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Autore Discussione: ADRIANO SOFRI -  (Letto 30135 volte)
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« inserito:: Febbraio 06, 2008, 11:22:10 pm »

da Il Foglio del 6 febbraio 2008, pag. 2

di Adriano Sofri

Trovo assai istruttiva, quanto all'assurdità o peggio dei tempi, la polemica sul bando dei radicali da parte del Partito democratico.

Un po' per lealtà, un po' perché se ne aspettavano molto meno che gli altri commensali (con quella formula pannelliana, i Capaci di tutto contro i Buoni a nulla) i radicali sono stati i più fedeli partecipi della vicenda del governo Prodi, e i meno inclini agli ultimatum e ai calcoli di botteguccia. Emma Bonino si è guadagnata, come ogni volta che le venga affidato un incarico di fiducia - come il soldato Nemecsek, pronto a immergersi nella vasca dei pesci rossi, se la consegna è quella - l'apprezzamento di tutti gli osservatori in buona fede.

Ai radicali si deve in misura decisiva il più prestigioso dei rari meriti di cui il governo può andar fiero, il voto all'O­nu per la moratoria sulla pena di morte. Ai radicali è stato fatto il torto evidente - e come tale riconosciuto in pubblico da alcuni fra i più autorevoli giuristi, in privato da tutti - di sottrarre i seggi in Senato che la lettera della legge, cioè la legge, assegnava loro, capaci oltretutto di dare al governo quella infima maggioranza che ne avrebbe protratto l'esistenza.

In una esperienza governativa lungo la quale le cose buone sono state realizzate non grazie ma nonostante o contro la coalizione di governo, e la consumazione di una maggioranza si è bruciata fino alla mortificazione e al rigetto di un intero popolo, e l'opposizione è cresciuta come un pallone gonfiato senza prendere alcuna iniziativa degna di memoria, e anzi dando prove intestine di meschinità madornale e sbandierando dalla prima ora fantastici proclami di illegittimità del risultato elettorale, i radicali hanno fatto la loro parte costruttivamente facendosene un punto d'onore, come gli ultimi giapponesi di una guerra perduta.

Nel corso di questa esperienza, e già alla sua vigilia, hanno ampiamente dissipato una rischiata confusione fra l'americanismo, che rivendicano, e il bushismo, e fra il liberismo, che rivendicano, e la legge della giungla. Vantando a ragione una estraneità ai vizi castali, e anzi una primogenitura nella denuncia della partitocrazia, si tengono alla larga dalla cresta d'onda demagogica. Hanno auspicato costantemente e vigorosamente indulto e amnistia, e non se ne sono pentiti ipocritamente quando piovevano pietre forcaiole. Hanno sostenuto, con l'esempio della vita e della morte di militanti e dirigenti politici che dalla loro solidarietà hanno tratto e soprattutto dato forza, da Luca Coscioni a Piergiorgio Welby, battaglie tra le più es­senziali per una nobile idea della politica.

Quanto all'aborto, solo una confusione fra la dolorosa libertà di scelta personale del­le donne e l'infamia delle demografie coercitive di stato può ricacciare su trincee opposte e accanite persone accomunate da un intimo amore per la vita. I radicali sono laici, ma questo non dovrebbe guastare in nessun partito, tanto meno nel Partito democratico. Qualcuno di loro sarà anche mangiapreti, ma i preti contemporanei hanno a loro volta appetito da vendere.

Insomma, la mia opinione è che l'idiosincrasia per i radicali sia una brutta malattia, che per giunta vede loro come ammalati dal cui contagio guardarsi.

Ora, in un serio partito che voglia fare da sé, ed essere davvero aperto, l'unico veto accettabile è quello contro chiunque voglia imporre veti alla partecipazione altrui. I radicali non lo fanno. Questa almeno è la mia opinione.

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« Risposta #1 inserito:: Settembre 12, 2008, 04:39:30 pm »

L'ex leader lc: non fu terrorismo.

Il figlio del commissario: lo era, noi tra le vittime

Onu e omicidio Calabresi

Sofri riaccende la polemica

D'Ambrosio: uscita fuori luogo. Manconi: giusto chiarire il contesto



MILANO — Meglio cominciare dalla fine. «Mi dispiace: argomenti come questo hanno bisogno di spazio e delicatezza, e sopportano male la risposta del giorno dopo. Ma io, sapete, non sono mai stato un terrorista». Adriano Sofri conclude così il suo articolo di ieri su Il Foglio, una chiusa inconsueta che dimostra piena consapevolezza del fatto che le sue parole non lasceranno indifferenti. In effetti: l'ex leader di Lotta continua commenta un articolo scritto su Repubblica da Mario Calabresi, che racconta di un incontro organizzato dal segretario delle Nazioni Unite tra le vittime del terrorismo venute da ogni parte del mondo, al quale ha preso parte in quanto figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato a Milano il 17 maggio 1972 da un commando di militanti di Lc. «Desidero muovere la più ferma obiezione a questa considerazione dell'omicidio Calabresi» scrive. Lo fa a doppio titolo.

Il primo deriva dalla sua vicenda personale. Come è noto, per la giustizia italiana il mandante di quel delitto è proprio lui. Il secondo invece è di altra natura. «Mario Calabresi parla sentitamente delle vittime, "donne e uomini che stavano vivendo la loro vita e non erano in guerra con nessuno". Con Pino Pinelli e Luigi Calabresi non fu così. Non c'era una guerra, ma molti di noi erano in guerra con qualcuno». Secondo Sofri la morte di Luigi Calabresi deve essere collegata alla strage di piazza Fontana, alle accuse «premeditate e ostinate» contro gli anarchici che sono all'origine della morte di Pino Pinelli, delle quali «Luigi Calabresi fu non certo l'autore, ma un attore di primo piano di quella ostinata premeditazione ». La sua morte, scrive Sofri, non è terrorismo, ma fu semmai «l'azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca».

L'anello di Piazza Fontana, dunque. Le 16.37 di venerdì 12 dicembre 1969, quell'istante di sangue che ha fatto cambiare per sempre strada alla storia d'Italia. Ma ancora più di questa tesi, peraltro rispettabile, Adriano Sofri sa bene di aver rotto un tabù con il suo articolo. Per la prima volta contesta una iniziativa, una opinione, proveniente dalla famiglia del commissario. Mario Calabresi ha già dedicato un libro intenso e rigoroso alla sua vicenda umana, e si limita ad un commento asciutto. «Ero e rimango molto contento di aver partecipato all'iniziativa dell'Onu. Si trattava di un simposio sulle vittime del terrorismo, ed è stato emozionante, intenso, un'esperienza di grande valore».

Gerardo D'Ambrosio non ne parla volentieri. «Certo che ho letto» dice in un mugugno. Oggi senatore del Pd, negli anni Settanta è stato il giudice istruttore che ha condotto l'inchiesta sulla strage di piazza Fontana e ha pronunciato la discussa sentenza sulla fine di Pinelli, quella che ipotizzava il famoso «malore attivo» e dava un'assoluzione purtroppo postuma a Luigi Calabresi. «Davvero non capisco dove voglia andare a parare Sofri. La sua uscita è fuori luogo, fatico a capirla. Dice il falso quando attribuisce la responsabilità della pista anarchica al povero Luigi. Fu la Polizia di Roma ad ordinare il fermo di Valpreda. Ma poi, se non è stato terrorismo quel delitto, mi domando cosa può esserlo. Esiste per caso un tribunale che condannò a morte Calabresi? Non mi risulta. Quell'uomo fu vittima di una campagna di denigrazione atroce, senza precedenti e mai più ripetuta, per fortuna. Credo che suo figlio sia andato all'Onu con pieno diritto. Che sia proprio Sofri ad affermare il contrario, mi sembra grave».

Tra gli ex di Lotta Continua, Gad Lerner è uno di quelli che conosce meglio i media e la politica, e ha messo in conto reazioni come quelle di D'Ambrosio.

Si dice sicuro che Sofri non abbia alcuna intenzione di polemizzare con Mario Calabresi, ma è altrettanto consapevole che il crinale sul quale si è mosso il suo vecchio compagno questa volta è davvero stretto. «Adriano prova profondo rispetto per Mario e la sua famiglia, che vivono ancora oggi un trauma irreparabile. Ma questo non può togliere ad un uomo già privato della sua libertà il diritto alle sue opinioni. Trovo paradossale che si voglia additare tigna o superbia nel suo bisogno di ricostruire la verità storica. La storia di quegli anni non è fatta di bianco o nero, di torti e ragioni scolpite nel marmo. È giusto che se ne parli, e che Adriano mantenga la sua libertà intellettuale».

Sintetico e scandito con estrema cura il commento di Luigi Manconi: «Trovo corretto sotto il profilo storico, politico e morale richiamare il contesto in cui maturò quel delitto». Nel complesso ecosistema dei reduci di Lotta Continua, Erri De Luca si è visto attribuire la funzione di bastian contrario, se non di reprobo, proprio per via di alcune sue affermazioni sulla vicenda Calabresi. «Ma questa volta ha ragione Sofri. Pinelli, e anche piazza Fontana, sono stati cancellati dalla memoria di questo Paese. La versione di Adriano deve essere considerata con lo stesso rispetto dovuto a quella che fornisce Mario Calabresi nel suo libro».

