LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 20, 2008, 04:42:55 pm



Titolo: Claudio MAGRIS
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2008, 04:42:55 pm
Dibattito

Il senso del laico

Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria

di Claudio Magris


Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.

Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.

La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.

Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.

Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.

I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.

Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.

Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.

Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.

Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.

Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.

Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta.

20 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: Claudio Magris. Bobbio e l'aborto (Laici nel vento. ndr)
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2008, 03:28:12 pm
IL CONTRIBUTO DI UN LAICO

Bobbio e l'aborto

di Claudio Magris


Nel clamore delle polemiche sull'aborto c'è un grande quasi dimenticato: Norberto Bobbio. L'8 maggio del 1981, alla vigilia del referendum, il maestro laico di diritto e libertà — che ha manifestato sempre il più grande rispetto e anzi interesse per la fede, che non ha mai pensato di definirsi con tracotanza ateo ma, per coerenza e appunto per rispetto, ha ritenuto doveroso rinunciare ai funerali religiosi — rilasciò a Giulio Nascimbeni, il carissimo amico scomparso di recente, un'intervista per il Corriere della Sera. In essa, con pacatezza e anzi con disagio («è un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri») ribadiva «il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. E' lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione del-l'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto ».

Si soffermava sulla «scelta sempre dolorosa fra diritti incompatibili», ribadendo che «il primo, quello del concepito, è fondamentale», in quanto «con l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».

Perché, in un momento in cui si cerca non di toccare la legge 194 — cosa che dovrebbe tranquillizzare tutti, perché è essa che consente di abortire, dichiarando peraltro esplicitamente che l'interruzione della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite— bensì di creare una cultura consapevole della realtà dell'aborto, così pochi (tra i quali il Foglio) ricordano Norberto Bobbio e queste sue parole di assoluta chiarezza, molto più difficili da dire allora che non oggi? Forse perché dette in tono pacato, problematico, con l'animo di chi aborre le eccitazioni collettive e le scalmane di piazza, mentre oggi prevale chi le ama e se ne inebria, anche quando si rivolgono contro di lui, ed è felice solo nella ressa dello scontro, nel fumo della battaglia (peraltro poco pericolosa), che invece poco si addice alla ritrosia subalpina di gente come Bobbio o Einaudi?

Le discussioni di oggi sono altamente meritorie, perché aiutano, contro ogni pigrizia e viltà mentale, a guardare in faccia cos'è l'aborto. Visto che nessuno vuole toccare la legge 194, nessuno dovrebbe protestare contro queste discussioni, a meno che non sia un entusiasta dell'aborto. Visto che nessuno vuol toccare la legge 194, non ha senso presentare una lista elettorale che si proponga di andare al Parlamento solo per non fare leggi; per creare e diffondere una cultura dei diritti di ogni individuo, in tutte le fasi della sua vita, il luogo non è il Parlamento, bensì la società, il dibattito, l'agorà.

E' ciò che sta giustamente accadendo, e non solo per le iniziative di Giuliano Ferrara ma anche e già prima con alcune interessantissime e innovatrici riflessioni di intellettuali e scrittrici femministe — ad esempio Alessandra Di Pietro, Paola Tavella, Anna Bravo o Maria Carminati — le quali, senza rinnegare alcuna loro battaglia, affrontano in modo libero e originale i valori della maternità e della vita. Anche in merito a ciò che spetta al dibattito pubblico e a ciò che spetta al Parlamento, la chiarezza di un Bobbio, con la sua straordinaria arte di distinguere le cose e gli ambiti, sarebbe preziosa ma non è forse gradita. Oppure non si ricordano quelle parole di Bobbio in difesa del concepito perché dà fastidio che sia stato un non-praticante, estraneo o quanto meno esterno alla Chiesa cattolica, a pronunciarle?


19 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2008, 09:33:38 pm
Uomini e istituzioni

Al premier chiediamo uno stile civile

Il quinquennio che si apre


Al nuovo governo, o meglio ai suoi componenti, i cittadini — non solo i suoi avversari battuti ma anche, verosimilmente, i suoi sostenitori vincenti — chiedono, fra le tante cose, pure una garanzia di stile, di quello stile che non è solo formalismo bensì, com'è stato detto, è l'uomo, la sostanza della persona. Durante la recente campagna elettorale, ad esempio, il candidato ora premier, Silvio Berlusconi, ha agitato, quasi con toni da denuncia anticipata, lo spettro di brogli, ovviamente nel caso di una sua sconfitta. Dopo la sua netta vittoria, non ha sollevato alcun dubbio sulla correttezza dei risultati. Il leader del centrosinistra invece non si è mai sognato, né prima né dopo, di fantasticare di truffe ai danni del partito da lui guidato, di mettere in conto a bassi trucchi la battaglia ora perduta. Nemmeno nel 2001, dopo la vittoria del centrodestra, alcun rappresentante dei perdenti aveva cercato di ipotizzare truffaldinamente dei brogli per giustificare il proprio insuccesso.

Nel 2006, battuto di stretta misura, Berlusconi invece l'ha fatto, dimostrando platealmente la sua incapacità di accettare le regole della democrazia o meglio di essere disposto ad accettarle solo quando agiscono a suo favore. Se alle ultime elezioni fosse stato il centrosinistra a vincere altrettanto largamente, ci si può immaginare la campagna diffamatoria e accusatrice di brogli che ne sarebbe seguita. La differenza tra i due comportamenti e le relative conseguenze sulla vita civile di un Paese non hanno a che vedere con la diversità di programma tra il centrodestra e il centrosinistra. Giovanni Malagodi era un uomo di centrodestra, ma non ha mai attribuito a una congiura di falsari le modeste dimensioni del glorioso Partito liberale da lui diretto e un simile pensiero non veniva in mente né a Ugo La Malfa, leader dell'ancor più piccolo e altrettanto glorioso Partito repubblicano, né a Pietro Nenni alla testa del Partito socialista. La differenza fra chi riconosce la propria sconfitta politica, cercandone le ragioni anzitutto nei propri errori, e chi ammette solo di poter vincere trascende la politica. E' una diversità esistenziale, naturale, metafisica tra modi di essere, di guardare al mondo, agli altri e alla vita; di concepire il rapporto fra sé e gli altri e dunque, alla fine, pure fra sé e la cosa pubblica. Ma la differenza politica, in questo caso, arriva ultima; dipende dal rispetto o no che si ha per gli altri, da quello stile che, appunto, è l' uomo.

E gli uomini, dice Sancho Panza, nascono come Dio li ha fatti e talora anche un po' peggio. Preso atto di questi comportamenti diversi, occorre capire perché Berlusconi, se avesse perso ed evocato i brogli, sarebbe stato creduto da parecchie persone, mentre, se fosse stato Walter Veltroni o un altro leader del centrosinistra a farlo, nessuno, giustamente, gli avrebbe dato retta. Forse perché sarebbe stato un comportamento improvvisamente difforme da tutto lo stile precedente della persona e dunque da ciò che ci si attende; o forse perché un democratico, quando fa il demagogo, è il primo a non credere a ciò che dice e comunica questo suo imbarazzo agli altri. Aldilà delle elezioni, occorre capire perché certi atteggiamenti che sino a poco fa scandalizzavano oggi non scandalizzino più e non si senta neppure la necessità di mascherarli: come — è solo un esempio fra i tanti — quegli ex parlamentari, di sinistra come di destra, i quali, furiosi perché il loro partito non li ha riproposti quali candidati (cosa che non costituisce un diritto) dichiarano pubblicamente di essere pronti a passare dall'altra parte, rivelando così che il loro precedente impegno era dovuto a un mero e rozzo tornaconto.

