LA-U dell'OLIVO
Dicembre 13, 2024, 05:00:49 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2 3
  Stampa  
Autore Discussione: Claudio MAGRIS  (Letto 31767 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Gennaio 20, 2008, 04:42:55 pm »

Dibattito

Il senso del laico

Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria

di Claudio Magris


Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.

Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.

La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.

Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.

Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.

I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.

Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.

Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.

Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.

Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.

Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.

Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta.

20 gennaio 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Febbraio 19, 2008, 03:28:12 pm »

IL CONTRIBUTO DI UN LAICO

Bobbio e l'aborto

di Claudio Magris


Nel clamore delle polemiche sull'aborto c'è un grande quasi dimenticato: Norberto Bobbio. L'8 maggio del 1981, alla vigilia del referendum, il maestro laico di diritto e libertà — che ha manifestato sempre il più grande rispetto e anzi interesse per la fede, che non ha mai pensato di definirsi con tracotanza ateo ma, per coerenza e appunto per rispetto, ha ritenuto doveroso rinunciare ai funerali religiosi — rilasciò a Giulio Nascimbeni, il carissimo amico scomparso di recente, un'intervista per il Corriere della Sera. In essa, con pacatezza e anzi con disagio («è un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri») ribadiva «il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. E' lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione del-l'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto ».

Si soffermava sulla «scelta sempre dolorosa fra diritti incompatibili», ribadendo che «il primo, quello del concepito, è fondamentale», in quanto «con l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».

Perché, in un momento in cui si cerca non di toccare la legge 194 — cosa che dovrebbe tranquillizzare tutti, perché è essa che consente di abortire, dichiarando peraltro esplicitamente che l'interruzione della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite— bensì di creare una cultura consapevole della realtà dell'aborto, così pochi (tra i quali il Foglio) ricordano Norberto Bobbio e queste sue parole di assoluta chiarezza, molto più difficili da dire allora che non oggi? Forse perché dette in tono pacato, problematico, con l'animo di chi aborre le eccitazioni collettive e le scalmane di piazza, mentre oggi prevale chi le ama e se ne inebria, anche quando si rivolgono contro di lui, ed è felice solo nella ressa dello scontro, nel fumo della battaglia (peraltro poco pericolosa), che invece poco si addice alla ritrosia subalpina di gente come Bobbio o Einaudi?

Le discussioni di oggi sono altamente meritorie, perché aiutano, contro ogni pigrizia e viltà mentale, a guardare in faccia cos'è l'aborto. Visto che nessuno vuole toccare la legge 194, nessuno dovrebbe protestare contro queste discussioni, a meno che non sia un entusiasta dell'aborto. Visto che nessuno vuol toccare la legge 194, non ha senso presentare una lista elettorale che si proponga di andare al Parlamento solo per non fare leggi; per creare e diffondere una cultura dei diritti di ogni individuo, in tutte le fasi della sua vita, il luogo non è il Parlamento, bensì la società, il dibattito, l'agorà.

E' ciò che sta giustamente accadendo, e non solo per le iniziative di Giuliano Ferrara ma anche e già prima con alcune interessantissime e innovatrici riflessioni di intellettuali e scrittrici femministe — ad esempio Alessandra Di Pietro, Paola Tavella, Anna Bravo o Maria Carminati — le quali, senza rinnegare alcuna loro battaglia, affrontano in modo libero e originale i valori della maternità e della vita. Anche in merito a ciò che spetta al dibattito pubblico e a ciò che spetta al Parlamento, la chiarezza di un Bobbio, con la sua straordinaria arte di distinguere le cose e gli ambiti, sarebbe preziosa ma non è forse gradita. Oppure non si ricordano quelle parole di Bobbio in difesa del concepito perché dà fastidio che sia stato un non-praticante, estraneo o quanto meno esterno alla Chiesa cattolica, a pronunciarle?


19 febbraio 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Maggio 08, 2008, 09:33:38 pm »

Uomini e istituzioni

Al premier chiediamo uno stile civile

Il quinquennio che si apre


Al nuovo governo, o meglio ai suoi componenti, i cittadini — non solo i suoi avversari battuti ma anche, verosimilmente, i suoi sostenitori vincenti — chiedono, fra le tante cose, pure una garanzia di stile, di quello stile che non è solo formalismo bensì, com'è stato detto, è l'uomo, la sostanza della persona. Durante la recente campagna elettorale, ad esempio, il candidato ora premier, Silvio Berlusconi, ha agitato, quasi con toni da denuncia anticipata, lo spettro di brogli, ovviamente nel caso di una sua sconfitta. Dopo la sua netta vittoria, non ha sollevato alcun dubbio sulla correttezza dei risultati. Il leader del centrosinistra invece non si è mai sognato, né prima né dopo, di fantasticare di truffe ai danni del partito da lui guidato, di mettere in conto a bassi trucchi la battaglia ora perduta. Nemmeno nel 2001, dopo la vittoria del centrodestra, alcun rappresentante dei perdenti aveva cercato di ipotizzare truffaldinamente dei brogli per giustificare il proprio insuccesso.

Nel 2006, battuto di stretta misura, Berlusconi invece l'ha fatto, dimostrando platealmente la sua incapacità di accettare le regole della democrazia o meglio di essere disposto ad accettarle solo quando agiscono a suo favore. Se alle ultime elezioni fosse stato il centrosinistra a vincere altrettanto largamente, ci si può immaginare la campagna diffamatoria e accusatrice di brogli che ne sarebbe seguita. La differenza tra i due comportamenti e le relative conseguenze sulla vita civile di un Paese non hanno a che vedere con la diversità di programma tra il centrodestra e il centrosinistra. Giovanni Malagodi era un uomo di centrodestra, ma non ha mai attribuito a una congiura di falsari le modeste dimensioni del glorioso Partito liberale da lui diretto e un simile pensiero non veniva in mente né a Ugo La Malfa, leader dell'ancor più piccolo e altrettanto glorioso Partito repubblicano, né a Pietro Nenni alla testa del Partito socialista. La differenza fra chi riconosce la propria sconfitta politica, cercandone le ragioni anzitutto nei propri errori, e chi ammette solo di poter vincere trascende la politica. E' una diversità esistenziale, naturale, metafisica tra modi di essere, di guardare al mondo, agli altri e alla vita; di concepire il rapporto fra sé e gli altri e dunque, alla fine, pure fra sé e la cosa pubblica. Ma la differenza politica, in questo caso, arriva ultima; dipende dal rispetto o no che si ha per gli altri, da quello stile che, appunto, è l' uomo.

E gli uomini, dice Sancho Panza, nascono come Dio li ha fatti e talora anche un po' peggio. Preso atto di questi comportamenti diversi, occorre capire perché Berlusconi, se avesse perso ed evocato i brogli, sarebbe stato creduto da parecchie persone, mentre, se fosse stato Walter Veltroni o un altro leader del centrosinistra a farlo, nessuno, giustamente, gli avrebbe dato retta. Forse perché sarebbe stato un comportamento improvvisamente difforme da tutto lo stile precedente della persona e dunque da ciò che ci si attende; o forse perché un democratico, quando fa il demagogo, è il primo a non credere a ciò che dice e comunica questo suo imbarazzo agli altri. Aldilà delle elezioni, occorre capire perché certi atteggiamenti che sino a poco fa scandalizzavano oggi non scandalizzino più e non si senta neppure la necessità di mascherarli: come — è solo un esempio fra i tanti — quegli ex parlamentari, di sinistra come di destra, i quali, furiosi perché il loro partito non li ha riproposti quali candidati (cosa che non costituisce un diritto) dichiarano pubblicamente di essere pronti a passare dall'altra parte, rivelando così che il loro precedente impegno era dovuto a un mero e rozzo tornaconto.

E' grave comportarsi in tal modo, ma forse è ancora più grave dirlo senza temere di perdere la faccia, perché significa che in una società non esistono più alcune fondamentali regole di comportamento e alcuni fondamentali valori. Vincitori e vinti seguiranno comprensibilmente in modo diverso il lavoro del governo, ma entrambi hanno il diritto di attendere e pretendere, dalla lotta politica inevitabilmente e giustamente dura, cinque anni di stile civile. Certo, poiché anche il disteso buon umore vuole la sua parte, speriamo che le gag dei trecentomila fucili leghisti e dei trecentomila fucili dei no global che si dicono pronti a sparare continuino a divertirci un po', distraendoci dalla pesante serietà dei tempi che corrono.

Claudio Magris
08 maggio 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Maggio 28, 2008, 08:48:57 am »

La nostra vera malattia


di Claudio Magris


Un conoscente della mia famiglia, collega d'ufficio di mio padre, aveva la mania dei raffreddori; stava attento ai giri d'aria e prendeva tutte le precauzioni contro infreddature e bronchiti, convinto che le malattie potessero colpirlo solo da quella parte. Morì di un cancro all'intestino ovvero, come si diceva allora, di un «brutto male». Quel signore faceva benissimo a non trascurare le eventuali minacce alla faringe o ai bronchi, spesso fastidiose e talora perniciose, ma sbagliava a sottovalutare pericoli più gravi. Anche il corpo sociale ha le sue malattie, scatenate o in agguato. La sua salute dipende da come fronteggia, previene, combatte i morbi che lo insidiano; dalla sua capacità di reprimere—tramite le autorità preposte a tale funzione — i reati nella misura stabilita dalla legge, senza indulgenze buoniste o pseudo- umanitarie e senza isterie demagogiche né pregiudizi verso alcuna categoria di persone. In uno Stato liberale e democratico non si sospettano a priori e tantomeno si vessano né i kulaki ossia i contadini proprietari, come un tempo nell'Unione Sovietica, né gli ebrei, i neri, gli immigrati, come tante volte in tanti Stati del mondo. Oggi sono gli zingari ad occupare i titoli cubitali dei giornali, con i reati compiuti da alcuni di loro e altri loro attribuiti, e con i violenti soprusi patiti da alcuni di essi. In entrambi i casi, lo Stato—e solo lo Stato, che ha il monopolio dell'uso della forza — ha da individuare e perseguire gli autori di atti delittuosi, il delinquente che ruba e molesta come il delinquente che getta bombe Molotov, contro la polizia negli anni Settanta o contro i rom oggi. Il nostro codice o meglio la nostra civiltà consentono di punire soltanto individui — rei di delitti accertati, la cui responsabilità è sempre personale — e mai gruppi o comunità, poco importa se etniche, sociali, politiche o religiose. Attentare a questo principio — prendersela con gli zingari, gli ebrei o i padani anziché con un concreto colpevole colto con le mani nel sacco, sia egli nato a Timbuctù o ad Abbiategrasso — mina alla radice l'universalità umana e in particolare la nostra civiltà, l'Occidente. Chi nega questo fondamento dell'umanità e del diritto è il vero barbaro e non ci interessa donde arrivi, dall'orto dietro casa nostra o da lontani deserti. Zingari, norvegesi, triestini o senegalesi sorpresi a delinquere vanno puniti senza riguardo alla loro diversità o povertà. Tifosi bestiali che in nome di una squadra di calcio commettono violenze contro persone o cose — provocando spesso rovinosi danni a onesti esercenti, di cui sfasciano i negozi in una ebbrezza di subumana e delittuosa ebetudine — vanno puniti con tutta la durezza consentita dalla legge e costretti a pagare sino all'ultimo spicciolo i danni arrecati, senza riguardo a chissà quali disagi esistenziali sottostanti alle loro brutalità.