E alla domanda più delicata, De Luca risponde netto. «Dei rapporti tra loro due non mi voglio impicciare. Sono questioni personali».

Marco Imarisio
12 settembre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Maggio 30, 2012, 10:54:37 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 26, 2009, 04:16:14 pm »

IL COMMENTO

Sequestro di persona


di ADRIANO SOFRI


Duemila anni fa, a Roma, un capo che vedeva in grande si rammaricò che il genere umano non avesse una testa sola, per poterla mozzare di netto con un colpo solo.
Ieri, a Roma, il Senato ha decretato un colossale sequestro di persona: 60 milioni di corpi in un solo colpo. E' così vendicato l'oltraggio sacrilego della morte di una donna dopo soli diciassette anni di persistenza vegetativa, e riscritto il vocabolario italiano, dove pretendeva che una sonda infilata in gola o nella pancia di una persona fosse un trattamento terapeutico, una cura, e non un'ordinaria colazione.

Vasta la maggioranza che ha realizzato l'impresa, ben più della stessa ingente maggioranza uscita dalle urne scorse, così da corrispondere, alla rovescia, alla vastissima maggioranza di cittadini italiani che dissente dal nuovo decreto, quando non ne è atterrita o scandalizzata. Quando se ne completasse il cammino, gli italiani, dal Presidente della Repubblica all'ultimo povero Cristo, finirebbero espropriati della libertà di disporre del proprio corpo, cioè di sé: e con gli italiani chiunque si trovasse ad agonizzare in Italia per qualche circostanza di passaggio. Era il paese della dolcezza del vivere, non è nemmeno un buon paese per morire.

Certo, resta la Corte Costituzionale, finché dura. Resta il referendum: ma ai referendum le Curie hanno escogitato da tempo l'espediente - furbizia con cui soppiantare intelligenza - che lo sventi. Se non si riesca a impedirne l'attuazione, si promuoverà l'astensione: il quorum proibitivo lavora per noi. Furbizia è ormai la risorsa metodica. Fino a poco fa le Curie dicevano no a qualunque legge sul fine vita. Assediate dall'iniziativa laica e dalla pressione popolare, decisero bruscamente di accettare che la legge fosse fatta: a loro immagine, un'antilegge. L'altroieri il cardinal Bagnasco ha chiesto che ci si sbrigasse a farla. Vedete dunque che non è vero che questa Chiesa non creda all'evoluzione. Ma non è ai cardinali e ai vescovi che si devono muovere obiezioni di parole e di coscienze.

La legge è l'opera di una classe politica molto votata, e del sostegno di un'altra parte meno votata.
Quello che succederà d'ora in poi somiglierà a quello che succedeva finora. Che pazienti, famigliari, medici e infermieri faranno quando e come potranno il loro officio pietoso, mutati solennemente in fuorilegge. Finché un'altra donna, un altro uomo deciderà di sfidare pubblicamente l'usurpazione della legge, in nome della propria libertà e della Costituzione italiana, e l'Italia assisterà di nuovo col fiato sospeso a una coraggiosa agonia da una parte, e alle mene affannate delle autorità riunite dall'altra. L'Italia sta imparando dolorosamente a maneggiare in pubblico questioni di vita e di morte finora confinate, e anche protette, nelle corsie di ospedale e nelle stanze da letto di case dalle tende tirate.

Non sarà la stessa Italia, non lo è già. Cartelli esposti in pronti soccorsi e ambulatori, in tante lingue, dicono: "Noi non vi denunciamo". Tante lingue, due Italie, due cartelli opposti. Anche nel maneggiare ottimismo e trepidazione, sanità e malattia. A Bologna, un medico ha sfidato i candidati sindaco a esibire il loro certificato di sana e robusta costituzione fisica. Il presidente del consiglio è, buon per lui, ottimista e in forma, e tratta le malattie come allegre metafore. Ma le metafore tratte dalla malattia, e dalla biologia, sono brutte e pericolose. Se vuole prendersela con l'America, faccia pure; ancora meglio se volesse prendersela un po' con la Russia del suo amicone. Ma se dice: "Il virus americano", non va bene. C'è un odore di caccia all'untore, e anche di peggio. Se vuole prendersela con la magistratura, libero di farlo, salve obiezioni. Ma se dice che "la magistratura - o una sua parte - è una metastasi", offende imperdonabilmente una professione importante e coloro che la professano, e offende ancora più imperdonabilmente chi è ammalato di cancro e sa nel proprio corpo che cos'è una metastasi. Una sciagura, ma la sua, la mia, la vostra sciagura. Con la quale mi misuro io, ti misuri tu, si misura ciascuno a suo modo, espellendolo da sé e combattendolo come un nemico, sentendolo come una parte di sé, ignorandolo, vincendolo, morendone. Si prendano altrove le metafore, e anche le magistrature, e le Americhe. Si lascino i virus e le metastasi a chi sa, per sé o per i propri, di che cosa si tratti.

La politica professionale non è granché, anzi spesso - per esempio oggi - è abbastanza disgustosa, ma non è "un cancro", "un virus", "una metastasi". E tanto meno l'Aids: il cui abuso metaforico e barzellettiere surclassa tutte le altre porcherie analoghe, peste contemporanea per chi ne parla senza esserne affetto, senza pensare di poterne essere affetto, senza pensare a chi ne è affetto, senza immaginare ogni volta che apre bocca di esserne affetto. Come si dovrebbe. Ora e nell'ora della nostra morte, amen.

(26 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Luglio 13, 2009, 11:21:52 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:03:52 am »

IL COMMENTO

La febbre del peggio

di ADRIANO SOFRI

 CADONO muri, e lasciano vedere come siamo. Non era nel patto, non c'è stato un casting, non c'erano telecamere pronte. Sono arrivate molto dopo, tutto è arrivato molto dopo. Quelli che hanno fatto in tempo a scappare hanno poi raccontato: "Senza scarpe, senza telefonini...". Avevano ragione, le scarpe sono state sempre la prima cosa nelle guerre. I telefonini sono diventati la prima, nelle paci.

Sono crollati i muri, e abbiamo visto un'umanità vera. Non che l'altra non sia vera, quella del casting e delle telecamere perenni, ma questa è un'altra cosa. Basta pensare al significato di una parola come "fratello", qui e là. Questa è fraterna. Induce a fare un discorsetto sopra lo stato d'animo degli italiani.

Mentre la luna andava verso il plenilunio, le notti scorse, si pensava a chi, all'addiaccio o venuto fuori dalle tende, se la vedesse splendere addosso dal suo cielo di rovine. I terremoti tolgono la fede ad alcuni, in altri la rinsaldano. Io non ce l'ho né la rimpiango, ma ricordo mia madre che pregava, e guardo mello schermo persone sedute in cerchio fuori dalla tenda che pregano, e pregherei con loro, se mi chiedessero di farlo. Ma per chi non abbia il conforto o l'illusione della religione, noi abbiamo Leopardi. Anche il sole di Foscolo, finché risplenderà sulle sciagure umane. Ma abbiamo soprattutto Leopardi. Abbiamo la luna.

Sappiamo che i cattivi cementieri sono farabutti e sono affar nostro, ma che la natura ci è distrattamente matrigna, e di troppo gran lunga superiore alle nostre forze; e però che la nostra natura, "incontro a questa / Congiunta esser pensando, / Siccome è il vero, ed ordinata in pria/ L'umana compagnia, / Tutti fra sé confederati estima / Gli uomini, e tutti abbraccia / Con vero amor, porgendo / Valida e pronta ed aspettando aita...".

Avete sentito, in qualche tg, la vecchia signora che dal suo giaciglio raccontava le gambe spezzate del suo pianoforte e la profanazione dei suoi libri precipitati dagli scaffali e la sua vita dirottata al tramonto? Voci di solito ignote alla tv, improvvisamente sommerse, e riemerse a un microfono importuno a mostrare un'altra Italia. Succede ogni volta. Se ne sono ricordati in tanti, in questi giorni, della Ginestra. Per giunta, i nostri contemporanei pompeiani, contenti dei deserti, più accaniti delle ginestre, non fanno che risalire verso il cratere di un Vesuvio che i vulcanologi auscultano inascoltati.

La poesia è la più forte religione civile, per questo è bene imparare a memoria da bambini, per poterla rirecitare da vecchi, come una preghiera, la notte fuori da una tenda: "Che fai tu luna in ciel..." . Gli italiani danno il meglio di sé nell'emergenza, si dice. Lo si dice, da alcuni per congratularsene, da altri per deplorarlo, per rimpiangere un paese normale che sappia vivere fuori dalla febbre del peggio e del meglio. Però forse si dovrebbe aggiungere, oggi, che l'emergenza e i suoi abusi fanno i conti con uno stato del mondo sul quale la campana è suonata già per la terza volta.