E' grave comportarsi in tal modo, ma forse è ancora più grave dirlo senza temere di perdere la faccia, perché significa che in una società non esistono più alcune fondamentali regole di comportamento e alcuni fondamentali valori. Vincitori e vinti seguiranno comprensibilmente in modo diverso il lavoro del governo, ma entrambi hanno il diritto di attendere e pretendere, dalla lotta politica inevitabilmente e giustamente dura, cinque anni di stile civile. Certo, poiché anche il disteso buon umore vuole la sua parte, speriamo che le gag dei trecentomila fucili leghisti e dei trecentomila fucili dei no global che si dicono pronti a sparare continuino a divertirci un po', distraendoci dalla pesante serietà dei tempi che corrono.

Claudio Magris
08 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Claudio Magris La nostra vera malattia
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2008, 08:48:57 am
La nostra vera malattia


di Claudio Magris


Un conoscente della mia famiglia, collega d'ufficio di mio padre, aveva la mania dei raffreddori; stava attento ai giri d'aria e prendeva tutte le precauzioni contro infreddature e bronchiti, convinto che le malattie potessero colpirlo solo da quella parte. Morì di un cancro all'intestino ovvero, come si diceva allora, di un «brutto male». Quel signore faceva benissimo a non trascurare le eventuali minacce alla faringe o ai bronchi, spesso fastidiose e talora perniciose, ma sbagliava a sottovalutare pericoli più gravi. Anche il corpo sociale ha le sue malattie, scatenate o in agguato. La sua salute dipende da come fronteggia, previene, combatte i morbi che lo insidiano; dalla sua capacità di reprimere—tramite le autorità preposte a tale funzione — i reati nella misura stabilita dalla legge, senza indulgenze buoniste o pseudo- umanitarie e senza isterie demagogiche né pregiudizi verso alcuna categoria di persone. In uno Stato liberale e democratico non si sospettano a priori e tantomeno si vessano né i kulaki ossia i contadini proprietari, come un tempo nell'Unione Sovietica, né gli ebrei, i neri, gli immigrati, come tante volte in tanti Stati del mondo. Oggi sono gli zingari ad occupare i titoli cubitali dei giornali, con i reati compiuti da alcuni di loro e altri loro attribuiti, e con i violenti soprusi patiti da alcuni di essi. In entrambi i casi, lo Stato—e solo lo Stato, che ha il monopolio dell'uso della forza — ha da individuare e perseguire gli autori di atti delittuosi, il delinquente che ruba e molesta come il delinquente che getta bombe Molotov, contro la polizia negli anni Settanta o contro i rom oggi. Il nostro codice o meglio la nostra civiltà consentono di punire soltanto individui — rei di delitti accertati, la cui responsabilità è sempre personale — e mai gruppi o comunità, poco importa se etniche, sociali, politiche o religiose. Attentare a questo principio — prendersela con gli zingari, gli ebrei o i padani anziché con un concreto colpevole colto con le mani nel sacco, sia egli nato a Timbuctù o ad Abbiategrasso — mina alla radice l'universalità umana e in particolare la nostra civiltà, l'Occidente. Chi nega questo fondamento dell'umanità e del diritto è il vero barbaro e non ci interessa donde arrivi, dall'orto dietro casa nostra o da lontani deserti. Zingari, norvegesi, triestini o senegalesi sorpresi a delinquere vanno puniti senza riguardo alla loro diversità o povertà. Tifosi bestiali che in nome di una squadra di calcio commettono violenze contro persone o cose — provocando spesso rovinosi danni a onesti esercenti, di cui sfasciano i negozi in una ebbrezza di subumana e delittuosa ebetudine — vanno puniti con tutta la durezza consentita dalla legge e costretti a pagare sino all'ultimo spicciolo i danni arrecati, senza riguardo a chissà quali disagi esistenziali sottostanti alle loro brutalità.

Improvvisati e autonominatisi giustizieri che si dedicano a spedizioni criminose vanno puniti con esemplare severità, perché rappresentano un virus socialmente e moralmente ancor più nocivo dei ladruncoli veri o presunti che si vogliono castigare: il Ku-Klux-Klan, nato si dice alla fine della guerra di Secessione per proteggere i bianchi del Sud americano dalle violenze cui si abbandonavano alcune bande di schiavi appena liberati, è divenuto ben presto la più orrida criminalità. Uno stupratore romeno va punito per il suo ributtante reato, ma non può gettare il discredito indiscriminato sui suoi connazionali, così come i recenti assassini di Verona non possono autorizzare squadracce sguinzagliate alla caccia dei veronesi. L'attuale ministro dell'Interno, che promette pugno duro, sa bene che i pugni distribuiti con disinvoltura talvolta arrivano in testa pure ai galantuomini, perché anni fa, quando non era più e non era ancora di nuovo ministro dell'Interno, alcuni sbrigativi poliziotti gliene hanno dati pure a lui. La cosiddetta piccola criminalità non è un raffreddore, bensì una piaga sociale; gli scippatori di anziani che hanno appena ritirato la pensione mettono intere famiglie in difficoltà di arrivare alla fine del mese. La sicurezza è un bene primario; la sua necessaria e ferma tutela non è certo espressione di biechi sentimenti filistei o di astiosi pregiudizi nei confronti di immigrati ed emarginati, come troppe volte si è detto con sufficienza. Ogni problema umano e sociale non risolto comporta un tasso di devianza e di illegalità, già solo per il fatto che le leggi esistenti non riescono a risolverlo. È la globalizzazione che produce spostamenti crescenti di masse di diseredati nei Paesi più ricchi, con tutte le conseguenze che ne derivano. La globalizzazione nasce dal crollo del comunismo e dalle nuove forme assunte dal capitalismo; non sembra augurabile né possibile restaurare il primo e bloccare lo sviluppo del secondo e d'altronde non si può avere botte piena e moglie ubriaca, come dice il proverbio. L'universalità e le difficoltà di questo fenomeno planetario ci aiutano, ci costringono a toccar con mano l'interdipendenza di tutti gli uomini, l'essenziale unità del genere umano, diversificato ma organicamente unitario come un grande albero con le sue radici, rami e foglie; ci fa sentire fisicamente che ognuno di noi, come dice la Bibbia degli ebrei, è stato straniero in terra d'Egitto e può ancora diventarlo, nel domani sempre più incerto e sempre più globale, e dunque che gli stranieri sono i compagni del nostro destino. Giustamente si ricorda l'emigrazione italiana, la dura e ammirevole odissea dei nostri emigranti, stranieri spesso osteggiati nei Paesi allora più ricchi ed ostili. Ma appunto perciò occorre sapere quanto sia difficile, per tutti, essere stranieri. La retorica della diversità elude sentimentalmente il problema.

