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Autore Discussione: ADRIANO SOFRI -  (Letto 30185 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 22, 2010, 09:39:27 am »

IL COMMENTO

La catastrofe del lavoro

La crisi, restituendo agli Stati un più forte intervento economico - senza per questo ridurre la sovranità delle grandi multinazionali - sospinge il lavoro salariato verso un rinnovato "sacro egoismo". Pomigliano ha reso clamorosa questa condizione

di ADRIANO SOFRI


SE esistesse oggi un'Internazionale dei lavoratori, dovrebbe ammettere una catastrofe simile a quella che travolse la Seconda Internazionale nel 1914, quando le sue sezioni nazionali aderirono al patriottismo bellico, e i solenni principii andarono a farsi benedire. L'Internazionale non esiste e la crisi finanziaria ed economica non è (per ora) una guerra armata. La Seconda Internazionale era stata largamente partecipe dei pregiudizi e delle convenienze colonialiste: differenza minore, dal momento che lavoratori e sindacati dei paesi ricchi si sono guardati finora dall'affrontare il colossale divario con la condizione del proletariato dei paesi poveri.

La crisi, restituendo agli Stati un più forte intervento economico - senza per questo ridurre la sovranità delle grandi multinazionali - sospinge il lavoro salariato verso un rinnovato "sacro egoismo". Pomigliano ha reso clamorosa questa condizione. La Cina è vicina, e gli scioperi della Honda o della taiwanese Foxconn (e i suicidi operai) mettono in vetrina l'andamento da vasi comunicanti che Scalfari ha qui illustrato: gli operai cinesi rivendicano salari meno infimi e condizioni di lavoro meno infami e gli operai occidentali diventano più cinesi. Il punto però è che la nuova Panda ha messo in concorrenza diretta lavoratori italiani e lavoratori polacchi, cioè di due paesi dell'Unione Europea. E anche se una rilocalizzazione italiana dall'est europeo è inedita, come vanta Marchionne, è vero però che da anni la minaccia di trasferire la produzione in Ungheria o in Romania è valsa a far accettare nell'industria occidentale sacrifici di lavoro e salario non molto dissimili da quelli che si impongono a Pomigliano.

In Germania, la difesa dell'occupazione è costata, ben prima della crisi finanziaria, un forte allungamento dell'orario di lavoro a parità di salario - alla Opel da 38 a 47 ore! A Bochum, nel 2004, si trattò proprio di sventare il trasferimento in Polonia. In Francia le 35 ore erano legge, e sono un ricordo imbarazzato. Oggi, alla Opel, saturati i tempi, gli operai cedono - agli investimenti aziendali, a fondo perduto - una metà di tredicesima e quattordicesima, un mese di salario. Il ritorno a un protezionismo "nazionale" fu vistoso con il prestito offerto dalla Merkel alla Magna in cambio della salvaguardia dell'occupazione tedesca, violando le regole europee sulla concorrenza. Ma si tratta di una tendenza generale, di cui gli incentivi governativi alla Fiat furono un capitolo ingente. Sarebbe interessante sapere in quante fabbriche italiane (Fiat inclusa) condizioni di lavoro largamente simili a quelle imposte a Pomigliano sono già in vigore.

Se dunque non c'è una capacità, e neanche una vera volontà - a parte la lettera "di bandiera" di un gruppo di operai di Tichy - di animare una solidarietà europea, tanto meno ci si attenterà a immaginare una simpatia e un legame fra gli operai di Pomigliano e di Tichy e gli scioperanti e i suicidi di Shenzhen, i quali per giunta fabbricano (sono 400 mila solo alla Foxconn) componenti elettroniche per il mondo intero, e non un prodotto esausto come l'auto, sia pure la nuova Panda. Nel momento in cui accentua la sua internazionalizzazione, la Fiat "nazionalizza" gli operai di Pomigliano, con un ultimatum prepotente perfino nel tono. A sua volta, in un gioco delle parti di cui non è affatto detto che sia voluto - che Sacconi e Marchionne siano in combutta: anzi - il governo prende la sfida della Fiat a pretesto per l'abolizione dei contratti nazionali, la liquidazione simbolica della Costituzione, la sostituzione dei "lavori" ai lavoratori, delle cose alle persone. (L'autocertificazione per cui oggi si pretende di rifare la Costituzione, veniva garantita dal Capezzone quondam radicale in un progettino dal titolo "Sette giorni per aprire un'impresa").

La famigerata "anomalia" di Pomigliano è perciò largamente pretestuosa: serve a far passare per una cruna il cammello del conflitto sociale e dei diritti sindacali. Un precedente prossimo c'è, ed è l'Alitalia: anche lì era facile trovare le anomalie, e fare piazza pulita delle norme. Pomigliano è "anomala" dalla fondazione, come ha raccontato Alberto Statera, con la sua combinazione fra una maggioranza di operai venuti dalla campagna e da assunzioni clientelari, e una minoranza di reduci da altre fabbriche e lotte. Si raccontava, il primo giorno dell'Alfasud, che fossero entrati in fabbrica 3 mila operai, e ne fossero usciti 2.980, perché venti erano evasi durante l'orario di lavoro, avendone già abbastanza. Ma l'industria cinese, quella che fabbrica gli iPad, è fatta largamente di contadini scappati dai villaggi.

Un dirigente mandato da Torino al passaggio dall'Iri alla Fiat, nel 1986, avrebbe poi raccontato agli intimi Pomigliano in termini più coloriti del dialogo fra Chevalley e il principe nel Gattopardo. A Pasqua, si aspettavano una gratifica e un agnello. Il manager, magari anche per l'assonanza col nome della dinastia, provò a monetizzare gli agnelli. Uno sciopero lo costrinse a cedere in extremis. Al rientro dopo la festa lo sciopero riprese, e il dirigente costernato si sentì dire che l'agnello avrebbe dovuto essere vivo, e non macellato. Bisognava che prima ci giocassero i bambini. Sarà una leggenda. Anche sull'assenteismo e sulla camorra a Pomigliano corrono storie vere e leggende, utilizzabili a piacere.

Sarà vero che al direttivo provinciale di Cisl e Uil partecipano seicento dipendenti di Pomigliano? Marchionne deve saperlo, e non da oggi. Deve averci pensato almeno da quando ribattezzò la fabbrica col nome di Giambattista Vico, per riparazione: il più grande intellettuale della Magna Grecia. Non bastava un'intitolazione a passare dall'assenteismo alla scienza nuova, e nemmeno la deportazione dei cattivi a Nola. Ma appunto, il colore locale fa comodo a tutti, e anche a rovesciarlo in un ipertaylorismo - parola buffa, perché il taylorismo è iperbolico per definizione, e caso mai bisogna ridere amaro delle chiacchiere sulla fine del lavoro manuale e della fatica. I 10 minuti in meno di pausa - su 40 - la mezz'ora di mensa spostata a fine turno, e sopprimibile, lo straordinario triplicato - da 40 a 120 ore - e una turnazione che impedisce di programmare la vita, sono già un costo carissimo. Aggiungervi le limitazioni allo sciopero e il ricatto sui primi tre giorni di malattia è una provocazione o un errore, di chi vuole usare Polonia e Cina per insediare un dispotismo asiatico in fabbrica qui, quando la speranza è che l'anelito alla dignità e alla libertà in fabbrica faccia saltare il dispotismo in Cina.

Non c'è l'Internazionale, viene fomentata la guerra fra poveri, si fa la guerra ai poveri, questa sì dappertutto. Perché l'altra lezione venuta in piena luce grazie a Pomigliano è che la storia degli operai "garantiti" opposti ai "precari" era del tutto effimera, e i nodi sono al pettine, per operai e pensionati. Termini Imerese chiude, Pomigliano chissà, Mirafiori... Chi garantisce chi? Dei due modelli presunti - lavorare di meno o consumare di più - è destinato a prevalere, da noi ricchi, il terzo: lavorare di più e consumare di meno. Il "movimento epocale" di redistribuzione del reddito, invocato da Scalfari, va insieme a un cambiamento radicale dei modi di vivere e consumare (si chiamano, chissà perché, "stili": come se ci fosse stile in una coda di autostrada). Erano provvisori i "garantiti", siamo provvisori "noi ricchi" del mondo.

Questione di tempo, e l'economia va più svelta della stessa demografia. Prediche al mondo vorace che esce dalla povertà a spallate, perché non si ingozzi di automobili e telefonini come noi, non ne possiamo fare. Abbiamo dato l'esempio dell'ubriachezza consumista, possiamo solo provare a darne uno pentito, di sobrietà. Sbrigandoci.

(22 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/22/news/sofri_pomigliano-5043267/?ref=HREA-1
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 09, 2010, 10:09:39 am »

LE IDEE

Noi uomini vigliacchi, rileggiamo Cuore

Il delitto di Milano e il segreto di Larsson ripropongono un'antica domanda: io che avrei fatto?

di ADRIANO SOFRI

HO L'IMPRESSIONE che fra i sentimenti un tempo campali - per i bambini che leggevano il libro Cuore e i ragazzi che leggevano Conrad - che oggi sono sbiaditi, abbia un posto dei primi la vigliaccheria, e la sua lunga compagna, la vergogna. Ieri questo giornale le ha misurate, senza volere.La pagina 19 raccontava l'orrendo mattatoio di una strada milanese, un forsennato che si imbatte in una donna e infierisce a pugni su lei, fino a sfondarle le ossa. "Lo vedono atterriti un paio di passanti, le auto gli sfilano accanto, la portinaia chiama aiuto ma nessuno...". La pagina 20 riferiva una testimonianza su Stieg Larsson e il "segreto inconfessabile" che avrebbe ispirato i suoi romanzi: quindicenne, assistette inerte allo stupro compiuto da tre suoi amici. "La ragazza urlava ma nessuno interveniva". Ora mettiamole nella stessa pagina, queste due notizie. Le differenze si vedono bene. Nella strada di Milano, gli spettatori che si tengono alla larga hanno tutte le attenuanti: sono paralizzati dalla sorpresa e anche dalla paura, e la paura è giustificata di fronte al furore di un energumeno che scarica i suoi pugni da boxeur su una creatura senza riparo. Nel sottoscala della Casa dello Studente di Umea in cui si consuma lo stupro, a fare di Larsson un complice è "la lealtà verso gli amici". L'odiosa "lealtà" del ragazzo maschio verso gli amici maschi è altra cosa dalla paura fisica, ma può rendere altrettanto e più vigliacchi, e attaccare addosso una vergogna senza fine. Non saprei parlarne per chi è ragazzo oggi, ma quelli della mia generazione e, temo, di altre a venire, conoscono bene questa situazione, anche se abbiano avuto la fortuna di sperimentarla in circostanze meno drammatiche, e la loro sia stata solo una piccola viltà, o, com'è più frequente, una successione di piccole viltà. Le piccole viltà sono più facili da rimuovere, ma basta un incidente a tirar fuori la vergogna, e senza sconti. Si diventa maschi - temo che succeda ancora - imparando a ingannare una femmina, fosse anche la "propria", e tradire lei per non tradire la banda degli amici.

In ambedue le pagine la vittima è donna. L'ammazzamento della signora Emlou Aresu incute un terrore sacro. C'è Milano, c'è una strada che si chiama viale degli Abruzzi, c'è un ucraino venticinquenne che teme d'essere lasciato dalla sua compagna, lettone, c'è una gentile donna, madre di due figli, venuta dalle Filippine a tenere in ordine case italiane, che sarebbe tornata nelle Filippine all'indomani, che - raccontano altre donne che la vedevano passare ogni giorno - "era sempre di fretta", e così, di fretta, è arrivata al crocevia fatale. Secondo le cronache aggiornate, quel furioso, una volta in manette e con le nocche ferite, avrebbe detto di aver "solo picchiato un filippino di merda". Può darsi che fosse accecato fino a quel punto. Sua madre però dice che era uscito di casa gridando: "La prima che incontro, l'ammazzo". La prima che incontro, è un'idea che spiega tutto, come nelle canzoni: sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai, d'oro o di cazzotti a morte, secondo il caso. Una donna, una qualunque, basta perfino una filippina di merda. I criminologi dicono che sono i delitti più inevitabili, quelli "casuali". Salvo che non è davvero casuale essere donna, e filippina per giunta.

