapete com’è andare per un campo di profughi, e in questi giorni per di più si pensa ai numeri degli sfollati in Italia.

Una guerra è diversa dal terremoto. Il terremoto non ha nemici, benché possa essere crudelissimo. Una guerra li ha e si gonfia di odio. Dapprincipio, in un campo, si è confusi e spaesati perché non ci sono persone, ma mucchi di persone, bambini che fanno ressa, che spingono per arrivare a toccarti. Dura poco, perché prendono l’iniziativa e si fanno riconoscere una per una, uno per uno, con una specie di discrezione invadente: ti si aggrappano, e poi si staccano per passare la mano ai prossimi. Si prende e si dà una confidenza piena nel giro di qualche minuto. Poche ore prima che venissimo qua il Califfo, quell’al-Baghdadi, aveva fatto diffondere –o chi per lui – un messaggio roboante. Resistere e morire, attaccare a morte sauditi e turchi, colpire dovunque e preferire la Libia, come meta personale.

Il Califfo probabilmente pensa di voler bene ai bambini. Fa loro l’onore di renderli guerrieri e tagliagole fin da piccoli, di toglierli da casa e da scuola e forgiarli come uomini (e donne, molto meno, naturalmente) nuovi. Ha stampato dei manuali scolastici adatti ai suoi programmi: una sola materia. Gli altri, i bambini destinati a essere bambini, sono i suoi nemici.

Sono questi che ci sciamano addosso per darci la mano, per dire tenkiù, per guardare la fotografia –per farla, anche: oggi pubblichiamo le nostre ma solo perché non ci eravamo preparati a raccogliere le loro, che sarebbero un impareggiabile reportage sul campo. Il campo –i campi, perché si sono moltiplicati- ha fame di spazio per le tende, e l’Unicef e le altre buone volontà devono sgomitare per guadagnare uno spazio alle scuole. C’è il sole di nuovo caldo oggi, una fila di bambini con un tesserino d’identità in mano, passano davanti a un tavolino dove un grosso signore burbero prende i loro dati e dà un foglietto, col quale, lì accanto, ritirano lo “school bag”, lo zainetto celestenazioniunite che intanto gli addetti stanno riempiendo di: quaderni, matite e, meraviglia, un temperamatite.

Quando l’orario della distribuzione finisce, e anche i bags, i bambini restati senza sono tanti, e tristi come se avessero perduto un patrimonio. Ci chiedono di aiutarli a ricevere quello che gli spetta, spieghiamo di no, vaglielo a spiegare. Chiedo di tradurre che domani, glieli daranno domani. Domani no, corregge il traduttore, è venerdì, è festa. Ve li daranno dopodomani. Facciamo il giro delle classi. Che cosa vorrebbero diventare, domande così. Dentista, uno. E imparare l’inglese, dicono in coro le bambine. Se sai l’inglese parli con tutti. Inshallah –come si dice in inglese? «Godwilling», ma il concetto è un altro.

C’è una zona di «transito» riservata agli uomini che la polizia controlla prima di accettarli, può durare un’ora, o settimane. Gli uomini sono molto meno numerosi delle donne: alcuni perché sono andati con l’Isis. Qui arrivano meno dalla zona di Mosul, più da quelle di Hawijia, Qayyara. Stanno seduti, i mariti da un lato della rete le mogli dall’altro, a parlarsi, o a starsene zitti. Specialmente i nuovi venuti hanno paura di essere riconosciuti, delle rappresaglie sui parenti. Hanno racconti terribili, naturalmente. Da Mosul sono usciti ancora in meno di 40 mila, e soprattutto dal circondario. Però a Mosul il disastro deve ancora arrivare. I nuovi venuti aspettano l’inverno che si annuncia. Sara, 7 anni, che viene da Jara La, Makhmour, dalla fotografa non si stacca più invece. Non le manca la sua casa, le dice. E come mai? Perché mi sono liberata dal gatto di mio fratello, non lo potevo soffrire. Ha 4 fratelli e 4 sorelle, hanno pagato uno spallone 100 euro l’uno, in 11, per scappare.

In tv le piacciono i film di paura e i fantasmi, questi perché volano. Vuole fare il dottore, perché il camice è bello e può ascoltare il cuore degli altri con lo stetoscopio. Maria, che è un’italiana dell’Unicef, ha trovato dei bambini che saltano alla corda con dei fili elettrici, tranne uno bravissimo che invece ha una vera corda, con le maniglie e tutto. E’ la sola cosa che si è portato via scappando da casa. Una sorella di Sara si chiama Athra, ha 19 anni, era in casa di uno zio. Aprì la porta e si trovò davanti i ceffi dei Daesh. Ebbe una tale paura che per un mese e mezzo non uscì più dalla casa. Quando è venuta via si è coperta di nero dalla testa ai piedi, anche le mani, ma a un posto di blocco dei Daesh hanno fatto una scenata a suo padre perché lei aveva gli occhi scoperti


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Le tre guerre di Erdogan
Medio Oriente   
Erdogan, un avventurista, che gioca d’azzardo su tre fronti

Adriano Sofri   · 5 novembre 2016
Si era detto: quante guerre si dirameranno dal tronco della guerra all’Isis e alla sua roccaforte principale, Mosul. Si era calcolato: 10, forse 12. Forse bisogna dare un colpo di freno e uno di acceleratore.

Di freno: perché si è presentata, e ancora si continua, una prima tappa della battaglia per Mosul come se Mosul fosse già presa, e invece si è presa e solo in parte solo la sponda orientale di Mosul, e vi si combatterà ancora a lungo, e ieri la resistenza è stata più forte che mai, e al di là del fiume aspettano le migliaia di miliziani dell’Isis, suicidi e soprattutto omicidi, e il milione e oltre di persone chiuse come in un recinto di mattatoio.

E un colpo di acceleratore, perché le tensioni pronte a esplodere dopo Mosul hanno fretta di divampare mentre ancora bisogna combattere e vincere quella guerra dichiarata ipocritamente comune. In questo rincaro c’è un giocatore che vuole surclassare gli altri con le sue puntate d’azzardo: Recep Tayyp Erdogan.

Fate un conto. Erdogan è uscito trionfante da un colpo militare (serio, non di facciata, e non privo di ragioni) e ha liquidato, sotto il nome di cospirazione gulenista, una vasta parte della società civile turca: scuole, tribunali, polizia, esercito, giornali e tv e radio… Ai curdi, che sono per lui prima che un problema politico una intima ossessione, aveva già mosso guerra per terra e per cielo, trovando nella loro organizzazione militare, il PKK, il Partito dei Lavoratori Curdo, un nemico altrettanto risoluto.