Improvvisati e autonominatisi giustizieri che si dedicano a spedizioni criminose vanno puniti con esemplare severità, perché rappresentano un virus socialmente e moralmente ancor più nocivo dei ladruncoli veri o presunti che si vogliono castigare: il Ku-Klux-Klan, nato si dice alla fine della guerra di Secessione per proteggere i bianchi del Sud americano dalle violenze cui si abbandonavano alcune bande di schiavi appena liberati, è divenuto ben presto la più orrida criminalità. Uno stupratore romeno va punito per il suo ributtante reato, ma non può gettare il discredito indiscriminato sui suoi connazionali, così come i recenti assassini di Verona non possono autorizzare squadracce sguinzagliate alla caccia dei veronesi. L'attuale ministro dell'Interno, che promette pugno duro, sa bene che i pugni distribuiti con disinvoltura talvolta arrivano in testa pure ai galantuomini, perché anni fa, quando non era più e non era ancora di nuovo ministro dell'Interno, alcuni sbrigativi poliziotti gliene hanno dati pure a lui. La cosiddetta piccola criminalità non è un raffreddore, bensì una piaga sociale; gli scippatori di anziani che hanno appena ritirato la pensione mettono intere famiglie in difficoltà di arrivare alla fine del mese. La sicurezza è un bene primario; la sua necessaria e ferma tutela non è certo espressione di biechi sentimenti filistei o di astiosi pregiudizi nei confronti di immigrati ed emarginati, come troppe volte si è detto con sufficienza. Ogni problema umano e sociale non risolto comporta un tasso di devianza e di illegalità, già solo per il fatto che le leggi esistenti non riescono a risolverlo. È la globalizzazione che produce spostamenti crescenti di masse di diseredati nei Paesi più ricchi, con tutte le conseguenze che ne derivano. La globalizzazione nasce dal crollo del comunismo e dalle nuove forme assunte dal capitalismo; non sembra augurabile né possibile restaurare il primo e bloccare lo sviluppo del secondo e d'altronde non si può avere botte piena e moglie ubriaca, come dice il proverbio. L'universalità e le difficoltà di questo fenomeno planetario ci aiutano, ci costringono a toccar con mano l'interdipendenza di tutti gli uomini, l'essenziale unità del genere umano, diversificato ma organicamente unitario come un grande albero con le sue radici, rami e foglie; ci fa sentire fisicamente che ognuno di noi, come dice la Bibbia degli ebrei, è stato straniero in terra d'Egitto e può ancora diventarlo, nel domani sempre più incerto e sempre più globale, e dunque che gli stranieri sono i compagni del nostro destino. Giustamente si ricorda l'emigrazione italiana, la dura e ammirevole odissea dei nostri emigranti, stranieri spesso osteggiati nei Paesi allora più ricchi ed ostili. Ma appunto perciò occorre sapere quanto sia difficile, per tutti, essere stranieri. La retorica della diversità elude sentimentalmente il problema.

Tutti — persone, culture — siamo diversi e proprio perciò è vacuo ripetere come pappagalli questa parola. Inoltre la diversità, la particolarità non è ancora di per sé un valore; è un dato, un'identità (nazionale, politica, culturale, religiosa, sessuale) sulla cui base si possono costruire dei valori, che tuttavia sempre la trascendono, perché essere italiani, africani, buddhisti, omosessuali non è un merito né un demerito, non è cosa di cui avere orgoglio né vergogna; è un dato di fatto che va rispettato e tutelato contro chi non lo rispetta. Certamente ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri; ogni endogamia è asfittica e regressiva, non solo quella sessuale. Ma la diversità diventa una retorica truffaldina quando viene invocata per eludere la consapevolezza dei conflitti reali che talora possono sorgere dal contatto fra culture diverse — ad esempio tra una fondata sull'uguaglianza dei diritti tra uomo e donna e una che la nega. Pure tali possibili conflitti vanno affrontati con equilibrio responsabile — e non già esacerbati col pathos spettacolare dello scontro di civiltà, che seduce con la sua visione della Storia al technicolor — ma non vanno elusi né sottovalutati. La teppa scatenata contro i campi nomadi e il clamore mediatico che le fa da grancassa rimuovono la consapevolezza di problemi ben più ardui dell'emergenza rom. Le dimensioni numeriche dell'immigrazione potrebbero in futuro aumentare sino a renderla materialmente impossibile, perché, per fare un esempio oggi assurdo, non è fisicamente possibile accogliere milioni di poveri. Si potrebbero creare, con la necessità e l'impossibilità di accoglienza, situazioni oggettivamente tragiche, in cui — come appunto nella tragedia — è comunque impossibile agire senza colpa. Anche per questo il problema non può essere affrontato con criteri diversi nei singoli Stati, ma può essere gestito solo globalmente dall'Europa, perché non è un problema italiano o spagnolo bensì europeo, se non occidentale in generale. È difficile dire se il nuovo capitalismo, che ha innescato questo meccanismo con la globalizzazione, saprà governarlo o ne sarà travolto come un apprendista stregone. È un problema ben presente nel libro di Giulio Tremonti Paura e speranza.

I rom e altri immigrati sembrano oggi la minaccia maggiore alla nostra sicurezza. «Cieca bugia, distrazione di massa dalla realtà complessiva », ha scritto Mariapia Bonanate sul Nostro Tempo. Credo che i commercianti e gli industriali taglieggiati dalla camorra o dalla mafia scambierebbero volentieri il danno, l'intimidazione — non di rado la morte — che sono costretti a subire con i fastidi di chi abita non lontano da un campo di nomadi. Come ha scritto Riccardo Chiaberge su Il Sole 24 Ore, non si sono viste squadre di cittadini indignati scagliarsi contro quartieri della camorra e non ho sentito parlare di ronde pronte a proteggere gli esercenti dai malavitosi che vengono a riscuotere il pizzo. Certo, è più rischioso affrontare i guappi che i vu cumprà e qualcuno ci rimetterebbe la pelle, ma ciò non dovrebbe scoraggiare chi vanta i propri attributi virili e trecentomila fucili. La mafia e oggi ancor più la camorra — grazie al possente libro di Roberto Saviano — sono certo intensamente presenti all'opinione pubblica: libri, film, articoli, servizi televisivi, dibattiti. Ma non scuotono veramente l'opinione pubblica; non destano — diversamente dagli extracomunitari — alcun furore, alcuna paura nei cittadini. Sono quasi letteratura, una tragedia esorcizzata dalla sua rappresentazione, dopo la quale si va tranquillamente a casa — tranne chi è minacciato o colpito dalla morte. Come quel mio conoscente, siamo più vigili dinanzi a una tosse fastidiosa che ad un cancro. Il cancro si avverte meno, forse perché ha già occupato gran parte del corpo, si è infiltrato negli organi e nei sensi che sta distruggendo, sicché, almeno sino ad un certo momento del suo lavorìo, è difficile percepirlo, così come non si vede il proprio sguardo. Un impero del crimine i cui profitti sono quelli di una potenza economica mondiale e le cui vittime sono numerose come quelle di una guerra è un cancro infiltrante, che si immedesima con una parte sempre più grande della realtà. È giusto, è doveroso curare severamente scippi, furti, aggressioni, molestie, ogni illegalità anche piccola, ma sapendo quale sia la nostra vera malattia mortale.

26 maggio 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Giugno 22, 2008, 06:33:22 pm »

L'italia morale

L’uomo che pagava le tasse ed era felice

E’ comprensibile che pagare le tasse, specie se sono elevate, non sia piacevole per nessuno


di Claudio Magris


E’comprensibile che pagare le tasse, specie se sono elevate, non sia piacevole per nessuno e che dunque il 20 giugno non sia un giorno di festa. Al malumore di chi pensa, peraltro comprensibilmente e legittimamente, solo al suo particulare ovvero alla sua tasca, si mescolano considerazioni di ben altra natura. Considerazioni sulle conseguenze generali che la pressione fiscale del momento può provocare sulle condizioni complessive del Paese, sugli investimenti, sull'occupazione, sulla produttività delle imprese e così via. Soltanto un competente può valutare—cosa comunque ardua— quale dovrebbe essere, in quel momento, la tassazione più adeguata a contemperare le esigenze delle imprese, le urgenze di interventi pubblici e le misure atte a garantire una decorosa qualità di vita anche ai cittadini in difficoltà (a parte situazioni eccezionali di emergenza, ad esempio una guerra, che possono alterare le necessità della spesa dello Stato).

Indipendentemente da questo fondamentale aspetto tecnico, politico-economico, vi è una diffusa e ringhiosa mentalità pre-civile, che considera ogni tassazione una prevaricazione indebita e non riconosce come un peccato la violazione del settimo comandamento, non rubare, nel quale la Chiesa include l'evasione fiscale. Per fortuna non tutti i cittadini indulgono a tale mentalità tribale. Non è male in questi giorni rileggere ciò che diceva nel 1980 il più alto contribuente di Trieste, che in quell'anno pagava 526 milioni e 110 mila lire di Irpef e 133 milioni e 360 mila lire di Ilor per un totale di 659 milioni e 470 mila lire. Tutto questo nel 1980, quasi trent'anni fa. Intervistato da Rosanna Santoro sul Meridiano il 13 settembre 1984 a proposito di quella sua denuncia dei redditi resa allora pubblica, Primo Rovis rispondeva: «Ho pagato le tasse che dovevo pagare e ne sono felice. Esistono strade, scuole, luce nelle case, assistenza sanitaria, ordine pubblico, tanti servizi a carico dello Stato, che li può garantire e migliorare solo se i cittadini contribuiscono in proporzione al loro reddito».

Primo Rovis non è un uomo di sinistra, è un moderato che ha visto ad esempio con favore la recente vittoria elettorale di Renzo Tondo nel Friuli-Venezia Giulia. Da ragazzo che a 8 anni si guadagnava il pane battendo ghiaia in Istria e da aiuto-commesso è divenuto un imperatore del caffè, in una vita avventurosa ricca di originali iniziative economiche e sempre generosamente disponibile all'aiuto. È semplicemente uno il quale sa che la sua qualità di vita e il suo benessere sono legati a quelli della realtà che lo circonda, della coralità di cui si fa parte. Ama star bene e coltivare le sue passioni, come la straordinaria collezione di meravigliosi fossili risalenti a milioni e milioni di anni fa, che di recente hanno interessato l'Università di Mosca, e sa che per star bene occorre che anche il mondo intorno a noi, dal quale non possiamo separarci, non stia troppo male. Questo piacere di vivere — non disgiunto dall'interesse per gli altri, ma anzi nutrito dal senso dell'appartenenza a un comune destino— potrebbe fare, se condiviso da molti, dell'Italia quell'Italia civile che invece, ripeteva spesso Biagio Marin, è forse solo un'esigenza di pochi.