Si corre il rischio di fare i maramaldi. Di deplorare i passanti che non sono intervenuti, i passeggeri dell'autobus che hanno guardato fuori dal finestrino mentre un'anziana signora veniva derubata e malmenata, i bagnanti che continuano a prendere il sole accanto al cadavere di un annegato. Noi uomini - appunto perché siamo maschi, e solo di rado siamo filippini - dobbiamo pur chiederci che cosa avremmo fatto, se ci fossimo trovati lì. A volte, come per l'episodio del Larsson adolescente, può darsi che lì ci siamo trovati, e che dobbiamo solo ricordarcene. I romanzi venduti a milioni di copie servono a eludere la questione: riguarda altri, personaggi romanzesche. Anche la vita vera riguarda altri, salvo che ci venga addosso, "proprio a noi", come una disgrazia. In genere, non facciamo che scongiurarlo, e scansarci più che possiamo. E quando succede, e non ci si può scansare?

Naturalmente, io non so affatto come mi sarei comportato se mi fossi trovato in viale degli Abruzzi al cospetto di quel prolungato massacro. So che temo fortemente che sarei stato vile e comunque inetto, che avrei avuto paura e che magari avrei escogitato nomi pretestuosi e meno mortificanti per la mia paura. Oltretutto, c'è una differenza fra scegliere coraggio o dignità quando si abbia il tempo di riflettere e decidere, e quando d'improvviso si sia messi alla prova. La verità è che succede a tutti, tutti i giorni. E che si è perduta l'abitudine di farsi la domanda su se stessi: "Che cosa avrei fatto...?". Ogni anno, l'11 luglio, ci si ricorda - chi se ne ricorda - della strage genocida di Srebrenica. Quest'anno era il quindicennio. Ogni volta si ritorna in quel luogo del delitto immane, tra le fosse di migliaia di trucidati, si racconta di nuovo l'empia malvagità dei carnefici, il generale Mladic che dà un buffetto a un bambino atterrito davanti alle telecamere, le donne separate dagli uomini e cacciate, gli uomini sterminati e buttati nelle fosse. E si racconta di nuovo l'infamia di ufficiali e soldati olandesi con le insegne delle Nazioni Unite, che non hanno mosso un dito per impedire la strage e anzi hanno accolto gli assassini e hanno brindato con loro e hanno collaborato a radunare le greggi dei rifugiati che avevano il compito di proteggere, aspettandosene, o fingendo di aspettarsene, che servisse a sventare il peggio. Il governo olandese, a distanza di anni, pagò con la caduta quel disonore. Dopo qualche anno ancora - nel dicembre 2006 - il ministero della difesa olandese assegnò ai 500 reduci del battaglione cui era commessa la difesa di Srebrenica una medaglia, per compensarli delle accuse di cui avevano sofferto.

La viltà all'ingrosso degli Stati e delle potenze attraversa i tempi, e si è trovata anche lei nomi cattivanti, Ragion di Stato o Realpolitik, e medaglie larghe abbastanza da coprire la macchia rossa di vergogna sul petto delle uniformi. Poi ci sono le persone. A ciascuno di noi, specialmente se ha appena finito di commemorare Srebrenica e di dedicare il suo sarcasmo a un ministero olandese, o di commentare l'orrenda storia dell'altroieri a Milano, vien fatto di chiedersi: che cosa avrei fatto se fossi stato un ufficiale olandese, un passante a Milano? È la domanda che si fa chi legge Primo Levi, soprattutto se è un ragazzo e non è ancora indurito, la domanda per cui Primo Levi e altri che erano tornati da lì non vollero più vivere. C'è una differenza fra le tante, i cinquant'anni che separano Auschwitz da Srebrenica. Le cose infatti continuano a succedere. Si possono ascoltare molti consigli, e andare in palestra, e portare non so quale spray nella borsetta. Però non mi sembrerebbe inutile che i bambini e i ragazzi leggessero qualcosa che somigliasse al libro Cuore o a Lord Jim. O anche alla storia del giovane uomo maschio che si trovò a passare proprio nel punto in cui stavano per lapidare un'adultera.

(08 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/08/08/news/noi_uomini_vigliacchi_rileggiamo_cuore-6147135/?ref=HREC1-4
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 07, 2010, 12:24:27 pm »

IL CASO

Quella foto del bimbo pakistano simbolo dell'orrore dimenticato

Lo scatto che ritrae due fratellini coperti di mosche ha risvegliato le coscienze sull'emergenza delle alluvioni.

Sembra un quadro, ma è la drammatica realtà: quella di una crisi di fronte a cui il mondo ha chiuso gli occhi.

Cosa facciamo davanti a questa foto?

di ADRIANO SOFRI


La prima cosa che si pensa  -  no, viene prima di pensare: la prima cosa che si spera  -  è che sia un fotomontaggio, o una di quelle escogitazioni che prendono il nome di arte, che qualcuno abbia sparpagliato manciate di mosche finte a macchiare il quadro coi bambini e il pavimento di fango e stracci sul quale sono sdraiati. Poi ci si forza a guardare, l'insieme e i dettagli. L'insieme colpisce tanto più perché è una "bella fotografia", dalla composizione geometrica, le due teste accostate in primo piano, di cui si capisce che sono di bambini vivi, perché uno è attaccato al biberon, sia pure senza sollevarsi, l'altro punta il braccio destro al suolo, benché anche lui senza tirarsi su. Il biberon è vuoto. Ce n'è un'altra bottiglietta, di plastica, vuota anche quella, per terra un po' più in là. Sul biberon ci sono davvero le api finte, e uno scorcio di scritta che dice: Honey. È geografia, serve a misurare la lontananza. I due bambini in secondo piano dormono e senza il confronto coi due del primo piano sembrerebbero senza vita, avvolti alla rinfusa negli stracci. Perfino i colori sembrano sapienti, con la simmetria di rossi nella metà a sinistra di chi guarda.
 
Chi ha guardato per primo e fotografato questo quadro si chiama Mohammad Sajjad, deve aver avuto, subito prima, o subito dopo, l'impulso di cacciare quelle mosche, che del resto non si lascerebbero intimidire da un'intera armata. La fotografia, scattata il 31 agosto e distribuita dall'AP, ha fatto il giro del mondo, Internazionale l'ha pubblicata da noi a doppia pagina, il Guardian l'ha messa ieri in prima e la sua inviata, Rania Abouzeid, ha rintracciato i bambini e la loro famiglia. Sono scampati alle inondazioni che hanno infuriato sul Pakistan per più di un mese, come altri milioni, decine di milioni di sfollati. Vengono dal circondario di Peshawar, si sono accampati a un bordo di strada ad Azakhel, affiancano le auto che passano di lì e chiedono qualcosa. Questa famiglia, la madre Fatima, il padre Aslam Khan e i loro otto figli - i due in primo piano nella foto, Reza e Mahmoud, hanno due anni e sono gemelli - non sono nemmeno pachistani, ma profughi afgani, dunque scampati una volta alla disgrazia degli uomini e un'altra a quella della natura, e stanno ancora più indietro nella fila lunghissima degli infelici che tendono le mani. Ora stanno morendo di fame. "E' un mese che non hanno latte", dice la madre. Scrive la giornalista: "Quando l'abbiamo trovato, Reza era ancora attaccato allo stesso biberon. Era ancora vuoto". Prima Aslam viveva andando in giro in bicicletta a vendere pollame. Ora, attorno e dentro una tenda di fortuna, senza nessuna organizzazione umanitaria che gestisca il piccolo accampamento, senza acqua né soccorso sanitario, umani e altri animali sopravvivono nella sporcizia comune e le mosche la fanno da padrone. Per cacciarle, Fatima ha solo un ventaglio di foglie di bambù. E ha poco tempo e forze da spendere a far guerra alle mosche.

Gli stracci che si vedono nella fotografia sono tutto il loro patrimonio. Reza ha una maglietta stinta con la scritta "Apples", lettere dell'alfabeto latino, e dei disegni forse di farfalle. Nell'altra fotografia, scattata per il Guardian da Jason Tanner, ha una maglietta stinta con la scritta grande "Levi's". Tutti gli stracci sono firmati al mondo d'oggi, e anche i biberon vuoti sono colorati e allegri. La maglietta rossa del suo gemello lo copre solo fino alla pancia e ha uno strappo accanto alla cucitura. Le mosche sembrano disposte caoticamente, è probabile che si addensino e distribuiscano seguendo la sporcizia e gli umori.

I biologi chiamano commensalismo la vita comune di due esseri viventi in cui uno si ciba degli scarti dell'altro. Le mosche domestiche sono commensali dell'uomo. Queste, stanno addosso ai bambini, senza nemmeno curarsi di volare, come se i bambini stessi fossero scarti. Hanno ragione loro, hanno capito tutto? Nei giorni scorsi si è discusso, a proposito di un'idea di Hawkins, se Dio esista o no - davvero - ed eventualmente se non possa darsi il caso che Dio esista, ma non abbia creato il mondo. Non abbia creato i bambini, le inondazioni e le mosche.

Questa fotografia ha fatto un gran viaggio e ci ha portato addosso, alla distanza di un giornale tenuto fra le mani, di uno schermo di computer, i bambini Reza e Mahmoud e i loro fratellini e la miriade di mosche che li copre e s'insinua dentro gli occhi e le bocche. Non siamo più abituati a questa vista: ai bambini scartati sì, magari, succede anche in qualche greto di fiume nostro, ma alle mosche no. La carta moschicida è vietata da tempo, da noi, per ragioni igieniche. Così, benché ci sia arrivata così pericolosamente vicino, la fotografia dei bambini - la fotografia delle mosche - è destinata a tornarsene alla sua tenda di afa dolore ed escrementi. Da noi, un'immagine così la potremo trovare in qualche biennale, facsimili di bambini da esposizione o bambini veri, mosche vere o facsimili, perché bisogna pure che gli scandali avvengano, o almeno i facsimili di scandali.

Guardate: mentre scrivevo questo, mi sono interrotto due o tre volte per cacciare una mosca che mi volava fastidiosamente attorno, finché me ne sono accorto, e mi sono detto che quel gesto distratto avrebbe spiegato più del mio articolo e di altri diecimila. Mi sono anche ricordato dell'aneddoto su Giotto ragazzo, che dipinse di nascosto su un'opera di Cimabue, suo maestro, una mosca, e Cimabue cercava di cacciarla via.

(07 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/09/07/news/la_foto_di_reza-6817715/?ref=HRER2-1
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« Risposta #18 inserito:: Novembre 07, 2010, 07:10:20 pm »

COMMENTI

L'abuso di potere/10

di ADRIANO SOFRI

Rovesciamo il tavolo. La versione della difesa è memorabile. C'è un uomo buono, e una ragazza  -  mille ragazze  -  sventata.
Ha, ancora per poco, gli occhi coperti per legge. Ma il potere risiede sulla punta dei suoi seni. La ragazza approfitta dell'uomo buono, del suo affetto indefesso e prodigo. È un abuso di potere. Noi uomini capiamo. Scuotiamo la testa, deploriamo la nostra debolezza paterna, ci diciamo che valga da lezione: alla larga dal potere che nasce dalla punta rosata dei seni, che ci taglia i capelli durante il sonno e ci vende inermi al nemico.

Sarebbe bello, eh? Le puntate precedenti hanno riportato l'abuso di potere al suo significato essenziale, prima (e dopo) qualsiasi fattispecie penale. Il potere insidia pressoché ogni relazione, e l'abuso tenta pressoché ogni potere. Il rapporto fra uomo e donna è segnato dal principio da una disuguaglianza di potere. L'espressione lusinghiera e disgustosa, "un uomo di potere", può estendersi, salvo complicazioni, a qualunque uomo nei confronti di qualunque donna. La storia universale spalleggia l'uomo che si aggiusta il nodo della cravatta preparandosi a fare la sua offerta. La complicazione sta nell'esistenza di uomini che vi si sottraggono per indole o per consapevolezza (rari) e di donne che vi si rifiutano fino alla ribellione, meno rare.

Alcune società rendono impervia la ribellione delle donne e la schiacciano ferocemente, facendo della forza pubblica la garante e complice della prepotenza patriarcale. Altre società imparano a favorirla, e lasciano progressivamente soli gli uomini che se ne sentano offesi e sopraffatti, e non di rado reagiscono esercitando la loro bruta forza privata. Se questo è vero, e una sproporzione di potere e una tentazione di abusarne accompagna in modo che vuol apparire naturale la relazione fra uomo e donna, figurarsi la relazione fra una ragazza di diciassette anni in fuga da famiglia, carta d'identità a rischio e clausura in comunità, e il vecchio uomo più ricco e potente del reame.