Se fosse vero che noi, e gli umani in genere - perché quello che è vero per noi è largamente vero per gli altri - fossero capaci di dare il meglio nel mezzo di un disastro e di un allarme, ebbene, è lì che siamo, benché non basti ancora a farcelo sentire vicino com'è. Vuol dire questo, la conversione "ecologica" della politica o delle private abitudini. Nei giorni dell'Aquila si è staccato dall'Antartide un iceberg "grande come la Giamaica", hanno scritto i trafiletti: e siamo andati a controllare quanto è grande la Giamaica, sperando di trovarla più piccola possibile. E la guerra, e le guerre?

Lasciatemi dire una cosa. Le persone all'Aquila, e ancora di più quelli che ci arrivavano da fuori, dicevano: "Era come la guerra", "Come un bombardamento a tappeto". Qualcuno ha osservato che il terremoto fa più paura della guerra, del bombardamento. In Italia le persone che hanno conosciuto una guerra sono ancora molte, ma diventano sempre meno. Qualcuno è andato a vederla in giro per il mondo. Non occorreva andare lontano: per esempio, appena ieri, a mezz'ora di volo dall'Abruzzo. Non so se faccia più paura un terremoto o un bombardamento aereo: gli uomini non fanno che emulare la natura, anche nello spavento. E la terra trema anche sotto le bombe. So che "la guerra" significa che contemporaneamente cento città come L'Aquila sono distrutte come L'Aquila. Pensiero difficile da pensare e sopportare, vero?

Nei giorni del terremoto, succedeva che Obama, proprio nella piazza del Castello di Praga, ritrovasse il coraggio di nominare il disarmo nucleare. Una temerarietà, piuttosto: perché la terra è un colossale arsenale nucleare di guerra, e la proliferazione interdetta non fa che crescere, e le parole di Obama erano appena state sbeffeggiate dal lancio semiserio del missile nordcoreano (scherzi che possono fare molto male, però), e India e Pakistan giocano a loro volta con quel fuoco, e l'Iran...

Ecco: sono le nostre metafore quotidiane, lo tsunami, la guerra, il terremoto. Poi ci sono le guerre vere, i terremoti veri, gli tsunami veri. Non si può immaginare di vivere in una mobilitazione permanente da tempo di guerra o di terremoto, chi abbia la provvisoria fortuna di esserne risparmiato. La vita reclama i suoi diritti. Ma non si può nemmeno far finta che esista una vita "normale" fatta di ingorghi stradali e Grande Fratello, salvo sospenderla - gli ingorghi no, il Grande Fratello - quando le macerie tracimano. E la politica? La politica campa, vivacchia, o ingrassa, da molto tempo su emergenze di dettaglio o vere a metà, dunque false del tutto. Fa le facce, incarica, rimuove, si pavoneggia, ci scherza su, perfino.

La politica seria ha da misurarsi con l'emergenza universale, e non ha bisogno di inventare nuovi strumenti per rilevare il radon predittore: le basta mettere l'orecchio sul suolo, e sentire l'eco di quello che è già successo.

P.S. Noi amiamo i bambini e i cani, no? Siamo contenti che i bambini amino i cani. Sappiamo che i cani, quando non siano pervertiti da cattivi maestri, amano i bambini. Avevamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani di Ragusa, abbiamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani dell'Aquila. Sono state due lezioni esemplari.

(9 aprile 2009)
« Ultima modifica: Maggio 17, 2009, 11:22:28 am da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:41:23 pm »

IL COMMENTO

Se Veronica diventa preda

di ADRIANO SOFRI



Gentile Silvio B., le dirò alcune cose sincere, da uomo a uomo. Noi uomini non siamo abituati a dirle, e tanto meno ad ascoltarle. Vale per quasi tutti noi, non solo per i bugiardi più spericolati come lei. Noi (con qualche rarissima eccezione: ci sono anche uomini davvero nobili d'animo, ma non ci riguarda) sappiamo bene di che porcherie si tratti, sia che le pratichiamo, come lei ostenta di fare, sia che ci rinunciamo, perché abbiamo imparato a vergognarcene, o semplicemente perché non abbiamo il fisico.

Lo sa lei, lo so io.

Mi hanno raccomandato di non perdermi i giornali a lei vicini: non li ho persi. Ho scorso gli editoriali, ho guardato le fotografie. Sa che cosa ho pensato? No, non che mi trovavo di fronte a qualche colonna infame, questo era ovvio, l'ha pensato chiunque. Ho guardato le fotografie - una giovane donna, un'attrice, che si scopre il seno - e mi sono chiesto come sia stato possibile che una giovane donna così bella dedicasse la propria vita a uno come lei. E' successo anche a me, mi interrogo anch'io: come sia possibile che giovani donne così belle e intelligenti dedichino la propria vita a uomini come noi. Naturalmente, un po' lo sappiamo come succede.
Che carte abbiamo in mano, per barare.

Siamo volgari abbastanza per riconoscere la reciproca volgarità. Semplicemente, ci teniamo a bada un po' di più di quanto faccia lei. Dicono tutti che gli italiani la invidiino. Sinceramente, nemmeno a questo credo. La guardo, dalla testa ai piedi, e non ci credo. Gli italiani hanno, come tanti maschi del mondo, un problema con la caduta dei capelli. Ma sanno bene che la sua non è la soluzione. Lei stesso lo sa, e non deve farsi troppe illusioni. Il cosiddetto populismo è traditore. Uno crede di aver sostituito ai cittadini un popolo, al popolo un pubblico, al pubblico una plebe: ed ecco, proprio mentre passa sotto l'arco di trionfo del suo impero di cartapesta e lancia gettoni d'oro, parte un solo fischio, e la plebe d'un tratto si rivolta e lo precipita nel fango.

L'Italia è il paese di Maramaldo, e io non voglio maramaldeggiare su lei: benché sia ora di rovesciare le parti di quel vecchio scurrile episodio, e avvertire, dal suolo su cui si giace, al prepotente che gl'incombe sopra che è un uomo morto. Noi c'intendiamo: abbiamo gli stessi trucchi, dimissionari o no, pentiti o no. Siamo capaci di molto. Di esibire le nostre liste alle europee, e vantarcene: "Dove sono le famigerate veline?" dopo aver fatto fare le ore piccole ai nostri esasperati luogotenenti a depennare capigliature bionde. Di dire: "La signora" (non so se lei ci metterebbe la maiuscola: fino a questa introspezione non arrivo), sapendo che la signora di noi sa tutto, e anche delle liste elettorali prima della purga. Magari la signora la lascerà, finalmente, e lei le scioglierà addosso la muta dei suoi cani. Diventerà la loro preda prediletta. Ma nel Parlamento Europeo (le maiuscole ce le metto io: un tocco di solennità non fa male) ci si ricorderà di Veronica. Capaci perfino di chiamare "maleodoranti e malvestite" le deputate dell'altro schieramento: ci ho pensato, e le dirò che almeno a questo non credo che avrei saputo spingermi. In fondo lei è fortunato: le circostanze le permetteranno fino alla fine di restare soprattutto un poveruomo desideroso di essere vezzeggiato e invidiato e lusingato da ammiccamenti e colpi di gomito dei suoi sudditi, a Palazzo Chigi o sul prossimo colle, mentre padri di famiglia minacciano di darsi fuoco perché la loro bellissima bambina non è stata candidata, e vanno via contenti con la sua camicia di ricambio. In altre circostanze avrebbero potuto succederle cose terribili.

Nel giro d'anni in cui lei e io nascevamo morirono chiusi in due distanti manicomii, perfettamente sani di mente, la signora Ida Dalser e suo figlio Benitino, che facevano ombra al capo del governo. Allora lo Stato era più efficiente di oggi, e misero mano a quella soluzione medici, infermieri, direttori di ospedali, questori, prefetti, commissari di polizia, segretari di fiducia. Altro che lo scherzo delle belle ragazze nelle liste elettorali. Dipende tutto dall'anagrafe.

Per ora molti italiani (e anche parecchie italiane: le è riuscito il gioco di far passare la cosa come una rivalità fra giovani e belle e attempate e risentite) ricantano ancora il vecchio ritornello: "Tra moglie e marito...". Di tutti i vizi nostri, quello è il peggiore. E' la incrollabile Protezione civile dei panni sporchi da tenere sporchi in famiglia, delle botte e delle violenze a mogli e bambini, delle malefatte di padri spirituali al segreto del confessionale, fino a esploderci nelle mani quando il delitto d'onore appena cancellato dal nostro codice si ripresenta nelle figlia ammazzata in nome di qualche sharia. Non mettere il dito: no, a condizione che non si sentano pianti troppo forti uscire dalle pareti domestiche. O, anche quando la casa è così ricca e i muri così spessi, non sia la moglie a far sapere che cosa pensa. Che né il denaro né il soffio della Storia (Dio ci perdoni) le basta a tacere il suo disgusto.