Tutti — persone, culture — siamo diversi e proprio perciò è vacuo ripetere come pappagalli questa parola. Inoltre la diversità, la particolarità non è ancora di per sé un valore; è un dato, un'identità (nazionale, politica, culturale, religiosa, sessuale) sulla cui base si possono costruire dei valori, che tuttavia sempre la trascendono, perché essere italiani, africani, buddhisti, omosessuali non è un merito né un demerito, non è cosa di cui avere orgoglio né vergogna; è un dato di fatto che va rispettato e tutelato contro chi non lo rispetta. Certamente ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri; ogni endogamia è asfittica e regressiva, non solo quella sessuale. Ma la diversità diventa una retorica truffaldina quando viene invocata per eludere la consapevolezza dei conflitti reali che talora possono sorgere dal contatto fra culture diverse — ad esempio tra una fondata sull'uguaglianza dei diritti tra uomo e donna e una che la nega. Pure tali possibili conflitti vanno affrontati con equilibrio responsabile — e non già esacerbati col pathos spettacolare dello scontro di civiltà, che seduce con la sua visione della Storia al technicolor — ma non vanno elusi né sottovalutati. La teppa scatenata contro i campi nomadi e il clamore mediatico che le fa da grancassa rimuovono la consapevolezza di problemi ben più ardui dell'emergenza rom. Le dimensioni numeriche dell'immigrazione potrebbero in futuro aumentare sino a renderla materialmente impossibile, perché, per fare un esempio oggi assurdo, non è fisicamente possibile accogliere milioni di poveri. Si potrebbero creare, con la necessità e l'impossibilità di accoglienza, situazioni oggettivamente tragiche, in cui — come appunto nella tragedia — è comunque impossibile agire senza colpa. Anche per questo il problema non può essere affrontato con criteri diversi nei singoli Stati, ma può essere gestito solo globalmente dall'Europa, perché non è un problema italiano o spagnolo bensì europeo, se non occidentale in generale. È difficile dire se il nuovo capitalismo, che ha innescato questo meccanismo con la globalizzazione, saprà governarlo o ne sarà travolto come un apprendista stregone. È un problema ben presente nel libro di Giulio Tremonti Paura e speranza.

I rom e altri immigrati sembrano oggi la minaccia maggiore alla nostra sicurezza. «Cieca bugia, distrazione di massa dalla realtà complessiva », ha scritto Mariapia Bonanate sul Nostro Tempo. Credo che i commercianti e gli industriali taglieggiati dalla camorra o dalla mafia scambierebbero volentieri il danno, l'intimidazione — non di rado la morte — che sono costretti a subire con i fastidi di chi abita non lontano da un campo di nomadi. Come ha scritto Riccardo Chiaberge su Il Sole 24 Ore, non si sono viste squadre di cittadini indignati scagliarsi contro quartieri della camorra e non ho sentito parlare di ronde pronte a proteggere gli esercenti dai malavitosi che vengono a riscuotere il pizzo. Certo, è più rischioso affrontare i guappi che i vu cumprà e qualcuno ci rimetterebbe la pelle, ma ciò non dovrebbe scoraggiare chi vanta i propri attributi virili e trecentomila fucili. La mafia e oggi ancor più la camorra — grazie al possente libro di Roberto Saviano — sono certo intensamente presenti all'opinione pubblica: libri, film, articoli, servizi televisivi, dibattiti. Ma non scuotono veramente l'opinione pubblica; non destano — diversamente dagli extracomunitari — alcun furore, alcuna paura nei cittadini. Sono quasi letteratura, una tragedia esorcizzata dalla sua rappresentazione, dopo la quale si va tranquillamente a casa — tranne chi è minacciato o colpito dalla morte. Come quel mio conoscente, siamo più vigili dinanzi a una tosse fastidiosa che ad un cancro. Il cancro si avverte meno, forse perché ha già occupato gran parte del corpo, si è infiltrato negli organi e nei sensi che sta distruggendo, sicché, almeno sino ad un certo momento del suo lavorìo, è difficile percepirlo, così come non si vede il proprio sguardo. Un impero del crimine i cui profitti sono quelli di una potenza economica mondiale e le cui vittime sono numerose come quelle di una guerra è un cancro infiltrante, che si immedesima con una parte sempre più grande della realtà. È giusto, è doveroso curare severamente scippi, furti, aggressioni, molestie, ogni illegalità anche piccola, ma sapendo quale sia la nostra vera malattia mortale.

26 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS. L’uomo che pagava le tasse ed era felice
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 06:33:22 pm
L'italia morale

L’uomo che pagava le tasse ed era felice

E’ comprensibile che pagare le tasse, specie se sono elevate, non sia piacevole per nessuno


di Claudio Magris


E’comprensibile che pagare le tasse, specie se sono elevate, non sia piacevole per nessuno e che dunque il 20 giugno non sia un giorno di festa. Al malumore di chi pensa, peraltro comprensibilmente e legittimamente, solo al suo particulare ovvero alla sua tasca, si mescolano considerazioni di ben altra natura. Considerazioni sulle conseguenze generali che la pressione fiscale del momento può provocare sulle condizioni complessive del Paese, sugli investimenti, sull'occupazione, sulla produttività delle imprese e così via. Soltanto un competente può valutare—cosa comunque ardua— quale dovrebbe essere, in quel momento, la tassazione più adeguata a contemperare le esigenze delle imprese, le urgenze di interventi pubblici e le misure atte a garantire una decorosa qualità di vita anche ai cittadini in difficoltà (a parte situazioni eccezionali di emergenza, ad esempio una guerra, che possono alterare le necessità della spesa dello Stato).

Indipendentemente da questo fondamentale aspetto tecnico, politico-economico, vi è una diffusa e ringhiosa mentalità pre-civile, che considera ogni tassazione una prevaricazione indebita e non riconosce come un peccato la violazione del settimo comandamento, non rubare, nel quale la Chiesa include l'evasione fiscale. Per fortuna non tutti i cittadini indulgono a tale mentalità tribale. Non è male in questi giorni rileggere ciò che diceva nel 1980 il più alto contribuente di Trieste, che in quell'anno pagava 526 milioni e 110 mila lire di Irpef e 133 milioni e 360 mila lire di Ilor per un totale di 659 milioni e 470 mila lire. Tutto questo nel 1980, quasi trent'anni fa. Intervistato da Rosanna Santoro sul Meridiano il 13 settembre 1984 a proposito di quella sua denuncia dei redditi resa allora pubblica, Primo Rovis rispondeva: «Ho pagato le tasse che dovevo pagare e ne sono felice. Esistono strade, scuole, luce nelle case, assistenza sanitaria, ordine pubblico, tanti servizi a carico dello Stato, che li può garantire e migliorare solo se i cittadini contribuiscono in proporzione al loro reddito».

Primo Rovis non è un uomo di sinistra, è un moderato che ha visto ad esempio con favore la recente vittoria elettorale di Renzo Tondo nel Friuli-Venezia Giulia. Da ragazzo che a 8 anni si guadagnava il pane battendo ghiaia in Istria e da aiuto-commesso è divenuto un imperatore del caffè, in una vita avventurosa ricca di originali iniziative economiche e sempre generosamente disponibile all'aiuto. È semplicemente uno il quale sa che la sua qualità di vita e il suo benessere sono legati a quelli della realtà che lo circonda, della coralità di cui si fa parte. Ama star bene e coltivare le sue passioni, come la straordinaria collezione di meravigliosi fossili risalenti a milioni e milioni di anni fa, che di recente hanno interessato l'Università di Mosca, e sa che per star bene occorre che anche il mondo intorno a noi, dal quale non possiamo separarci, non stia troppo male. Questo piacere di vivere — non disgiunto dall'interesse per gli altri, ma anzi nutrito dal senso dell'appartenenza a un comune destino— potrebbe fare, se condiviso da molti, dell'Italia quell'Italia civile che invece, ripeteva spesso Biagio Marin, è forse solo un'esigenza di pochi.