È la favola di sempre mutata in caricatura grottesca. Il rospo bacia la bella e resta rospo, la bella finisce in questura fra la sezione furti e la buoncostume. Questa smisuratezza misura la miseria della questione. Non è infatti il signor B. a unirsi per una sera o due alla signorina R.: è l'ammontare del patrimonio intestato al signor B. ad afferrare il giro di vita della signorina R., farle fare un paio di piroette e rimetterla in strada con la mancia. Il signor B. è una funzione del suo reddito  -  e, in addizione, del suo rango, cioè il filmino in cui racconta quella dell'ebreo e dell'orso a un re e gioca allo schiaffo del soldato con un imperatore, da mostrare alle signorine all'acme della nottata  -  dunque è altrettanto triste e mortificato del ragioniere che materialmente gli prepara le buste a tariffa differenziata, nottata dietro nottata, e chissà che vita fantastica e sessuale ha il ragioniere, e su lui sì che un Gogol contemporaneo saprebbe scrivere un romanzo immortale (Nikolaj Gogol', il romano, non Google, l'americano), sul signor B. non ci proverebbe nemmeno il signor Balzac.

Ora, in questa spropositatezza  -  una pretty woman cui invece di Richard Gere è toccato il nostro, e invece del delizioso direttore d'albergo Hector Elizondo è toccato un malinconico caposcorta scampato al Copasir  -  è facile immaginare che alle ragazze novissime che sognano il casting istigate dalle novissime mamme (ma già Anna Magnani in Bellissima, 1951: però lei alla fine s'incazza forte) giri la testa e batta il cuore. Macché. Non gli batte il cuore, si direbbe. Vanno lì e già nei furgoni si dicono che bisogna fotografare più che si può, un giorno potrebbe tornare utile. Si direbbe che non si innamorino del signor B. Già: provateci voi. Innamoratevi voi del signor B., o del signor Lele M. Provano un trasporto per i suoi record  -  al governo, nelle televisioni, nella classifica dei redditi  -  e sanno distinguere fra i record e lui. Abusano di lui? In un certo senso.

Si potrebbe perfino compiangere la sorte di B., poiché tutto quello che tocca diventa euro e gli si ritorce contro. Ma non si può, non si riesce, non ancora, almeno. Forse fra poco, quando la muta di cani che divorano le briciole sotto il suo letto gli azzannerà le mani e scodinzolerà all'ufficiale giudiziario. Per ora lui sta completamente al gioco, convinto di poterselo permettere, di potersi pagare tutto, dunque permettere tutto. Ha rinunciato a essere amato, gli servono i surrogati, qualche piccola folla che applauda di giorno, qualche comitiva di femmine di notte, che facciano marchette ma, mi raccomando, non lo dicano a voce alta. Le ragazze pensano di usarlo, lui sa di abusarne. Poi non esita a dichiararsene vittima, della malavita o della ragazza R. che, sleale, gli ha fatto credere di essere maggiorenne e, dettaglio immortale, nipote di Mubarak. (In tutta questa storia nessuno ancora ha chiesto al signore o alla signora Mubarak  -  la zia  -  che cosa ne pensino; e nemmeno ai padri pachistani che sgozzano la figlia adolescente che vuole decidere della propria capigliatura, o agli sventurati padri italiani marescialli che la sparano, la figlia tredicenne, perché va su Facebook.

Voglio proporre un confronto, per spiegarla bene la cosa, com'è davvero. Prendete il vecchio pensionato vedovo accudito da una badante o relegato a un ospizio cui si faccia sposare un fiore di ragazza bielorussa, così, per darle la cittadinanza e magari anche una reversibilità pensionistica. Uno di quei matrimoni combinati per denaro o per raggiro. Il vecchio pensionato ne avrà in cambio, chissà, un bacio sulla guancia da lei al momento della cerimonia, prima che i suoi papponi la portino via ridendo. Oppure prendete un uomo italiano anziano e benestante che vada a comprarsi un fiore di ragazza romena e se la porti in casa, vitto e alloggio e magari qualcosa da mandare ai suoi, in cambio di tutti i servizi, e con la corda corta, e se la tirasse troppo, botte. Chi abusa di chi?

Ecco, il signor B. è anche lui benestante, ma molto di più, al punto che di questi matrimoni in saldo può permettersene una dozzina per notte, un numero di cellulare per certificato nuziale, il ragioniere che prepara la busta di liquidazione e la mattina dopo chi s'è visto s'è visto. Turismo sessuale, senza muoversi da Palazzo, parità da un milione a zero, furgoni che vengono furgoni che vanno. Avevo un amico tanti anni fa, operaio alla Dalmine, voleva far presa su una ragazza di fuori in una sala da ballo, le disse che si chiamava T. di nome e Dalmine di cognome. Non sapeva che era un paese. Figurarsi se vi chiamate davvero Dalmine. Lui però era un bel ragazzo.

Veniamo al punto. La volgarità è sempre esistita, e siamo in tanti, noi uomini, a essere vissuti molto al di sopra delle nostre possibilità, in fatto di donne. Zeus l'immortale, altro che centovent'anni, e la sua immortalità la portava benino, si tramutava anche lui in una volgarissima pioggia di euro per prendersi senza precauzioni la disgraziata Danae, e la ingravidò, e non doveva aver raggiunto nemmeno lei la maggiore età. Ma la scoperta, salvo errore, che questi stuoli di signorine restano attaccate al signor B., o se lo vendono alla prima telecamera, ma comunque non si innamorano di lui  -  e vorrei vedere  -  ha una portata più generale. Ha a che fare con la persuasione, ennesimamente ripetuta, che B. sia "in sintonia col paese", che la gente si riconosca in lui, che "gli italiani" siano fatti così, che ogni scandalo rafforzi lo zoccolo durissimo dei suoi amatori e invidiatori. Non ci credo, non più, non abbastanza.

B. era la malattia, ma ha cominciato a diventare il vaccino. "Gli italiani" non possono dividersi fra amanti della Costituzione e amanti della prostituzione. È di ieri la mirabolante riforma prostituzionale che vuole toglierle dalla strada e confinarle a Palazzo. E non c'è stato nemmeno bisogno dei due terzi dei voti, né della doppia lettura parlamentare. Un potere madornale, un abuso madornale. Se la ricorderà, il signor B. quella famosa barzelletta che, riadattata, suona così. "Papà, il signor B. è fatto come noi?" "No, mooolto di più".

(07 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/07/news/sofri-8834437/
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 19, 2010, 10:52:05 am »

IL COMMENTO

Il permesso di manifestare

di ADRIANO SOFRI

IL GOVERNO annuncia un pugno più duro con le manifestazioni politiche, a cominciare dalle prossime degli studenti e degli universitari. Il governo non si risparmia. Fa le veci del Parlamento. Fa le veci della magistratura, si impegna all'unisono, interni e giustizia, a spiegarle che i ragazzi fermati vanno tenuti in galera. Si profonde in avvertimenti sul ritorno del Sessantotto e degli anni di piombo. Dal'45 al Sessantotto erano passati 23 anni. Dal Sessantotto a oggi 42. I "ragazzi" di oggi, dai 41 anni in giù, sono nati dopo il Sessantotto, e dai 40 in giù dopo lo sbarco sulla luna.

Che studenti ricercatori operai vadano sui tetti al governo sembra seccante, ma fino a un certo punto. Da lì possono solo scendere, o buttandosi di sotto, e non c'è problema, o dalle scale, e basta aspettarli e rimetterli al loro posto. Che dai tetti scendano nelle strade e le riempiano e tornino ad avere insieme obiettivi definiti e un'ispirazione generale, che ripudino una presunta riforma e non ne possano più di un'intera idea del senso della vita, questo il governo non può sopportarlo. Il governo ha tutto il potere, e lo venera come un sacramento, il Parlamento è un incidente sempre più superfluo, giustizia e stampa (non servili) cerimonie fastidiose, le polizie  -  quando non manifestano a loro volta contro il governo  -  un privato servizio d'ordine.

La cosa è culminata  -  per il momento  -  nell'invenzione del Viminale: l'estensione del Daspo alle manifestazioni politiche  -  cioè alla politica. Essendo le manifestazioni politiche appunto il modo di manifestarsi della politica, la proposta vale né più né meno all'esonero di polizia di un certo numero di cittadini  -  "ritenuti pericolosi"  -  dalla politica, e dunque, per completare il giro di parole e di fatti, dalla cittadinanza. Ascoltare la trovata e sorridere  -  o ridere francamente  -  è fin troppo facile. "Li vogliamo vedere, a decidere chi può partecipare a un corteo o a un comizio, e poi a impedirglielo". Ma il bello delle trovate reazionarie sta proprio lì: che vengano sparate nonostante la loro enormità, anzi, grazie alla loro assurdità. Gli anziani si ricorderanno le polemiche roventi sulle leggi d'eccezione e il fermo di polizia. Ma il fermo di polizia, anche il più arbitrario per durata e modalità, pretende almeno di far seguire l'arbitrio a un reato commesso. Qui il fermo ne precede la presunzione, vagheggia una legislazione dei sospetti. Alle manifestazioni politiche possono partecipare solo i buoni cittadini: i cattivi no. Chi sono i cattivi? Quelli che, se si permettesse loro di partecipare alle manifestazioni politiche, si comporterebbero male. Logico, magnifico. Vengo anch'io. No tu no. E perché? Perché no. Il Viminale non vuole. Per il nostro bene.

L'idea del Daspo politico è così genialmente ministeriale da lasciare ammirati e senza parole. All'inizio; poi le parole vengono, altro che se vengono. Una volta che vi siate informati su che cos'è (è il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive, scritto così) perché non applicare il Daspo anche agli accessi alle Autostrade Italiane? Ho appena sentito dalle autorità preposte che la colpa di ieri è degli automobilisti sventati che sfidano la sorte senza attenersi alle raccomandazioni dei cartelloni stradali ("catene a bordo" eccetera: anche in treno?). Dunque Daspo ai caselli. Manifestanti o automobilisti, basterà dotare le polizie (e le forze armate, per la sinergia) di un elenco dei facinorosi, da compulsare al momento della loro discesa in strada. Del resto, diciamocelo: elenchi così ci sono già, pubblici e privati.

Per le incombenti manifestazioni studentesche basterà disporre di un primo catalogo approssimativo: due o tre milioni di nomi e cognomi. Del resto, avvenne già. Anzi, geniale com'è, l'idea ministeriale rischia di essere troppo modesta rispetto ai precedenti classici. Fascismo o "socialismo reale" non sapevano forse assicurare l'ordine pubblico e lo svolgimento ordinato delle libere manifestazioni, piuttosto che con la bruta repressione, con una accurata azione preventiva (di igiene, vorrei dire, ora che questa sintomatica parola  -  "la guerra, igiene del mondo"  -  è stata rimessa all'onore del mondo stesso)? Andando più per le spicce, quei regimi non si limitavano ad applicare un Daspo antemarcia ai sospetti dissidenti per le eventuali loro manifestazioni pubbliche, ma per le proprie. Alla vigilia delle quali gli oppositori, meticolosamente schedati senza bisogno di computer, quando non fossero già al sicuro in galera o al confino, venivano arrestati o consegnati agli arresti a domicilio. E la piazza delle manifestazioni di regime ne risultava sgombra dal rischio di incidenti: igiene, appunto, piazza pulita di rivoltosi, violenti e altri rifiuti organici.

Si applichi dunque il Daspo alle manifestazioni politiche, ma se ne escludano le manifestazioni di opposizione al governo  -  non occorre vietarle, basta abolirle  -  e lo si applichi rigorosamente a quelle del Pdl, della Lega e delle forze loro alleate e genuinamente fasciste, dai cui paraggi saranno allontanati i membri dell'Elenco Facinorosi, e concentrati per il tempo necessario alla sicurezza collettiva e all'ordinato esercizio del diritto di manifestazione  -  36 ore minimo  -  fra Incisa Valdarno e Firenze Sud. A bordo. In catene.

(19 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 15, 2011, 11:03:35 am »

IL COMMENTO

Una lezione ai maschi

di ADRIANO SOFRI


È inevitabile che le manifestazioni collettive sollevino qualche dubbio, e anche quella delle donne di domenica.
Non avevo mai sentito tante buone ragioni per aderire a una manifestazione. E non avevo mai sentito pretesti così capziosi e vanesi per non aderire. Lo svolgimento è stato magnifico.

Tanto tempo fa, noi uomini (molti di noi, almeno) che respingevamo con sdegno l'eventualità di stare mai dalla parte dei padroni, fummo costretti a un estremo imbarazzo, o a vergognarci francamente, quando di colpo ci venne rinfacciato di essere i padroni nel rapporto con le "nostre" donne, e le altre. Non era facile reagire: diventare donne, o un altro dei generi possibili, riesce solo a pochi, e restare maschi sapendo di essere in torto era seccante. A parte qualche provvedimento di correzione personale  - palliativi, del resto -  l'ideale era che le donne contassero per la maggioranza che sono, e per l'intelligenza peculiare di cui qualche millennio di raggiri e prepotenze le ha dotate, e allora gli uomini potessero rivendicarsi tali a ricominciare da una leale condizione di minorità.