Ieri, con l’arresto dei due copresidenti dello HDP, il Partito Democratico dei Popoli curdo, e di una decina di parlamentari, dopo che il parlamento aveva votato a maggio una svergognata esclusione dello HDP dall’immunità, il regime turco ha fatto terra bruciata della distinzione fra una via democratica curda e una della lotta armata, e ha compiuto un passo decisivo nella trasformazione del confronto militare fra il proprio esercito e quello partigiano del PKK in una vera guerra civile. E i curdi in Turchia sono fra i 20 e i 25 milioni, e hanno un loro antico e fiero territorio.

Ieri un membro influente dello storico partito kemalista, CHP, il Partito Popolare Repubblicano, il secondo partito turco (lo HDP è il terzo) che era stato prodigo di riconoscimenti a Erdogan all’indomani del colpo militare, ha dichiarato che la repressione dei leader e dei parlamentari dello HDP equivaleva a un secondo bombardamento del parlamento.

Sempre ieri, il PKK ha detto che il tempo delle parole è finito: era finito già per il PKK, e nella sua determinazione combattente c’era stata anche la volontà di recuperare la propria egemonia rispetto alla via parlamentare del partito di Demirtas, quello che confidava nelle “p a ro l e”. Del resto che ieri sia finita la democrazia in Turchia, come hanno decretato in molti, è vero, e la sola obiezione che può avanzarsi riguarda la convinzione che fosse già finita l’altroieri.

Noto qui la nettezza del giudizio del presidente del consiglio italiano, che sulla Turchia di Erdogan non aveva avuto indulgenze e ipocrisie, ed è una buona cosa. Questa interna è la prima e per il momento principale delle guerre guerreggiate di Erdogan, che ne ha almeno altre due. La seconda si svolge oltre il confine siriano, dove le forze armate turche intervengono per terra e per cielo contro l’Isis –cui avevano elargito a lungo un sostegno attivo o passivo- e soprattutto contro i curdi siriani di Rojava, il Kurdistan d’occidente, che resistendo all’Isis e tenendo a distanza le truppe di Assad hanno guadagnato un proprio territorio minacciosamente allungato lungo la frontiera con la Turchia.

Questo secondo fronte delle guerre di Erdogan è minato da ogni lato: la Turchia era riuscita a iscrivere il PKK nella lista nera del terrorismo riconosciuta da Unione Europea e Stati Uniti, ma non ha ottenuto lo stesso risultato col PYD curdosiriano, il Partito dell’Unione Democratica, che è però tutt’uno col PKK, e ha costituito finora il principale alleato sul terreno degli americani e alleati, e continuerà a costituirlo, salvo uno scandaloso voltafaccia, fino alla presa di Raqqa, capitale siriana dell’Isis.

Erdogan non è mai stato in così malandati rapporti con gli Stati Uniti e la Nato, né con la Germania, nonostante la compravendita di fuggiaschi siriani, e finalmente il rinfocolato amore con la Russia non è così caloroso da risarcirlo: Putin resta il capo di u n’internazionale sciita.

C’è una terza guerra, in Iraq, e ora ha il nome di battaglia di Mosul. Anche qui Erdogan ha giocato da avventurista. Aveva piazzato suoi militari, uomini e armi, vicino a Bashiqa, tenuta dall’Isis ma già terra di yazidi e cristiani. E gli yazidi sono, dopo il massacro e la fuga sul monte Sinjar, devoti del PKK e dei curdi siriani che li difesero valorosamente nella rotta iniziale dei peshmerga di Barzani. Militari e armi turche in territorio iracheno erano fino a poco fa un episodio minore, minimizzato dagli stessi turchi come un addestramento di truppe locali su invito del governo di Erbil, né confermato né smentito.

Improvvisamente, iniziata l’offensiva per Mosul, Erdogan ha alzato la posta del suo intervento iracheno oltre l’immaginazione: Mosul è turca, ha ammonito, ed è turca Kirkuk e tutto il vilayet ottomano di Mosul e Ninive. Turco dunque tutto il Kurdistan iracheno, quello che si è già conquistato dal 2003 un’indipendenza di fatto e conta i giorni per prenderselo di diritto, e turco tutto quello smisurato petrolio e gas. Proclami reciprocamente bellicosi si sono scambiati fra governo turco e governo iracheno, alternati da propositi più concilianti, ma le mine sono molte e pronte a scoppiare. Prima fra tutte l’avanzata delle milizie iracheno-sciite verso, almeno così pretendono (“siamo a 15 km.”), il centro strategico di Tell Afar, oggi dell’Isis e già turcmeno, che la Turchia ha fissato come linea rossa al proprio intervento militare, benché sia Iraq.

E del resto le milizie sciite vogliono dire Iran, e l’eventuale guerra per Tell Afar sarebbe un’enne sima guerra interposta, qui fra Turchia e Iran. Cerca guai, Erdogan. Si dirà che è così sicuro di sé, così al riparo grazie al consenso che si è procurato nell’esaltato sentimento nazionale e nell’epurazione di massa dei dissenzienti o anche solo degli infidi, da poter giocare la sua doppia e tripla partita al rialzo. Vedremo.

Ma è una pazzia cronicizzare una guerra civile in casa contro un nemico strenuo come il popolo curdo, dopo che suoi esponenti lucidi e brillanti come il Demirtas ieri arrestato avevano fatto intravedere una possibilità di conciliazione e convivenza civile e laica. L’aveva suggerita anche il vecchio Abdullah “Apo” Ocalan che nel suo ergastolo isolato ha maturato una conversione politica e umana sorprendente, benché esposta ancora in un impianto ortodosso, verso femminismo, ecologia, rifiuto dell’aspirazione statale e perfino non violenza. E Ocalan è più che mai un mito vivente per i curdi militanti in Turchia e in Siria (e in Iran e in buona parte in Iraq).

In uno scontro armato con truppe irachene, irregolari o no, attorno alla battaglia per Mosul i turchi comprometterebbero del tutto i propri rapporti con gli americani senza vedersene compensati dai russi. Intanto, l’aggressione indiscriminata all’intera leadership curda di Turchia ha già messo l’alleato stretto di Erdogan in Kurdistan, il presidente Barzani, in un imbarazzo micidiale. Il PKK è la bestia nera del PDK di Barzani, che mal ne sopporta l’esilio armato dentro i propri confini, sui monti Qandil, alla frontiera con l’Iran, e ancora peggio il radicamento all’a l t ro capo del suo Kurdistan, sul monte Sinjar. Il partito rivale del PDK di Barzani, il PUK di Suleimania e Kirkuk, ha buoni rapporti col PKK, e la sua base lo ammira.