Invidiarla, gentile presidente? Mah. Ammetterò che, reietto come sono, una tentazione l'ho avuta. Non mi dispiacerebbe avere un ruolo importante nell'Italia pubblica di oggi, per le nuove opportunità che si offrono a chi sappia pensare in grande. E' da quando ero bambino che desidero fare cavallo uno dei miei senatori.

(1 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 17, 2009, 11:23:05 am »

ECONOMIA     

IL COMMENTO

La minoranza manesca
di ADRIANO SOFRI


Le discussioni franco-tedesche sul sequestro dei manager rischiano di apparire un lusso dalla Torino in cui viene spinto giù dal palco sindacale il segretario nazionale della Fiom. Bruttissimo segno.

E non basta a consolarsi la fama di irresponsabilità o peggio che accompagna il gruppo di autonomi nolani che hanno premeditato e attuato l'assalto, contando anche su una singolare ingenuità degli organizzatori.

Gianni Rinaldini è un sindacalista normale, che ha all'attivo lotte preziose per lo spirito di sacrificio e di solidarietà, come quelle contro la disciplina da caserma alla Fiat di Melfi, passate vilmente sotto silenzio, e sa misurare la minaccia dell'isolamento. La Fiat sta giocando un prestigioso azzardo internazionale, ma sui suoi lavoratori italiani pesa un azzardo doppio.

Il governo italiano, salva qualche penna di pavone, non ha speso niente, e non si è mostrato nemmeno ansioso di discutere con la Fiat le prospettive dell'operazione. Ma i sindacati, che ragioni di ansia ne hanno fin troppe, meritavano una considerazione diversa. Tanto più se si confronti il buio in cui sono rimasti col ruolo del sindacato americano - che ha "ereditato", a proprie spese, la Chrysler - e tedesco.

La manifestazione nazionale di ieri, indetta in un giorno difficile come il sabato, ha visto una partecipazione debole per numero: qualche migliaio di lavoratori, dunque con un'adesione ridotta della Fiat torinese, dell'indotto, e della città. Si può pensare che una buona parte della città sia fiera e perfino euforica per l'impresa americana. Ma certo un'altra parte è spaventata dalla portata attuale della crisi e dall'oscurità del futuro.

L'episodio torinese ha soprattutto questo significato: che l'allarme sociale gravissimo che attraversa l'Italia e può tradursi sia nella sfiducia, sia nell'adunata attorno alla Cgil (di cui pure ci sono segni importanti, benché si faccia chiasso solo attorno agli episodi di contestazione sindacale), consente a minoranze manesche di mettere sotto sequestro maggioranze incerte ed esitanti. Le minoranze manesche mirano solo a diventare un po' meno minoranze e un po' più manesche. I rappresentanti dei lavoratori devono fare gli interessi dei lavoratori. Dovrebbe essere chiaro per chiunque con chi occorra confrontarsi.

(17 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 13, 2009, 11:22:25 am »

L'ANALISI

Il Purgatorio dei democratici

di ADRIANO SOFRI


Scommetto che molti di voi avranno reagito alla notizia che Grillo vuole candidarsi (o dice di volere) a guidare il Pd sbuffando ed esclamando: "Ma siamo seri!" Be', sbagliato. Intanto perché essere seri, è un vasto programma, e forse ormai tramontato. E poi perché un partito che si sia dato delle regole, fossero anche le più insulse (non dico una porcata di regole, ma una scemenza magari sì), non può che rispettarle.

Dunque se di qui al 23 luglio Beppe Grillo si iscrivesse davvero al più vicino circolo del Pd e raccogliesse le 2 mila firme di iscritti in almeno 5 regioni e tre circoscrizioni prescritte dallo Statuto, nessuna obiezione formale potrebbe venire alla sua candidatura. Obiezioni sostanziali sì, ma è un altro paio di maniche. Io per esempio penso che Grillo dilapidi le cose buone che gli succede di dire col modo in cui le dice: e il modo vale, nel suo caso, almeno il 51 per cento. Così, ammesso che non sia lui stesso a dire fra cinque minuti che la sua era solo "una provocazione" - del resto le provocazioni pesano- si troverà paradossale che uno si candidi a dirigere un partito di cui ha fatto il proprio bersaglio grosso.

Debole argomento anche questo, perché rinfacciare a Grillo il paradosso è come sequestrare l'idrante a un pompiere. Proprio perché parla sprezzantemente del Pd come del nulla, Grillo se ne offre come un'alternativa. L'alternativa al nulla, non è difficile da rivendicare. "Sono serissimo", ha tenuto a precisare Grillo, che detto da un comico di professione è a sua volta come il paradosso del cretese, che disse che tutti i cretesi sono bugiardi.

Dunque rinunciamo a esclamare: "Siamo seri!" Troppo tardi. Le primarie del Pd (le prime, quelle per tesserati, le seconde, quelle aperte, aspetteranno il 25 ottobre) sono al riparo dalle scorrerie e dalle goliardie di chiunque solo grazie alla prossimità della data di scadenza, il 23 luglio. Senza di che, nessuno potrebbe frenare una valanga di candidature concorrenti, rispettabili o provocatorie, dal momento che non c'è più, e da tempo, quella intima serietà responsabile che sola, altro che gli Statuti, trattiene dal trattare il partito cui tanti affidano le proprie speranze come il bar della stazione di notte. D'altra parte, se si miri davvero a costruire un Partito democratico, perno di un'alleanza elettorale che contenda il governo del paese all'alleanza di destra, iscrizioni e candidature non possono che essere benvenute. Ci sono oggi quattro candidati, maschi. Non si potrebbe certo trovare strana o importuna una candidatura femminile. E se i radicali, che nelle liste del Pd furono eletti in Parlamento e stanno nello stesso gruppo, sia pur chiamandosi "delegazione", avessero voluto iscriversi e candidare, per esempio, Emma Bonino, che obiezione si sarebbe mossa loro? Certo non quella della doppia tessera, salvo che la doppia tessera pretenda di autorizzare una partecipazione elettorale con il centrodestra, come hanno ragionevolmente obiettato esponenti insospettabili del Pd, da Marini a Rutelli. Quanto a me, troverei normale che un'adesione al Pd coinvolgesse anche le persone che si sono appena riconosciute nel cartello di "Sinistra e libertà": solo che è troppo normale, dunque non avverrà, anzi sì, ma molto più tardi, a partita giocata. E se fra i "giovani", nome già sparpagliatissimo, qualcuno volesse fare la propria corsa, senza subordinarsi a ticket mutilanti, e sia pure senza immaginare di vincere, che argomento potrebbe trattenerlo? E anche, per fare tutta la gamma delle ipotesi, se dei concorrenti già scesi in campo pensassero che dopotutto la cosa migliore è puntare a una leadership la più autorevole possibile, e a tagliare le unghie alle vanità personali, senza affatto sacrificare la battaglia delle idee, non ci sarebbe da rallegrarsi? Naturalmente, perché le idee si diano lealmente battaglia, bisogna averne, almeno un paio.

Le cose sono a questo punto. Il Pd paga uno scotto altissimo e interminabile al divario plateale fra una buona intenzione e gli inciampi della pratica. Oltretutto, non si può ignorare come il lungo congresso promuova comportamenti di apparato incresciosamente contrari all'investimento originario sulle primarie, tesseramenti democristiani o napoletani: per non dire dei guai già consumati in una quantità di situazioni locali. E con le elezioni regionali che incombono. Del resto qualcosa incombe sempre. Incombe oggi, ieri, il rischio di rinviare l'azione politica a cielo aperto perché si è troppo concentrati a farsi la fototessera nella cabina con le tendine tirate. E incombe la liquefazione del Pd. Anche la sua rianimazione: purché si veda come stanno le cose. Dunque si attraversi il più dignitosamente possibile questo purgatorio. Senza indugiare a prendersela con i passanti che si divertano a occupare il Pd come un'allegra e sguarnita palestra di scorribande. Ma questa è l'altra faccia del desiderio di avere un partito "di tutti", e non di qualche apparato. La nottata deve passare: qualcuno ne verrà fuori sobrio, e proverà a prendersi cura della baracca. Come nella Prova d'orchestra, sarà tentato di agitare troppo la bacchetta, e gli sbronzi di poco fa saranno mogi e con la coda fra le gambe. Purché arrivi, questa mattina dopo, e l'impressione di una cosa che ricomincia e si fa seria. Non è pessimismo il mio: è che ho appena sentito uno di quelli che fanno la propria parte da tanto tempo e senza alcun interesse personale, e provava a esprimere il suo stato d'animo dopo le discussioni sul presunto stupratore romano e la sortita di Grillo e non so che altra ultima notizia. Mi ha detto: "Noi che abbiamo a cuore... - non so nemmeno più che cosa abbiamo a cuore". E' stato zitto un momento, poi ha sospirato: "Però a cuore".