Che questo avvenisse nell'arco della nostra esistenza personale, nonostante la longevità moderna, era da escludere. E per giunta la storia mondiale è andata in un modo tale che gli uomini si sono presi una quantità di rivalse, cruente o no, sulla risalita delle donne. Naturalmente donne e uomini sono categorie troppo generali perché si trascuri il rilievo dei casi individuali, cioè delle persone.
Va da sé che anche delle donne possono essere scemissime, e titolari di dicastero.

Tuttavia la statistica conserva una sua presa. Ho visto che fra pochi giorni si apre a Bruxelles una importante fiera del libro intitolata "Il mondo appartiene alle donne". Immagino che sia un auspicio, e anche così lascia perplessi, per quell'intonazione proprietaria, peraltro giustificata dalla convinzione opposta, data per ovvia, che il mondo appartenga agli uomini. (Tant'è vero che dicemmo "uomini" invece che maschi o esseri umani, per annetterci le donne).

Noi uomini non possiamo convocare una nostra manifestazione, perché tutte le manifestazioni sono state nostre  - abbiamo finito a volte per invadere di forza quelle di sole donne. Non proclamiamo mai di fare qualcosa "in quanto uomini", perché tutto quello che facciamo lo facciamo in quanto uomini. Possiamo immaginare ora che il mondo non ci appartenga più, o almeno che noi tutti, donne e uomini, e cavalli e tonni rossi, gli apparteniamo quanto lui appartiene a noi.

Ci vorrà parecchio tempo, nella migliore delle ipotesi. Però, per uomini fieri e sportivi e azionisti e allegri di minoranza come ci figuriamo, sarà bellissimo dividerci accanitamente sull'accettabilità delle quote celesti, e sfilare con i cartelli che dicono: "Non siamo panda giganti", e alla fine indire cortei in 2.300 città ammettendo, anzi richiedendo, la partecipazione di donne. Da domenica, ci siamo un po' meno lontani.

(15 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 02, 2011, 06:13:52 pm »

Se io fossi un tunisino

di ADRIANO SOFRI

METTIAMO che io sia un tunisino di vent'anni su uno spiazzo di Lampedusa. Aspetto di essere imbarcato ma sotto il maestrale il mare urla e biancheggia. La polizia ci ha tolto, uno per uno, le cinture dei calzoni e i lacci delle scarpe. (Dove le metteranno? Ce le restituiranno?).

Perché ce le tolgono? Come potremmo minacciarli con i lacci da scarpa? Forse vogliono impedirci di impiccarci. Ma allora sta per succedere qualcosa di così terribile che vorremo suicidarci? In ogni caso, è davvero umiliante essere spogliati dei lacci e restare coi pantaloni in mano.

Mettiamo che io sia un poliziotto di vent'anni e stia ritirando lacci e cinture a questi tunisini, ragazzi per lo più, che continuano a dire "Italia Italia" e "Libertà libertà". Mi hanno mandato qua - avrei voluto venirci in vacanza - e da 48 ore stiamo occupandoci, senza dormire e mangiando male, di questi disgraziati che non mangiano e non dormono. Pare che, una volta salpati, li porteremo indietro a loro insaputa in Tunisia. Sarà per questo che gli leviamo cinture e lacci, perché non si impicchino per disperazione. Ma se si immagina che possano farlo, che cos'altro si deve aspettarsi che facciano?

Mettiamo che io sia un abitante di Lampedusa, non so, un pescatore. Non ho niente, davvero, contro questi spiaggiati. Le loro facce mi sono familiari, con tanti di loro ho parlato. So quanti se ne perdono in questo mare di annegati. So che vengono a cercare l'Italia, l'Europa, e l'Europa e l'Italia li fermano qui, a Lampedusa, e la mia isola diventa una zattera alla deriva che affonda sotto il peso dei suoi naufraghi, e nessuno vuole soccorrerla.

Mettiamo che io sia io. Mi è facile (all'inizio, almeno) mettermi nei panni di un ragazzo tunisino o di un poliziotto in trasferta a Lampedusa. Nei panni miei, mi chiedo costernato come siamo arrivati a questo punto. Dopotutto, sono sì e no due mesi. Si è gridato all'invasione, all'Europa indifferente, e si è lasciato che l'alta marea di persone sommergesse Lampedusa, giorno dietro giorno, fino a devastarne la vita quotidiana, e abbandonando all'indecenza i nuovi arrivati. Dapprincipio mi sono detto, ci siamo detti in tanti, che era la scelta deliberata e allegra di un governo alle prese con un mare di guai: era così infatti, e poi la Libia e il Giappone sarebbero arrivati di rincalzo a far da palo a un governo che intanto borseggiava il processo breve e qualche altra porcheria d'interesse privato. Fino al giorno in cui il gioco si è svelato teatralmente sulla doppia scena della visita del capo del governo a Lampedusa, un'esibizione con pochi eguali nella storia del caudillismo contemporaneo, e del parlamento, un parlamento senza eguali nella democrazia contemporanea. Ma intanto si capiva che il cinismo grossolano di quel calcolo si andava ritorcendo giorno dietro giorno contro i suoi autori, e che prendeva il sopravvento la loro insipienza. Hanno detto di tutto - che li pagheremo perché tornino indietro, che gli faremo un campo di tende perché restino nell'isola, che li manderemo a casa della Merkel, che li riporteremo manu militari al loro paese, nolenti loro e il loro governo e le loro acque territoriali: e fatto niente.

Il maestrale ha regalato una dilazione di forza maggiore. Ma le scadenze sempre più solenni e ultimative del capo e dei suoi uomini - 24 ore, 48, 60, e tutto sarà risolto! - suonavano vecchie, e mostravano la sostanza. C'è una moltitudine di rifiuti da smaltire, come a Napoli, come all'Aquila. Monnezza a Napoli, terremotati all'Aquila, rifiuti extracomunitari a Lampedusa: e la stessa soluzione, spazzarli qua e là, alla rinfusa, con le cattive o con le buone - le buone, una villa trattata su e-bay, un nobel o un casinò a Chiaiano o Lampedusa o Manduria. Quanto alle cattive, basta un tipo addolcito dalla malattia che biascica "Fuori dalle palle!", e l'intendenza seguirà. Così la vergogna travolge gli argini, sommerge prima i piani alti, poi i mediani, infine anche i piani bassi e gli scantinati.

In questa combinazione di trivialità, incapacità e inumanità non è facile dire che cosa bisognerebbe fare. È più facile farlo. O almeno, qualcuno lo fa. Ieri monsignor Crociata ha comunicato per conto della Cei che "come Chiesa italiana attraverso le diocesi e le strutture della Caritas, abbiamo individuato 2.500 posti disponibili per accogliere altrettanti immigrati in 93 diocesi italiane". Il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ha sventato l'ukaz ministeriale che concentrava e recintava nella palude di Coltano (Pisa) centinaia di migranti così da avventarli contro la gente del posto e, capolavoro, i residenti rom, offrendo di ospitare lo stesso numero di persone in strutture di località diverse e in gruppi di poche decine, e "senza filo spinato". Immagino che iniziative così ce ne siano tante e ignorate, a compensare gli smaglianti rifiuti di autorità varie di ogni latitudine - e specialmente delle più alte. Andrebbero censite e messe a frutto, tanto più di fronte alla disfatta di un modo di governo che si nutre propagandisticamente dell'emergenza e nell'emergenza vera soccombe.

Mettiamo dunque che io sia io, nei miei panni, e ciascuno di noi si metta nei suoi panni personali. La cosa ci riguarda? O pretendiamo che la nostra condizione di individui ci esoneri (e ci impoverisca) di una parte di responsabilità? Ci sono tutti questi esseri umani che si mettono in viaggio avventurosamente e dolorosamente in cerca di una vita migliore, che somigli un poco di più alla nostra.

Vedete, ogni discorso sull'immigrazione, sui profughi e sui viaggiatori (i "clandestini"!) che non rinunci del tutto alla nostalgia per una fraternità umana, viene tacciato subito di buonismo, cioè di una bontà di maniera. E messo a tacere dalla frase definitiva: "Prenditeli a casa tua!" La frase è cattivista, ma ha una sua utilità, e non è affatto imbattibile. Non solo perché ci sono molte persone che se li prendono, "a casa propria". Ma mi interessa che cosa fanno gli altri, che cosa facciamo noi altri. Avere una casa propria, e "una stanza tutta per sé", è ancora un gran privilegio sul nostro pianeta, ma è anche una condizione preziosa di libertà e di civiltà. I privilegi, anche quelli che non implicano una soperchieria diretta sulla povertà altrui, sono a rischio. I nostri pezzi grossi si riempiono la bocca di parole tolte al loro contesto reale. Berlusconi ieri, Dio lo perdoni e non lo sentano a Sendai, ammoniva sullo "tsunami umano" che ci sta travolgendo; e in Tunisia sono entrati 200 mila profughi dalla Libia. Così è per la parola "invasione": "È una vera e propria invasione!". No, naturalmente. Non è un'invasione vera e propria. Ma le invasioni succedono davvero, sono successe al tramonto di altri imperi, e quando succedono, abbiano una ragione o no (se la fanno, una ragione), entrano senza bussare.

Finché dura, assottigliandosi, l'età del nostro privilegio, piuttosto che gridare "Fuori dalle palle!", conviene versare il nostro modesto contributo supplementare per l'usufrutto del metro quadrato che ci è toccato in sorte. Se non siamo tipi da spartire il mantello col povero che trema, e anzi per tenercelo, il mantello, regalargli un cappotto in saldo, prima che gli venga un'altra idea. Spendere qualche energia e qualche soldo in aiuti, prima di rovinarsi in guardie giurate. Ho detto che conviene: se poi ci riuscisse di farlo con una specie di gioia, sarebbe fantastico.

(02 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 30, 2011, 05:13:16 pm »

   
IL CASO

Se a Napoli arrivassero gli angeli della monnezza

di ADRIANO SOFRI

Immagino come un dopoguerra, un film di persone che scendano in strada a prendere ciascuna il proprio sacco di spazzatura e se ne rientrino in casa. Confronto la monnezza a Napoli col fango dell'Arno a Firenze nel 1966. Che cos'hanno in comune, direte, a parte l'impiego metaforico del termine alluvione anche a Napoli?

Che l'una fosse un disastro naturale e l'altra umano, non è così decisivo. Nel 1966 l'incuria umana trasformò un accidente naturale in disastro: a questi fiumi rovinosi si apprestino argini e ripari nei tempi quieti, diceva Machiavelli, in modo che l'impeto loro non risulti così licenzioso e dannoso. Oggi inettitudine e corruzione di umani danno alla monnezza napoletana la portata di una catastrofe naturale. Ormai è difficile che i grandi disastri avvengano senza un concorso di colpa - come a Fukushima.

Però là c'erano i libri, qua la monnezza. Infatti: sgombrare dall'una vuol dire far posto agli altri, in tutti i sensi. Si pretende che Napoli sia affare dei napoletani. A uno strano finale va avviandosi l'anniversario dell'unità d'Italia. Uno spiazzo padano in cui gridare Secessione. Una città del cuore (dell'aneddoto sul Cavour morente: "Questi nostri poveri napoletani...") che si vuol mandare alla deriva. Eppure è bella l'idea che l'atto finale delle celebrazioni del 150enario abbia a che fare col riscatto dalla monnezza, e vi metta mano ogni parte del paese. "Quand'è che si vota di nuovo?", chiede un giovane in una vignetta dei giorni scorsi. La buona volontà c'è, aspetta solo i varchi da cui passare. Si chiamarono angeli del fango, con una dose di retorica melensa, i ragazzi di Firenze 1966, che infatti aspettavano il loro varco. Verrebbero a Napoli, i loro coetanei d'oggi, a passarsi di mano in mano i sacchi di spazzatura, se solo ci fosse alla fine un posto in cui depositarli. Sarebbe bello che ci venissero lo stesso, così, per prendersi il loro sacchetto e tornarsene via, un altro modo per votare, e per dire che abbiamo capito alcune cose semplici. Che i commissariamenti governativi sono serviti a rendere perenne l'emergenza e i suoi guadagni, e a saldare un sistema Commissariato-Impregilo-Camorra. Che si pretende che i rifiuti non partano da Napoli alla volta di altre regioni e si scarica da anni una valanga di rifiuti speciali dal nord alla Campania. Che è davvero possibile raggiungere una percentuale oltre il 60 per cento di raccolta differenziata nel giro di mesi, e che ci sono riuscite Salerno e Portici e Mugnano, che non sono in Finlandia. E che l'impegno per lo sgombero della monnezza coincide con quello contro la camorra: per esempio, spiega Guido Viale, nella discarica vuota nel Casertano controllata dalla famiglia Schiavone. Una tipica situazione risorgimentale, no?