17 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Claudio Magris. Denigrarsi, quel vizio degli italiani
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2008, 12:07:35 am
Il gusto di criticare per sentirsi differenti e assolvere se stessi: quando il rifiuto sfocia nel masochismo diffuso e compiaciuto

Denigrarsi, quel vizio degli italiani

Dal gestaccio di Bossi al disprezzo generale per la scuola: l'abitudine bipartisan di parlar sempre male di casa nostra



L’autodenigrazione, si sa, è un radicato vizio italico, che fiorisce non solo in agosto; parlare dell’Italia, per un italiano, significa quasi sempre parlarne male, magari compiaciuto di sentirsi capace di dire verità dolorose. È difficilmente immaginabile un altro Paese in cui un ministro — che è stato ed ha chiesto di essere eletto a rappresentare il proprio Paese— saluti l’inno nazionale con un gestaccio scurrile, più adatto alle goliardate adolescenziali nei cessi della scuola durante l’intervallo fra le lezioni.
D’altronde è ingiusto scandalizzarsene, perché ognuno di noi fa sempre esattamente quello che può, secondo i talenti ricevuti dall’imperscrutabile disegno divino, che li distribuisce in misura sorprendentemente diseguale; se ad esempio una persona sa fare solo pernacchie, non le si può chiedere di scrivere L’Infinito, di scoprire il modo di sconfiggere il cancro o di creare la pace in Medio Oriente.
Una forma di autolesionismo è costituita dal disprezzo indiscriminato nei confronti dell'università italiana, proclamato da professori universitari italiani, soddisfatti di svilirla a paragone di istituzioni accademiche di altri Paesi e specialmente degli Stati Uniti. Indubbiamente una dura critica all'attuale università italiana è più che giustificata dalla sua degradazione avvenuta negli ultimi lustri ad opera dei governi e ministeri di centrodestra e centrosinistra, caso raro di politica bipartisan. Ad esempio il volume
Tre più due uguale a zero (Garzanti), cui ho collaborato anch'io, è una denuncia senza sconti dei disastri provocati da contraddittorie e paradossalmente complementari riforme, col loro pasticcio di demagogia sociologizzante, mercato applicato fuori luogo e smania di imitare modelli di altri Paesi senza creare le premesse per farli funzionare.
Ragioni di critica, dunque, l'università italiana ne offre anche a chi non è nazionalmente masochista. Ma è sempre il tono che fa la musica e troppo spesso il tono col quale vengono formulati giudizi anche giustamente aspri è un tono supponente. C'è chi — magari per aver avuto occasione di insegnare all'estero, cosa che accade a molti di noi nel nostro mestiere di docenti, quasi come il sigaro e la croce di cavaliere che Vittorio Emanuele II non negava a nessun galantuomo — si sente immune da quelle pecche, estraneo a quelle difficoltà e a quei mali che dovrebbe sentire come propri. Siamo sempre partecipi e in parte pure responsabili dei mali del nostro Paese; ognuno di noi dovrebbe sentirsi operaio della vigna — di quella vigna che per ognuno di noi è il nostro Paese — e non altezzoso turista o visiting professor (talora c'è poca differenza) che fa lo schizzinoso davanti a quel vino. Ciò vale in ogni campo: ad esempio pure il tono di arida superiorità col quale alcuni muovono critiche all'attuale governo — critiche che esso merita e che condivido con passione — le rende sterili ed inefficaci. Chi, come me, considera una sventura il risultato delle ultime elezioni, non può guardare con sufficienza chi ha votato per gli attuali imbarazzanti vincitori, ma deve chiedersi perché non ha saputo convincere altri a votare altrimenti.
Un aspetto comico dell'autodenigrazione accademica riguarda l'infatuazione per le università americane; comico perché sembra un remake dei film in cui Alberto Sordi si sforza di mangiare hamburger invece degli amati spaghetti. Pure questa ammirazione è fondata, perché i risultati mondiali della ricerca coltivata nelle università statunitensi sono sotto gli occhi di tutti. Ma chi ha un minimo di esperienza accademica negli Stati Uniti sa che, anche in quel grande Paese, c'è una bella differenza fra i cosiddetti centri di eccellenza e le università di medio livello e che la cultura di un Paese è data dal suo livello medio. E può capitare che in un prestigioso college come il Bard College, in cui insegnò Hannah Arendt, su trentanove studenti di un corso ci sia solo uno il quale sappia chi era il maresciallo Tito e più della metà ignori quale sia la capitale della Polonia, cosa che non succedeva al mio liceo triestino.
Altro luogo comune mitizzato e sbattuto in faccia ai poveri provinciali italiani è il giudizio di valore identificato con il numero di citazioni che un autore o una ricerca ottengono nelle riviste scientifiche considerate di maggior prestigio. Pure in tal caso, una constatazione ovvia (Einstein è naturalmente stracitato) scade a banale stereotipo se viene proposta come una verità assoluta. Anzitutto è patetico supporre che le riviste top siano sacrari di purezza immuni da quei rapporti personali, da quelle casualità e coincidenze che vengono ad incidere nella selezione dei valori. Inoltre, a tutti noi è capitato di leggere (anche di scrivere) decorose banalità in riviste top e di leggere, in riviste di modesta fama, contributi notevolissimi, che ci hanno aperto nuove prospettive.
Analogamente, pure nei templi del sapere si trovano grandi scienziati e pomposi retori, così come in tante università o dipartimenti che non salgono agli onori dei media si trovano mezze calzette e studiosi e docenti di prim'ordine il cui lavoro, pur non collocato sotto i riflettori, fa progredire il Paese più dei Soloni che trinciano giudizi generici e quindi per definizione ascientifici. Ogni critica deve essere analitica, articolata, differenziata, anche se ciò è ostico all'urgenza mediatica che ha bisogno di formule totalizzanti e sempliciste. Allo stesso modo, ogni tanto si parla degli Istituti di Cultura in modo indiscriminato, ora tutti eccellenti ora tutti scadenti. Pure in questo caso, chi ne ha conoscenza concreta sa bene che la situazione è diversa da caso a caso e merita giudizi differenziati; per citare qualche esempio recente di esperienza negli Stati Uniti, l'Istituto di Los Angeles come qualche tempo fa quelli di Washington o San Francisco mi ha dato un'impressione di reale creatività e ovviamente si potrebbero citare anche casi opposti in varie parti del globo.
Il numero di citazioni contribuisce a procurare maggiori finanziamenti alle Istituzioni citate. Questo criterio, ora divenuto Vangelo, può assumere aspetti ridicoli. Mi è capitato, come a tanti miei colleghi, di essere invitato a tenere lezioni o corsi presso alcune Istituzioni di grande fama e pensavo, ovviamente, che fosse semmai il mio cosiddetto prestigio a venire accresciuto da quegli inviti. Ma due volte — negli Stati Uniti e in Olanda — al momento del congedo i presidenti di quelle Istituzioni mi chiesero di nominarle sui giornali ogniqualvolta ne avessi avuto l'occasione, perché, aumentando così il numero delle volte in cui compariva il loro nome, avrei contribuito ad incrementare i loro finanziamenti. È stato inebriante scoprirsi fonte seppur modesta di finanziamento di gloriosi Centri di Ricerca. Per non cedere a questa tentazione di volontà di potenza, mi sembra giusto mortificarmi e non fare quei nomi.


Claudio Magris
10 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 06:53:22 pm
«Le chiedo di reagire con fermezza e non con le Sue abituali facezie»

Non siamo un paese di barbari


Lettera al premier Silvio Berlusconi sul caso Petrella e sul no di Sarkozy

di CLAUDIO MAGRIS


Signor Presidente Berlusconi, non ho votato per Lei né per la Sua coalizione di governo, ma Lei, eletto democraticamente a guidare il Paese, è chiamato a tutelare il bene e l'onore dell'Italia e di tutti i suoi cittadini. Le chiedo pertanto di esigere dal Presidente Sarkozy le formali scuse per lo schiaffo e l'offesa da lui arrecati all'Italia con le motivazioni addotte per negare l'estradizione di Marina Petrella, terrorista condannata in Italia per omicidio plurimo e latitante all'estero, in Francia.