(13 luglio 2009)
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 04, 2009, 03:27:01 pm »

Quarant’anni dopo

Sofri, Casalegno e la violenza in Lc «Quando non sei più innocente»


Gentile direttore,

ho letto l’intervista ad Andrea Casalegno. Vorrei dire che cosa penso dei punti cruciali, che vengono presentati come se rivelassero qualcosa. A cominciare dal legame fra Leonardo Marino e me. La cui evidenza è stata fin dall’inizio (dal 1988, quando fui arrestato) il filo conduttore della vicenda: il figlio chiamato Adriano, i soldi che gli avevo dato... Mi chiesero come mai gli avessi dato dei soldi, se non per comprare il suo silenzio. Perché me li aveva chiesti, spiegai, perché gli ero affezionato, perché era povero e ne aveva bisogno per la sua famiglia: e documentai cifre e circostanze. In Lotta Continua, dice Andrea, tutti pensano che Marino dica la verità. Non so. Però so la verità. Non ebbi il colloquio che Marino mi attribuì, non gli diedi alcun mandato. Io lo so, e lo sanno per certo coloro che furono testimoni dei miei movimenti nella circostanza in cui Marino volle collocare il colloquio. Non diedi alcun mandato, e dunque non coinvolsi Lotta Continua — tutte le sue persone, compreso Andrea Casalegno — nella responsabilità di un omicidio.

Di tutte le altre responsabilità mi sono fatto carico, e non certo per difendermi in un tribunale. La mia condanna— che continuo a scontare — autorizza chiunque lo voglia a dichiararmi mandante provato dell’omicidio di Calabresi. Ma la condanna non cambia la verità, né la mia saldezza nel sostenerla. Dice Andrea — pensiero che dà il titolo alla pagina — che «il germe della violenza c’era già alle origini», dunque prima della strage di piazza Fontana; e critica la definizione del 12 dicembre del ’69 come la data della «perdita dell’innocenza». Io l’ho detto da tempo. In particolare, proprio in un’intervista al Corriere del 2 aprile 2004. «Così abbiamo perduto l’innocenza. Ma oggi mi interrogo sulla sensatezza di questa formula... Si tratta dell’idea: chi è innocente scagli la prima pietra. È l’espediente che Gesù usa per non fare lapidare l’adultera.

Questo stratagemma evoca un problema morale straordinario: è proprio vero che chi è innocente può scagliare la prima pietra? Noi oggi ci comportiamo così nei confronti del racconto di piazza Fontana. Innocenti come eravamo, toccava a noi per diritto, diritto che è divenuto poi la nostra dannazione, tirare la prima pietra. Poi quando l’hai scagliata non sei più innocente. E non a caso poi ne tiri un’altra e un’altra ancora. Fino a divenire un lanciatore di pietre. Quasi un lapidatore: persino a noi successe.

La campagna contro Calabresi diventò una specie di lapidazione... In realtà innocenti non lo eravamo. La verità è che l’innocenza come condizione originaria è molto difficile da trovare. Lo choc della strage per noi fu fortissimo, un colpo che ti fa tramortire: tuttavia eravamo militanti politici con una grande voglia di fare la rivoluzione da anni. Questo rende contraddittoria e parziale quella definizione di innocenza... la trasforma in una specie di autoassoluzione un po’ troppo indulgente. Mi chiedo: senza la strage di piazza Fontana, avrei tirato la mia prima pietra o no? Secondo me sì. Anzi forse l’avevamo già tirata». E alla domanda: «Vuole dire che la violenza era già dentro il movimento?», risposi: «Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima...».

Ricordato questo, trovo sconcertante l’opinione di Andrea che «la strategia della tensione ebbe un certo ruolo nel precipitare il Paese negli anni di piombo». La strategia della tensione e delle stragi segnò un mutamento sconvolgente nella temperie umana e civile dell’Italia, nel nostro stato d’animo e nel nostro orizzonte politico. Solo alcuni di noi — quasi per una deformazione psicologica — continuano a seguire quello che si dice, settimana dietro settimana, 35 anni dopo!, al processo bresciano su piazza della Loggia: autopsia delle colpe dello Stato nelle stragi, agghiacciante quanto sfinita. E comunque, per allora e per oggi, penso che qualunque delitto privato sia incomparabile col delitto commesso da chi ha il monopolio pubblico della forza.

 Andrea Casalegno ha raccontato in un libro l’assassinio di suo padre e una storia di famiglia piena di dolore. Mi dispiace molto, e mi dispiace il sentimento che leggo nelle sue parole. Quando Carlo Casalegno fu assassinato, ne provai rabbia e pena. Anni fa scrissi ad Andrea per ricordare un episodio: «Una volta — nel 1976— ritenni che tuo padre, in un commento, avesse ingiustamente addebitato a Lotta Continua il favoreggiamento verso scelte armate clandestine. Io reagii prendendo il telefono — ero a Roma — e chiamando tuo padre, col quale ebbi una conversazione vivace e aspra, nella quale però fu reciproco il riconoscimento della sincerità e forza delle convinzioni rispettive. (Forse, nelle parole di apprezzamento che tuo padre mi rivolse, c’era soprattutto il riflesso della sua sollecitudine e rispetto per te)». Quanto a chi in quegli anni passò la linea, Andrea tiene a ripetere che si può diventare ex di qualunque cosa, ma un assassino rimane per sempre un assassino. Io non lo penso: penso che ciascuno possa cambiare, e che anche un assassino possa diventare una persona che ha commesso un assassinio. Che non solo il calendario cristiano, ma la nostra società dimostri largamente, per fortuna, che questo avviene.

Adriano Sofri

04 novembre 2009
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 14, 2009, 11:00:18 am »

COMMENTI

Caso Cucchi sono tutti colpevoli

di ADRIANO SOFRI


SI CHIAMANO celle di sicurezza. Ci si sta al sicuro. Si può star sicuri che Stefano Cucchi fu picchiato, e che in capo a cinque giorni morì. Sul resto non c'è alcuna sicurezza. Sul resto, ordinario e allucinante com'è, niente si può escludere. Nemmeno che Stefano Cucchi sia stato picchiato due, tre volte. Nemmeno che si siano dati il turno, a picchiarlo, carabinieri e agenti penitenziari, che a turno da giorni se ne accusano.

Al punto cui sono arrivate le indagini, il pestaggio sarebbe avvenuto la mattina del 16 ottobre, nel sotterraneo del tribunale romano, e gli autori, indagati per omicidio preterintenzionale, sarebbero tre agenti della polizia penitenziaria, tre uomini fra i quaranta e i cinquant'anni. Gli inquirenti hanno creduto di aggiungere che "i carabinieri sono estranei". (Alla vigilia il capo della Procura non aveva detto che il detenuto era restato quella mattina nelle mani della polizia giudiziaria che l'aveva arrestato, cioé i carabinieri?) E, indagando per omicidio colposo tre medici del reparto penitenziario dell'ospedale Pertini - il primario e due dottoresse - gli stessi inquirenti hanno definito l'avviso "un eccesso di garanzia".

Nel balletto di versioni dei giorni scorsi, i magistrati hanno deciso di fondarsi sulla testimonianza del detenuto "africano, clandestino", che avrebbe visto coi propri occhi e poi raccolto le parole di Cucchi: "Guarda come mi hanno ridotto". Altri argomenti, per il momento, restano inspiegati.

Resta inspiegato il primo referto medico, redatto a piazzale Clodio in quello stesso 16 ottobre, secondo cui Cucchi "riferisce di una caduta dalle scale alle 23 della sera precedente": sera in cui era chiuso in una caserma di carabinieri. I quattro agenti penitenziari - colleghi, certo, dei tre indiziati - che lo accompagnano quel pomeriggio a Regina Coeli completano a loro volta la frase detta al detenuto testimone: "Guarda come mi hanno ridotto ieri sera". Ieri sera vuol dire i carabinieri. Questa mattina vuol dire forse i carabinieri, forse gli agenti penitenziari, che si accusano a vicenda.

È difficile decidere se questo grottesco rinfacciarsi versioni e colpe renda più spregevole la trama che ha schiacciato Cucchi, o induca ad apprezzare, coi tempi che corrono, il fatto che almeno né carabinieri né poliziotti penitenziari negano che il giovane uomo fragile sia stato pestato e spezzato a morte. Fragile: dunque da custodire più rispettosamente e premurosamente. Abbiamo ascoltato un bel repertorio di porcherie nei giorni scorsi. Che Cucchi era tossicodipendente, ovvietà pronunciata come se fosse un'aggravante, o un'attenuante dei suoi massacratori.

La tossicodipendenza è una sciagura per chi ci incappa e per chi gli vuol bene, e diventa un danno per tutti quando il fanatismo proibizionista esalta gli affari illegali. In Italia oggi è una ragione per finire nelle celle "di sicurezza", o di galera, o nei letti di contenzione dei manicomi giudiziari - come per il coetaneo di Cucchi morto in cella a Parma, Giuseppe Saladino, che aveva rubato "le monetine dei parchimetri" - o nel reparto confino dell'ospedale Pertini. È bello, è edificante, è spettacolare che questo succeda mentre si propone di abolire, più o meno, i processi, per i ricchi e potenti. È bello e istruttivo che, per adescare l'opinione intontita, si proclami che dall'abolizione dei processi saranno esclusi i reati di maggior allarme e "i recidivi". I "recidivi" sono i tossicodipendenti, che spacciano al minuto o rubano per la dose, e spacciano di nuovo e rubano per la prossima dose, e così via.