Se da 17 anni si è fatto in modo di perpetuare un'emergenza della spazzatura che danna l'intera vita economica e civile di una metropoli mediterranea ed europea, è evidente ora il desiderio di trarne una rivalsa nei confronti del bruciante risultato elettorale: qualcosa come il "cacerolazo" cileno del 1972. La nuova amministrazione napoletana è stata investita da un voto che indica un desiderio irruento e profondo di rinnovamento e di pulizia. Ha ereditato la montagna di rifiuti. È grottesco che l'eccesso di zelo di De Magistris sui "cinque giorni" (nella città, del resto, delle Quattro Giornate, e c'era ben altro da spazzar via), gratuito com'era, faccia da pretesto a un impudente rovesciamento di responsabilità, e che Berlusconi arrivi a dire che dovrà ancora pensarci lui. Sarà bene che ci pensiamo tutti quanti, e che i governi di regioni che hanno dichiarato la propria solidale disponibilità, e lo fecero già in passato, sentano il sostegno dei cittadini, e si vergognino quelli che ostentano il proprio egoismo. (Si rilegga il riconoscimento dell'ex sindaco Formentini su Milano invasa dalla monnezza e soccorsa dal Bersani presidente dell'Emilia Romagna nel 1995).
Chiunque, se gli chiediate che cosa associa al nome di Napoli negli ultimi anni, risponderà "la monnezza". Lasciategli un minuto in più, e gli verranno in mente altre cose. Un presidente della Repubblica, naturalmente. E il libro italiano di gran lunga più amato, Gomorra. Un altro libro esce ora, e così nettamente l'editore Sellerio lo presenta: "Era dal tempo della Lettera a una professoressa che non leggevamo pagine così emozionanti". Si intitola Insegnare al principe di Danimarca, l'ha scritto Carla Melazzini, racconta fatti e riflessioni di un'esperienza ardua e formidabile come quella dei maestri di strada del Progetto Chance, che raccolgono ragazzi "dispersi" della Napoli un tempo operaia di Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, oggi ribattezzata "il triangolo della morte". Scarti, quei bambini, che vengono ordinariamente smaltiti nel "Sistema". Quanta ricchezza contengano, e quali lezioni vengano sulla città e il nostro tempo dal punto di vista di chi si dedica a loro, è difficile da immaginare per chi segua, fra l'angoscia e il fastidio o l'abitudine, le cronache sui mucchi di monnezza. "Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l'intensità e la consequenzialità del principe Amleto?"

Non si fa letteratura in questo resoconto, caso mai la si traduce nelle cose: "Lessi in una classe le prime righe della Metamorfosi, poi chiesi ai ragazzi chi dei membri della loro famiglia, secondo loro, avrebbe accettato di prendersi cura del povero Gregor Samsa trasformato in un immondo scarafaggio. I maschi all'unanimità risposero "la mamma". Perché? Ovvio: perché "pure 'o scarrafone è bello a mamma soja". Il giorno dopo ero in biblioteca, si affaccia Gianni, il più piccolo e brutto della classe, chiedendo timidamente: "Professoré, lo tenete qui il libro dello scarrafone?"".

Scriveva l'autrice (è morta un anno fa, immaturamente): "Quando le nostre alunne vogliono significarci che non sono venute a scuola per poter fare i servizi domestici, fanno un ampio gesto col braccio che mima lo svuotamento a terra di un intero recipiente di detersivo... Lo sporco deve essere espulso, finché non ne rimanga traccia dentro la casa... La stessa ossessione espulsiva è vigente nei confronti di mosche e altri insetti, del sudore, degli odori (a questi ragazzi è difficilissimo far fare esercizio fisico, perché non tollerano di sudare). Gettano ogni cosa nello spazio esterno a sé. L'essenziale è che sia "fuori". Quelli per i quali l'essenziale è che i rifiuti siano "fuori" sono i diretti discendenti di quelli che con i rifiuti hanno coabitato per tanto tempo, che come rifiuti sono stati sempre trattati. Il ragazzo che dieci anni fa ci disse "spendite tanti soldi pè munnezza comme nuje!", aveva una casa luccicante di pulizia ed era, come gli altri, un consumista coatto. Successivamente ha fatto in modo di mettere in pratica il concetto che aveva di se stesso".
Di una rivoluzione ha bisogno, e però ha un'imprevista opportunità, Napoli, e noi con lei. Sgombrare la monnezza e imparare a riusarla non è che la premessa. Issarono un tricolore sul mucchio di spazzatura. In un certo senso, era una buona idea.

(28 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 24, 2011, 05:15:54 pm »

GHEDDAFI

Kalashnikov e telefonini lo scempio del branco

Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Ma hanno i cellulari.

di ADRIANO SOFRI


La guerra non è che la caccia all'uomo. E anche il più abominevole tiranno esce da sé quando è ridotto a un animale braccato e denudato, e costringe chi guarda da lontano alla vergogna e alla pietà. Le scene finali di Sirte sono immagini di caccia antica, la preda sbigottita e insanguinata, il branco sfrenato e invasato. Non l'hanno divorato, Muammar Gheddafi: è la sola differenza. Gli umani non cacciano per nutrirsi.

Quando finalmente Ettore si vergogna di fuggire e affronta Achille, deciso a uccidere o morire, lo invita al rispetto reciproco del vinto. Gheddafi non è certo Ettore, al contrario, un torturatore della propria gente, né la brigata di Misurata somiglia ad Achille (se non, forse, per quella olimpica protezione della Nato). Se ne fa beffa il furioso Achille, "ti divorerei brano a brano", dice, e lo finisce, e gli altri Achei accorrono e non ce n'è uno che non affondi il proprio colpo nel cadavere, e il vincitore gli fora i piedi e lo lega al carro e lo trascina di corsa facendone scempio.

Gli dei e gli eroi se ne sono andati da tempo, coprendosi il viso, ma la scena è ancora quella. Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini. A distanza di minuti, avreste visto sul vostro schermo Ettore atterrato, e i vigliacchi trafiggerne e insultarne il cadavere, e Achille bucarne i calcagni e attaccarlo al suo pick-up. L'uomo è rimasto antiquato, o è pronto a ridiventarlo:
e meraviglioso e tremendo è il corto circuito fra la sua antichità e i droni che gli volano sulla testa e colpiscono con esattezza e buttano in un tubo da topi il cacciatore mutato in preda e glielo mandano in mano, mani di prestidigitatori di kalashnikov e telefonini. Ci sono le foto di Misurata, il cadavere disteso, a torso nudo, lavato, e circondato da maschi in posa ciascuno dei quali brandisce il telefonino: e qualche ispirato artista contemporaneo, come lo Jan Fabre che ha messo alla Vergine della prima Pietà di Michelangelo la faccia di un teschio, avrà già pensato di rifare una Deposizione in cui Maria e le pie donne e Giovanni e Nicodemo tengano in mano un telefonino.

Nel linciaggio della Sirte la combinazione fra l'antiquato animale umano e l'ipermodernità ha preso la forma degli aerei del cielo e degli indigeni sulla terra, arcangeli disabitati gli uni e creature imbelvite gli altri, la Nato e i fanti, ignari i primi del linciaggio, che devono fingere di non volere, responsabili e anzi fieri ed ebbri i secondi: e contenti tutti, perché il processo di un tiranno così longevo e intimo è sempre una minaccia micidiale per i piani alti. Nessuna cospirazione: non ce n'è bisogno. Solo una divisione del lavoro. Chi mette in fuga dall'alto, chi stana dal basso, come in una buona battuta di caccia. Alla muta non occorre suggerire niente, è fatta di uomini giovani ed eccitati, hanno avuto padri torturati, sorelle violate, compagni ammazzati, sentono l'odore della vendetta e della gloria.

L'odore della foto di gruppo è più forte dell'odore del sangue per il branco dei lupi. Non fanno il conto, in quel momento esaltante, esultante, dell'effetto che la scena farà più lontano, nel tempo o nello spazio. Il nemico giurato che ha ancora la forza di tirare su il braccio sinistro e pulirsi il sangue dal viso e guardarsi attonito la mano insanguinata e mostrarla anche a loro, sbigottito, come a dire "Guardate che cosa avete fatto" - pare che abbia detto cose simili, "Chi siete?", e "Perché lo fate?", istupidito dal corpo che cede e dalla vecchia abitudine a non capacitarsi.

Non esistono cadaveri vilipesi e martoriati che possano essere esposti a lungo a vantaggio dei giustizieri. C'è sempre un Cristo, un Hussein, nella memoria. Gli americani l'avevano capito, con Osama, e quel precedente modera oggi le loro deplorazioni. La differenza, più sottile di una carta velina, fra la barbarie e la civiltà sta nel processo; più esattamente fra il processo popolare, la gogna, i prigionieri neri legati alle canne delle mitragliatrici e trasportati in giro come trofei, e il processo regolare. Il quale, con tutte le ipocrisie che volete, ha intanto bandito la pena di morte, eppure si occupa dei crimini più feroci contro l'umanità, mentre certi Stati la tengono ancora per crimini di particolari. Per i ribelli terra terra, e per i grandi delle democrazie, il processo è ancora un lusso da donnette, o il peggiore degli imbarazzi.

Riguardate questi video, e chiudete gli occhi, perché l'audio è forse più terribile. Poi riguardate, e immaginate di leggere l'avvertenza: "Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità", prima di un canto dell'Iliade o di un passo della Bibbia. Deve tremare un mondo che tenga accanto così spaventosamente una tragedia arcaica - il tiranno e i suoi figli e la sua tribù e le fosse - con la sofisticazione di armi e comunicazioni e con la voglia di liberazione. Gheddafi era lui stesso al colmo di questa aberrazione, e l'ha passata di mano ai suoi sacrificatori, come l'orpello della pistola dorata. Naturalmente, bisogna andare avanti, provare ogni volta a ricucire gli strappi, capire. Ieri a Damasco si gridava già: "Ora tocca a te, Bashar".

(22 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/esteri/2011/10/22/news/carnefici_telefonino-23652478/
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 01, 2011, 10:57:30 am »

IL DIBATTITO

Disporre della propria vita lusso supremo della civiltà

La decisione di Lucio Magri ci mette di fronte a vicende dolorose che non è possibile affrontare solo con leggi o regolamenti.

Teniamoci la contraddizione: la scelta è un bene prezioso ma se lo fa chi ami ti ribelli

di ADRIANO SOFRI


E DI NUOVO qualcuno, qualche specialista, ci ammonisce: "Non siamo padroni della nostra vita". "Non siamo padroni", questa sì che è una bella espressione, sarebbe piaciuta anche a Lucio Magri. Ma se vogliono metterci in balia di un altro padrone, allora siamo pronti a rubargliela e riprendercela, "la nostra vita". Quando non si sia a questo punto, quando non si voglia pignorarci la vita, lasciamo diritti e doveri ai codici, avere e dare ai registri contabili. Teniamoci la contraddizione. Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l'eventualità che una persona che amo scelga di morire. Non solo: nessuna proclamazione sulla virtù del suicidio mi impedirà di desiderare che il mio prossimo improvviso, l'uomo della spalletta del ponte, rinunci al suo salto, e di tendergli una mano perché torni di qua.

Il suicidio è un sublime tema filosofico e un grandioso tema sociologico e statistico, ma è un altro affare nei fatti, e nei fatti i suicidi sono altrettanto diversi quante sono le persone che li compiono. Nei commenti a vicende come questa non vale la pena di attardarsi fra l'uno o l'altro partito preso religioso, che riescono a ripetersi imperterriti nella loro lingua morta. C'è una pena che cambia di colpo le cose, e non è affatto così condizionata dall'una o dall'altra fede, dall'esistenza o dall'assenza di una fede. Il suicidio assistito  -  prende un suono sindacale, come tutte le
formule burocratiche. Ha un risvolto, il suicidio abbandonato, spoliato. Stiamo parlando oggi di un uomo vicino agli ottant'anni, che era andato e tornato, è andato e non è più tornato, dunque era libero. Ne aveva novantacinque Mario Monicelli, che si schiantò davvero come il sarto di Ulm, e non si illudeva affatto di volare.

Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati. Mi colpisce un'affinità fra il suicidio degli adolescenti (la loro seconda causa di morte, se non sbaglio, dopo i disastri stradali) e quello dei detenuti che si ammazzano nei primi tempi della loro galera, spesso senza essere stati giudicati. Nella loro primavera, non alla fine di un inverno. La galera è fatta per indurre chi ci incappa (anche i guardiani) alla disperazione e all'insensatezza, dunque all'incombenza e alla tentazione del suicidio, e al tempo stesso è regolata in modo da simulare il divieto del suicidio. Vi tolgono la cintura dei calzoni e dell'accappatoio, il fornellino del gas, i vetri e tutto ciò che taglia. Basta pensare per un momento  - immaginarlo, immaginarvisi  -  a uno che annodi di nascosto i lacci delle scarpe, ammesso che sia riuscito a tenerseli, e scelga con cura il minuto necessario a sventare lo sguardo d'altri in quella ressa, per capire che cos'è un suicidio non assistito. Si chiedono, i giornali, quale ultimo lago svizzero, quale ultimo pensiero abbiano attraversato la mente del morente: nella cella sordida cui alludo ogni energia estrema, ogni ultimo pensiero è riservato a un muro sporco e alla determinazione millimetrica necessaria a farcela. Ma questo non è un ennesimo articolo sul carcere, insinuato surrettiziamente nella commozione per la morte di Magri. Parlo di tutti, dei liberi, e del punto in cui prigionia e libertà si rovesciano l'una nell'altra. Il nervo più profondo del totalitarismo sta nella pretesa capricciosa che le democrazie riservano ai regolamenti penitenziari, salvo trasferirle ai testamenti biologici: di impedirti di vivere e di impedirti di morire. Di renderti impossibile la vita e la morte. Le reti o le barriere piazzate lungo il Ponte di Spoleto o attorno alla Torre di Pisa servono a non sporcare il greto e il selciato, non a dissuadere i suicidi.

La lezione dello stoicismo, gli amici convocati, il convito, la conversazione e il commiato, resta magnifica, ma è davvero distante. Vicina a noi è l'aberrazione dei suicidi-omicidi, questa sì un'epidemia contagiosa e gregaria e orrenda, ebbra dell'illusione di non morire soli e non uccidere soli; ora imprevedibilmente riscattata da gesti oscuri come quello di Sidi Bouzid (la città tunisina dove un ambulante si diede fuoco dando il via alla "rivoluzione dei gelsomini", ndr.). Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati. Che questo venga da una malattia senza riparo e piena di mortificazione, o da un'anima vedova e spezzata, o dall'offesa di una bambina cui siano stati tagliati a forza i capelli, non è questione da dibattito. Né la distinzione fra una malattia "terminale" e una depressione: certo che una depressione si può curare, ma credete che Magri non lo sapesse? Si può volere con ogni fibra di un corpo martoriato la vita fino all'ultimo istante, e si può ripudiarla anche quando si sia un corpo sano.

In ogni caso faremo di tutto perché i nostri cari, e magari il nostro prossimo, restino attaccati alla propria vita. Ma desidereremo una Svizzera per noi e dunque per tutti. La ricetta, "Si sciolgono 15 grammi di pentobarbital di sodio in un bicchiere d'acqua...", non è cinica là e affabile qua, dove dev'essere spacciata di nascosto. È strana, la Svizzera, lo è proverbialmente. Ha le banche, i caveau, è neutrale e affarista. È terra di rifugio, neutrale e accogliente. Noi siamo, quanto a caveau, una Svizzera colossale, e quanto ad accoglienza, una penisola di piccole Svizzere clandestine, in cui si muore al nero. Certo la ricetta e la liceità dell'assistenza al suicida non tolgono il dolore, la disperazione e lo schianto. Immagino che anche in Svizzera una tromba delle scale possa attirare più che una bevanda antiemetica. Primo Levi era un chimico, avrebbe saputo come fare.

Voglio dire un'ultima cosa. Il lusso supremo della civiltà umana sta nel disporre di una propria vita personale, dunque di una propria personale morte. Vite e morti venivano e vengono spazzate e mietute all'ingrosso, senza riguardo all'età  -  anzi, con una predilezione per i giovani. Quando succede, si può provare a resistere oltre ogni limite immaginato, scampare, e cedere poi quando sia passata la tempesta, e le persone restituite a un loro destino individuale. Améry, Levi... Adesso stiamo pensando a uno di noi, che siamo appena diventati sette miliardi. Questo lusso prezioso è ogni giorno a repentaglio. Nelle altre pagine i titoli sull'euro, su Durban, su Teheran, parlano d'altro, parlano di quell'antico anonimo mercato all'ingrosso delle vite e delle morti.

(01 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/12/01/news/sofri_diritto_morire-25879004/?ref=HREC1-3
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« Risposta #25 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:55:16 am »

Il racconto

Il bimbo davanti alla balena spiaggiata "Piangevano, gli ho dato le mie coperte"

Il naufragio della Costa Concordia al largo all'Isola del Giglio raccontata dagli abitanti.

Che sono corsi in strada per dare una mano

di ADRIANO SOFRI

ISOLA DEL GIGLIO - Leonardo tiene le mani sprofondate nelle tasche e parla col mento dentro il colletto, come un lupo di mare. Ha un suo battellino a remi, ha dieci anni, fa la quarta. "La mamma mi dice: 'Oh, apri la finestra'. C'era il saluto della nave". Al Giglio - spiega la mamma - il suono della sirena si dice "tufare": la tufa era la conchiglia in cui soffiare. "Ho salutato. Loro erano in pericolo, noi non ce eravamo accorti, aspettavamo i tre fischi. Poi abbiamo capito e l'allegria è finita. Hanno buttato l'ancora, i megafoni dicevano Calma, i passeggeri urlavano. Il babbo è uscito con la barca ad aiutare. Il babbo è pescatore, meccanico e ormeggiatore. Quando hanno cominciato ad arrivare le scialuppe ero già sulla punta del molo. Arrivavano zuppi. La mamma mi ha detto: adesso tu vai a letto. Ma adesso io non avevo sonno. Portavamo le persone alla chiesa, abbiamo distribuito l'acqua, il tè e le coperte. Piangevano, volevano andare a casa, non si capivano. I bambini piccoli li mandavamo all'hotel Bahamas o all'asilo".

Hai immaginato che toccasse a te? Di trovarti nei panni zuppi? "Sicuro, perché l'anno scorso c'ero io sulla stessa nave. Siamo partiti da Civitavecchia e poi abbiamo fatto Barcellona, le Canarie, Madeira, Malaga e ritorno". E quando siete passati dal Giglio avete tufato?
"No, quella volta eravamo passati più lontano". Quanti siete voi bambini e ragazzi d'inverno, al Giglio? "Una trentina in tutto alle elementari, una ventina alla media". E il tuo migliore amico chi è? "Giuseppe, ha due anni di più. Lui però non abita sul porto, perciò dormiva". Quanto ci metteranno a raddrizzare la nave? Hai visto le persone che cercano di risospingere in mare le grandi balene spiaggiate? "Con le balene avrei un po' paura. Secondo me ci metteranno un annetto".

E tutto questo subbuglio, le telecamere e i giornalisti e l'avventura, a parte il dispiacere per le persone che sono morte e sono state male, ti piace? "No, mi piace solo di avere aiutato. Ora non possiamo fare le gare di bicicletta". D'inverno preferiresti stare qui o in città? "Qui si possono fare più cose, e io pesco dei pesci, in città c'è il parco giochi". "Allora perché - protesta la mamma - mi hai risposto 'Ci vai tu, io resto col mio babbo'?". Hai letto un libro quest'anno? "Tom Sawyer a scuola e La scuola degli Acchiappadraghi a casa". Che cosa c'era nella tasca di Tom Sawyer? "Una pallina, un topo morto legato col filo, un pezzo di gomma, una scatola di petardi e una piccola pulce".

Li ho incontrati che uscivano dalla chiesa, Leonardo e la mamma, Paola. Lei racconta come tutti abbiano dato quello che potevano, così all'improvviso: coperte di casa, indumenti. Li riavrete mai? "Non ci abbiamo nemmeno pensato. Don Sandro, alla Caritas di Porto Santo Stefano, dice che qualcosa rimanderanno. La provvidenza è stata suor Lina, che era missionaria in Venezuela ed è parsimoniosa e all'asilo aveva messo insieme una quantità di coperte e vestiti. Ci sono altre due suore, giovani, una filippina e una indonesiana, Wilma e Maria. Nella chiesa, dopo il viavai dei passeggeri è arrivata la bassa forza dell'equipaggio, e si sono seduti a bere il tè a occhi bassi e stavano zitti zitti, finché suor Wilma e suor Maria hanno scambiato con loro due parole e loro erano filippini e indonesiani, è stata un'emozione fortissima, e le due suorine si sono illuminate come candele, e poi non la smettevano di chiedere e raccontare e meravigliarsi di che vita fanno".

Il famoso curato è don Lorenzo, sul portone ha affisso un foglio col suo numero di cellulare: 333 2658575. Caduto nella tentazione delle telecamere? Non scherziamo, dice, quel foglio è attaccato lì da sempre, chiunque può trovarmi quando ne ha bisogno. Lo trovo in sacrestia che ripiega tovaglie ricamate e frangiate d'oro che fino a poco fa sono servite per avvolgere persone intirizzite. È qui da tre mesi, ha tante storie alle spalle e poca voglia di perdere tempo a raccontarle, fu attratto dal cristianesimo sociale, poi fu monaco cistercense per una ventina d'anni, poi parroco di paesi. Quando ha preso le sue coperte ed è sceso in chiesa e qualcuno gliele ha chieste si è scusato: "Sono prima per i bambini". Non hanno protestato. Erano molto dignitosi, dice, e ormai non erano più atterriti, non c'è stata rabbia né litigi, erano solo seduti a cercare di riscaldarsi, "ma non dimenticherò mai gli occhi spaesati, smarriti".

Don Lorenzo crede che sulla terra "c'è posto per tutti e per tutto: purché l'uomo non sia arrogante, non creda di bastare a se stesso".
Uno dei suoi fedeli mi dice: "Tante disgrazie di colpo da noi: il naufragio, e la signora che è morta". Nel seguito della conversazione viene fuori che la signora che è morta aveva 92 anni.
Arrivano in sacrestia il corrispondente del Times e un veterinario a chiedere notizie del cane malato di don Lorenzo.
Resto a parlare col veterinario, si chiama Antonello, ha 39 anni, lavora a Prato. È arrivato proprio venerdì sera per stare un fine settimana nella sua isola, non veniva da agosto.

"Sono uscito per spostare la macchina e ho visto la nave. Mi sembrava inclinata. Ho chiamato il babbo: "È inclinata forte!" "Ma va".
Sono tornato a guardare e ho richiamato: "Sta affondando!" "Ma su!" Quando l'ha vista! Meno male che ero tornato a far numero: c'erano due carabinieri, due vigili urbani, mio fratello e qualche altro ragazzo. Arrivano le scialuppe, c'è una famigliola francese, la mamma ha indosso solo la biancheria, un bambino zuppo, gli metto su il mio cappellino e la mia maglia, poi vado a prendere quello che ho di maglie, calzini... Qualcuno mi dice: "Money money", volevano pagarmeli!". Qualche passeggero aveva degli animali? "Non ne ho visto nessuno.
Però nella concitazione ieri è andato sotto un'auto un canino del Giglio, poveretto".

C'è un giovane comandante di nave, coi bambini. "Le isole, chi non le conosce, meglio che stia alla larga. In Italia la sicurezza non è più la prima cosa. Orari lunghi, meno personale, filippini che non parlano l'inglese, che non hanno nessun brevetto. Ho lavorato in Inghilterra con equipaggi indiani, ma erano marinai provetti". Tutti credono di sapere che cosa è successo, ma hanno una riserva a pronunciarsi sul comandante, per non infierire, o perché sentono che perfino una pazzia inaudita come questa può capitare, tant'è vero che è capitata. Uno che ha fatto 40 anni di mare da nostromo e ne ha più di 80 non vuol sentir parlare di Titanic. Il Titanic nella piscina di casa, bofonchia amaro.

Anch'io rilutto al paragone col Titanic, soprattutto perché il Titanic è svaporato fino a diventare una grandiosa metafora, e invece le tragedie, anche quelle assurde in una tinozza, devono restare attaccate almeno per un po' alla realtà, al buio, all'acqua gelata, ai morti e i feriti e gli spaventati, ai bambini turisti e a quelli dell'arcipelago toscano, alle suore e ai mezzi marinai pakistani. Quando si è così a mal partito, tutto fa da metafora. Uno racconta che, con quella balena colorata lì davanti, ha sognato che l'Italia intera, la penisola, si piegava sul fianco del Tirreno, come la Costa Concordia, e valla a raddrizzare. Ero venuto col governatore della Toscana, come ora li chiamano. "E pensare - ha detto - che la parola governo viene dal greco e significa pilotare la nave".