Il programma turco di distruggerne le basi nel KRG col consenso anche solo tacito di Barzani, all’indomani della battaglia di Mosul, è reso oggi più irreale e molto più temerario –meno male, si potrebbe d i re. E torniamo a Mosul. Tutto vale a distoglierne l’attenzione. A Mosul le vite di più di un milione di persone sono minacciate. Quanto importano, e a chi? Ho accennato alle tre guerre che Erdogan ha mosso, ubriaco del proprio potere. Ce n’è una quarta che si è tirato addosso, enunciata nel discorso del farabutto che volle farsi Califfo, e incita a far scorrere fiumi di sangue in Turchia (e in Arabia Saudita). A mordere la mano che ieri gli fu tesa

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-tre-guerre-di-erdogan/


Titolo: ADRIANO SOFRI - L’Isis e cosa resta dell’Europa
Inserito da: Arlecchino - Novembre 14, 2016, 04:56:48 pm
Adriano Sofri   

· 13 novembre 2016
L’Isis e cosa resta dell’Europa

L’Europa deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi: l’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era)

Ieri, nell’anniversario degli attentati di novembre a Parigi, il primo ministro francese Manuel Valls scriveva che “in materia di Difesa, non possono più esserci passeggeri clandestini. Siamo tutti sulla stessa barca! La Francia assume oggi una grossa parte dello sforzo, per colpire Daesh nelle sue roccaforti, in Iraq e in Siria, e combattere i gruppi jihadisti in Africa. Non può essere l’unica”. È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande).

È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande) quello della Francia «lasciata sola» a battersi per conto dell’Europa nel Sahel e nel Vicino Oriente, e a «salvare l’onore dell’Europa», come disse Jean-Claude Juncker facendogli eco. Valls vi aggiunge ora la considerazione che «gli Stati Uniti sono sempre meno coinvolti nelle questioni mondiali». Questa lubrificata frase vuol dire che con Trump nessuno, tanto meno Trump, ha la minima idea su che cosa faranno gli Stati Uniti nel mondo. Dunque la cosa più ragionevole e più urgente è di immaginare che dia davvero seguito ai proclami sul ridimensionamento della Nato e procurarsi gli strumenti per debellare l’Isis, che dopotutto è un problema europeo infinitamente più di quanto sia americano. Europeo come il Bataclan, e come i fuggiaschi che premono ai nostri confini. L’elezione di Trump è venuta nel pieno di una controffensiva per la liberazione di Mosul dall’Isis attesa da oltre due anni, e raddoppiata dall’operazione per isolare Raqqa. Sono le due capitali dell’Isis in Iraq e in Siria. Si era pensato che l’offensiva fosse stata lanciata per decorare la fine del mandato di Obama, o per anticipare la linea più risoluta che Hillary prometteva di tenere. Ora l’affare è passato a Trump, tanto più che è piuttosto escluso che Mosul sia liberata da qui al cambio alla Casa Bianca. Un giornalismo mediamente cialtrone aveva dato Mosul pressoché per conquistata una dozzina di giorni fa, quando la forza speciale «antiterrorismo» irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis.

Da allora l’avanzata non ha fatto sostanziali passi avanti e a volte ne ha fatti indietro, colpita dalle autobombe e gli attaccanti suicidi dell’Isis sbucati fuori dalle gallerie sotterranee o nascosti nelle case.

La battaglia di Mosul durerà a lungo e a ogni giorno cresce la minaccia spaventosa che incombe su una popolazione che ancora supera il milione. Tutto ciò era previsto.
Gli attacchi aerei sono largamente frustrati quando i bersagli si nascondono dentro una folla di civili, e in una folla di civili che vi corre incontro sventolando stracci bianchi è difficile distinguere i fuggiaschi dagli attentatori suicidi, specialmente se sono bambini violentati a questo. Si sapeva anche che le truppe in campo contro l’Isis non sono le meglio addestrate alla specie di estrema guerriglia urbana che Mosul impone. L’Iraq di Saddam aveva un reparto speciale agguerrito per la repressione urbana, dissolto come l’insieme dell’esercito, e l’antiterrorismo addestrato dagli americani manca di una pratica sul campo. Ramadi fu liberata radendola pressoché al suolo. Gli stessi peshmerga, che non operano a Mosul, erano campioni di guerra partigiana sulle montagne ma non hanno esperienza di guerriglia di città. Su questa situazione –dove l’Isis moltiplica la ferocia esemplare del terrore, come nei corpi impiccati ai semafori di cui avete sentito incombe l’incognita della vittoria di Trump.

Delle cose che aveva annunciato in campagna elettorale son piene le fosse, davvero. L’offensiva di Mosul era un disastro, lui avrebbe fatto fuori l’Isis in 30 giorni, bisognava smettere di proteggere degli infidi nemici di Assad e lasciar fare a lui e a Putin… E far pagare il conto agli alleati, e indurli, chi non ce l’ha, a dotarsi della bomba atomica, per esempio l’Arabia Saudita. Lungi dall’essere una battuta, è la prospettiva più verosimile per la Corea del Sud e per lo stesso Giappone, una volta che non si senta più difeso dagli Stati Uniti. Comunque vada, l’Europa, in corsa qua e là per emulare un risultato elettorale come quello americano dopo averlo anticipato, quel che resta dell’Europa, diciamo, deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi. L’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era).

Nella ritirata eventualmente suonata da Trump sono compresi i colpi di testa internazionali cui ricorrere per rimediare ai disastri della ritirata. All’interno, almeno per due anni Trump non ha un’opposizione che ne limi il potere. All’estero, non ce l’ha per definizione. La gente del Dipartimento di Stato, del Pentagono, dell’Intelligence, lo calmerà, si dice, faranno finta di obbedire e invece no, o solo un poco… Magnifica prospettiva. Intanto Trump può forse investire Vladimir Putin, il protettore di Milosevic e di Bashar el Assad, della missione di gendarme del mondo. Non è una sua personale pazzia: da noi in tanti non vedevano l’ora, a destra e a sinistra.

Da - http://www.unita.tv/focus/lisis-e-cosa-resta-delleuropa


Titolo: ADRIANO SOFRI - Benedetto Croce, Trump e noi
Inserito da: Arlecchino - Novembre 21, 2016, 11:33:12 am
Opinioni

Adriano Sofri   
· 20 novembre 2016

Benedetto Croce, Trump e noi

Usa2016   

L’altro giorno a Palazzo Strozzi, all’Istituto di Studi sul Rinascimento a Firenze, veniva presentato il bel volume delle opere di Benedetto Croce dedicato a “Etica e politica”, curato da Alfonso Musci (Bibliopolis Edizioni)

Era inevitabile che negli interventi si evocasse la rappresentazione che Croce diede del fascismo come una «malattia morale», una «parentesi» nella continuità della storia civile d’Italia. Quella interpretazione, come si sa, sollevò molte e sentite obiezioni. Si rimproverò a Croce di aver voluto, minimizzando il legame fra il fascismo e la parzialità dello Stato liberale che l’aveva preceduto, minimizzare sulla propria personale indulgenza verso il primo fascismo. All’opposto della tesi sul fascismo come una parentesi era stata l’idea di Piero Gobetti: per lui il fascismo (delle origini, dal momento che scriveva nel 1923 e sarebbe morto venticinquenne nel 1926) era stato una rivelazione della storia d’Italia, l’autobiografia di una nazione che non aveva conosciuto una vera rivoluzione, nella Riforma cristiana né nel Risorgimento.