17 giugno 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Agosto 11, 2008, 12:07:35 am »

Il gusto di criticare per sentirsi differenti e assolvere se stessi: quando il rifiuto sfocia nel masochismo diffuso e compiaciuto

Denigrarsi, quel vizio degli italiani

Dal gestaccio di Bossi al disprezzo generale per la scuola: l'abitudine bipartisan di parlar sempre male di casa nostra



L’autodenigrazione, si sa, è un radicato vizio italico, che fiorisce non solo in agosto; parlare dell’Italia, per un italiano, significa quasi sempre parlarne male, magari compiaciuto di sentirsi capace di dire verità dolorose. È difficilmente immaginabile un altro Paese in cui un ministro — che è stato ed ha chiesto di essere eletto a rappresentare il proprio Paese— saluti l’inno nazionale con un gestaccio scurrile, più adatto alle goliardate adolescenziali nei cessi della scuola durante l’intervallo fra le lezioni.
D’altronde è ingiusto scandalizzarsene, perché ognuno di noi fa sempre esattamente quello che può, secondo i talenti ricevuti dall’imperscrutabile disegno divino, che li distribuisce in misura sorprendentemente diseguale; se ad esempio una persona sa fare solo pernacchie, non le si può chiedere di scrivere L’Infinito, di scoprire il modo di sconfiggere il cancro o di creare la pace in Medio Oriente.
Una forma di autolesionismo è costituita dal disprezzo indiscriminato nei confronti dell'università italiana, proclamato da professori universitari italiani, soddisfatti di svilirla a paragone di istituzioni accademiche di altri Paesi e specialmente degli Stati Uniti. Indubbiamente una dura critica all'attuale università italiana è più che giustificata dalla sua degradazione avvenuta negli ultimi lustri ad opera dei governi e ministeri di centrodestra e centrosinistra, caso raro di politica bipartisan. Ad esempio il volume
Tre più due uguale a zero (Garzanti), cui ho collaborato anch'io, è una denuncia senza sconti dei disastri provocati da contraddittorie e paradossalmente complementari riforme, col loro pasticcio di demagogia sociologizzante, mercato applicato fuori luogo e smania di imitare modelli di altri Paesi senza creare le premesse per farli funzionare.
Ragioni di critica, dunque, l'università italiana ne offre anche a chi non è nazionalmente masochista. Ma è sempre il tono che fa la musica e troppo spesso il tono col quale vengono formulati giudizi anche giustamente aspri è un tono supponente. C'è chi — magari per aver avuto occasione di insegnare all'estero, cosa che accade a molti di noi nel nostro mestiere di docenti, quasi come il sigaro e la croce di cavaliere che Vittorio Emanuele II non negava a nessun galantuomo — si sente immune da quelle pecche, estraneo a quelle difficoltà e a quei mali che dovrebbe sentire come propri. Siamo sempre partecipi e in parte pure responsabili dei mali del nostro Paese; ognuno di noi dovrebbe sentirsi operaio della vigna — di quella vigna che per ognuno di noi è il nostro Paese — e non altezzoso turista o visiting professor (talora c'è poca differenza) che fa lo schizzinoso davanti a quel vino. Ciò vale in ogni campo: ad esempio pure il tono di arida superiorità col quale alcuni muovono critiche all'attuale governo — critiche che esso merita e che condivido con passione — le rende sterili ed inefficaci. Chi, come me, considera una sventura il risultato delle ultime elezioni, non può guardare con sufficienza chi ha votato per gli attuali imbarazzanti vincitori, ma deve chiedersi perché non ha saputo convincere altri a votare altrimenti.
Un aspetto comico dell'autodenigrazione accademica riguarda l'infatuazione per le università americane; comico perché sembra un remake dei film in cui Alberto Sordi si sforza di mangiare hamburger invece degli amati spaghetti. Pure questa ammirazione è fondata, perché i risultati mondiali della ricerca coltivata nelle università statunitensi sono sotto gli occhi di tutti. Ma chi ha un minimo di esperienza accademica negli Stati Uniti sa che, anche in quel grande Paese, c'è una bella differenza fra i cosiddetti centri di eccellenza e le università di medio livello e che la cultura di un Paese è data dal suo livello medio. E può capitare che in un prestigioso college come il Bard College, in cui insegnò Hannah Arendt, su trentanove studenti di un corso ci sia solo uno il quale sappia chi era il maresciallo Tito e più della metà ignori quale sia la capitale della Polonia, cosa che non succedeva al mio liceo triestino.
Altro luogo comune mitizzato e sbattuto in faccia ai poveri provinciali italiani è il giudizio di valore identificato con il numero di citazioni che un autore o una ricerca ottengono nelle riviste scientifiche considerate di maggior prestigio. Pure in tal caso, una constatazione ovvia (Einstein è naturalmente stracitato) scade a banale stereotipo se viene proposta come una verità assoluta. Anzitutto è patetico supporre che le riviste top siano sacrari di purezza immuni da quei rapporti personali, da quelle casualità e coincidenze che vengono ad incidere nella selezione dei valori. Inoltre, a tutti noi è capitato di leggere (anche di scrivere) decorose banalità in riviste top e di leggere, in riviste di modesta fama, contributi notevolissimi, che ci hanno aperto nuove prospettive.
Analogamente, pure nei templi del sapere si trovano grandi scienziati e pomposi retori, così come in tante università o dipartimenti che non salgono agli onori dei media si trovano mezze calzette e studiosi e docenti di prim'ordine il cui lavoro, pur non collocato sotto i riflettori, fa progredire il Paese più dei Soloni che trinciano giudizi generici e quindi per definizione ascientifici. Ogni critica deve essere analitica, articolata, differenziata, anche se ciò è ostico all'urgenza mediatica che ha bisogno di formule totalizzanti e sempliciste. Allo stesso modo, ogni tanto si parla degli Istituti di Cultura in modo indiscriminato, ora tutti eccellenti ora tutti scadenti. Pure in questo caso, chi ne ha conoscenza concreta sa bene che la situazione è diversa da caso a caso e merita giudizi differenziati; per citare qualche esempio recente di esperienza negli Stati Uniti, l'Istituto di Los Angeles come qualche tempo fa quelli di Washington o San Francisco mi ha dato un'impressione di reale creatività e ovviamente si potrebbero citare anche casi opposti in varie parti del globo.
Il numero di citazioni contribuisce a procurare maggiori finanziamenti alle Istituzioni citate. Questo criterio, ora divenuto Vangelo, può assumere aspetti ridicoli. Mi è capitato, come a tanti miei colleghi, di essere invitato a tenere lezioni o corsi presso alcune Istituzioni di grande fama e pensavo, ovviamente, che fosse semmai il mio cosiddetto prestigio a venire accresciuto da quegli inviti. Ma due volte — negli Stati Uniti e in Olanda — al momento del congedo i presidenti di quelle Istituzioni mi chiesero di nominarle sui giornali ogniqualvolta ne avessi avuto l'occasione, perché, aumentando così il numero delle volte in cui compariva il loro nome, avrei contribuito ad incrementare i loro finanziamenti. È stato inebriante scoprirsi fonte seppur modesta di finanziamento di gloriosi Centri di Ricerca. Per non cedere a questa tentazione di volontà di potenza, mi sembra giusto mortificarmi e non fare quei nomi.


Claudio Magris
10 agosto 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Ottobre 16, 2008, 06:53:22 pm »

«Le chiedo di reagire con fermezza e non con le Sue abituali facezie»

Non siamo un paese di barbari


Lettera al premier Silvio Berlusconi sul caso Petrella e sul no di Sarkozy

di CLAUDIO MAGRIS


Signor Presidente Berlusconi, non ho votato per Lei né per la Sua coalizione di governo, ma Lei, eletto democraticamente a guidare il Paese, è chiamato a tutelare il bene e l'onore dell'Italia e di tutti i suoi cittadini. Le chiedo pertanto di esigere dal Presidente Sarkozy le formali scuse per lo schiaffo e l'offesa da lui arrecati all'Italia con le motivazioni addotte per negare l'estradizione di Marina Petrella, terrorista condannata in Italia per omicidio plurimo e latitante all'estero, in Francia.

Il Presidente Sarkozy ha invocato le precarie condizioni di salute della signora Petrella e certo chiunque, incensurato o colpevole di reati anche gravissimi, ha pieno diritto a essere curato al pari di ogni altro cittadino, perché nessuno, anche se autore di crimini, perde la dignità umana e i suoi diritti fondamentali. Come ha osservato Sabina Rossa - figlia dell'operaio Guido Rossa, assassinato nel 1979, come altri rappresentanti dell' Italia migliore, quella più aperta democratica e progressista, dalle cosiddette Brigate Rosse - il Presidente Sarkozy, negando con quei motivi l'estradizione, ha implicitamente proclamato che l'Italia non è uno Stato di diritto, bensì un paese barbarico in cui non si rispettano gli elementari diritti umani, non si curano i detenuti malati o magari li si tortura come a Guantanamo o li si giustizia come avviene ogni tre giorni in Arabia Saudita. E' un insulto al nostro Paese - considerato incivile, incapace di amministrare la giustizia e tribalmente dedito solo alla vendetta - ed è dunque un insulto pure a chi lo governa.

Non pretendo che Lei sfidi a duello il Presidente Sarkozy, come fece nel 1897 il Conte di Torino col Principe Henri d'Orléans, il quale aveva vilipeso l'onore militare italiano e si prese una bella stoccata. Le chiedo tuttavia di reagire con fermezza e non con le Sue abituali facezie. Come ha detto con esemplare magnanimità Sabina Rossa, nessuno chiede vendette, pene di morte, nemmeno ergastoli; anche una grazia sarebbe pensabile, ma dovrebbe essere eventualmente concessa dal Presidente della Repubblica Italiana, del Paese in cui è stato commesso il crimine e in cui è stata emessa la sentenza in nome del popolo italiano, e non dal Presidente della Francia o del Guatemala. Certo che Lei non si dimostrerà timoroso, La ringrazio per l'attenzione.


16 ottobre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Novembre 09, 2008, 12:22:57 am »

Incontro con la scrittrice serba

Gli eroi sbagliati dell'Isola Nuda

Dunja Badnjevic racconta il dramma della famiglia e del padre stalinista che finì senza piegarsi nell’inferno di Tito


«Goli Otok isola della pace, isola di assoluta libertà - dice il dépliant turistico -. Mare straordinariamente pulito, ambiente immacolato, immerso nel silenzio». Quelle due isole paradisiache dell’alto Adriatico sono state per anni un inferno. Il regime titoista jugoslavo le aveva trasformate in due Lager, in cui finirono non solo ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la seconda guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto deportati politici e, in particolare, quei comunisti, compagni nella lotta di resistenza partigiana contro nazismo e fascismo, che, quando Tito nel 1948 ruppe con Stalin erano rimasti fedeli, per fede nell’idea universale marxista, al comunismo ortodosso e cioè - allora - a Stalin.