Il Presidente Sarkozy ha invocato le precarie condizioni di salute della signora Petrella e certo chiunque, incensurato o colpevole di reati anche gravissimi, ha pieno diritto a essere curato al pari di ogni altro cittadino, perché nessuno, anche se autore di crimini, perde la dignità umana e i suoi diritti fondamentali. Come ha osservato Sabina Rossa - figlia dell'operaio Guido Rossa, assassinato nel 1979, come altri rappresentanti dell' Italia migliore, quella più aperta democratica e progressista, dalle cosiddette Brigate Rosse - il Presidente Sarkozy, negando con quei motivi l'estradizione, ha implicitamente proclamato che l'Italia non è uno Stato di diritto, bensì un paese barbarico in cui non si rispettano gli elementari diritti umani, non si curano i detenuti malati o magari li si tortura come a Guantanamo o li si giustizia come avviene ogni tre giorni in Arabia Saudita. E' un insulto al nostro Paese - considerato incivile, incapace di amministrare la giustizia e tribalmente dedito solo alla vendetta - ed è dunque un insulto pure a chi lo governa.

Non pretendo che Lei sfidi a duello il Presidente Sarkozy, come fece nel 1897 il Conte di Torino col Principe Henri d'Orléans, il quale aveva vilipeso l'onore militare italiano e si prese una bella stoccata. Le chiedo tuttavia di reagire con fermezza e non con le Sue abituali facezie. Come ha detto con esemplare magnanimità Sabina Rossa, nessuno chiede vendette, pene di morte, nemmeno ergastoli; anche una grazia sarebbe pensabile, ma dovrebbe essere eventualmente concessa dal Presidente della Repubblica Italiana, del Paese in cui è stato commesso il crimine e in cui è stata emessa la sentenza in nome del popolo italiano, e non dal Presidente della Francia o del Guatemala. Certo che Lei non si dimostrerà timoroso, La ringrazio per l'attenzione.


16 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2008, 12:22:57 am
Incontro con la scrittrice serba

Gli eroi sbagliati dell'Isola Nuda

Dunja Badnjevic racconta il dramma della famiglia e del padre stalinista che finì senza piegarsi nell’inferno di Tito


«Goli Otok isola della pace, isola di assoluta libertà - dice il dépliant turistico -. Mare straordinariamente pulito, ambiente immacolato, immerso nel silenzio». Quelle due isole paradisiache dell’alto Adriatico sono state per anni un inferno. Il regime titoista jugoslavo le aveva trasformate in due Lager, in cui finirono non solo ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la seconda guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto deportati politici e, in particolare, quei comunisti, compagni nella lotta di resistenza partigiana contro nazismo e fascismo, che, quando Tito nel 1948 ruppe con Stalin erano rimasti fedeli, per fede nell’idea universale marxista, al comunismo ortodosso e cioè - allora - a Stalin.

Finirono così a Goli Otok, l’Isola Nuda, eroici combattenti per la causa della rivoluzione mondiale d’improvviso ferocemente perseguitati dai loro stessi compagni e dal regime jugoslavo che avevano contribuito a costruire, liberando il Paese dal nazifascismo. Fra essi c’erano anche circa duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste e i Lager nazisti, che si erano battuti in Spagna contro Franco e si erano recati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a edificare il socialismo nel Paese più vicino. In quell’inferno, sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi comunisti provenienti dall’Est e posteggiati dal Pci quali scomodi testimoni della politica stalinista del partito che si voleva dimenticare.

È una storia che mi ha ossessionato per tanti anni, sulla quale ho scritto un libro, il romanzo Alla cieca; dopo essere stata a lungo rimossa e taciuta, questa vicenda è riemersa alla consapevolezza, ha dato origine a molte indagini storiche ed elaborazioni memorialistiche ed è stata resa nota soprattutto attraverso il libro di Giacomo Scotti «Goli Otok, ritorno all’isola calva» (ed. Lint), che ne documenta e illustra tutte le fasi. Anche la letteratura ha dato voce a quella tragedia, soprattutto attraverso la scrittura di testimoni sopravvissuti; fra le opere in italiano va ricordato il romanzo autobiografico Martin Muma del poeta rovignese Ligio Zanini. Ora è uscito, scritto in italiano, l’intenso, incisivo e conturbante romanzo-verità L'Isola Nuda di Dunja Badnjevic (Bollati Boringhieri), nata a Belgrado e residente da più di quarant’anni in Italia, traduttrice e promotrice nel nostro Paese di letteratura serba, bosniaca e croata, e traduttrice di autori italiani in serbo, esempio di un’identità culturale che, pur restando fedele alle proprie origini, si trasforma e si arricchisce acquisendo, attraverso l’avventura della lingua, una valenza intellettuale e umana in più.

Lo specchio Adriatico, come dice un libro del poeta e saggista croato Tonko Maroevic, è stato fecondo di questi rimbalzi culturali; un altro esempio è Ljiljana Avirovic, saggista e grande traduttrice dall’italiano in croato ma anche dal croato o dal russo in italiano. L'Isola Nuda è essenzialmente la storia del padre dell’autrice, Ešref Badnjevic, comunista internazionalista e partigiano, incrollabilmente fedele agli ideali universalistici, che finisce a Goli Otok e poi in un altro Lager all’interno della Jugoslavia. Attraverso la storia del suo calvario e della diritta fierezza con cui egli lo ha affrontato, emergono, con asciutta poesia che rende più intensa una nobile e indomita sofferenza, la storia di una famiglia, in estreme difficoltà sopportate con fermezza, e la storia di tutto un Paese, che inizia a rovinare calpestando i valori che lo hanno costruito e che esso stesso mina credendo di farlo per difendersi. Lei - le dico incontrandola a Roma - ha scritto un libro forte, «vero» umanamente, storicamente e personalmente. Una testimonianza personale che diventa romanzo. Come si è posta rispetto a tale rapporto tra la bruciante verità e quel tanto di finzione necessaria per articolarla in un racconto che ha pure un suo notevole spessore letterario? È stato esistenzialmente difficile?

Badnjevic - Non è stato difficile perché è un documento-verità, non c’è alcuna finzione. Era un po’ come un’auto-analisi e una catarsi attraverso tutto ciò che abbiamo vissuto io, mio padre e il mio Paese. Ho perso un padre nel momento in cui ne avevo più bisogno, prima, e ho perso una patria che amavo, quasi visceralmente, dopo. Da qui il mio neologismo «apolitudine»: sentire ad un tratto cancellato tutto un vissuto e avere solo la memoria per ricordare quel che gli altri cercavano di far sparire nel nulla. Affrontare un mondo in cui le vittime di ieri oggi non si riconoscono come tali, in cui i nomi delle strade e delle città sono cambiati. Che cosa significa ora aver combattuto per la patria e per un mondo migliore, se nella storia ufficiale quello non era il mondo migliore e nemmeno la patria era più quella? La realtà dei Balcani ha superato di gran lunga ogni possibile previsione.