Croce aveva impiegato la metafora della parentesi nel momento in cui il regime fascista cominciava a disfarsi. Più tardi, in un clima politico meno militante, parecchi studiosi hanno sottolineato come Croce avesse fatto ricorso a quelle immagini (il morbo morale, la parentesi) negli interventi giornalistici e politici più che nei più meditati scritti storici, col fine di riabilitare il ruolo dell’Italia nel mondo del dopoguerra e di tutelarla da una umiliazione esorbitante da parte dei vincitori, e intanto di avvertire come il fascismo fosse stato un fenomeno internazionale. Croce aveva infatti sostenuto la sua tesi per la prima volta sul New York Times, il 14 ottobre 1943: “Il fascismo come pericolo mondiale”.

Là scriveva che i miti in voga al trapasso fra Ottocento e Novecento, superomismo e nostalgia assolutista e rivoluzionarismo marxistico, non avevano avuto la forza «di turbare il senno e l’equilibrio politico italiano /…/ e nessuno di essi sarebbe prevalso se non fosse intervenuta la guerra del 1914, che fornì il materiale umano, o, come si dice, la “massa di manovra” al fascismo, e ne preparò le condizioni politiche propizie». Dunque era stata la grande guerra a far deragliare il senno italiano, e a incubare nel fascismo «non un morbus italicus, ma un morbo contemporaneo che l’Italia per prima ha sofferto e sul quale può istruire gli altri popoli con le sue dolorose esperienze».
È curioso che in questo primo scritto la metafora della parentesi venisse applicata da Croce non al fascismo ma alla guerra: «Certo la parte eletta dei combattenti non si comporto a questo modo, e, chiusa la lunga parentesi della guerra, ripigliò con fervore gli studi interrotti, le opere cominciate e gli uffici ai quali aveva atteso da giovane, e similmente i contadini che tornarono ai loro campi…».

Intervenendo nel luglio 1947 all’Assemblea Costituente per rifiutare la firma a un trattato di pace ritenuto inutilmente punitivo, Croce ribadiva che «cosa affatto estranea alla sua /dell’Italia/ tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta, ma da competizioni di altre potenze, la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui».

L’esorcismo della storia messa fra parentesi

Nel dopoguerra la controversia si inasprì piuttosto che attenuarsi, perché la tesi della parentesi ora non riguardava più solo né tanto la continuità fra l’Italia liberale prefascista e il fascismo, ma, all’altro capo, la continuità fra il regime fascista e l’Italia repubblicana. Si capisce: una parentesi può indicare qualcosa di grave, magari gravissimo, e tuttavia inessenziale, qualcosa che si apre e che si chiude. (A scuola avevamo sempre un compagno che non si ricordava mai di chiudere le parentesi e diventava la dannazione dell’insegnante). Parentesi chiusa, si dice: e così si intendeva che fosse del fascismo. Non poteva contentarsene l’antifascismo più rigoroso e consapevole delle radici profonde e illese che l’illibertà fasciste aveva nella società e soprattutto nell’apparato statale italiano. Però in quella formula della parentesi c’era e c’è un’accezione più generica e condivisa, un desiderio, un auspicio intimo e consolatorio, che la parte ripudiata della storia, pur tradotta in un lungo dominio –un ventennio, nel caso del fascismo- fosse e sia estranea al vero corso della storia, al suo senso, dunque destinata a esserne finalmente superata e accantonata.

“Non praevalebunt”, era l’esortazione di fondo di Croce, ha ricordato nella discussione fiorentina il professore di politica, oggi parlamentare democratico, Carlo Galli. Non praevalebunt, aggiungo, è un altro modo, incoraggiante appunto, di ammettere che intanto hanno prevalso, stanno prevalendo: gli altri, gli avversari, i nemici, quelli del morbo morale o dell’autobiografia di una nazione incompiuta.

Lo stesso Croce, abbiamo visto sopra, aveva menzionato con naturalezza “la parentesi della guerra”, che a sua volta avrebbe imposto di stabilire se fosse stata una parentesi o una rivelazione della storia d’E u ro p a e del mondo. Croce ne era così persuaso, quanto all’Italia, che aveva fermato al 1915 la sua Storia d’Italia dal 1871 al 191 5 , concedendole un anno supplementare rispetto al 1914 della “cesura drammatica della prima guerra mond i a l e”, di cui recita il risvolto della ristampa Adelphi.

La parentesi berlusconiana e quella trumpiana

Ora noi siamo abituati a mettere fra parentesi, a condannare alla reclusione fra due parentesi, ciò che temiamo, detestiamo e sentiamo come pressoché inspiegabile e insensato tanto delle nostre vite personali –le malattie soprattutto, appunto- quanto delle nostre vicende collettive. Noi, se non siamo stati berlusconiani, al contrario, diciamo: “la parentesi berlusconiana”. Lo dicevamo quando era ancora aperta e, come quella dello scolaro renitente, nessuno avrebbe saputo dire se e quando si sarebbe richiusa. La parentesi berlusconiana è durata anche lei molti anni –con intermittenze, le parentesi dei governi Prodi e poco più, ma in questo caso parentesi voleva dire proprio la durata breve e pressoché incidentale, e così ci prepariamo a parlare della parentesi Renzi.

La parentesi berlusconiana è stata vissuta per lo più dai suoi avversari non come un fenomeno di alternanza politica e governativa, ma come l’irruzione di un corpo estraneo nella normalità politica, come una recidiva malattia morale. Lo era stata già il Partito Socialista di Bettino Craxi, benché la formazione di lui fosse la più tradizionalmente politica, della politique politicienne, che si potesse richiedere. Con Berlusconi il corpo estraneo si fece estraneo fino alla caricatura e, complementarmente, all’oltraggio.