Finirono così a Goli Otok, l’Isola Nuda, eroici combattenti per la causa della rivoluzione mondiale d’improvviso ferocemente perseguitati dai loro stessi compagni e dal regime jugoslavo che avevano contribuito a costruire, liberando il Paese dal nazifascismo. Fra essi c’erano anche circa duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste e i Lager nazisti, che si erano battuti in Spagna contro Franco e si erano recati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a edificare il socialismo nel Paese più vicino. In quell’inferno, sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi comunisti provenienti dall’Est e posteggiati dal Pci quali scomodi testimoni della politica stalinista del partito che si voleva dimenticare.

È una storia che mi ha ossessionato per tanti anni, sulla quale ho scritto un libro, il romanzo Alla cieca; dopo essere stata a lungo rimossa e taciuta, questa vicenda è riemersa alla consapevolezza, ha dato origine a molte indagini storiche ed elaborazioni memorialistiche ed è stata resa nota soprattutto attraverso il libro di Giacomo Scotti «Goli Otok, ritorno all’isola calva» (ed. Lint), che ne documenta e illustra tutte le fasi. Anche la letteratura ha dato voce a quella tragedia, soprattutto attraverso la scrittura di testimoni sopravvissuti; fra le opere in italiano va ricordato il romanzo autobiografico Martin Muma del poeta rovignese Ligio Zanini. Ora è uscito, scritto in italiano, l’intenso, incisivo e conturbante romanzo-verità L'Isola Nuda di Dunja Badnjevic (Bollati Boringhieri), nata a Belgrado e residente da più di quarant’anni in Italia, traduttrice e promotrice nel nostro Paese di letteratura serba, bosniaca e croata, e traduttrice di autori italiani in serbo, esempio di un’identità culturale che, pur restando fedele alle proprie origini, si trasforma e si arricchisce acquisendo, attraverso l’avventura della lingua, una valenza intellettuale e umana in più.

Lo specchio Adriatico, come dice un libro del poeta e saggista croato Tonko Maroevic, è stato fecondo di questi rimbalzi culturali; un altro esempio è Ljiljana Avirovic, saggista e grande traduttrice dall’italiano in croato ma anche dal croato o dal russo in italiano. L'Isola Nuda è essenzialmente la storia del padre dell’autrice, Ešref Badnjevic, comunista internazionalista e partigiano, incrollabilmente fedele agli ideali universalistici, che finisce a Goli Otok e poi in un altro Lager all’interno della Jugoslavia. Attraverso la storia del suo calvario e della diritta fierezza con cui egli lo ha affrontato, emergono, con asciutta poesia che rende più intensa una nobile e indomita sofferenza, la storia di una famiglia, in estreme difficoltà sopportate con fermezza, e la storia di tutto un Paese, che inizia a rovinare calpestando i valori che lo hanno costruito e che esso stesso mina credendo di farlo per difendersi. Lei - le dico incontrandola a Roma - ha scritto un libro forte, «vero» umanamente, storicamente e personalmente. Una testimonianza personale che diventa romanzo. Come si è posta rispetto a tale rapporto tra la bruciante verità e quel tanto di finzione necessaria per articolarla in un racconto che ha pure un suo notevole spessore letterario? È stato esistenzialmente difficile?

Badnjevic - Non è stato difficile perché è un documento-verità, non c’è alcuna finzione. Era un po’ come un’auto-analisi e una catarsi attraverso tutto ciò che abbiamo vissuto io, mio padre e il mio Paese. Ho perso un padre nel momento in cui ne avevo più bisogno, prima, e ho perso una patria che amavo, quasi visceralmente, dopo. Da qui il mio neologismo «apolitudine»: sentire ad un tratto cancellato tutto un vissuto e avere solo la memoria per ricordare quel che gli altri cercavano di far sparire nel nulla. Affrontare un mondo in cui le vittime di ieri oggi non si riconoscono come tali, in cui i nomi delle strade e delle città sono cambiati. Che cosa significa ora aver combattuto per la patria e per un mondo migliore, se nella storia ufficiale quello non era il mondo migliore e nemmeno la patria era più quella? La realtà dei Balcani ha superato di gran lunga ogni possibile previsione.

Magris - Ciò che mi ha sempre commosso, in questa terribile vicenda, è il contrasto fra l’eroismo morale di questi uomini come suo padre e altri, pronti a sacrificare se stessi alla causa dell’umanità, e il fatto che essi si siano battuti e sacrificati (e forse pronti a sacrificare pure altri) in nome di Stalin, che, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in una Isola Nuda. Lei come sente questo contrasto? A parte l’amore personale per suo padre e l’oggettiva ammirazione per la sua dirittura, lo vede anche come in parte oggettivamente colpevole o almeno in errore?

Badnjevic - Colpevole no, ha agito in totale buona fede, facendo male solo a se stesso e alla sua famiglia. Bisogna rapportarsi a quegli anni quando i comunisti di tutto il mondo credevano che Stalin dei gulag non sapesse niente, che le responsabilità fossero degli Jagoda, degli Ezov, dei Beria. Mio padre non è mai stato in Russia. Credeva, sbagliando, nell’internazionalismo che necessitava, almeno all’inizio, di uno Stato guida, in un mondo in cui tutti davano secondo le proprie capacità e ricevevano secondo i bisogni. Se il socialismo avesse vinto in Germania, diceva, tutto sarebbe stato molto diverso. L’Unione sovietica era un Paese troppo povero, arretrato e grande. Anche se in molti Paesi dell’Est, Russia compresa, ci sono ancora oggi coloro che credono di aver pagato un prezzo troppo alto per la fine del socialismo reale.

Magris - Negli anni recenti c’è stato un intenso dibattito su questa storia che si voleva far dimenticare; studi storici, saggi, testimonianze, opere letterarie. C’è stato qualche testo o qualche autore importante per l’ispirazione di questo libro

Badnjevic - Sono usciti tanti saggi, ovviamente dopo la morte di Tito. Un testo letterario fu scritto ancora negli anni 70 da Dragoslav Mihajlovic, Quando fiorivano le zucche, ma ne fu vietata la diffusione. Il romanzo più fortunato sull’argomento fu Tren 2 di Antonije Isakovic. Mihajlovic era tra i più giovani «ospiti» dell’Isola e ha pubblicato due grossi volumi di ricordi. Ci sono stati qualche tentativo di riabilitazione dei detenuti, qualche convegno e incontro ufficiale. A uno di questi ho preso parte: era veramente toccante vedere i vecchi superstiti rincontrarsi e ricordare. Poco dopo è arrivata la fine della Jugoslavia travolgendo tutto come un uragano. Che cosa poteva significare il destino di poche decine di migliaia di persone rispetto agli orrori di una guerra che si spalancavano davanti al Paese?

Magris - Questa terribile storia è una tragedia del movimento rivoluzionario mondiale, un tramonto - temporaneo o definitivo? - del sole dell’avvenire ed è anche una tragedia jugoslava, quasi un lontano preludio della dissoluzione di quel Paese. Lei sente un nesso, sia pur lontano e simbolico? Come ha vissuto e come vive lei il tracollo del socialismo jugoslavo, la dissoluzione della Jugoslavia e la deformazione o cancellazione della sua memoria storica?

Badnjevic - Ogni volta che tornavo mi sentivo, come dicevano le mie amiche, una rana buttata nell’acqua bollente, stupita ed esterrefatta. Loro invece erano state immerse in acqua fredda e portate all’ebollizione lentamente. Credo che il declino inarrestabile del socialismo inizi nel 1956 quando le incertezze del gruppo dirigente sovietico e la mediocrità della classe dirigente delle democrazie popolari impedirono il necessario e radicale mutamento e critica della teoria e della pratica politica del socialismo e il suo adeguamento ai tempi nuovi. Se si fossero date risposte serie e sincere ai tanti «perché» del ’56, forse oggi non ci troveremmo in un mondo in cui non invidio la giovinezza delle mie figlie e dei miei nipoti. Io, figlia di un vecchio comunista, credevo «nel sol dell’avvenire». In quei principi elementari di solidarietà umana e di internazionalismo che avevano caratterizzato gli albori del socialismo. Lei nel suo Utopia e disincanto ha scritto: «Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo».



conversazione tra Claudio Magris e Dunja Badnjevic
08 novembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Dicembre 01, 2008, 03:06:11 pm »

Magris contro la fine della storia

di Luca Menichetti 05/07/2008Biografia


Claudio Magris (Trieste 1939) è docente di letteratura tedesca all’università di Trieste e collabora da anni al “Corriere della Sera”. Con le sue opere ha contribuito a diffondere in Italia la conoscenza della cultura mitteleuropea: “Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna” (1963), “Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale” (1971), “Itaca e oltre” (1982), “L’anello di Clarisse” (1984),” Danubio” (1986). Del 1999 è “Utopia e disincanto”, raccolta dei saggi di argomento non solo letterario. Magris è anche autore di testi narrativi quali “Illazioni su una sciabola” (1984), “Un altro mare” (1991), “Microcosmi” (1997, premio Strega). Da ricordare inoltre il saggio, scritto in collaborazione con Angelo Ara, “Trieste. Una identità di frontiera” (1987), omaggio alla propria città natale, e il testo teatrale “Stadelmann” (1988).


Abstract
Claudio Magris, nella sua ultima opera, tra saggistica e giornalismo, parla dei grandi temi della laicità, della scienza, della democrazia, dell’etica, alla luce dei più controversi casi di cronaca. L’autore sostiene che, nel mondo, idee ed ideologie possono avere una vita brevissima.
La definizione di “antipolitico”, come intesa da Thomas Mann - e presente nelle note finali di “La storia non è finita” di Claudio Magris - non deve trarre in inganno.

---


É vero che Magris ne parla riferendosi ad “uno che, come la maggior parte di noi, si appassiona più per una giornata al mare che per un’assemblea o per la cronaca politica, ma è convinto a malincuore che, quando il corpo sociale si ammala o viene aggredito e guastato, quando sono in gioco i valori in cui crediamo, allora diventano necessarie la presa di posizione, la protesta, la testimonianza, l’analisi” (pag. 237); ma la raccolta di articoli (pubblicati per lo più tra il 1998 e il 2005 sul Corriere della Sera) mostra un autore che non scrive di teoremi astratti, non dimentica affatto le vicende internazionali e la cronaca più inquietante, ma semmai, proprio alla luce di quanto sta accadendo nel mondo contemporaneo, interpreta e analizza i temi più controversi con un equilibrio e una profondità che difficilmente possiamo trovare altrove.

Lo sappiamo bene quanto sia labile e non sempre riconoscibile il discrimine tra equilibrio ed equilibrismo, quest’ultimo proprio di chi, per meglio dissimulare la propria partigianeria o l’intenzione di non “disturbare il guidatore”, scrive e commenta dimenticandosi di tutto quello che non è utile alle proprie tesi.

Nella “storia non è finita”, per nostra fortuna e di tutti i suoi lettori presenti e futuri, di tali equilibrismi non c’è traccia.