Magris - Ciò che mi ha sempre commosso, in questa terribile vicenda, è il contrasto fra l’eroismo morale di questi uomini come suo padre e altri, pronti a sacrificare se stessi alla causa dell’umanità, e il fatto che essi si siano battuti e sacrificati (e forse pronti a sacrificare pure altri) in nome di Stalin, che, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in una Isola Nuda. Lei come sente questo contrasto? A parte l’amore personale per suo padre e l’oggettiva ammirazione per la sua dirittura, lo vede anche come in parte oggettivamente colpevole o almeno in errore?

Badnjevic - Colpevole no, ha agito in totale buona fede, facendo male solo a se stesso e alla sua famiglia. Bisogna rapportarsi a quegli anni quando i comunisti di tutto il mondo credevano che Stalin dei gulag non sapesse niente, che le responsabilità fossero degli Jagoda, degli Ezov, dei Beria. Mio padre non è mai stato in Russia. Credeva, sbagliando, nell’internazionalismo che necessitava, almeno all’inizio, di uno Stato guida, in un mondo in cui tutti davano secondo le proprie capacità e ricevevano secondo i bisogni. Se il socialismo avesse vinto in Germania, diceva, tutto sarebbe stato molto diverso. L’Unione sovietica era un Paese troppo povero, arretrato e grande. Anche se in molti Paesi dell’Est, Russia compresa, ci sono ancora oggi coloro che credono di aver pagato un prezzo troppo alto per la fine del socialismo reale.

Magris - Negli anni recenti c’è stato un intenso dibattito su questa storia che si voleva far dimenticare; studi storici, saggi, testimonianze, opere letterarie. C’è stato qualche testo o qualche autore importante per l’ispirazione di questo libro

Badnjevic - Sono usciti tanti saggi, ovviamente dopo la morte di Tito. Un testo letterario fu scritto ancora negli anni 70 da Dragoslav Mihajlovic, Quando fiorivano le zucche, ma ne fu vietata la diffusione. Il romanzo più fortunato sull’argomento fu Tren 2 di Antonije Isakovic. Mihajlovic era tra i più giovani «ospiti» dell’Isola e ha pubblicato due grossi volumi di ricordi. Ci sono stati qualche tentativo di riabilitazione dei detenuti, qualche convegno e incontro ufficiale. A uno di questi ho preso parte: era veramente toccante vedere i vecchi superstiti rincontrarsi e ricordare. Poco dopo è arrivata la fine della Jugoslavia travolgendo tutto come un uragano. Che cosa poteva significare il destino di poche decine di migliaia di persone rispetto agli orrori di una guerra che si spalancavano davanti al Paese?

Magris - Questa terribile storia è una tragedia del movimento rivoluzionario mondiale, un tramonto - temporaneo o definitivo? - del sole dell’avvenire ed è anche una tragedia jugoslava, quasi un lontano preludio della dissoluzione di quel Paese. Lei sente un nesso, sia pur lontano e simbolico? Come ha vissuto e come vive lei il tracollo del socialismo jugoslavo, la dissoluzione della Jugoslavia e la deformazione o cancellazione della sua memoria storica?

Badnjevic - Ogni volta che tornavo mi sentivo, come dicevano le mie amiche, una rana buttata nell’acqua bollente, stupita ed esterrefatta. Loro invece erano state immerse in acqua fredda e portate all’ebollizione lentamente. Credo che il declino inarrestabile del socialismo inizi nel 1956 quando le incertezze del gruppo dirigente sovietico e la mediocrità della classe dirigente delle democrazie popolari impedirono il necessario e radicale mutamento e critica della teoria e della pratica politica del socialismo e il suo adeguamento ai tempi nuovi. Se si fossero date risposte serie e sincere ai tanti «perché» del ’56, forse oggi non ci troveremmo in un mondo in cui non invidio la giovinezza delle mie figlie e dei miei nipoti. Io, figlia di un vecchio comunista, credevo «nel sol dell’avvenire». In quei principi elementari di solidarietà umana e di internazionalismo che avevano caratterizzato gli albori del socialismo. Lei nel suo Utopia e disincanto ha scritto: «Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo».



conversazione tra Claudio Magris e Dunja Badnjevic
08 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Magris contro la fine della storia
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:06:11 pm
Magris contro la fine della storia

di Luca Menichetti 05/07/2008Biografia


Claudio Magris (Trieste 1939) è docente di letteratura tedesca all’università di Trieste e collabora da anni al “Corriere della Sera”. Con le sue opere ha contribuito a diffondere in Italia la conoscenza della cultura mitteleuropea: “Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna” (1963), “Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale” (1971), “Itaca e oltre” (1982), “L’anello di Clarisse” (1984),” Danubio” (1986). Del 1999 è “Utopia e disincanto”, raccolta dei saggi di argomento non solo letterario. Magris è anche autore di testi narrativi quali “Illazioni su una sciabola” (1984), “Un altro mare” (1991), “Microcosmi” (1997, premio Strega). Da ricordare inoltre il saggio, scritto in collaborazione con Angelo Ara, “Trieste. Una identità di frontiera” (1987), omaggio alla propria città natale, e il testo teatrale “Stadelmann” (1988).


Abstract
Claudio Magris, nella sua ultima opera, tra saggistica e giornalismo, parla dei grandi temi della laicità, della scienza, della democrazia, dell’etica, alla luce dei più controversi casi di cronaca. L’autore sostiene che, nel mondo, idee ed ideologie possono avere una vita brevissima.
La definizione di “antipolitico”, come intesa da Thomas Mann - e presente nelle note finali di “La storia non è finita” di Claudio Magris - non deve trarre in inganno.

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É vero che Magris ne parla riferendosi ad “uno che, come la maggior parte di noi, si appassiona più per una giornata al mare che per un’assemblea o per la cronaca politica, ma è convinto a malincuore che, quando il corpo sociale si ammala o viene aggredito e guastato, quando sono in gioco i valori in cui crediamo, allora diventano necessarie la presa di posizione, la protesta, la testimonianza, l’analisi” (pag. 237); ma la raccolta di articoli (pubblicati per lo più tra il 1998 e il 2005 sul Corriere della Sera) mostra un autore che non scrive di teoremi astratti, non dimentica affatto le vicende internazionali e la cronaca più inquietante, ma semmai, proprio alla luce di quanto sta accadendo nel mondo contemporaneo, interpreta e analizza i temi più controversi con un equilibrio e una profondità che difficilmente possiamo trovare altrove.

Lo sappiamo bene quanto sia labile e non sempre riconoscibile il discrimine tra equilibrio ed equilibrismo, quest’ultimo proprio di chi, per meglio dissimulare la propria partigianeria o l’intenzione di non “disturbare il guidatore”, scrive e commenta dimenticandosi di tutto quello che non è utile alle proprie tesi.

Nella “storia non è finita”, per nostra fortuna e di tutti i suoi lettori presenti e futuri, di tali equilibrismi non c’è traccia.

Non è un caso se il primo articolo della raccolta si intitola “Le frontiere del dialogo”, proprio sui limiti e sulle difficoltà del confronto tra idee, fedi ed ideologie: a fronte di temi come l’unità nazionale, l’involuzione politica che negli ultimi anni ha messo e sta mettendo in pericolo i valori fondamentali della democrazia e del liberalismo, la violenza e la guerra, l’aborto e l’eutanasia, i nazionalismi e le prospettive di unità europea, i difficili rapporti tra Stato e Chiesa, Magris non si nasconde e non nasconde nulla, mettendo sempre a confronto le diverse ed opposte convinzioni, senza per questo annacquare le proprie.