Senonché la politica e la vita pubblica in generale non fanno altro che riprodurre corpi e modi estranei, di durata e successo alterno e comunque capaci di prendere il campo. Dopo il Craxi così inteso («un cinghiale entrato nella vigna del Signore», come diceva Leone X di Martin Lutero nella sua Bolla di scomunica) e Berlusconi, è venuto il corpo estraneo di Beppe Grillo –a non voler considerare i numerosi attori e pagliacci minori, pure per lunghi momenti in grado di far la faccia dell’orco e spaventare i bambini. Davanti al successo esoso dei 5 stelle ci si è chiesti, chi non inclinava a imbarcarvisi, «quanto sarebbe durata la parentesi dei grillini».

Ce lo si è richiesto a Roma dopo il trionfo della sindaca Raggi: «Quanto durerà la parentesi della sindaca Raggi?» –qualcuno si è illuso che potesse durare un mesetto sì e no, poi è sceso il silenzio. Adesso tutto ciò ha preso una portata mondiale: “La parentesi Donald Trump”. Un corpo più estraneo di così era difficile da immaginare, tuttavia qualcuno l’aveva immaginato, e soprattutto si era immaginato lui. Noi no, noi non abbiamo voluto. Non erano i sondaggi a sbagliare, eravamo noi. «Non ci posso credere!», è questa la reazione di noi, quelli dalla parte normale della storia, dalla parte del senso e della ragione, dentro le strade, fuori dalle parentesi. Trump ha prevalso, dunque è di nuovo il momento di dire: «Non praevalebunt!». È una parentesi, è incredibile che si sia aperta, prima o poi si chiuderà. E potremo ricominciare da dove eravamo arrivati. Heri dicebamus… Ma dove eravamo arrivati? Che cosa cazzo dicevamo ieri?

La Brexit, Trump e i prossimi casi di ubriachezza molesta

Ho fatto qualche osservazione del genere, quasi per scherzo, all’incontro dell’altro giorno su Benedetto Croce e l’edizione critica di Etica e politica. Oltretutto l’ambiente si prestava. Era la sala adiacente al salone più grande in cui si leggono e consultano i libri della Biblioteca del Rinascimento, al terzo piano di Palazzo Strozzi. Uno di quei posti meravigliosi e poco frequentati di cui l’Italia e perfino Firenze è ancora piena, dove si può andare, specialmente se piove, gratis, e sfogliare riviste, arrampicarsi lungo gli scaffali, o semplicemente guardare fuori dall’alto dei secoli.

Gli oratori del nostro incontro erano seduti davanti a una pala di Cosimo Rosselli raffigurante la Madonna col Bambino e Santi, e insomma tutto sembrava dar ragione alla scommessa di Croce sull’Italia turbata bensì da improvvise deflagrazioni magari importate da fuori ma alla lunga salda sul senno e l’equilibrio della sua storia civile. Un luogo in cui anche l’arredamento vale a riscattare uno spirito di élite mortificato da una cronaca becera. Del resto non è forse questa la discussione che furoreggia dopo l’elezione di Trump?

Se si sia così rivelata una vera e sommersa anima americana appena scalfita dalla parentesi di Barack e Michelle Obama, o se si tratti piuttosto di un sia pur colossale incidente, un po’ come per la Brexit nel Regno Unito, una di quelle sventatezze che prendono un popolo, o la sua maggioranza regolamentare, verso un certo giorno, e il giorno dopo lo costringono a svegliarsi con la testa pesante e il cuore pentito? Noi italiani, un po’ per il senno e l’equilibrio, un po’ per la parentesi berlusconiana, siamo i meglio piazzati per soccorrere i tramortiti americani. E infatti il giorno dopo un editoriale sul New York Times firmato da Luigi Zingales spiegava “Il modo giusto per resistere a Trump”: «Ora che Trump è stato eletto presidente, il parallelo con Berlusconi può offrire una lezione importante su come evitare che una vittoria di stretta misura si trasformi in un guaio ventennale».

“A two-decade affair”. Un’altra parentesi di vent’anni, prima che il mondo ricominci a girare nel verso giusto, quello della storia, il nostro. È come con le guerre, che per definizione sono delle parentesi, anche le più tragiche: cominciano, anzi scoppiano, come i temporali, e bisogna aspettare che finiscano, come i temporali. Delle parentesi nella storia pacifica del genere umano. Ogni tanto, quando fra una guerra e la prossima l’intervallo è troppo breve, la storiografia si rassegna a cambiare passo e la chiama come un’unica lunghissima guerra europea, con l’intervallo di una pace precaria, in cui la guerra interrotta nel ‘18 ha un ventennio per incubare la guerra prossima. Revisioni della storiografia a parte, noi continuiamo a dirci che la storia ci ha fatto un altro tiro mancino, ha aperto una nuova parentesi, e comunque passerà. Prima o poi. Non praevalebunt.

I più attempati di noi, fra sé e sé, si dicono che, salvo un impeachment o un altro imprevisto, dopo aver visto arrivare la parentesi di Trump non avranno il tempo di vederla chiudersi. Nel breve periodo siamo morti. «Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato /il trattato di pace/, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere» (così Benedetto Croce). Ci sono anche dei momenti in cui noi, “noi”, ci chiediamo se forse non siamo noi, la nostra parte, il nostro senso della storia, a trovarci sempre più stretti dalla transitoria malsania dei tempi dentro una parentesi che si vuole chiudere. Ci vuole chiudere.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/trump-e-noi-fra-parentesi/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Gli eroi non muoiono vecchi
Inserito da: Arlecchino - Novembre 28, 2016, 08:41:53 pm
Opinioni
Adriano Sofri    26 novembre 2016

Gli eroi non muoiono vecchi
Un uomo sopravvissuto a se stesso, che si è tramutato in un monarca con successione dinastica

Bisogna morire giovani per essere amati con tutto il cuore. Come Camilo Cienfuegos, come il Che, che tanto giovane non era più. Fidel si è tenuto alla sua vecchiaia, e anche noi che gli sopravviviamo, e siamo tentati di rinfacciargliela. Quando desiderammo la rivoluzione ci sembrò di dover scegliere fra due modi, uno cinese, maniaco del metodo, e uno cubano, votato all’irregolarità. Teorizzarono ambedue la guerra di guerriglia, ma i cinesi erano glabri come porcellane e i cubani irsuti di barbe.

I rivoluzionari del Terzo mondo oscillarono fra gli uni e gli altri. Il modello cubano era spartito a sua volta fra due immagini: un eroe morto e un padre della patria vivo. Il Che non diventò mai un padre della patria, restò sempre un figlio, il beniamino. Un cubano di adozione, dunque il più cubano dei cubani, tuttavia sempre uno venuto dall’Argentina e incontrato in Messico e andato a farsi ammazzare in Bolivia. La superficie glabra dei ritratti cinesi sembrava confermare il luogo comune dell’impenetrabilità orientale.