Non è un caso se il primo articolo della raccolta si intitola “Le frontiere del dialogo”, proprio sui limiti e sulle difficoltà del confronto tra idee, fedi ed ideologie: a fronte di temi come l’unità nazionale, l’involuzione politica che negli ultimi anni ha messo e sta mettendo in pericolo i valori fondamentali della democrazia e del liberalismo, la violenza e la guerra, l’aborto e l’eutanasia, i nazionalismi e le prospettive di unità europea, i difficili rapporti tra Stato e Chiesa, Magris non si nasconde e non nasconde nulla, mettendo sempre a confronto le diverse ed opposte convinzioni, senza per questo annacquare le proprie.

Il fatto che l’autore abbia voluto giustamente “volare alto”, come del resto si conviene ad intellettuale del suo calibro, non gli ha impedito di riservare strali pesanti, con tanto di nomi e cognomi, alle iniziative di chi ci ha governato pensando innanzitutto ai propri interessi personali, mediante leggi ad personam, stravolgendo gli equilibri istituzionali e il vero senso del liberalismo, oppure verso chi, mediante interessati revisionismi, ha voluto riscrivere la storia della Resistenza, nell’indifferenza di chi interpreta la politica come il proseguimento della propria attività d’impresa.

In questo senso, di “antipolitico”, almeno come comunemente inteso, nella “Storia non è finita”, c’è poco: basti pensare all’articolo “Le frontiere della decenza” (pag. 166) oppure agli articoli finali che trattano della delegittimazione dei magistrati e di coloro che, reduci da un recente passato di estremismo rivoluzionario, sono passati, con lo stesso piglio, a servire gli interessi di un’azienda che si è fatta partito.

Quella che semmai caratterizza, come un leit motiv, gli scritti di Magris, è la laicità, quella che lui chiama “la laicità correttamente intesa”, ovvero “liberata dall’equivoco che la contrappone scorrettamente alla fede” (pag. 238), come confronto incessante di idee, capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili.

In questo senso si capiscono le prese di distanza nei confronti dell’atteggiamento di alcuni scienziati: “mai come oggi sono chiamati ad esercitare il dubbio scientifico, a interrogarsi sulle conseguenze e sul senso del loro lavoro. Talora sembrano riluttanti a farlo, prigionieri di un fideismo non meno ottuso di quello degli inquisitori di Galileo” (pag. 140).

Una concezione di laicità che, dalle pagine della storia non è finita, appare lontana distanze siderali rispetto a quella dispensata da polemisti come un Piergiorgio Odifreddi.

Basti pensare alle citazioni da Chesterton (“le grandi religioni si distinguono dalle superstizioni per il loro robusto materialismo”), ed a una figura come il teologo protestante e martire del nazismo, Bonhoeffer, molto presente nelle pagine del libro; ma anche quando, in “Elissi della responsabilità”, Magris ricorda la lezione di Max Weber che distingueva i due modi fondamentali dell’agire politico, ispirati all’etica della convinzione e all’etica della responsabilità.

Una lontananza siderale da quella laicità intesa come aggressivo anticlericalismo e ateismo militante, se ancora andiamo a leggere alcuni suoi articoli: “Non solo la scienza ma anche le grandi religioni sono chiare e razionali, perché insegnano a distinguere fra ciò che può essere dimostrato razionalmente e ciò che invece può essere solo oggetto di fede e quindi – si sia credenti o no – non pasticcia e non offende la ragione” (pag. 84); “La nostra cultura è insidiata da due deformazioni settarie, contrapposte ma complementari. Da un lato c’è un riduttivo, falso materialismo. Dall’altro c’è, altrettanto volgare, un vacuo e fumoso atteggiamento spiritualeggiante …Materia e spirito sono due facce della stessa medaglia, della persona umana” (pag.91).

Magris con questa sua raccolta di articoli ha vinto la prima edizione del premio letterario Viareggio-Tobino, in virtù dello stile, dell’impegno civile profuso in ogni sua pagina.

Motivazioni che, presso quella grande fascia di pubblico che gradisce pamphlet e tesi manichee, sicuramente non contribuiranno più di tanto alla diffusione di questo volume.

Sarebbe un peccato: il suo ragionare, la sua repulsione per un certo sentimentalismo buonista, il suo invito ad interrogarsi sui grandi temi senza pregiudizi, non è affatto qualcosa che si possa leggere di frequente nell’attuale panorama editoriale.

Claudio Magris, La storia non è finita. Etica, Politica, Laicità, Garzanti, Milano 2008, pp. 245, euro 9,50

da www.sintesidialettica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Febbraio 07, 2009, 05:02:11 pm »

DIALOGHI

La lunga marcia del mais

Fu chiamato granturco per indicare qualcosa di straniero

di CLAUDIO MAGRIS


Un'avventura dell'umanità dove si intrecciano società, medicina, suggestioni letterarie.

Claudio Magris incontra Roberto Finzi, storico dell'economia


 
 
Il cacao arriva in Spagna dal Nuovo Mondo nel 1520, ma viene introdotto nei Caraibi nel 1525 e di lì rimbalza in Europa e tante storie simili si possono narrare per il caffè, il tè e altre colture, patata compresa; l'esotico e l'originario si scambiano spesso i ruoli. Le geografie della storia sono un orizzonte affascinante per la conoscenza delle civiltà, dell' uomo, dei progressi e degli errori che segnano il suo cammino; su questo tema sono stati scritti capolavori storiografici. Un recente, incisivo e affascinante libro che segue tali tracce è il volume di Roberto Finzi, Sazia assai ma dà poco fiato. Il mais nell'economia e nella vita rurale italiana. Secoli XVI-XX (Clueb, pp. 154, e 20). Storico dell'economia — disciplina che insegna a Bologna, dopo averla insegnata per molti anni a Trieste — Finzi mostra nei suoi libri come la storia dell'economia sia fatta di grafici, di cifre, di parametri, ma anche e soprattutto di avventure e passioni umane, di calcoli e di sentimenti irrazionali, e sia una parabola dell'intraprendenza e insieme della fallibilità umana, con le sue conquiste, le sue ingiustizie, i suoi abbagli, le sue sofferenze. Nella sua vasta opera, rigorosa e affidata a una felice scrittura che fonde analisi e narrazione, Finzi si è occupato dei temi più vari, dai classici dell'economia quali Turgot o Smith alla storia del clima e a quella della scienza; dall'antisemitismo all'avvento del mondo industriale alla storia dell'agricoltura, in cui natura, tecnica e questione sociale si fondono in unità.

Ricordo come, tanti anni fa, Franco Venturi promuovesse lo studio delle Accademie Agrarie, strada sulla quale stava mettendosi il suo straordinario allievo Gianfranco Torcellan, morto così precocemente a 28 anni lasciando una rilevante opera storiografica. In questo libro di Finzi, «la lunga marcia del mais» alla conquista dell'Europa, e specialmente dell'Italia, s'intreccia, con grande suggestione anche letteraria, alla storia sociale del nostro Paese e della sua lunga miseria contadina e anche alla storia, clinica e sociale, della medicina, in quanto una nutrizione basata quasi soltanto sul mais — la polenta dei miei avi friulani — causa la pellagra, con le sue devastanti e abbrutenti conseguenze fisiche e psichiche, la cui natura e le cui origini sono oggetto di discussione scientifica e investono teorie antropologiche (lo stesso Lombroso). Discussioni che si protendono, da quel Medioevo ritardato che è la vita contadina in Italia sino ai primi decenni del secolo, alla «terza scoperta dell'America » ossia alla realtà attuale, con i suoi mais ibridi e transgenici. «Nel tuo libro — gli chiedo — il dibattito sull'origine della pellagra, affrontato senza forzature ideologiche bensì in rigorosa chiave scientifica, sfocia inevitabilmente nelle discussioni con tutta una cultura (le teorie sulla degenerazione e sull'inferiorità psichica) e con un sistema economico-sociale alla base, almeno in buona parte, della malattia. La lotta per debellare quest'ultima è pure lotta politica. Se ne deduce che, in generale, la conoscenza, per essere tale, deve trapassare in azione?».

Finzi — «Sai meglio di me che, specie in storia, bisogna essere assai cauti nelle generalizzazioni. E tuttavia non soltanto la vicenda della pellagra mostra che, per dirla con una lontana formula oggi dimenticata, solo pensiero e azione insieme possono davvero risolvere i problemi. Nel caso della pellagra c'è uno scontro sulla eziologia che è pure dissidio politico. Gli uni — che inizialmente hanno minori prove "scientifiche", di laboratorio — attribuiscono il male alle condizioni sociali delle campagne e all'alimentazione da esse determinata; dunque per debellare il male occorre mutare le condizioni di vita degli strati più indigenti del mondo rurale. Gli altri — dalla cui parte stanno microscopi e provette — attribuiscono la malattia al mais guasto e dunque ne accollano la responsabilità in primis a quegli stessi che ne sono vittime. Dando vita, dirà un avversario di questa tesi, a una giusta guerra "alle muffe e alle truffe". Ché il mais guasto fa di certo male. D'altra parte, chi pensa che la pellagra venga dal mais avariato, non trova altro rimedio per combattere la malattia che nutrire i malati con una alimentazione adeguata, dando implicitamente ragione agli avversari».

Magris — «Anche il mais conosce la modificazione genetica, oggi sempre più frequente in ogni settore, superstiziosamente demonizzata o ciecamente celebrata. Illuminista, razionalista e progressista, nemico di ogni pathos misticheggiante e apocalittico, tu sei illuministicamente critico nei confronti di ogni scientismo trionfalistico e dogmatico, privo di autocritica. In questo libro sottolinei pure certe inquietanti conseguenze del mais transgenico e le incognite della manipolazione genetica, che pure fornisce tante risorse. Il mais dunque quale esempio simbolico della dialettica del progresso, delle liberazioni e dei disastri che ci possono arrivare dalla tecnica? ». Finzi — «Anche. Mais e patata, scriveva Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni, nel 1776 — sono forse i due maggiori progressi derivati all'Europa dalla sua proiezione al di là degli oceani. Ma, per essere accettati, dovettero superare numerosi sospetti. Che non erano, come a lungo si è detto, frutto della sola ignoranza. Il titolo del libro viene da una notazione di un agronomo del '600 che la attribuisce ai contadini che mangiano la polenta: buona, che riempie la pancia ma "dà poco fiato", non dà forza. Si mangia di più e si rende di meno. La diffidenza verso il progresso, dunque, non è aprioristica; è il risultato di una esperienza. I mais ibridi sono stati un grande progresso, ma hanno creato nuove dipendenze. Non è infatti possibile piantare un seme di mais ibrido e ottenere di nuovo mais ibrido, sicché il diretto coltivatore deve di anno in anno comperare le sementi. Per i transgenici nessuna ripulsa, ma precauzione sì».