(16 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/01/16/news/bimbo_coperte_costa_concordia-28198057/?ref=HREA-1
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 03, 2012, 09:53:38 am »

Il caso

Piazza Fontana, la verità di Sofri

Un instant-book di 132 pagine su internet per contestare la tesi del libro al quale si sono ispirati gli autori del film di Marco Tullio Giordana, quella dell'attentato "duplicato". "Una ricostruzione assurda, puntellata su fonti anonime"


ROMA - La vicenda giudiziaria di Piazza Fontana si è chiusa, finora, senza colpevolI. La verità storica, invece, ha raggiunto delle certezze che hanno nomi, volti, sigle e identificano senza dubbi la matrice materiale neofascista della strage in un contesto da Guerra fredda che nell'attentato ha visto attivi e complici servizi di intelligence italiani e atlantici. Ora, però, il film di Marco Tullio Giordana ("Romanzo di una strage") e soprattutto il libro al quale si è "liberamente ispirato" per la sceneggiatura, tentano di rimettere in discussione questa verità storica con un'operazione di revisione pericolosa per la memoria, e dunque per il presente, del Paese.

E' questa la ragione che ha spinto Adriano Sofri a pubblicare oggi sul web una sorta di instant-book di 132 pagine sulla strage, dal titolo "43 anni". Nel testo, anticipato in parte dal Foglio e online sul sito www.43anni.it 1, facendo uso abbondante di documenti e testimonianze tratte dalle varie inchieste, Sofri contesta la tesi fondamentale su cui è costruito il libro "Il segreto di Piazza Fontana", scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli e pubblicato dall'editore Ponte alle grazie: quel 12 dicembre del 1969, in sintesi, secondo Cucchiarelli, alla Banca dell'Agricoltura furono portate due bombe, da due persone diverse, appartenenti a fronti politici diversi; una, anarchica, doveva fare solo rumore; l'altra, quella fascista, doveva fare una strage.

Secondo la tesi del libro, i neofascisti dopo aver infiltrato i circoli anarchici e appreso del progetto di attentato dimostrativo, ne "duplicarono" l'esecuzione, arruolando un "sosia" di Pietro Valpreda e "clonando" la borsa con l'esplosivo per confondere i testimoni. L'operazione, secondo Cucchiarelli, sarebbe riuscita perfettamente.

Sofri contesta da cima a fondo la ricostruzione del libro, giudicandola insensata, assurda e puntellata nelle sue ipotesi sulle dichiarazioni di fonti anonime, e dunque senza alcuna attendibilità valutabile, oltre che spesso in contrasto con le carte dei processi. E aggiunge: "Il film, avendo conservato questa tesi e avendola - grazie al cielo - spogliata dell'attribuzione agli anarchici delle bombe 'innocue', l'ha resa gratuita, dunque ancora più assurda: bombe d'ordine o parafasciste che 'raddoppiano' bombe fasciste".

(31 marzo 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/31/news/piazza_fontana_la_verit_di_sofri-32515232/?ref=HREC1-1
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 03, 2012, 11:57:29 am »

Il commento

L'uomo della speranza

di ADRIANO SOFRI

Leggo che la tesi teologica di Carlo Maria Martini, nel 1958, ebbe per oggetto il "problema storico della risurrezione", dove le due parole, storia e risurrezione, sembrano contraddirsi, o almeno succedersi, e che l'una finisca dove l'altra comincia.

Eugenio Scalfari ha ricordato come, a più di mezzo secolo di distanza, alla domanda su quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù, Martini gli avesse risposto: "La Resurrezione, quando scoperchia il sepolcro e appare a Maria Maddalena". Quel punto è anche il confine invalicabile che separa il credente cristiano dal non credente. Nel dialogo fra Scalfari e Martini pubblicato qui nel maggio 2010 era stato il cardinale a proporre come argomento la Resurrezione. In quella occasione, dopo che si furono confrontati sulle reciproche idee di speranza e carità, Scalfari lo interrogò sul romanzo di Tolstoj, Resurrezione. Martini riassunse la vicenda del romanzo - con un lapsus del ricordo, facendo del principe protagonista un condannato e deportato, invece che l'uomo pentito che segue volontariamente nella deportazione la donna che aveva offeso - e concluse che era quello esattamente il percorso della conversione e della resurrezione. Era anche il punto finale comune: le resurrezioni degli esseri umani su questa terra. Il cardinale Martini è stato, fin da giovane e poi sempre, un visitatore di carceri, convinto, come detta invano anche la Costituzione dello Stato, che ai poveri cristi che le affollano sia data la speranza di risuscitare, due, tre volte, prima di quella ultima - o prima d'esser morti del tutto.

Non so oggi, ma una volta per i ragazzini tirati su nella fede la chiesa era anche una possibilità di immaginare la più straordinaria promozione sociale o la più emozionante avventura. Di diventare Papa - tutti possono diventare Papa, non è come fare il farmacista - o missionario in Congo o in Patagonia. Così rileggo le biografie di Martini, persona pur aliena dall'avventura fisica. Un ragazzino che decide che la sua vita sarà quella di un uomo di chiesa. A 17 anni, 1944, l'ingresso nella Compagnia di Gesù. Prete a 25. Biblista prestigioso, che affianca al magistero romano una personale messa alla prova accanto ai propri poveri - il rischio della chiesa è infatti di lodare la povertà e scansare i poveri: mette allegria il racconto delle persone di Sant'Egidio, su Martini che accudisce un anziano povero irascibile e anticlericale, come il non credente che vada ad accudire il povero bigotto e si sorbisca sorridendo le sue geremiadi. Poi la scelta imprevista di Karol Wojtyla che lo toglie all'accademia e lo manda, lui mai stato curato d'anime, arcivescovo a Milano, la più grande e delicata diocesi del mondo: ci resterà 22 anni, gli anni del terrorismo e poi della cosiddetta tangentopoli. Si sono ricordati episodi di riscatto civile e umano che furono allora inutilmente controversi e che ebbero invece un sapore manzoniano: i militanti di Prima Linea che se ne congedarono depositando il loro arsenale di armi in vescovado, la decisione dell'arcivescovo di dare il battesimo ai due gemelli concepiti in un'aula di tribunale da due di quei militanti, che l'avevano chiesto. Le iniziative pastorali, il "Farsi prossimo", la Cattedra cosiddetta dei non credenti. Ieri ho sentito un passante milanese, intervistato da un notiziario, che diceva: "Dialogava con tutti, ebrei, musulmani, buddisti, perfino coi non credenti". Mi è venuto da sorridere per quel "perfino". È successo infatti alla nostra società di essere talmente assorbita dalla nozione della necessità di un confronto fra le religioni - quando non da un'ottimistica fiducia nella fratellanza (sorellanza meno...) fra "le tre grandi religioni monoteiste" - da dimenticare che il pregio più caro della nostra civiltà, pagato a così caro prezzo, sta nella confidenza e nella naturalezza con cui conviviamo, nella stessa famiglia, nella stessa cerchia di amici, negli stessi partiti e sindacati e tram e bar e chiese e stadi, fra credenti e non credenti. L'ecumenismo non esisterebbe senza questa premessa. Leggo di Martini che diceva che in ognuno di noi c'è il coraggio e la paura, e altrove diceva: "Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda...". Forse per lui questo voleva dire che il coraggio coincida con la fede e la paura con la sua assenza: non è così per me, ma questa confidenza, questo scambio fra i due sentimenti, fra le due persone, è il contenuto più prezioso della nostra vita comune, e il più messo a repentaglio da una premura esclusiva per il "dialogo fra le religioni", di cui certo nessuno può sottovalutare l'importanza.

Martini è stato anche, hanno ricordato tutti, l'interprete di "un'altra chiesa", forse sopravvalutandone la divergenza: è un fatto che si augurava una conversione in capite et in membris. Si chiama in causa il relativismo, cui sarebbe stato incline, all'opposto del Ratzinger di cui è stato grande elettore. Non so, anche Martini parlava di "una società sottoposta alla deriva dell'arbitrio". E Ratzinger ricorse a sua volta al paradosso di un "assolutismo relativista". Il fatto è che un relativismo assoluto è una boutade, buona ad autorizzare il dogmatismo assoluto. Mi pare che la differenza stia altrove, e abbia a che fare con una cosa decisiva per tutti, e per i gesuiti specialmente, come la casistica. La casistica è Welby, è Eluana, voi, io, ciascuno di noi. Il dogmatismo che elogia l'assolutezza è disposto a passare sopra ai casi singolari, magari coi cingoli, come nella scelta di Piergiorgio Welby e nel rifiuto al suo funerale. Martini vi si sottraeva, in quello come in tanti altri casi, che esemplificavano in carne e ossa le questioni dichiarate graziosamente "eticamente sensibili". Non parlava di omosessualità senza immaginare o ricordare persone omosessuali che aveva incontrato, né di profilattici, né di aborto, né di celibato dei preti (e nubilato di suore) o di pedofilia, di divorziati e risposati. Così, esemplarmente, sull'eutanasia: "Non si può mai approvare... E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé... Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica...".

Ammesso che io non sbagli, questa differenza ha molto a che fare con il modello dei vangeli. Quanto alla volontà di non sottoporsi a un accanimento terapeutico (espressione dubbia anche questa, perché l'aggettivo terapeutico ci entra abusivamente, ed è l'accanimento a farla da padrone) non c'è niente di cui discutere, niente che non rientri nello spirito e nella lettera dello stesso catechismo cattolico: se non fosse che uomini (e donne) pubblici e laici pretendono di fare dell'accanimento sui corpi altrui una legge dello Stato, e di gabellarla per sacralità della vita.

(02 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/02/news/l_uomo_della_speranza-41832004/?ref=HRER3-1
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 10, 2012, 08:43:07 pm »

La storia

Alcoa, quegli operai in cima al silo con il volto nascosto e l'elmetto Cgil

La protesta a 66 metri di altezza, o quella nel fondo di una miniera, costringe a porsi il problema degli 'invisibili', della dignità del lavoro, dei nuovi disperati. Perché i lavoratori di oggi sono come i detenuti

di ADRIANO SOFRI

LA FOTOGRAFIA, quella o una simile, l'avete vista tutti ieri sui giornali. Ci sono i tre operai dell'Alcoa 1 all'interno della piccola tenda nella quale hanno trascorso 4 giorni (e notti, soprattutto) a 66 metri di altezza, sopra una vecchia torre cisterna. Indossano le tute da lavoro. Hanno i visi coperti da passamontagna neri, come quelli dei Nocs (non so voi: io ho appreso solo in questa circostanza che si chiamano mephisto) o dei banditi. E poiché hanno inalberato uno striscione che dice: DISPOSTI A TUTTO, qualcuno ha pensato di assistere a una versione inedita di passaggio alla clandestinità, condotto sotto tutti i riflettori.

Che cosa vogliono dire quei passamontagna neri? Loro sapranno spiegarlo, noi spettatori distanti intanto possiamo chiederci che cosa dicono a noi. E prima di tutto che in quel travisamento non c'è niente che faccia credere a un'intenzione di mascherare il proposito di delitti imminenti. Chi siano quei tre lavoratori lo sanno benissimo i loro compagni, la polizia, i giornalisti e chiunque voglia saperlo. Dunque non sono la pattuglia d'avanguardia di una nuova genia di clandestini armati.

Se non ci si accontenta di guardare le facce coperte, si resterà colpiti subito dopo dal fatto che quei lavoratori in lotta hanno scelto anche di tenere in testa i caschi di sicurezza, e su un casco si legge distintamente, accanto alla sigla dell'Alcoa, quella della Cgil. Vorrà dire qualcosa
anche questa combinazione di una scelta estrema  -  non nel vecchio senso dell'estremismo politico, ma in quello della messa in gioco della propria incolumità e della vita stessa  -  e della rivendicazione di un'appartenenza sindacale. Non importa che la Cgil approvi o no, o dica di approvare e in realtà tema sommamente, o chissà che altro, una simile forma di lotta: la Cgil è anche quell'operaio a 66 metri, e lui l'ha fatta figurare nella stessa fotografia del passamontagna e delle mani conserte, chiuse in attesa di qualcosa.

Dice forse, quella fotografia, che i tre e i tanti loro compagni che li stanno aspettando a terra, sono davvero "disposti a tutto", e al tempo stesso che sono persone normali, che lavorano e credono nella dignità  -  nell'"onore", hanno detto  -  del lavoro. Dice forse che a furia di essere trattati da invisibili ("invisibili", già si definivano così anche gli operai dell'Ilva, e anche i cittadini dei Tamburi, prima che si accendessero le luci) si rendono deliberatamente invisibili, così che chi guarda sia finalmente costretto a chiedersi che faccia abbiano.