Stefano Cucchi era uno dei tanti nostri ragazzi che possono aver spacciato per la loro dose, e non sono meno meritevoli del nostro amore e delle nostre cure. Era anche sieropositivo, ha osato dire qualcuno. Non lo era: ma non importa niente. Importa che ancora, in questo paese, persone che danno il proprio nome a leggi fautrici di dolore e delitti pronuncino il nome di una malattia come quello di una condanna. Il paese in cui si tratta ancora una malattia come una vergogna è un paese di cui vergognarsi.

Dovremmo dirlo, che siamo sieropositivi. E che nessuno chieda a nessuno se è vero o no: non cambia niente. Stefano Cucchi era un giovane uomo inerme dal viso dolce e dal corpo esposto: un corpo così è fatto per essere stretto da un abbraccio materno, per essere accarezzato da una sorella, per sentirsi la mano di un padre sulla spalla. Non per "essere scaraventato in terra e, dopo aver sbattuto violentemente il bacino procurandosi una frattura dell'osso sacro, colpito a calci", secondo la ricostruzione - provvisoria, parziale, vedrete - degli inquirenti.

Né per giacere senza soccorso, sottratto alla vista dei suoi e del mondo, dentro una branda d'ospedale carcerario, coi medici, donne e uomini (fa sempre più impressione che tocchi a donne), che lo ignorano, che forse scherzano sulle sue ossa rotte e sporgenti, che dicono che rifiuta cure e farmaci, e scrivono solo in capitulo mortis che aveva dichiarato dall'inizio di volere il proprio avvocato, e di non voler mangiare e non voler bere solo per quell'infimo fra i diritti: una confessione di fatto, che non ha impedito agli stessi medici di continuare a mentire e a manipolare la verità quando il ragazzo era morto. Abbiano pure il loro "eccesso di garanzia", in cambio. Anche questa è una creatività italiana: chiameremo di sicurezza le celle dei pestaggi, ci vanteremo della garanzia in eccesso. Del resto, siamo ancora all'inizio. Non sarà facile, per l'omicidio di Cucchi, trovare il non colpevole.

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« Risposta #9 inserito:: Novembre 14, 2009, 11:01:00 am »

Anticipazione

Displaced person
di Adriano Sofri -


Tecnicamente profughi.

Senza carta d'identità (sul confine tra Haiti e Repubblica Dominicana come nel canale di Sicilia).

In realtà, siamo tutti a casa nostra e forestieri. E non è un paradosso


Mi pare che sia un po' decaduto, fra gli insulti, l'epiteto di "spostato". Si diceva molto, soprattutto nel meridione. Voleva dire balordo, mezzo matto. O scemo del tutto.
 
Ora si usano piuttosto perifrasi come "fuori di testa", imparentate all'effetto di qualche droga. L'idea del movimento, dell'andare fuori, c'è sempre. In "spostato" era più pregnante il rapporto col posto. È importante il posto. Si dice di una persona che "è a posto". Si dice: "Tutto a posto?". Spostato è uno che ha perduto il suo posto.
Uno fuori luogo, un pesce fuor d'acqua. La traduzione letterale, nell'inglese universale, è displaced person. Non una formula generica, ma il modo tecnico di nominare chi non ha più una casa, una patria. E nemmeno una carta d'identità. Displaced person, abbreviato in DP: così si dice nelle organizzazioni internazionali.

Prima di scrivere questo testo ho guardato le fotografie degli evacuees forzati nella Repubblica Dominicana, e le ho riguardate, e poi ho cercato di rintracciare una storia degli spostati, di imparare qualcosa e raccontarlo anche a voi che leggete. Meglio che imbastire un ennesimo tema benintenzionato sui diritti umani e chi ne è spogliato. Una ricerca senza pretese, si capisce, di quelle permesse da un giro sulla Rete. Sono partito da quel nome di displaced person, che sapevo applicato nel secondo dopoguerra europeo a un numero ingente di ebrei. Tra il ‘45 e il ‘52, oltre 250mila ebrei europei superstiti alla Shoah vissero in campi di raccolta in Germania, Austria e Italia. C'è un dettaglio agghiacciante: in parecchi casi, si trattava degli stessi campi di concentramento in cui erano stati deportati, ora riconvertiti sotto l'amministrazione degli Alleati e dell'Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration).

A proposito del posto, c'è quell'altra espressione: "Stai al posto tuo!".

Un'intimazione che viene facile rivolgere a inferiori e servi, che non dimentichino con chi hanno a che fare. E agli ebrei: "Non ho niente contro gli ebrei, purché stiano al loro posto". Gli ebrei, per definizione, non ce l'hanno il loro posto. Sono erranti, displaced, spostati. Un mio amico dice che non gli è mai così chiaro che cosa voglia dire essere ebreo come quando sente pronunciare quell'avvertimento: "Stai al tuo posto!". È durante la Seconda guerra mondiale che si inaugura l'espressione displaced person, e si diffonde soprattutto all'indomani, quando si gonfiano le migrazioni di profughi dall'Europa centrale e orientale. A quanto pare, a coniarla fu Eugene M.Kulischer. Kulischer (1881-1956), studioso di demografia e storia, di origine ebraica, figlio a sua volta di uno storico russo. La sua è la biografia esemplare di una persona displaced.

Prima lascia la Russia sovietica, nel 1920, alla volta della Germania.

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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 08, 2010, 10:52:32 am »

L'ANALISI

L'occasione di Emma

di ADRIANO SOFRI


ROMA - Emma Bonino può essere un'ottima candidata di bandiera o una felice occasione per il Pd e l'insieme dell'opposizione.
Le buone bandiere sono un premio di consolazione, in una stagione sconsolata: ma sarebbe ora di tornare a cercare, almeno nelle elezioni, risultati veri. Ricapitoliamo ? che non vuol dire torniamo a capitolare. Alla leadership del Pd sta a cuore un'alleanza con l'Udc. È una prospettiva che ha i suoi costi "a sinistra", se dia per perduto un vasto e ormai frantumato elettorato, e un'altrettanto vasta astensione, ma ha una sua logica politica. Anche così ha i suoi ostacoli. Il primo, di procedere verso la liquidazione del famoso bipolarismo: ma si può obiettare che essa è già abbastanza un fatto compiuto. Il secondo, che l'Udc si tiene le mani libere, sicché il Pd, col suo (augurabile) 30 per cento, farebbe da vaso di coccio tra ultimatum di Casini ed esazioni di Di Pietro.

In Puglia, il Pd ha tutto il diritto di volere un proprio candidato, e di sceglierlo in funzione dell'accordo cercato con l'Udc. Ma non ha né il diritto né la ragione di imporre un veto alla candidatura di Vendola, che è il presidente uscente, e che lo diventò vincendo un'ardua sfida primaria e un'altrettanto ardua elezione. Una elementare regola avrebbe suggerito di misurarsi con la candidatura di Vendola in primarie aperte. Non lo si è voluto fare, e questo impedisce di imputare a Vendola una responsabilità di guastatore personalista. Peggio, si è insistito per candidare Emiliano, sindaco di Bari. L'idea di privarsi di uno stimato sindaco per candidarlo alla regione, e di correggere per giunta la legge che condiziona la nuova candidatura alle dimissioni dalla vecchia carica, è abbastanza scandalosa. Davvero un partito come il Pd e una coalizione di centrosinistra non trova altre o altri candidati degni se non in chi già occupa una carica importante?

Una simile ammissione di angustia si sarebbe ripetuta nel Lazio, dove il Pd puntava sullo stimato presidente della provincia, Zingaretti. Il calcolo era decisamente azzardato, tanto più nella regione reduce dalle elezioni romane in cui la staffetta ripetuta fra Veltroni e Rutelli finì nel disastro che sappiamo. E che può misurarsi senza alcun sarcasmo, ma sì con amarezza, nella situazione attuale dei protagonisti di allora: appartato Veltroni, in un altro partito Rutelli. Se Zingaretti avesse accettato (o ancora accettasse, non so: ma si mostra persona lucida e responsabile con chi già lo votò) di candidarsi, il rischio concreto sarebbe stato di perdere in un colpo regione e provincia, e andare in convento. Ma anche a non voler paventare un esito simile, e a ostentare un'implausibile audacia, restava il messaggio dato a tutti i cittadini: che per trovare un candidato degno il Pd lo debba spostare dalla carica importante che già ricopre. Messaggio inosservato, tale è l'agonia dello spirito pubblico: ma ci si fermi un momento a pensarci, in un paese di sessanta milioni, in regioni di milioni di uomini e donne, e passano per candidabili solo due o tre uomini già intronizzati ? e donne niente.