Magris — «Come il mais nelle culture precolombiane degli indios nell'America Centrale, il frumento ha avuto in Europa un grande significato spirituale: nell'antica Grecia l'iniziazione ai Misteri Eleusini si concludeva con la contemplazione di una spiga di grano; nel Vangelo il chicco di grano che muore e rinasce è un simbolo centrale e nell'Eucarestia il pane diventa il corpo di Cristo. Nel Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché, si dice che "di mais giallo e di mais bianco venne fatta la carne dei nostri padri"; la coltivazione del mais ha prodotto arte (per esempio la musica del tamburo che scandisce la macinazione) e la sua difesa viene affermata quale difesa di tutta una civiltà da un capitalismo alienante: "noi siamo fatti di mais e se vendiamo quello di cui siamo fatti facciamo mercato della nostra stessa carne", si dice in Uomini di mais di Asturías, premio Nobel 1967. Esiste in Italia, in Europa, sia pure in tono minore, un qualche alone simbolico del mais, magari evocato dalla suggestione esotica del termine granturco? ». Finzi — «Un alone simbolico esiste di certo. E l'esempio più curioso viene proprio, come tu noti, dal termine "granturco". Perché mai turco un cereale che viene dall'America? Fino alla sconfitta definitiva degli Ottomani nel 1683 sotto le mura di Vienna, il "turco" è l'altro, il diverso, il "forestiero", e pure il nemico, per eccellenza. Oltre il mais, altre piante che hanno attraversato l'Atlantico, come il fagiolo e il peperone, vengono indicate come "turche". Quanto non è cristiano, evoca la terribile angoscia del "nemico interno". Ed ecco che, ad esempio, in Catalogna correva la voce che pomodori e peperoni fossero velenosi e che fossero stati portati con loro dai Mori, di modo che erano morti più Catalani per averli mangiati che in battaglia».


07 febbraio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:31:02 pm »

LA MORTE DI ELUANA

Una persona, un Paese
di Claudio Magris


Nel caso di Eluana Englaro gli avvoltoi, che di solito si gettano sui morti, si sono accaniti su una persona viva ancorché morente; il tragico, irresolubile problema di quando smettere di difendere la vita di un individuo è stato empiamente usato per un disegno di sovversione politica, inteso a colpire — ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere — le regole dello Stato di diritto, doverosamente difese dal presidente della Repubblica, uno dei cui principi fondamentali è che l’esecutivo non può modificare o annullare con decreti quanto è stato deciso in via definitiva da un tribunale, si apprezzi o meno la sentenza. In tal modo si lede scandalosamente quella divisione di poteri su cui si fonda ogni democrazia liberale.

Il problema, esemplificato dal caso di Eluana Englaro ma che coinvolge tante altre persone il cui dramma passa sotto silenzio, è tragico. A differenza dalla sua fase iniziale, in quella finale la vita non conosce un punto preciso in cui essa possa considerarsi conclusa; si sa quando si abortisce, quando si interrompe la vita di un individuo, ma non si sa quando sia lecito o pietoso staccargli la spina. Non è un criterio la qualità della vita, che può essere valutata solo dall’interessato, l’unico autorizzato a decidere sulla propria vita e sulla propria morte e ad uscire di scena quando crede, come facevano con serenità gli antichi, condizionato solo dalla sua eventuale responsabilità verso altre persone. Non è certo un criterio il lasciare libero corso alla natura, la quale produce pure lo tsunami e le epidemie, alle cui vittime dobbiamo prestare soccorso. La Chiesa se la cava condannando l’accanimento terapeutico, concetto in sé vago, perché non si sa quando esso inizi; di per sé, ogni lotta contro la morte è accanimento terapeutico e guai se non fosse così, perché il primo dovere è quello di difendere ogni individuo.

In assenza di un’esplicita volontà espressa—il testamento biologico, in questo senso, è un fondamentale aiuto per affrontare il problema—ci si può affidare solo a un vago e sempre fallibile buon senso, che nel caso di Eluana Englaro sembra indicare come fosse tragicamente comprensibile lasciarla morire. Ossia aiutarla a morire, perché in questo campo non sono lecite ipocrisie: togliere cibo o altre sostanze necessarie per vivere significa togliere la vita; pure chi, seguendo la Chiesa che condanna l’accanimento terapeutico, smette di fornire al paziente le cure per la sua sopravvivenza deve sapere che egli lo abbandona alla morte e in certo senso gli dà la morte, perché ritiene sia, in quella circostanza, la cosa meno inumana. Naturalmente il buon senso — che non è né la morale, né la scienza, né la fede, né la politica, bensì un umanissimo, prezioso ma talora pure pericoloso e pasticcione stato d’animo — può sbagliare e in questo caso lo sbaglio è tragico.

Ma questo buon senso è, almeno per ora, l’unica precaria frontiera lungo la quale muoversi, perché altrimenti si cade in astrattezze ideologiche o in una truce concezione eutanasica dell’esistenza intera, la quale si arroga il diritto di stabilire il criterio della qualità della vita e il diritto di vita e di morte. Conosco uomini e donne che da anni continuano a vivere con persone amate ridotte a una condizione che impedisce loro ogni reazione e ogni comunicazione, ma non impedisce una misteriosa e concreta comunicazione affettiva; per usare una vecchia parola —la più antica, difficile del mondo, direbbe Saba —l’amore. Ora Eluana Englaro è in quella grande oscurità che, diceva il teologo gesuita Karl Rahner, è l’incomprensibile mano di Dio che raccoglie ogni destino; oscurità la quale non è forse meno importante della vita che va amata e protetta ma non idolatrata. Restano le ferite che la sua morte ha inferto a chi l’ama e quelle che l’indecente attacco, in suo nome, ai principi elementari dello Stato, ha inferto al Paese, alla qualità della vita di tutti. Anche un Paese può essere costretto a fare testamento.

10 febbraio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Febbraio 16, 2009, 11:01:26 am »

I MILITARI INTERNATI CHE DISSERO NO

Un'altra resistenza


di Claudio Magris


L’altra Resistenza, dice il titolo di un celebre libro di Alessandro Natta. Di Resistenze - anche di formazione molto diversa, pur nella comune lotta contro il fascismo e soprattutto contro l'occupatore nazista - ce ne furono, come si sa, molte. Quella di Giustizia e Libertà, quella repubblicana, socialista, cattolica, monarchica, comunista; quest'ultima la più rilevante e organizzata, quella che ha dato il maggior contributo di sangue e che si è pure resa più colpevole di criminose violenze eccedenti la terribile logica della Guerra civile.

Come è noto, le divergenze politiche all'interno della Resistenza portarono, specie ai confine orientali d'Italia, anche a scontri sanguinosi e a delitti fratricidi, quali ad esempio l'eccidio di Malga Porzús. I resistenti al fascismo e soprattutto al nazismo - e le vittime - furono diversi non solo quanto a posizione politica, ma anche per appartenenza etnica, come soprattutto gli ebrei o gli zingari, e per quel che riguarda l'estrazione sociale.

Una di queste categorie di deportati, di resistenti al Leviatano nazista, di cui certo si parla (è stata di recente ricordata e onorata dal presidente Napolitano, col suo forte senso dell'Italia) ma di cui in genere non si parla abbastanza, col rilievo che essa merita, è quella dei militari italiani, massacrati (come a Cefalonia) o catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre - in seguito a quel pauroso sbandamento e talora pure all'ignavia di alcuni loro comandanti - e deportati in Germania o trattenuti nei Balcani; rispettivamente circa 550.000 e 100.000, come riporta una recente pubblicazione di Nicolino de Roberto.

Qualificati dai nazisti come «internati» e privati dunque dei diritti riconosciuti, secondo le convenzioni internazionali, ai «prigionieri di guerra », questi militari, soldati e ufficiali, rifiutarono, in stragrande maggioranza, di aderire al nazismo e alla Repubblica di Salò sua alleata, scegliendo così il Lager e durissime condizioni di sofferenza e di umiliazione. Questa loro scelta è stata tanto più difficile e meritoria in quanto non era facile - specialmente per chi non era ideologicamente inquadrato in una formazione politica - capire, nella confusione e nel caos dell' Italia spaccata in due, quale fosse veramente l'Italia.

Vanno parimenti ricordati quei militari che, prigionieri degli inglesi o degli americani, rinunciarono alla libertà per non aderire all'Italia badogliana, spinti da un senso di onore comprensibilmente rafforzato dall'incertezza della situazione e dalla fellonia del re fuggiasco. L'internato militare in un Lager Tedesco era solo, dinanzi ai suoi oppressori e alla sua scelta; solo con la sua coscienza e il suo sentimento, perlopiù senza il sostegno morale e psicologico di una appartenenza politica, che aiuta a scegliere e a combattere, come l'appartenenza a un reggimento in una battaglia.

Quella scelta, essi l'hanno fatta per amore dell'Italia e per un senso profondo dell'onore, oltre che per l'intelligenza che ha fatto loro capire da che parte stava l'umanità. Anch'essi sono protagonisti di quel riscatto della patria e della libertà da cui è nata l'Italia democratica, con la sua Costituzione che oggi si vuole non correggere o aggiornare, bensì distruggere nei suoi fondamenti, che rappresentano la base della nostra vita civile.

E' sconcertante che questa sovversione provenga da chi governa il Paese fondato sulla Costituzione. Oggi quegli ex internati non rappresentano una forza politica né un movimento ideologico e tanto meno una riserva di voti. Forse per questo non siamo loro grati come dovremmo; questi giorni dedicati alla memoria sono una buona occasione per ricordarci a fondo anche di loro.

16 febbraio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Marzo 08, 2009, 09:24:42 am »

A SENSO UNICO

Le ronde sbagliate


di Claudio Magris


Una vecchia canzone, che molti anni fa ho sentito cantare da Milly — credo in uno dei suoi ultimi récital — dice del malinconico giro notturno di una ronda militare guidata da un caporale. La ronda sfiora le insidie della notte, senza riuscire a sventarle; anche quando s'imbatte in una coppia clandestina teneramente abbracciata, il caporale, che ha riconosciuto nella donna sua moglie, non può intervenire e deve proseguire, perché si è accorto che l'uomo è il suo generale.

Benché inconcludente, quella ronda è almeno composta di soldati e il suo passo cadenzato comunque rassicura almeno un po', in quella dimessa notte, nell'eventualità di pericoli più gravi. Certo, non solo di notte ci si può sentire insicuri, come dicono le cronache recenti. Pure certe facce possono, da sole, incutere un po' di paura, a vedersele davanti e troppo vicine.

Una di queste facce deve essere per esempio quella del giovanotto aspirante rondista che si vantava di avere in tasca un'arma impropria, con l'evidente voglia di usarla, menzionato dall'onorevole Tabacci, in un magnifico intervento di alcuni giorni fa durante una trasmissione televisiva (Ballarò), in cui diceva che non avrebbe proprio voluto trovarselo di fronte. Un liberale dovrebbe sapere che una società civile si fonda sul presupposto che solo lo Stato abbia il monopolio della forza e il compito di esercitarla; talora — se occorre, dinanzi a criminali agguerriti e pericolosi — con tutta la durezza necessaria. Sono i soldati a difendere la Patria con le armi; il termine «forze dell'ordine » designa polizia e carabinieri (i quali sono pure militari) e non altri. Quell'aspirante rondista con l'arma impropria in tasca è un nemico della società e dei cittadini e deve essere messo — dalle forze dell'ordine, non dalla Società Ginnastica o da quella Filatelica — in condizione di non nuocere. Si parla dell'urgenza di tutelare la sicurezza dei cittadini affiancando in quest'opera alle forze dell'ordine ronde costituite da volonterosi volontari.