Erano barbudos i cubani, nella loro foggia selvatica, in memoria della sierra e la selva. Barba e baffi sono così decisivi per Guevara che li taglia per travestirsi, all’ingresso in Bolivia, e somiglia così a un anonimo viaggiatore di commercio. Si capisce che, anche quanto a capigliature e vestiario, i giovani degli anni ’60 prediligessero i cubani. La rivoluzione, scrisse Sciascia, può fare a meno delle barbe, la contestazione no.

L’Unione Sovietica era fuori causa, esempio di rivoluzione tradita e di imperialismo mascherato di socialismo. I socialismi “non allineati”, ammesso che fossero presi in conto, sapevano di mezze misure e i rivoluzionari detestano le mezze misure. Fu molto amato il Vietnam di Ho Chi Min e di Giap, e i giovani arrivarono anche in Europa a immaginare di partire per battersi al loro fianco, come avevano fatto i (pochi) loro padri in Spagna, ma era una situazione troppo distante e singolare per diventare un modello. Restava la scelta: Cuba o Cina. La Cina aveva rotto con l’Urss, denunciava il rinnegamento del Marxismo-leninismo e i Partiti comunisti legati a Mosca, a cominciare dal Pci. In Europa, i suoi legami si riducevano, oltre che ai tremendi partitini emme-elle rossi e neri, alla Romania di Ceausescu e all’Albania di Enver Hoxha. Una tirannia brutale e grossolana, e un’altra che aveva serrato il suo paese in una galera disseminata di bunker. Cuba appariva libertaria, scanzonata e avventurosa, oltre che avventurista. L’avventura era il cuore del sogno rivoluzionario dei giovani occidentali fra gli anni ’60 e ’70. Si detestavano i ruoli predestinati, era passato poco tempo da una guerra mostruosa ma sembrava già abbastanza per prendersela con una pace ipocrita e una generazione di padri accomodati nella vita sazia. C’era lo scandalo per la fame e l’umiliazione degli ultimi della terra, che sempre deve ferire le nuove generazioni. C’erano altre guerre, tenute a distanza: il Congo, l’Angola, il Mozambico, infamie degli ultimi colonialismi, e l’Indocina prima francese poi americana. L’America era il nemico principale, anche per gli odiatori dell’Urss: cui si imputava anche che non combattesse abbastanza gli Stati Uniti. C’entrava anche la convinzione che con l’America e con le democrazie “borghe – si”in genere la partita fosse aperta, mentre la tirannide sovietica sulla Russia e i satelliti sembrava incrollabile se non dopo che si fosse scosso l’occidente. Insomma: Cuba e Cina. Cioè Mao e Fidel… Anzi no: perché Cuba era stata ed era ancora Fidel o il Che. Una eccentrica reincarnazione della sfida di Stalin e Trotsky. Niente di paragonabile quanto al sangue versato, né quanto alla furia ideologica.

Le guerre per un paragrafo o per una traduzione che decimarono gli apparati bolscevichi non avevano spazio in una dirigenza cubana cresciuta senza vincoli dogmatici e tanto meno marxisti, in cui il comunismo fu un’adesione tarda e condizionata dall’esterno. Rossana Rossanda riferì di aver raccontato lei, con Karol, a Fidel Castro, che Trotsky era stato assassinato su commissione di Stalin, e lui ne fu sbalordito: eppure aveva vissuto al Messico, e Ramón Mercader, l’assassino di Trotsky, visse fra Mosca e Cuba, dove morì nel 1978.

C’è un economista qui? Era stato comunista Raúl, ma fra il Che e Fidel il più marxista caso mai era il primo, mentre il secondo all’origine era un avvocato legalitario e patriota. C’è quell’aneddoto formidabile, sulla riunione dopo la conquista del potere in cui Fidel chiede: «C’è un economista fra voi?», e il Che alza la mano e viene nominato sui due piedi direttore della Banca Centrale di Cuba. All’uscita il Che chiede a Fidel: «Ma come ti è venuto in mente di mettermi a capo della Banca?» e Fidel: «Ho chiesto se c’era un economista», e il Che: «Ma io avevo capito un comunista!». Il Che era la rivoluzione ininterrotta e la sua esportazione internazionale, Fidel il socialismo in un piccolo paese solo e il realismo politico addobbato di retorica. Una divisione dei compiti, o piuttosto una divergenza che ne avrebbe separato i destini e per Guevara sarebbe finita nel mattatoio della Higuera.

Il Che era il romanticismo rivoluzionario (così argentino!) combinato del resto con un militarismo guerrigliero spietato lugubre e anche compiaciuto. Recitano le righe finali del messaggio alla Tricontinental di Algeri, 1967, «Creare due, tre, molti Vietnam: in qualsiasi luogo ci sorprenda la morte, sia essa benvenuta, purché questo nostro grido di guerra giunga a un orecchio sensibile e un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino a intonare il canto funebre con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria». Il Che delle magliette e di un filone letterario e cinematografico di gran successo ha finito per diventare una specie di hippy poetico e sentimentale, che non era affatto.

E se è vero che un vibrar di chitarra si accompagna sempre alla voce dei rivoluzionari cubani e latinoamericani, bisogna affiancargli quel canto funebre e quel crepitio di raffiche, se non si vuole tradirne la verità. Tanto più che, pur nell’eclettismo che caratterizza i cubani, il Che fu il più impegnato nel tentativo di dare una sistemazione alle loro esperienze, dalla teorizzazione del “fuoco” guerrigliero al tentativo di elaborare rapporti economici più indipendenti dagli interessi e dagli incentivi individuali, al tempo in cui dirigeva la Banca di Cuba e ne firmava le banconote… A questa complicazione della figura del Che appartiene anche la più famosa e venerata delle sue espressioni: «Bisogna indurirsi senza perdere la propria tenerezza». L’accento batteva sulla seconda metà: senza perdere la propria tenerezza. Rassicurava chi si vergognasse della tenerezza come di una debolezza piccolo-borghese.

La durezza invece, ci si sarebbe vergognati di metterla in dubbio, così come la capacità di odiare il nemico. Autorizzava qualche sentimentalismo –mitra e social club e barbe lunghe e mal curate, la cifra latina in concorrenza con l’impassibile e liscia ideologia asiatica- ma lo riservava ai propri compagni, da ripagare con l’implacabilità verso il nemico. Il Che diventava dunque colui che si era ricordato della tenerezza. Però la frase andava letta anche a ritroso: Bisogna intenerirsi senza perdere la propria durezza. Quando un ragazzo inerme, con un suo sacchetto di plastica, scherzò a costo della vita coi carri armati della Tiananmen il 5 giugno del 1989, segnò un passaggio d’epoca: e con lui il soldato alla guida del tank che rifiutò di travolgerlo.