A questo punto viene la candidatura di Emma Bonino. Dire le sue virtù è imbarazzante, dato che sono diventate proverbiali come un necrologio anticipato. Il centrodestra ha in Lazio una candidata brava e popolare e, scaramucce di fuoco amico a parte, ha nelle vele il vento della disavventura di Marrazzo (e della sciagura delle sue incolpevoli amiche). Emma Bonino è capace, come e più di Renata Polverini, di consensi trasversali, e tuttavia ha fornito una prova rigorosa di fedeltà alla parola data tanto nella disgraziata legislatura precedente, da ministro, quanto nella attuale, da parlamentare radicale nel gruppo del Pd e vicepresidente del Senato. Il Pd ha ritenuto per lo più di dare questa fedeltà per dovuta e scontata, e di trascurare il confronto e perfino le buone maniere nei confronti degli alleati radicali, che spesso le sparano grosse ma stanno ai patti, a differenza di altri alleati.

Eletto segretario, Bersani andò al congresso dei radicali italiani e diede prova di attenzione e di una spiritosa affabilità. Oggi, facendo di Emma la candidata propria ? e passando serenamente dalle primarie, perché ci sono altre proposte, da Renato Nicolini, il cui pregio sta, e non sembri una battuta, in una specie di diritto acquisito a non essere preso sul serio, a Loretta Napoleoni, e agli eventuali altri ? il Pd mostrerebbe di impegnarsi a vincere le elezioni regionali, e caso mai a perderle limpidamente, e a rinunciare a farne un paragrafo della trattativa tattica con l'Udc o chissà chi altri.
Tattica sofisticatissima, dal momento che l'Udc ha una ferma predilezione per la candidata del centrodestra e soprattutto una vocazione a fissare veti politici e personali.

Differenza che Emma Bonino fa bene a sottolineare, non avendo lei veti da imporre, e perciò non amando di subirne. L'inclinazione di Bersani per la concretezza va condivisa, e suggerisce di preferire, in un territorio come le elezioni dove, a differenza che nella vita quotidiana, quello che conta non è partecipare, l'efficacia all'orgoglio di bandiera. In Piemonte, dove la partita è tra il candidato della Lega e Mercedes Bresso, la lista dei radicali italiani si apparenterebbe a quella della presidente uscente del Pd. I radicali farebbero bene a rinunciare a una concorrenza di richiamo nella Toscana di cui leggermente si dà per eterna la prevalenza del centrosinistra. La Toscana ha in Enrico Rossi un candidato autorevole, provato dalla fattiva responsabilità della sanità regionale fra le migliori, se non la migliore, in Europa, che si mostra aperto alle persone e alle loro idee, se ne hanno, Oliviero Toscani compreso. Nel Lazio, Emma Bonino, finora candidata della lista Bonino-Pannella, può diventare la più forte e competente concorrente alla presidenza della Regione. È un passaggio che dipende solo dal Pd, e sarebbe bello che il Pd la facesse dipendere solo da se stesso.
 

© Riproduzione riservata (07 gennaio 2010)
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 26, 2010, 09:50:02 am »

IL COMMENTO

Quando il capo non sa vedere

di ADRIANO SOFRI


PRIMO: non infierire. Ma come si fa? Mettiamola così: ci sono due buone notizie. In Puglia si sono svolte le primarie con un'adesione sentita, e finalmente abbiamo il candidato. A Bologna il sindaco si è dimesso, che è proprio la cosa che andava fatta. Tutto bene, dunque.
E ora facciamo due chiacchiere. Bersani ha ribadito lealmente il sostegno del Pd a Vendola, caldo di una così larga investitura.
E ricapitolando  -  mi viene sempre questo verbo, mannaggia  -  le ragioni dell'impegno per Boccia, ha ribadito il proposito di guadagnare adesioni fuori dai confini della sinistra, dentro i quali invece è destinata a restare la candidatura di Vendola.

Una prima obiezione possibile riguarda la riduzione della ricerca di consensi cosiddetti moderati all'alleanza con l'Udc. Tanto più quando non ci si misuri con tempi tagliati e fronti uniti, come sarebbe stato se Berlusconi avesse imposto elezioni politiche anticipate. L'obiezione maggiore è un'altra: e cioè che i dirigenti del Pd commettono un serio peccato di appropriazione indebita quando parlano del "proprio" elettorato, dei "proprii" suffragi già acquisiti e bisognosi di allargamento.

Non mi riferisco tanto agli elettori che si sono presi da tempo una libera uscita dalle fedeltà di schieramento. Mi riferisco piuttosto alle persone, ancora tantissime, che si sentono tuttavia fedeli a un ideale, o almeno a un'idea, di sinistra e di democrazia, e stentano a riconoscerla nel Pd. Persone che dirottano il loro voto sulla costellazione di partiti e movimenti che affettano un'intransigenza eroica, o lo conservano al pulviscolo di etichette che furono già della sinistra malamente detta "radicale" e diventata extraparlamentare, dai verdi ai comunisti, o, più consistentemente, decidono che non voteranno più, con uno spirito amaro o punitivo.

Si faccia un conto, come suggeriscono i politici "esperti", e ne risulterà una somma di voti superiore a quella promessa dall'alleanza con l'Udc. Il saldo diventa più allarmante se si consideri la disaffezione crescente dentro la base che si definì un po' rozzamente "lo zoccolo duro" (formula non così distante da quella borsistica del "parco buoi", e non per caso). Ogni volta che i dirigenti del Pd fanno appello alla necessità di andare oltre i "propri" elettori, stanno ingannando se stessi. Frughino bene: hanno le tasche bucate. Ognuno dei voti che presumono "loro" va riguadagnato. E non al prezzo di un sovrappiù di irresponsabilità, di rinuncia all'intenzione di governare, di demagogia: al contrario.

Abbiamo intravisto sugli schermi le lunghe file di cittadini pugliesi alle primarie, e anche la folla entusiasta a festeggiarne il risultato. È improbabile che quei cittadini siano ostili per principio alle alleanze e ai ragionati compromessi: però non si rassegnano alle primarie negate per non dispiacere a Casini. Chissà quanti di quei cittadini che si sobbarcano all'impegno di una domenica d'inverno per scegliere un candidato avrebbero deciso di non andare a votare nelle elezioni "vere" se il candidato fosse stato imposto d'autorità.
I dirigenti del Pd non lo vedono? Vivono altrove, e di che cosa? Massimo D'Alema ebbe un'uscita magistrale, qualche giorno fa, quando all'improvviso dichiarò, delle cose di Puglia, di non capirci niente. È un buon punto di partenza. Le primarie per la segreteria del Pd furono in fondo, per chi non fosse legato stretto alle cordate concorrenti, un apprezzabile modo per restituire autorevolezza alla leadership di un partito che l'aveva perduta, chiunque vincesse fra candidati senz'altro rispettabili. Questa ennesima intenzione responsabile portò un numero ingente di persone a votare, e non la passione per i rivali in gara.

Ancora una volta, come ora in Puglia, le persone che vogliono bene all'Italia e alla democrazia e a un ideale, o almeno un'idea, di sinistra, si mostrarono disinteressate e lungimiranti, e disposte a dare una spinta  -  fisicamente, come si fa con una macchina che è restata col motore spento in salita  -  a chi aspirava a rappresentarle. Il piccolo gruzzolo in più di consensi che si registrò subito dopo (già dilapidato) non andava tanto alla corrente che era stata più votata, ma alla speranza che una leadership fosse stata investita, e facesse il suo mestiere. Quanto al merito, proprio dalla corrente di Bersani e di D'Alema ci si aspettava caso mai che fosse la più determinata e capace di recuperare l'adesione di quella larga diaspora perduta fra antipolitica, risentimento, giustizialismo e caudillismo  -  o pura stanchezza. Tutto precipitato nello strettissimo imbuto dell'Udc serva di due padroni, o padrona di due servi.

Ma bisogna pur limitare i danni della perdita di regioni che ci appartenevano  -  diranno i dirigenti esperti. (Dai quali ci si aspetta che prima o poi mettano all'ordine del giorno la questione sempre più spaventosa della sistemazione personale di chi "fa politica", e della sua influenza soverchiante sulla politica da fare). Ammesso che sia il punto, e non è mai bello far politica con l'acqua alla gola, o più su, il risultato è lontanissimo dal confermarne il realismo. Se non si perderà la Puglia, sarà grazie all'insipienza della destra, che a sua volta non scherza, ma non gliene importa granché, le piace così, e grazie alla ribellione degli elettori delle primarie a una politica di partito in cui l'ottusità ha fatto a gara con la prepotenza. D'Alema, che non si tira indietro dalle proprie responsabilità, farebbe però male oggi ad ammettere semplicemente una sconfitta.