Il fatto che l’autore abbia voluto giustamente “volare alto”, come del resto si conviene ad intellettuale del suo calibro, non gli ha impedito di riservare strali pesanti, con tanto di nomi e cognomi, alle iniziative di chi ci ha governato pensando innanzitutto ai propri interessi personali, mediante leggi ad personam, stravolgendo gli equilibri istituzionali e il vero senso del liberalismo, oppure verso chi, mediante interessati revisionismi, ha voluto riscrivere la storia della Resistenza, nell’indifferenza di chi interpreta la politica come il proseguimento della propria attività d’impresa.

In questo senso, di “antipolitico”, almeno come comunemente inteso, nella “Storia non è finita”, c’è poco: basti pensare all’articolo “Le frontiere della decenza” (pag. 166) oppure agli articoli finali che trattano della delegittimazione dei magistrati e di coloro che, reduci da un recente passato di estremismo rivoluzionario, sono passati, con lo stesso piglio, a servire gli interessi di un’azienda che si è fatta partito.

Quella che semmai caratterizza, come un leit motiv, gli scritti di Magris, è la laicità, quella che lui chiama “la laicità correttamente intesa”, ovvero “liberata dall’equivoco che la contrappone scorrettamente alla fede” (pag. 238), come confronto incessante di idee, capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili.

In questo senso si capiscono le prese di distanza nei confronti dell’atteggiamento di alcuni scienziati: “mai come oggi sono chiamati ad esercitare il dubbio scientifico, a interrogarsi sulle conseguenze e sul senso del loro lavoro. Talora sembrano riluttanti a farlo, prigionieri di un fideismo non meno ottuso di quello degli inquisitori di Galileo” (pag. 140).

Una concezione di laicità che, dalle pagine della storia non è finita, appare lontana distanze siderali rispetto a quella dispensata da polemisti come un Piergiorgio Odifreddi.

Basti pensare alle citazioni da Chesterton (“le grandi religioni si distinguono dalle superstizioni per il loro robusto materialismo”), ed a una figura come il teologo protestante e martire del nazismo, Bonhoeffer, molto presente nelle pagine del libro; ma anche quando, in “Elissi della responsabilità”, Magris ricorda la lezione di Max Weber che distingueva i due modi fondamentali dell’agire politico, ispirati all’etica della convinzione e all’etica della responsabilità.

Una lontananza siderale da quella laicità intesa come aggressivo anticlericalismo e ateismo militante, se ancora andiamo a leggere alcuni suoi articoli: “Non solo la scienza ma anche le grandi religioni sono chiare e razionali, perché insegnano a distinguere fra ciò che può essere dimostrato razionalmente e ciò che invece può essere solo oggetto di fede e quindi – si sia credenti o no – non pasticcia e non offende la ragione” (pag. 84); “La nostra cultura è insidiata da due deformazioni settarie, contrapposte ma complementari. Da un lato c’è un riduttivo, falso materialismo. Dall’altro c’è, altrettanto volgare, un vacuo e fumoso atteggiamento spiritualeggiante …Materia e spirito sono due facce della stessa medaglia, della persona umana” (pag.91).

Magris con questa sua raccolta di articoli ha vinto la prima edizione del premio letterario Viareggio-Tobino, in virtù dello stile, dell’impegno civile profuso in ogni sua pagina.

Motivazioni che, presso quella grande fascia di pubblico che gradisce pamphlet e tesi manichee, sicuramente non contribuiranno più di tanto alla diffusione di questo volume.

Sarebbe un peccato: il suo ragionare, la sua repulsione per un certo sentimentalismo buonista, il suo invito ad interrogarsi sui grandi temi senza pregiudizi, non è affatto qualcosa che si possa leggere di frequente nell’attuale panorama editoriale.

Claudio Magris, La storia non è finita. Etica, Politica, Laicità, Garzanti, Milano 2008, pp. 245, euro 9,50

da www.sintesidialettica.it


Titolo: Claudio MAGRIS La lunga marcia del mais
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2009, 05:02:11 pm
DIALOGHI

La lunga marcia del mais

Fu chiamato granturco per indicare qualcosa di straniero

di CLAUDIO MAGRIS


Un'avventura dell'umanità dove si intrecciano società, medicina, suggestioni letterarie.

Claudio Magris incontra Roberto Finzi, storico dell'economia


 
 
Il cacao arriva in Spagna dal Nuovo Mondo nel 1520, ma viene introdotto nei Caraibi nel 1525 e di lì rimbalza in Europa e tante storie simili si possono narrare per il caffè, il tè e altre colture, patata compresa; l'esotico e l'originario si scambiano spesso i ruoli. Le geografie della storia sono un orizzonte affascinante per la conoscenza delle civiltà, dell' uomo, dei progressi e degli errori che segnano il suo cammino; su questo tema sono stati scritti capolavori storiografici. Un recente, incisivo e affascinante libro che segue tali tracce è il volume di Roberto Finzi, Sazia assai ma dà poco fiato. Il mais nell'economia e nella vita rurale italiana. Secoli XVI-XX (Clueb, pp. 154, e 20). Storico dell'economia — disciplina che insegna a Bologna, dopo averla insegnata per molti anni a Trieste — Finzi mostra nei suoi libri come la storia dell'economia sia fatta di grafici, di cifre, di parametri, ma anche e soprattutto di avventure e passioni umane, di calcoli e di sentimenti irrazionali, e sia una parabola dell'intraprendenza e insieme della fallibilità umana, con le sue conquiste, le sue ingiustizie, i suoi abbagli, le sue sofferenze. Nella sua vasta opera, rigorosa e affidata a una felice scrittura che fonde analisi e narrazione, Finzi si è occupato dei temi più vari, dai classici dell'economia quali Turgot o Smith alla storia del clima e a quella della scienza; dall'antisemitismo all'avvento del mondo industriale alla storia dell'agricoltura, in cui natura, tecnica e questione sociale si fondono in unità.

Ricordo come, tanti anni fa, Franco Venturi promuovesse lo studio delle Accademie Agrarie, strada sulla quale stava mettendosi il suo straordinario allievo Gianfranco Torcellan, morto così precocemente a 28 anni lasciando una rilevante opera storiografica. In questo libro di Finzi, «la lunga marcia del mais» alla conquista dell'Europa, e specialmente dell'Italia, s'intreccia, con grande suggestione anche letteraria, alla storia sociale del nostro Paese e della sua lunga miseria contadina e anche alla storia, clinica e sociale, della medicina, in quanto una nutrizione basata quasi soltanto sul mais — la polenta dei miei avi friulani — causa la pellagra, con le sue devastanti e abbrutenti conseguenze fisiche e psichiche, la cui natura e le cui origini sono oggetto di discussione scientifica e investono teorie antropologiche (lo stesso Lombroso). Discussioni che si protendono, da quel Medioevo ritardato che è la vita contadina in Italia sino ai primi decenni del secolo, alla «terza scoperta dell'America » ossia alla realtà attuale, con i suoi mais ibridi e transgenici. «Nel tuo libro — gli chiedo — il dibattito sull'origine della pellagra, affrontato senza forzature ideologiche bensì in rigorosa chiave scientifica, sfocia inevitabilmente nelle discussioni con tutta una cultura (le teorie sulla degenerazione e sull'inferiorità psichica) e con un sistema economico-sociale alla base, almeno in buona parte, della malattia. La lotta per debellare quest'ultima è pure lotta politica. Se ne deduce che, in generale, la conoscenza, per essere tale, deve trapassare in azione?».