Ma perché non si parla di tutte le forme di violenza che ci minacciano? Ci sono gli stupri, che vanno ovviamente impediti e repressi con la massima severità, siano essi compiuti da romeni su italiani o da italiani su romeni, come è pure avvenuto anche se se n'è parlato un po' meno, da poveri immigrati o da bellimbusti di più fortunati natali, come pure avviene. È evidente che nessun lacrimevole buonismo e nessuna sconcia solidarietà di classe possono intralciare l'azione penale, sia il reato commesso da un immigrato clandestino o da un rispettabile professionista, simile a quei delinquenti dalle buone maniere e dal prestigio sociale che il genio di Buñuel ha immortalato ne Il fascino discreto della borghesia. Non tutti i poveracci che dormono sotto i ponti («gli oppressi ragionano male», diceva Marx), e non tutti i soci di un elegante club hanno cuore e sono brave persone.

Tuttavia i bravi cittadini non sono minacciati solo da stupratori, ladri o rapinatori. La mafia, la camorra o la 'ndrangheta delinquono ben di più; assassinano, uccidono bambini che spariscono nel calcestruzzo, taglieggiano migliaia di onesti commercianti, incendiando i loro negozi se non pagano il pizzo. Il fenomeno è così diffuso da rendere difficile alle forze dell'ordine, sovraccariche di lavoro, fronteggiarlo. Perché chi propone le ronde non le destina a proteggere quei commercianti dalla criminalità organizzata, vigilando sui loro esercizi taglieggiati, pronti a segnalare l'arrivo degli scagnozzi della camorra o della mafia? E perché, se si vogliono le ronde, non adibirle a un altro servizio, pur esso provvido e urgente: la protezione dei pacifici cittadini dalle bestiali violenze dei bestiali cosiddetti ultrà del calcio, che aggrediscono persone causando loro gravi o gravissime lesioni, devastano e distruggono (l'ho visto con i miei occhi) esercizi e locali per puro sfogo osceno di violenza, causando gravissimi danni a individui e famiglie che vedono distrutto il risultato di anni di lavoro e di risparmio e si vedono economicamente danneggiati in misura assai pesante. Anche in questo caso, ovviamente, l'esercizio della repressione e la tutela della sicurezza spettano allo Stato. Sicurezza di tutti, senza pregiudizi a priori nei confronti di nessuno e senza troppe titubanze. Sarebbe increscioso se le forze dell'ordine, già così oberate, dovessero pure intervenire per difendere i pacifici cittadini da ronde esaltate o, ancor peggio, per difendere inesperte ronde da esperti malviventi.

07 marzo 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Maggio 10, 2009, 11:47:11 pm »

Saggi e proposte parlamentari a trent’anni dalle norme che chiusero i manicomi

Così è stato tradito Basaglia: successi (e lacune) di una legge

Accuse ideologiche, rivalità personali, carenze nell’applicazione
 
 
«Da dentro il giardino di San Giovanni si poteva leggere il mondo; con quella lettura qualcosa è cambiato».
Così scrive Franco Rotelli, attualmente direttore generale della ASS n. 1 a Trieste e a suo tempo successore di Franco Basaglia alla direzione dell'ospedale psichiatrico triestino di San Giovanni, in cui è maturata l'esperienza che ha cambiato radicalmente l’atteggiamento dinanzi alla malattia mentale e all’istituzione manicomiale, realizzando nel 1978 la legge 180 che poneva fine a quest'ultima — la cosiddetta legge Basaglia, dal nome del suo carismatico promotore — e riconoscendo finalmente i malati psichici come persone a pieno titolo, persone in difficoltà, anche assai gravi, ma nella pienezza della dignità umana. La legge 180 non proclama che i malati mentali sono guariti o non esistono, bensì semplicemente che essi sono cittadini da tutelare al pari di tutti gli altri; anche da punire, se compiono reati, come si punisce un malato di cancro se ruba, ma da considerare sempre e comunque uomini. Si tratta di una fondamentale conquista civile, che estende il riconoscimento della dignità umana a una categoria di persone cui si tendeva a negarlo: mentre non si è mai considerato un uomo sofferente di cuore o di tubercolosi un mero caso di cardiopatia o di tbc, bensì un uomo, un malato di schizofrenia è stato spesso percepito unicamente come uno schizofrenico, quasi fosse soltanto la mostruosa e astratta incarnazione di una malattia anziché un individuo colpito da una malattia. Non a caso il linguaggio, prima spia della violenza, ha visto usare quali ingiurie tanti termini che definiscono dolorose malattie psichiche. Esposti, perlomeno in alcuni ospedali, anche a condizioni innominabili e a violenze, i malati erano spesso esclusi dalla pietà, dalla considerazione, quasi non appartenessero alla condizione umana; il manicomio, quale istituzione totale e chiusa, sembrava funzionare non tanto per curarli quanto per segregarli dalla società umana, di cui ogni uomo, sino alla morte, fa parte. Scattava in tal modo un meccanismo sociale di esclusione pure nei confronti di forme di disagio, di emarginazione, di diversità, di comportamenti bizzarri ancorché inoffensivi ma difformi dalla convenzionale normalità sociale.

Così finivano magari in manicomio asociali stravaganti anche se innocui come quello che pochi giorni fa, in una farmacia, mi ha fatto giustamente anche se inopinatamente notare che la mia borsa di finta pelle nera scalcagnata gli dava fastidio. Nell’Unione Sovietica, peraltro, vi finivano molti dissidenti, ben più sani di mente dei loro carcerieri. Non è stata certo solo la scuola basagliana, come alcuni suoi settari esponenti hanno talora presuntuosamente preteso, ad operare per il reale bene del malato di mente, ma fondamentale è stata la direzione di Franco Basaglia, dal 1971 al 1979, all’ospedale psichiatrico triestino di San Giovanni, ora diretto da un altro medico del suo gruppo, Peppe Dell’Acqua. Assai rilevante era stata la precedente attività di Basaglia a Gorizia, dal 1963 al 1968, mentre il periodo intermedio da lui passato all’ospedale di Colorno era stato meno fecondo, anche per la scarsa comprensione dell’amministrazione provinciale, allora comunista. A Trieste, Basaglia e la sua équipe hanno trovato un appassionato e totale sostegno in un’amministrazione democristiana di centrosinistra o meglio nel suo presidente, Michele Zanetti, anomalo politico di coraggiosa intraprendenza, a suo tempo creativo presidente della provincia e poi del porto; vero coprotagonista, più ancora di quanto gli venga riconosciuto, della legge 180 e delle battaglie e difficoltà che l’hanno accompagnata e in cui si è impegnato a fondo, pagando il prezzo di una successiva emarginazione dalla vita politica triestina, da lui accolta senza batter ciglio. A lui, che insieme con Francesco Parmegiani ha scritto di recente una biografia di Basaglia, chiedo cos’abbia significato, per un amministratore, l’esperienza basagliana a Trieste; quali ostacoli, quali problemi, quali errori hanno accompagnato quest’avventura.

Michele Zanetti —«È stata una costante sfida su molti fronti: da quello più propriamente politico (non è stato facile ottenere un consenso sufficiente) a quello di un’opinione pubblica e di una stampa alle quali si chiedeva un cambio di cultura; da quello più strettamente amministrativo (dove si è imposto un radicale mutamento di prassi amministrative —non solo sanitarie— e di regolamenti) a quello giudiziario (in quanto i malati, a mano a mano che venivano riabilitati, venivano consensualmente sottratti al controllo tutorio del competente Ufficio della Procura). Sfida pure sul fronte culturale: è grazie al rapporto con l’Organizzazione mondiale della sanità e con una cultura internazionale non soltanto sanitaria che si è potuto reggere ai molti attacchi alla riforma. Non dubito ci siano stati errori e non ho condiviso tutte le scelte di Basaglia, ma mai è venuto a mancare l’impegno totale per realizzare gli obiettivi concordati, in una leale amicizia».

Claudio Magris — Oggi esistono in Parlamento due progetti di revisione della legge 180 e di recente si sono levate voci aspramente critiche nei suoi confronti, che accusano i basagliani di aver trascurato l’aspetto scientifico e di aver ridotto ideologicamente la malattiamentale a cause sociali. Ma Basaglia non ha mai negato—come erroneamente gli si rinfaccia e come hanno occasionalmente fatto alcuni suoi vacui e improvvisati seguaci—la realtà clinica della malattiamentale; ha respinto l’«antipsichiatria» (si veda per esempio pagina 358 del II volume dei suoi scritti editi da Einaudi) e non ha mai ridotto la malattia mentale a mero effetto dell’emarginazione sociale. Ha solo sottolineato che, come per un cardiopatico abitare al decimo piano di una casa senz’ascensore è un fattore che incide sulla sua malattia, la situazione esistenziale, sociale, affettiva di un malato mentale incide sulla sua condizione. Il che non significa affatto sottovalutare la scienza medica. Tra le dure critiche alla legge 180 c’è il libro di Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis, La razionalità negata (Bollati Boringhieri). Tuttavia, chiedo al professor Corbellini, in un suo articolo del 2 marzo sul «Sole 24Ore», lei scrive che «la legge 180 era una legge quadro, che lasciava alle Regioni di organizzarne l’applicazione. Ma mentre alcune Regioni, soprattutto nel Nord del Paese, hanno applicato efficacemente i principi generali, altre li hanno disattesi, scaricando sulle famiglie un carico ulteriore di disagi». Dunque non è la legge 180 in sé da criticare, bensì — come fanno i suoi stessi sostenitori—la sua carente applicazione, che spesso abbandona il malato alla famiglia, la quale non solo non è adeguata a sostenerlo, ma talora è stata magari, anche solo parzialmente, all’origine dei suoi disagi.

Gilberto Corbellini — «Il libro scritto con Jervis non è tanto una critica alla legge 180, di cui nondimeno analizziamo dettagliatamente, riportando e interpretando tutti i dati epidemiologici disponibili, l’impatto sanitario. Il nostro scopo era di mostrare che i difetti di quella legge dipendevano dall’influenza culturale, a nostro parere nefasta, che l’ideologia antipsichiatrica aveva avuto durante il decennio precedente nel creare una diffusa percezione della malattia mentale come un problema non medico ma sociale e politico. Inoltre abbiamo voluto documentare che gli aspetti positivi della legge non dipendevano da coloro che ne rivendicavano e ne continuano a rivendicare politicamente la paternità. Alcune manifestazioni di pura intolleranza nei riguardi del nostro libro, cioè nessuna critica argomentata ma solo scomuniche e insulti da parte di qualche sopravvissuto della setta basagliana, confermano che le nostre tesi non sono campate in aria. Aggiungo che dal nostro libro il lavoro, la statura intellettuale e le qualità personali di Basaglia, storicamente contestualizzate, emergono anche in positivo».