Dice forse che si sta facendo retrocedere a tappe forzate la classe operaia agli stadi dai quali uscì lentamente e a un prezzo di sangue, i fuorilegge che diventarono operai agli operai che si vogliono far tornare fuorilegge. Dice che non si tratta della messinscena, né di un modo drammatico di partecipare dell'universale aspirazione ai riflettori, ma di una vera tragedia. Uno dei tre che tiene sul viso il passamontagna come per dichiararsi uguale agli altri, a innumerevoli altri, nel Sulcis e molto più lontano, ha rischiato davvero su quella torre e ancora ieri, alla partenza ennesima per una piazza di Roma. "Chiamaci disperati", hanno detto a Paolo Berizzi, che sta raccontando qui la loro vicissitudine. "Disperato 1", "Disperato 2", "Disperato 3": a che numero si fermerebbe questa nomenclatura, anche solo per la Sardegna?

Chi guardi poco meno che distrattamente quella fotografia rinuncerà subito a vederci un annuncio di violenza oscura, e proverà un moto forte di solidarietà e di simpatia per quel quarto stato che vuole continuare ad andare a testa alta. Ma bisogna andare avanti, nella riflessione e nelle sue conseguenze. Cominciò qualche anno fa, un genere di ricorso a forme di lotta che richiamassero spettacolarmente l'attenzione, e qualcuno, per sciocchezza o per zelo combattivo, proclamò che stava facendosi strada un nuovo modo di lottare, corrispondente alle condizioni nuovissime della società: gli immigrati senza nome e senza polpastrelli, i precari istruiti, colti, impegnati e buttati via.

La lotta cominciò ad arrampicarsi sui tetti, seguita dalle telecamere. Provai a dire allora, solo per cognizione di causa, che quelle nuove iniziative erano anche una estensione sociale di altre vecchissime, come quelle dei detenuti. Che i detenuti anche loro, ormai tanto tempo fa, avevano scoperto di poter lottare, ma che per loro le vie d'uscita orizzontali erano sbarrate, e però, oltre che scavar cunicoli col cucchiaio, potevano salire sui tetti, e guardare finalmente il cielo e farsi guardare da terra. Sventolavano lenzuoli, avevano i torsi nudi, tenevano un fazzoletto sul viso  -  anche allora, non perché pensassero di diventare irriconoscibili.

Una frontiera molto sottile separa la scelta nonviolenta di testimoniare con il proprio corpo dalla necessità disperata di usare la sofferenza del proprio corpo perché non resta altro. L'autolesionismo è affare quotidiano delle galere, decine di migliaia di detenuti si tagliano le vene ogni anno, e i dati finiscono nelle statistiche non lette del ministero della Giustizia.

L'altro giorno, quando ho visto un minatore della Carbosulcis 2 tirare fuori il temperino e tagliarsi davanti a compagni e telecamere, un uomo lucido ed esperto, un capo operaio, ho riconosciuto un gesto visto tante volte. Quel capo operaio aveva messo insieme a suo modo cose inconciliabili, come il casco con la sigla sindacale e il passamontagna. I lavoratori si battono oggi come detenuti in un carcere, come autoreclusi in un fondo di miniera minato: c'è di che interrogarsi, no?

Giorni fa un commento di Di Vico sul Corriere notava come le "forme estreme" di lotta "taglino fuori" i sindacati, che ne devono essere preoccupati. Vorrei prendere la cosa dall'altro capo, e dire che i sindacati debbano allarmarsi all'estremo di "tagliare fuori" forme di lotta che non sono più collettive alla vecchia maniera, ma non sono nemmeno "individualiste". E che mostrano, se ancora se ne dubitasse, come sia andata svanendo la distinzione, e ancor più l'opposizione, fra lavoratori "garantiti" e precari. Andare a testa alta, è il programma comune. Ora si dice: "Metterci la faccia", non è granché, spesso chi lo dice ha una faccia impresentabile. Quanto a perdere la faccia, non saprei riconoscere in una fotografia la fisionomia e l'abbigliamento di uno solo dei padroni multinazionali dell'Alcoa, né di chi ha trattato con loro le tariffe elettriche agevolate, eccetera. A loro modo, sono felicemente invisibili.
 

(10 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/10/news/alcoa_quegli_operai_in_cima_al_silo_con_il_volto_nascosto_e_l_elmetto_cgil-42254115/?ref=HREC1-1
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 06, 2012, 04:09:24 pm »

La polemica

Il Pd oltre le primarie

di ADRIANO SOFRI

IGNORANDO per un momento la vertenza sul regolamento delle primarie, vorrei dire perché la situazione non potrebbe essere più favorevole al Pd. La premessa è che il tracollo del centrodestra, Lega e Pdl, è il regalo insperato che insipienza, volgarità e ingordigia dei nuovi ricchi del governo e del sottogoverno hanno fatto al Pd, che non vi ha avuto un gran merito.

Oltretutto la Lega aveva occupato lo spazio del rancore xenofobo e razzista. Così che il suo sprofondamento lo indirizza, non in una dichiarata estrema destra, ma nella reazione antipolitica, elettoralista o astensionista. Il Pd può essere il beneficiario di questo passaggio insieme drammatico e buffonesco, e può anche esserne travolto.

Ci sono moltissime ragioni di delusione nei confronti del Pd, della sua deliberata confusione e della sua inefficacia; ma è infantile o vanesio non vederne la differenza dalla maggioranza berlusconista, anche dentro la grottesca necessità del sostegno comune al governo Monti. Chi veda lo scandalo di una crisi che esaspera le disuguaglianze ed espropria la politica democratica deve scegliere se confidare esclusivamente nei tempi lunghissimi della costruzione minoritaria di una conversione sociale ed ecologica, dando per indifferente un'alternativa di governo vicina, o se riconoscere nella vittoria del Pd una condizione più favorevole alla difesa del lavoro e degli impoveriti, al rovesciamento del ricatto finanziario e a un europeismo e un internazionalismo dei diritti. Nel secondo caso la sorte del Pd ha un'importanza determinante. Perché dunque mi pare che la situazione non potrebbe essere più favorevole per il Pd?

Perché le circostanze, abbastanza fortuitamente, hanno fatto sì che nelle primarie si giochi una posta essenziale. I suoi protagonisti, Bersani e Renzi (Vendola ha una grande responsabilità, ma è fuori dal Pd), hanno finito per incarnare un dilemma cruciale del nostro tempo. Renzi lo immagina e lo fa immaginare come un tempo novissimo. Bersani lo immagina e lo fa immaginare come un tempo di trasformazione.

Renzi non è candidato di programmi, troppo affini a una linea politica, troppo affine a sua volta a parole come destra e sinistra, perché la sua offerta viene prima dei programmi: è il "tutti a casa", il ricominciare daccapo, la definizione di sé secondo "quel che non siamo, quel che non vogliamo". La sua idea forte è che la politica vigente, anche quella non compromessa col malaffare, sia ancora dentro il Novecento, e non abbia capito quanto il mondo e i suoi linguaggi siano nuovi.

È un'idea nient'affatto distante da quella che sventola il movimento 5 stelle, salvo che Renzi la trasferisce dentro il Pd, di cui ha sperimentato la debolissima resistenza agli assalti (un suicidio collettivo di vecchie volpi nel caso delle primarie per Firenze) e il credito e il seguito residuo che può dare. Il giovanilismo di Renzi sarebbe poco attraente se non coincidesse con il rigetto popolare e populista verso un'intera classe dirigente, e con l'impazienza verso i partiti storici.

Oltretutto, nel Pd, benché abbia le ali impiombate dai notabili, un ricambio di generazione si compie, e non solo di facciata: nella Toscana di Renzi molti dirigenti del Pd sono più giovani di lui. Renzi gioca a modo suo la carta di un entrismo, perché l'entrismo storico (la tattica di stare dentro i partiti comunisti per condizionarli dissimulando la propria eterodossia) era il colmo della dedizione ideologica, mentre Renzi è per così dire il colmo del disinteresse per l'ideologia, che può voler dire della spregiudicatezza senza principii o di un eclettismo pragmatista.

All'obiezione: con quale competenza starai di fronte ai capi delle potenze internazionali, Renzi può rispondere con un'alzata di spalle. La competenza ho il tempo di farmela. Se non fosse che il mondo è terribilmente cambiato, e così in fretta, e sempre più in fretta vada cambiando sotto il nostro naso raffreddato, si potrebbe concludere che Renzi propone una variante dell'antica tabula rasa, della piazza pulita (termini in voga nelle nostre arene) che fondava le rivoluzioni. A essere un po' cattivi, una tabula rasa "per le dame".

E però Renzi non ha a che fare con Berlusconi, e il paragone è visceralmente sentito ma del tutto insussistente, e quando dichiara che il primo rottamato da lui sarebbe Berlusconi, Renzi non fa solo una battuta per respingerne il furbo corteggiamento, dice una cosa vera. Renzi non è miliardario, non è vecchio, non è arrapatissimo: è il portabandiera estemporaneo dell'idea diffusa che bisogni liberarsi di ogni arretrato e riguardare la realtà con occhi nuovi e ingenui. Non è un leader carismatico e non ci prova, non è un profeta-buffone: è un ragazzo svelto, e la sua idea di modernità mira alla velocità. Non è detto che sveltezza e velocità coincidano, non è detto nemmeno che più veloce sia di per sé più buono. Col che siamo a Bersani.

È curioso che l'improntitudine di Renzi abbia sigillato la sfida con Bersani dentro una doppia terminologia automobilistica, la rottamazione contro l'usato sicuro, in un'epoca in cui l'automobile va in rimessa. Nemmeno Bersani è un leader carismatico, e lo sa fin troppo: a furia di rinfacciarglielo gli avevano messo addosso un po' di complesso da "figlio della serva", poi è arrivato Crozza e gliel'ha tolto. Raro caso in cui un comico ha dato molto a un politico, e il politico ha restituito moltissimo a un comico. Che i due contendenti non siano "carismatici" è affare di cui congratularsi, dopo la sbornia. Bersani è appunto affidabile, sa che cosa significhi amministrare e governare, ha una sensibilità sociale incomparabile con quella del suo rivale. Ma non sarà questo a decidere.

L'offerta di Bersani si è fatta molto più chiara grazie alla sfida di Renzi. La dico con le parole che mi sembrarono decisive al momento di congedarsi dal sogno della palingenesi politica: qualunque cimento intraprendessimo, da allora in poi, non avremmo avuto altra eredità cui affidarci se non quel nostro (e di tanti altri prima di noi) passato esausto. Non il poetico "Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", la cui incertezza Renzi ha mutato in baldanza e buttato in politica, ma quello stesso pensiero con l'aggiunta di un minuscolo avverbio di tempo: più.

Ciò che non siamo più, ciò che non vogliamo più. Non voglio chiudere Bersani nelle mie parolette, ma il vero senso della sua candidatura mi pare consistere di quello: c'è un passato che si è ereditato e cui si è appartenuti, benché non al punto di finirne ostaggi, e la distanza presa da quel passato è un criterio prezioso per misurarsi col futuro. L'usato sicuro dice male questa condizione, ne fa una rassicurazione moderata e intimidita. Al contrario, essa ha bisogno di radicalità almeno quanto la scommessa di ripartire da zero.

Vincendo chiaramente le primarie aperte, Bersani avrebbe le mani molto più libere per compiere lo svecchiamento e il rinnovamento indispensabili, senza cedere alla demagogia. La questione del governo tornerebbe nel campo della politica elettiva, e al tempo stesso si limiterebbe la distorsione delle elezioni verso la vendetta antipolitica e la lotteria degli aspiranti. I cambiamenti avverranno, sono già avvenuti, spettacolosi.

Ma non c'è ingenuità in politica che rifaccia il mondo. È la storia di Mani pulite, ma soprattutto dell'ecologismo e del femminismo: cioè dei punti di vista che più di tutti avrebbero richiesto una rottura antropologica. I candidati principali alle primarie sono maschi. Anche qui si può immaginare una differenza fra chi non è più maschilista  - piuttosto: si sforza di non esserlo più -  e chi crede di non esserlo mai stato, di essere venuto dopo l'invenzione dei vaccini. E ancora, fidarsi di più di un antinuclearista di sempre, o di un nuclearista pentito? Il fatto è che la storia del genere umano è andata avanti così a lungo, così generosamente e così ottusamente, in una direzione, che non esiste un solo campo in cui un acquisto non abbia bisogno di un passo indietro, una nuova strada non sia anche la retrocessione da un vicolo cieco.

Insomma, le primarie per la candidatura sono una vera scelta fra i modi possibili di trattare la cosa pubblica e la scritta che corre sul suo imballaggio: Fragile.

(06 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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