Le sconfitte prevedono una misura: qui non c'è stata partita. Qui, semplicemente, uno dei contendenti "non ci aveva capito niente".
E se invece ci aveva capito, e ci si è infilato lo stesso, occorre rivolgersi ai professionisti, ma della psicoanalisi o della vita monastica. Se non si perderà il Lazio, sarà grazie alla speranza suscitata da una candidata come Emma Bonino che, qualunque opinione si abbia delle sue singole opinioni, non appartiene a quel modo di praticare la politica. Parliamo di candidati a presiedere regioni, Bonino e Vendola, che starebbero comunque al proprio posto in un Partito Democratico come quello che si era immaginato, e per il quale ancora a distanza di anni e di disinganni la gente si mette in fila d'inverno, a rimetterlo in carreggiata e dare una spinta.
 

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« Risposta #12 inserito:: Marzo 08, 2010, 10:30:48 am »

LE IDEE

Bambine mai nate

di ADRIANO SOFRI


Le mimose, certo. In verità sappiamo sempre meno che cosa fare, noi uomini, l'otto marzo. Le mimose poi, serre liguri a parte, sono gli agnelli del regno vegetale. Possiamo dedicare questa data a una bambina mai nata.

Una di cento milioni, forse duecento, che negli ultimi decenni non sono nate a causa dell'aborto forzato: da una legge di Stato o da un costume patriarcale o dalla loro combinazione. Ma cento milioni, forse duecento, fanno troppa impressione, cioè poca. Bisognerebbe guardarne una, una bambina del Punjab o dello Shanxi, e proporsi di strapparla alla sua speciale condanna a morte. C'è un'Italia che vanta il proprio impegno internazionale contro la pena di morte, c'è Nessuno tocchi Caino, c'è Sant'Egidio. Non c'è niente di paragonabile per un'infamia enorme come la cancellazione delle bambine: abortite a forza, affogate alla nascita, lasciate attaccate al cordone ombelicale a infettarsi, buttate in una discarica o in un rigagnolo di strada. Perché?

L'Economist ha appena risollevato la questione, dedicando la copertina alla strage delle bambine. Niente di nuovo, salvi i dettagli raccapriccianti che ogni ultima inchiesta porta alla luce. E la conferma della complicità fra arcaismi e tecnologia, ecografia itinerante nei villaggi a prezzi stracciati, pillole distribuite a man salva e fatte consumare fuori da ogni controllo e ogni scadenza, predilezione di sempre per il maschio e moderna aspirazione alla famiglia poco numerosa. Il Foglio, che fa del rifiuto assoluto dell'aborto la propria ragion d'essere, ha dato un gran risalto alla sortita dell'Economist, e ha fatto bene. Ma l'assimilazione fra la possibilità delle donne, delle singole donne, di abortire con un'assistenza sicura e senza essere perseguitate, e dall'altra parte la coazione statale o sociale ad abortire, è un punto debolissimo. La condanna delle demografie coatte di Stato è infatti conseguente al riconoscimento dell'autodeterminazione delle singole donne, che è a sua volta l'essenza più preziosa delle democrazie. Restino pure fedeli ai propri principii assolutisti la Chiesa cattolica o i laici persuasi della vita piena e intangibile dal momento del concepimento: ma non si rassegnino a farne un ostacolo all'impegno più comune e ampio contro il genocidio femminile - il ginocidio. E viceversa: i difensori della libertà personale delle donne non si ritraggano da quell'impegno, per la preoccupazione che riapra la strada alla persecuzione dell'aborto - come succede in certe vili prese di posizione dell'Unione europea. E, a maggior ragione, chi è allarmato per la sovrappopolazione umana non si lasci tentare dall'ammirazione per la mano libera dei regimi totalitari, capaci di arrivare in demografia e in ecologia dove le democrazie hanno le mani legate o inceppate. Questa inconfessata invidia si è tradotta non di rado nella complicità di organismi delle Nazioni Unite con le politiche di denatalità forzata e di soggezione delle donne.

Fra le innumerevoli guerre che attraversano la terra, e che usurpano lo stesso orrendo nome di guerra perché sono violenze sfrenate a senso unico, la guerra contro le donne è ferocissima: contro le bambine cui si impedisce di venire al mondo e di restarci, e contro le madri. La guerra, dice un penetrante pensiero classico, è il culmine della vocazione venatoria, la caccia all'uomo, e ha in palio la bionda Elena o le Sabine da rapire e le donne d'altri da stuprare. Si è mutata sempre più in una caccia alla donna, all'ingrosso nei territori delle culture e delle religioni patriarcali, al minuto nel femminicidio occidentale. Lo squilibrio demografico nelle zone più popolose del mondo ha raggiunto il rapporto di 100 donne per 120 uomini, e tocca in alcune regioni i 145 contro 100. Ed è ormai antico abbastanza da annoverare decine di milioni di uomini in età coniugale privi di compagne possibili: altro che proletariato.

"Entro dieci anni, un cinese su cinque non riuscirà a trovare moglie", dice la solita Accademia cinese delle scienze sociali. Disordini criminali e rivolte sociali vengono attribuiti a questa peculiare carestia, cui fa da complemento l'esportazione di donne da paesi schiantati come la Corea del Nord. È probabile che il genere umano sia alla vigilia di una mutazione tecnica e genetica che ne dirotti impensabilmente la storia naturale. Ma quanto agli umani cui ancora apparteniamo, ai mortali e ai nati di donna, nessuna mutazione è esistita altrettanto catastrofica di questa che investe il posto delle creature femminili, e già riduce di un quinto la vantata metà del cielo in mezzo mondo. E che è legata strettamente a un fenomeno sconvolgente, e singolarmente banalizzato, come la scomparsa di fratelli e sorelle - sorelle soprattutto: cui si cercherà invano un succedaneo nella retorica della sorellanza e della fraternità metaforica. Ci mancherebbe altro che si tornasse al pregiudizio antico contro il figlio unico, "viziato" - del resto sostituito oggi dal nipote unico di quattro nonni o più. Figlio e figlia unici liberamente voluti o accolti sono una meraviglia. Né ha molto fiato la disputa ricorrente sul diritto o il merito rispettivo della donna madre o della donna che non ne voglia sapere - in Francia in questi giorni ci si accapigliano di nuovo. Ma la nostra umanità perderebbe in solido le sue radici quando perdesse sorelle e fratelli, Antigone e sia pure Caino.

Adottiamola, a qualunque distanza, la bambina che il mondo non vuole, e facciamola venire al mondo. Andiamole in soccorso, e forse lei ce la farà a salvare il mondo che la bracca fin da prima della culla, fin dall'annuncio, vero Edipo dei nostri giorni. E se non a salvarlo, almeno a prolungarne per un tratto la bellezza.

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« Risposta #13 inserito:: Aprile 20, 2010, 09:26:35 am »

LA POLEMICA

Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale

di ADRIANO SOFRI

Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l'antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'"anticorpo" di Berlusconi, e forse l'antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un'altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.

Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l'autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava "civile gratitudine", è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: "Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?". Già: si può davvero discutere una cosa così?

Cose da pazzi: ma c'è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un'intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c'è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L'ha voluto in parte, in un'altra parte gli è successo - è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola "successo" - e non è più in discussione.

Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: "Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere". Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un'Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una "patria", di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: "... Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos'è la vergogna".

Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell'intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona - il verbo "funzionare" riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all'Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.

Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero - non troppo. Anch'io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film "Gomorra" - e l'avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro - ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com'è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola "bellezza". La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione - stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: "Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare". Frase che deve suonare minacciosa all'egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di "né destra, né sinistra". Non immagina che si tratti d'altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti "di destra" - che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c'è un'inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.

Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell'azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l'inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del "quieto vivere". Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò - e ottenne, lui senza legittimo impedimento - la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell'economia e dell'etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.

Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, "Italianità", appena uscito per Laterza. Lo schema dell'opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L'Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d'esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all'anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C'è tanto posto.

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« Risposta #14 inserito:: Aprile 20, 2010, 03:44:53 pm »

LA POLEMICA

Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale

di ADRIANO SOFRI

Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l'antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'"anticorpo" di Berlusconi, e forse l'antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un'altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.

Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l'autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava "civile gratitudine", è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: "Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?". Già: si può davvero discutere una cosa così?

Cose da pazzi: ma c'è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un'intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c'è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L'ha voluto in parte, in un'altra parte gli è successo - è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola "successo" - e non è più in discussione.

Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: "Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere". Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un'Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una "patria", di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: "... Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos'è la vergogna".

Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell'intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona - il verbo "funzionare" riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all'Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.

Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero - non troppo. Anch'io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film "Gomorra" - e l'avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro - ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com'è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola "bellezza". La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione - stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: "Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare". Frase che deve suonare minacciosa all'egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di "né destra, né sinistra". Non immagina che si tratti d'altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti "di destra" - che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c'è un'inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.

Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell'azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l'inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del "quieto vivere". Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò - e ottenne, lui senza legittimo impedimento - la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell'economia e dell'etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.

Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, "Italianità", appena uscito per Laterza. Lo schema dell'opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L'Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d'esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all'anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C'è tanto posto.

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