Claudio Magris — Dal giardino della follia, come ha scritto così intensamente Rotelli, si legge il mondo, la sua verità e la sua distorsione, la vita nelle sue contraddizioni. Nella vostra biografia di Basaglia, chiedo a Michele Zanetti, non nascondete i momenti critici di quell’esperienza. Fra questi limiti, credo vi fosse, in alcuni dei suoi seguaci, la presunzione di essere gli unici depositari della verità psichiatrica, tendente a ridurre il dibattito a una schematica contrapposizione tra basagliani e antibasagliani escludendo altre stimolanti e creative posizioni. Ma Basaglia era l’opposto di tale dogmatismo da assemblea pulsionale, con la sua generosità calda e fantasiosa, la sua fanciullesca e amabile capacità di ridere anche di se stesso, la sua incredibile disponibilità ad aiutare chiunque. Non a caso, e va ricordato a suo onore, Basaglia è stato quasi malmenato dalle teste calde e vuote di Nuova autonomia, «radicali di sinistra» alcuni dei quali sarebbero coerentemente divenuti di lì a poco reazionari, che vedevano in lui il riformatore— e dunque un sostegno — del nostro mondo e non il suo distruttore. Anche la legge 180—hai detto—è frutto del suo tempo e dunque potrà e dovrà essere corretta e migliorata. In che senso?

Michele Zanetti—«Va pregiudizialmente affermato che non vanno cambiati i due fondamenti della legge: il riconoscimento dei diritti di cittadinanza alle persone gravate da disturbo psichico e il rifiuto del manicomio quale "cura" della malattia mentale. Nei confronti di persone sofferenti non vanno mai ammesse l’esclusione, la segregazione e la violenza, che ogni manicomio produce di per sé anche se non pratica l’elettrochoc o la lobotomia. Ciò che si è fatto a Trieste è in realtà molto semplice, anche se non è stato facile: si è dimostrato concretamente—inmaniera pragmatica e non ideologica —che con un uso non assolutizzante delle tecniche disponibili (farmacologiche, psicologiche), con interventi di sostegno sociale sul lavoro e sulla comunità di appartenenza dei soggetti deboli e a rischio, con servizi territoriali a costo sostenibile aperti 24 ore su 24, si possono prevenire e comunque ridurre le crisi e si può curare il malato. La legge 180 può e deve essere corretta perché ancora oggi ci sono varie zone, anche nelle regioni giudicate tra le più avanzate in materia sanitaria, dove non ci sono servizi accessibili di giorno e di notte, come se la crisi ovvero il disagio psichico dovesse rispettare un orario di apertura. C’è il pericolo che si vogliano aprire nuovi servizi segreganti, anche privati, che ridarebbero a qualcuno, come in passato, la possibilità di lucrare alle spalle delle famiglie, che nella condivisione della sofferenza dei loro cari meritano rispetto e sostegno, mai però a prezzo della libertà e della dignità del malato».

Claudio Magris
10 maggio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Giugno 01, 2009, 09:33:15 am »

SPERANZA E SCETTICISMO SUL FUTURO STATO EUROPEO

Il voto troppo tiepido per l’Europa


Con l’Europa ci suc­cede un po’ quel­lo che succedeva a Sant’Agostino col tempo: se non gli chie­devano cos’era, credeva di saperlo, ma quando glielo chiedevano gli sembrava di non saperlo più. Il forte ma vago senso di apparte­nenza all’Europa — a una civiltà comune e ben di­stinta non solo da quelle di altri continenti, Asia o Africa, ma anche, sia pure in modo assai più sfuma­to, da quella americana sua discendente — non si lascia definire. Non certo soltanto, ma forse anche per questo il voto per il Parlamento Europeo, no­nostante la campagna elet­torale, è generalmente eu­roscettico. È un voto tiepi­do, perché si elegge un Parlamento che non è pro­prio veramente tale, nella pienezza dei suoi poteri; nel quale in linea generale non si varano le leggi da cui più dipende il nostro destino. Gli eletti non po­tranno decidere, almeno direttamente, se paghere­mo più o meno tasse, se potremo fare il testamen­to biologico o no, se la no­stra Costituzione sarà o no sfregiata.

In Italia ci si interessa al­le prossime elezioni euro­pee pensando non tanto al­l’Europa, quanto alle riper­cussioni che esse avranno sulla politica interna del nostro Paese. Pochi pensa­no a ciò che, nonostante i limiti che purtroppo vinco­lano il Parlamento Euro­peo, gli eletti possono co­munque fare in tanti setto­ri, promuovendo o ostaco­lando misure di grande im­portanza, lavorando al compimento dell’Unione Europea, che prima o do­po — piuttosto dopo che prima, purtroppo — do­vrà divenire la nostra più forte realtà e i cui poteri si spera saranno un bel gior­no più importanti, per tut­ti, di quelli dei singoli go­verni nazionali, così come oggi il governo dell’Italia mi interessa più di quello della mia pur amata Regio­ne Friuli-Venezia Giulia.

Ma pochi pensano real­mente con passione all’Eu­ropa, come invece pensa­vano e sentivano i suoi pa­dri fondatori. In un artico­lo uscito l’1.5.2009 sul «Pic­colo », Ferdinando Camon riportava, ad esempio, al­cune dichiarazioni che il ministro Brunetta avrebbe rilasciato a una Miss Vene­to poi non ammessa fra le candidate al Parlamento: secondo tali dichiarazioni, il Parlamento Europeo «non conta niente». L’af­fermazione attribuita al ministro Brunetta è impor­tante, perché sembra riflet­tere un atteggiamento dif­fuso, forse anche fra i can­didati al Parlamento stes­so. Si ha l’impressione che molti di essi conoscano molto meglio i problemi italiani di quelli europei che, se eletti, avranno la re­sponsabilità di affrontare e cercare di risolvere.

Si ha l’impressione, no­nostante tante nobili e va­ghe dichiarazioni pro­grammatiche, che nume­rosi candidati al Parlamen­to Europeo, prima di legge­re ad esempio l’articolo di Ivo Caizzi sul «Corriere», non sapessero esattamen­te che cosa ha fatto la legi­slatura europea ora tra­scorsa, di che cosa si è oc­cupata, quali problemi — tariffari, etici, sociali — ha trattato, con successo o meno, e quali problemi concreti attendono al var­co la legislatura europea che inizierà tra poco.

È facile fare generiche dichiarazioni sulla cultura o sulla libertà, ma è ben più difficile occuparsi di quegli innumerevoli, ingarbu­gliati, apparentemente prosaici aspetti in cui la libertà e la cultura si incarnano concre­tamente.

È strano che, posto che la testimonianza della Miss Veneto riportata da Camon sia at­tendibile, il ministro Brunetta — dalla faccia feroce quando annuncia licenziamenti, ma dalla lacrima facile quando viene lodato — abbia fatto quelle dichiarazioni sull’irrilevan­za del Parlamento Europeo quasi con soddi­sfazione anziché con tristezza, in quanto, se ciò che egli dice corrispondesse alla realtà, sarebbe la constatazione di un male, che do­vrebbe invitare a correggerlo.

Se l’Europa non esiste ancora abbastanza, questa è una disgrazia o almeno una fase di stallo che va superata. Dovremmo sentirci, armoniosamente e con altrettanta intensità, europei ed italiani nello stesso modo in cui ci sentiamo — a parte qualche ringhioso bo­tolo di provincia, incapace di guardare oltre la sua cuccia — italiani e lombardi o marchi­giani.

Non occorre scomodare Mazzini, Croce o Curtius, che ci hanno insegnato l’unità spiri­tuale, culturale dell’Europa. C’è una realtà materiale ancora più importante. Oggi i pro­blemi che ci investono coinvolgono l’Europa intera, dalla crisi finanziaria alla pressione dell’immigrazione; così come l’economia di Milano non può crollare senza ripercuotersi su Bologna o su Bari, ogni singolo Stato tra­scina in parte con sé, nel bene e nel male, tutti gli altri e ne è trascinato. Sarebbe ridico­lo che l’immigrazione fosse regolata a Taran­to da leggi diverse da quelle in vigore a Geno­va ed è ormai ridicola una politica diversa a Parigi e a Berlino rispetto ai problemi che in­teressano tutti gli europei. Se la realtà mate­riale, per tutti, è europea, essa deve tradursi, prima o poi, in una realtà politica anche for­male ben più forte e compatta di quella at­tuale, che riduca i singoli Stati a funzioni so­stanzialmente regionali, peraltro assai im­portanti.

L’Europa fonda la sua civiltà, rispetto ad altre pure grandi, sul primato dell’individuo rispetto alla totalità e perciò è stata la madre del liberalismo e della democrazia. A diffe­renza di alcuni cugini d’oltre Atlantico, la va­lorizzazione europea dell’individuo non è l’esaltazione del cowboy che basta a se stes­so e si fa giustizia da sé, bensì dell’individuo quale «animale politico», come diceva Ari­stotele, che si pone in relazione con la socie­tà e si sente responsabile della sorte di tutti i componenti della Polis, perché sa che il suo benessere esige, per essere veramente vissu­to e goduto, il benessere o almeno la decen­za di chi gli vive intorno. In tal senso, il socia­lismo è profondamente europeo e le civiltà o gli Stati che non hanno conosciuto il socia­lismo (s’intende quello democratico) non so­no europei. Sono, possono e debbono esse­re nostri buoni vicini, ma non sono noi.

L’esigenza di un futuro vero Stato euro­peo e la fiducia nel suo avvento non escludo­no lo scetticismo circa i tempi e le difficoltà della sua necessaria realizzazione. Ci saran­no regressivi rigurgiti di egoismi nazionali, paure fondate e infondate che ostacoleran­no le iniziative più preveggenti, meschinità, elefantiasi burocratiche, scontri fra particola­rismi, difese di privilegi e anche di enti e isti­tuzioni inutili e costose. Chi crede nell’Euro­pa sarà contento se si farà ogni tanto un pas­so avanti e mezzo passo indietro. La demo­crazia, ha scritto Günter Grass lodandola per questo, ha il passo della lumaca.

Non invidiamo dunque gli eletti, nono­stante la loro cospicua remunerazione, per­ché — a parte i cinici che si candidano maga­ri solo per lucro e i narcisisti, peggiori di lo­ro, per vanità — il lavoro degli eletti onesti sarà duro, prosaico e noioso. Lo è del resto ogni autentico lavoro politico. Ma anche quello della madre di famiglia (oggi lo fanno un po’ pure i giovani padri, ma non tanto) che si occupa dei figli e della casa è fatto di tante cose di per sé non esaltanti, lavare, asciugare, fare la spesa, stirare, eppure… An­che questa, in fondo, è politica, cura di ciò che concorre al bene della Polis; non per nul­la Lenin diceva che una brava madre di fami­glia poteva essere commissario del popolo. Forse anche parlamentare europea, meglio di altre più appariscenti categorie femmini­li.


Claudio Magris

01 giugno 2009
da corriere.it
Registrato
Pagine: [1] 2 3
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!