Cosa resta – Gli eroi non diventano vecchi. Chi diventa vecchio smette piano piano di essere un eroe, e a volte tradisce del tutto la propria gioventù. Ce ne sono stati, di veri eroi, anche da noi: Carlo Pisacane, per esempio. “Sacrificio senza speranza di premio”. Quanto a Garibaldi, sulla cui filigrana tanta parte del mito del Che Guevara si è modellata, seppe tenersi alla larga dal potere costituito e invecchiare accanto al suo sacco di legumi a Caprera. Fidel è sopravvissuto di molto a se stesso, si è tramutato in un monarca, ha voluto una successione dinastica. I suoi sostenitori irriducibili hanno accettato di giustificargli tutto, in nome di una perenne condizione di necessità: l’accerchia – mento, l’embargo yanqui… Ma le rivoluzioni che finiscono nella coda stretta del partito unico, del potere a vita, dell’intolleranza del dissenso e del sequestro di un popolo dentro le frontiere, rinnegano se stesse.

Quando, a dicembre del 2011, morì il Caro Leader di Pyongyang, Kim Jong Il, il blog di Yoani Sanchez raccontò che a Cuba erano stati indetti tre giorni di lutto e bandiere a mezz’asta, e paragonò il proprio paese a quella grottesca prigione a cielo aperto. Il paragone era troppo duro da sostenere, ma per un momento fu inevitabile giustapporre le formule nordcoreane –il Leader Perpetuo, il Caro Leader, il Leader Supremo- a quella di Castro, che pure voleva suonare di una benignità ironica: il Líder Maximo. Cuba è piccola, ed era proprio questo a segnare un punto per lei nella gara alla leadership rivoluzionaria. Perché la rivoluzione è sempre, al suo inizio, roba di minoranze. C’èuna fierezza speciale nel piccolo David che ogni volta di nuovo affronta Golia. I cubani sono una dozzina di milioni. Erano sì e no sette milioni nel 1956.

Il Granma misurava 18 metri, era progettato per 12 persone, salparono dal Messico in 82, compreso il Che, Raúl Castro e Camilo Cienfuegos: allo sbarco e alla ritirata sulla Sierra sopravvissero solo in dodici. Due anni e mezzo dopo la rivoluzione aveva trionfato. Si capisce che avesse entusiasmato gli animi ribelli di tutto il mondo, e promosso impetuosamente l’idea che tutto fosse possibile, per chi fortemente volesse. “Soggettivi – s m o”, l’avrebbe chiamato il marxismoleninismo ortodosso, “avventurismo. Ho letto da qualche parte: «Un ricciolo strappato al cadavere di Che Guevara da un agente della Cia fu venduto nel 2007 per centomila dollari». Mi auguro che fosse una notizia falsa, o almeno falso il ricciolo. A Cuba i pellegrinaggi politici non sono mai finiti del tutto, ed ebbero sempre anche, a differenza di quelli tetri e reggimentali in altri paradisi comunisti, un versante turistico. C’erano donne, mare, allegria, canzoni, la trasgressione che il regime cubano lascia sopravvivere anche nei momenti più odiosamente repressivi. Più probabilmente è la gente cubana che non viene piegata. È un fatto che Fidel – titolare del raccapricciante record ufficiale di attentati falliti a suo danno: 638 – è stato il meno ortodosso dei capi rivoluzionari. Provate a chiedervi che cosa resti delle leggendarie ore e ore di suoi discorsi, a parte la frase che pronunciò al processo per l’assalto al Moncada nel 1953: «La storia mi assolverà». Del Che gli scritti restano, Fidel è uomo da orali. Restano di lui, a lettere cubitali, degli slogan.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/gli-eroi-non-muoiono-vecchi/


Titolo: ADRIANO SOFRI - Fra prevenzione e chirurgia
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 29, 2016, 12:01:14 am
Opinioni
Adriano Sofri   
24 dicembre 2016

Fra prevenzione e chirurgia

C’è un tempo della chirurgia: nella notte milanese, nella Siria e nell’Iraq del Califfato, e purtroppo in tanti altri angoli d’agguato. E c’è un tempo della prevenzione, della comprensione, del confronto.

Ci sono persone che anche di fronte a crimini atroci come il massacro di Berlino e l’assassinio del bravo camionista polacco non rinunciano a interrogarsi sulle «nostre colpe»: le colpe di un occidente che ha nella sua storia antica e recente colonialismo, razzismo, guerre d’interesse… Bisogna rallegrarsi che esistano persone così, a condizione di riconoscere l’equivoco in cui incorre la loro interrogazione. C’è un tempo in cui un invasato affiliato a qualunque fanatismo e armato di qualunque arma, kalashnikov o coltello o aereo o camion, vi si para di fronte per ubriacarsi del vostro e del suo martirio.

Qualunque storia ve l’abbia portato di fronte, c’è una cosa sola da fare, con ogni mezzo: fermarlo. Ucciderlo, anche, prima che continui a uccidere, per dirlo con le parole intere. È successo nella strada di notte di Sesto San Giovanni. È così per un invasato ed è così anche per un intero esercito di invasati che si fa Stato e rende abitudine collettiva e disciplinata l’impulso alla ferocia che può impadronirsi di un individuo, e si compiace di uccidere all’ingrosso e darne spettacolo e farne la chiave del proprio reclutamento. L’intero sedicente Stato Islamico in Siria e in Iraq ci sta di fronte come lo scellerato Anis Amri nella notte milanese. Allo Stato Islamico si è consentito di imperversare per anni senza che l’equivalente di una brava pattuglia di polizia andasse a fermarlo. In questa incredibile inerzia l’equivoco sul tempo dell’interrogazione sulle «nostre colpe» ha avuto il suo peso.

L’equivoco è micidiale. Ma non è meno micidiale il suo contrario. Il suo contrario è il rifiuto a misurarsi con la strada che ci ha portato di fronte questi nemici giurati. Non intendo spiegare il fanatismo assassino con la povertà o l’ignoranza o le ingiustizie sociali. Non solo perché i campioni del fanatismo assassino sono spesso benestanti e saputi e spregiatori della giustizia, a partire dall’iniquità più abietta, la soggezione delle donne. Ma soprattutto perché la spiegazione “sociale” diventa facilmente giustificazione, e cancella la parte ultima di libertà e di responsabilità che non può essere negata neanche al più povero e ignorante degli assassini.

La differenza somiglia a quella fra la medicina preventiva e la chirurgia. C’è un tempo della chirurgia: nella notte milanese, nella Siria e nell’Iraq del Califfato, e purtroppo in tanti altri angoli d’agguato. E c’è un tempo della prevenzione, della comprensione, del confronto. Il nostro spicchio di mondo si è rassegnato a contrapporsi fra pietà e spietatezza, fra inerzia e azione, rese esclusive e nemiche. Come una medicina fatta solo di sale chirurgiche, o solo di medici di famiglia.

Anis Amri è morto e la sua storia, piuttosto la sua fedina penale, viene raccontata come un itinerario che annunciasse inesorabilmente fin dallo sbarco a Lampedusa il mercatino natalizio di Berlino. Non è così. Non è così nemmeno nelle fiamme che appiccò ai centri di accoglienza, nemmeno nella minaccia: «Ti taglio la testa», proferita contro un compagno di galera «cristiano».

Quel «Ti taglio la testa» suona oggi come un anticipo di Califfato: troppa grazia. Solo di recente si è cominciato a discutere seriamente delle carceri come culla di «radicalizzazione» islamista. Fino a poco fa erano rare le carceri in cui fra le persone addette alla custodia e alla risocializzazione figurasse uno solo che parlasse e ascoltasse l’arabo. Eppure era chiaro che nelle galere si giocava una partita delicatissima.

Permettetemi di ricorrere alla mia personale esperienza, e di citare alcune delle cose che scrissi innumerevoli volte da lì. Così, per esempio, quindici anni fa: «Ormai la maggioranza dei miei coinquilini /in carcere/ sono stranieri, maghrebini i più. Giovanissimi quasi tutti. Sono arrivati da clandestini, gli piaceva l’Europa, la vita europea. Una volta arrivati hanno trovato la droga, da spacciare e da consumare, le due cose insieme. Lo spaccio è fra i famosi lavori degradati che gli italiani non vogliono fare più… Vengono in galera per questo, i ragazzi maghrebini; tranne qualche algerino più all’antica, che fa il borseggiatore. L’islam per loro è una certezza assente, rinviata a un’età più matura. Non si sognerebbero nemmeno di non credere in Allah, o di bestemmiarlo; ma non si sognano nemmeno di pregarlo le cinque volte, tranne pochissimi. Benché l’Italia che sognarono sia ora la galera, non si rassegnano a non sognarla più; e a fratelli e sorelle scrivono che abitano in Italia –non è una bugia. Fanno il tifo per le squadre italiane, a volte già prima di arrivare: per l’Inter, la Juventus, il Milan, la Fiorentina. Lo fanno anche più degli italiani. Il tifo calcistico è la più facile, e forse l’unica accoglienza che l’Italia offre loro.

Sono extracomunitari e irregolari, ma almeno interisti e juventini. Perfino al campionato del mondo oscillano fra la loro nazionale, se c’è, e quella italiana. Sono pronti a quel patriottismo dei nuovi arrivati che l’America seppe promuovere così sagacemente. Se ci fosse una chiamata alle armi, si arruolerebbero per primi e correrebbero alle frontiere. Si potrebbe prendersi qualche cura di loro, non per bontà (non è facile esser buoni, succede a pochi) ma perché in fondo sono spesso il fiore della gioventù dei loro paesi, e ci farebbero comodo. Per fare i lavori che noi non vogliamo più (non solo lo spaccio) e anche per fare il nostro gioco presso il mondo nemico. Degli stranieri che vengono da noi non si può pensare davvero che non vengano affatto. Allora possono succedere tre cose, in sostanza. Che una maggioranza fra loro venga, si trovi un suo posto, si porti la sua famiglia, si tenga i suoi costumi, e viva pacificamente fra noi, senza pretendere esoneri dalle nostre leggi, senza che noi ci illudiamo troppo di assimilarli alla nostra cultura. Che una minoranza fra loro si radichi fa noi, sia aperta e curiosa della nostra cultura, ne apprezzi le cose migliori, e se ne faccia ambasciatrice a casa sua: e quei ragazzi coi quali vivo qui dentro sarebbero spesso candidati idonei a questo proposito. Che un’altra minoranza viva fra noi coltivando un ripudio e un odio per il nostro modo di vita, e si faccia avanguardia militante della guerra islamista contro la nostra parte di mondo. In generale, noi non ci mostriamo interessati a questi possibili esiti. I nostri comportamenti ‘spontanei’ congiurano contro di noi».

Scrivevo così, per esempio, più di quindici anni fa. Oggi è diventato tutto più difficile, ma non ha smesso di essere vero.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/fra-prevenzione-e-chirurgia/



Titolo: Adriano Sofri. La marcia di Pasqua per l'amnistia
Inserito da: Arlecchino - Aprile 16, 2017, 06:09:01 pm
La marcia di Pasqua per l'amnistia
Perché secondo Sofri è giusto partecipare alla marcia dei Radicali

Di Adriano Sofri
15 Aprile 2017 alle 06:00

Abuso ancora di questo spazio per giustificare la mia assenza dalla marcia di Pasqua per l’amnistia, dovuta a impedimenti logistici che non so superare. Me ne rammarico per più ragioni. Una è il piacere di incontrare persone che, singolarmente e nella loro combinazione di guardie e ladri, è ormai raro vedere altrove. Soprattutto è la premura per la condizione delle galere e dei loro abitatori, cui mi lega un affetto da migrante. I radicali di ogni chiesa sono in solido garanti di una fraternità lucida e non sentimentale (anche sentimentale) verso i detenuti e chi vive vicino a loro. Penso che l’amnistia sia fuori dalle possibilità attuali e prevedibilmente future del nostro regime politico e dell’opinione che forma e da cui è formato. Ai discorsi dei Papi i pii parlamentari hanno imparato da tempo a venerare il ronzio e togliere il pungiglione. I fatti provano che un’amnistia sarebbe un passaggio necessario, prima che per il buon frutto della clemenza, per affrontare il retaggio dell’amministrazione della cosiddetta giustizia, un morto che afferra il vivo e lo trascina nei propri scantinati di faldoni. Se l’amnistia diventasse una bandiera simbolica a scapito di interventi parziali e puntuali, crolli da puntellare e strappi da rattoppare giorno per giorno – notte per notte, la notte è il tempo della galera – chiederei che venisse ammainata. Non mi pare che avvenga. Sono stato del tutto scettico nei confronti di una specie di partito dell’amnistia che avrebbe preso la parte per il tutto, col risultato di renderla ancora più parziale. Visitare i carcerati e augurare l’amnistia come un giubileo ottusamente mancato alla sua data e rinviato a data da destinarsi – domani, a Gerusalemme – è un buon pezzo di programma. Così sono interamente solidale con promotori e partecipanti della marcia di Pasqua.

Da - http://www.ilfoglio.it/piccola-posta/2017/04/15/news/marcia-di-pasqua-amnistia-130413/