Finzi — «Sai meglio di me che, specie in storia, bisogna essere assai cauti nelle generalizzazioni. E tuttavia non soltanto la vicenda della pellagra mostra che, per dirla con una lontana formula oggi dimenticata, solo pensiero e azione insieme possono davvero risolvere i problemi. Nel caso della pellagra c'è uno scontro sulla eziologia che è pure dissidio politico. Gli uni — che inizialmente hanno minori prove "scientifiche", di laboratorio — attribuiscono il male alle condizioni sociali delle campagne e all'alimentazione da esse determinata; dunque per debellare il male occorre mutare le condizioni di vita degli strati più indigenti del mondo rurale. Gli altri — dalla cui parte stanno microscopi e provette — attribuiscono la malattia al mais guasto e dunque ne accollano la responsabilità in primis a quegli stessi che ne sono vittime. Dando vita, dirà un avversario di questa tesi, a una giusta guerra "alle muffe e alle truffe". Ché il mais guasto fa di certo male. D'altra parte, chi pensa che la pellagra venga dal mais avariato, non trova altro rimedio per combattere la malattia che nutrire i malati con una alimentazione adeguata, dando implicitamente ragione agli avversari».

Magris — «Anche il mais conosce la modificazione genetica, oggi sempre più frequente in ogni settore, superstiziosamente demonizzata o ciecamente celebrata. Illuminista, razionalista e progressista, nemico di ogni pathos misticheggiante e apocalittico, tu sei illuministicamente critico nei confronti di ogni scientismo trionfalistico e dogmatico, privo di autocritica. In questo libro sottolinei pure certe inquietanti conseguenze del mais transgenico e le incognite della manipolazione genetica, che pure fornisce tante risorse. Il mais dunque quale esempio simbolico della dialettica del progresso, delle liberazioni e dei disastri che ci possono arrivare dalla tecnica? ». Finzi — «Anche. Mais e patata, scriveva Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni, nel 1776 — sono forse i due maggiori progressi derivati all'Europa dalla sua proiezione al di là degli oceani. Ma, per essere accettati, dovettero superare numerosi sospetti. Che non erano, come a lungo si è detto, frutto della sola ignoranza. Il titolo del libro viene da una notazione di un agronomo del '600 che la attribuisce ai contadini che mangiano la polenta: buona, che riempie la pancia ma "dà poco fiato", non dà forza. Si mangia di più e si rende di meno. La diffidenza verso il progresso, dunque, non è aprioristica; è il risultato di una esperienza. I mais ibridi sono stati un grande progresso, ma hanno creato nuove dipendenze. Non è infatti possibile piantare un seme di mais ibrido e ottenere di nuovo mais ibrido, sicché il diretto coltivatore deve di anno in anno comperare le sementi. Per i transgenici nessuna ripulsa, ma precauzione sì».

Magris — «Come il mais nelle culture precolombiane degli indios nell'America Centrale, il frumento ha avuto in Europa un grande significato spirituale: nell'antica Grecia l'iniziazione ai Misteri Eleusini si concludeva con la contemplazione di una spiga di grano; nel Vangelo il chicco di grano che muore e rinasce è un simbolo centrale e nell'Eucarestia il pane diventa il corpo di Cristo. Nel Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché, si dice che "di mais giallo e di mais bianco venne fatta la carne dei nostri padri"; la coltivazione del mais ha prodotto arte (per esempio la musica del tamburo che scandisce la macinazione) e la sua difesa viene affermata quale difesa di tutta una civiltà da un capitalismo alienante: "noi siamo fatti di mais e se vendiamo quello di cui siamo fatti facciamo mercato della nostra stessa carne", si dice in Uomini di mais di Asturías, premio Nobel 1967. Esiste in Italia, in Europa, sia pure in tono minore, un qualche alone simbolico del mais, magari evocato dalla suggestione esotica del termine granturco? ». Finzi — «Un alone simbolico esiste di certo. E l'esempio più curioso viene proprio, come tu noti, dal termine "granturco". Perché mai turco un cereale che viene dall'America? Fino alla sconfitta definitiva degli Ottomani nel 1683 sotto le mura di Vienna, il "turco" è l'altro, il diverso, il "forestiero", e pure il nemico, per eccellenza. Oltre il mais, altre piante che hanno attraversato l'Atlantico, come il fagiolo e il peperone, vengono indicate come "turche". Quanto non è cristiano, evoca la terribile angoscia del "nemico interno". Ed ecco che, ad esempio, in Catalogna correva la voce che pomodori e peperoni fossero velenosi e che fossero stati portati con loro dai Mori, di modo che erano morti più Catalani per averli mangiati che in battaglia».


07 febbraio 2009

da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS. LA MORTE DI ELUANA - Una persona, un Paese
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:31:02 pm
LA MORTE DI ELUANA

Una persona, un Paese
di Claudio Magris


Nel caso di Eluana Englaro gli avvoltoi, che di solito si gettano sui morti, si sono accaniti su una persona viva ancorché morente; il tragico, irresolubile problema di quando smettere di difendere la vita di un individuo è stato empiamente usato per un disegno di sovversione politica, inteso a colpire — ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere — le regole dello Stato di diritto, doverosamente difese dal presidente della Repubblica, uno dei cui principi fondamentali è che l’esecutivo non può modificare o annullare con decreti quanto è stato deciso in via definitiva da un tribunale, si apprezzi o meno la sentenza. In tal modo si lede scandalosamente quella divisione di poteri su cui si fonda ogni democrazia liberale.

Il problema, esemplificato dal caso di Eluana Englaro ma che coinvolge tante altre persone il cui dramma passa sotto silenzio, è tragico. A differenza dalla sua fase iniziale, in quella finale la vita non conosce un punto preciso in cui essa possa considerarsi conclusa; si sa quando si abortisce, quando si interrompe la vita di un individuo, ma non si sa quando sia lecito o pietoso staccargli la spina. Non è un criterio la qualità della vita, che può essere valutata solo dall’interessato, l’unico autorizzato a decidere sulla propria vita e sulla propria morte e ad uscire di scena quando crede, come facevano con serenità gli antichi, condizionato solo dalla sua eventuale responsabilità verso altre persone. Non è certo un criterio il lasciare libero corso alla natura, la quale produce pure lo tsunami e le epidemie, alle cui vittime dobbiamo prestare soccorso. La Chiesa se la cava condannando l’accanimento terapeutico, concetto in sé vago, perché non si sa quando esso inizi; di per sé, ogni lotta contro la morte è accanimento terapeutico e guai se non fosse così, perché il primo dovere è quello di difendere ogni individuo.

In assenza di un’esplicita volontà espressa—il testamento biologico, in questo senso, è un fondamentale aiuto per affrontare il problema—ci si può affidare solo a un vago e sempre fallibile buon senso, che nel caso di Eluana Englaro sembra indicare come fosse tragicamente comprensibile lasciarla morire. Ossia aiutarla a morire, perché in questo campo non sono lecite ipocrisie: togliere cibo o altre sostanze necessarie per vivere significa togliere la vita; pure chi, seguendo la Chiesa che condanna l’accanimento terapeutico, smette di fornire al paziente le cure per la sua sopravvivenza deve sapere che egli lo abbandona alla morte e in certo senso gli dà la morte, perché ritiene sia, in quella circostanza, la cosa meno inumana. Naturalmente il buon senso — che non è né la morale, né la scienza, né la fede, né la politica, bensì un umanissimo, prezioso ma talora pure pericoloso e pasticcione stato d’animo — può sbagliare e in questo caso lo sbaglio è tragico.

Ma questo buon senso è, almeno per ora, l’unica precaria frontiera lungo la quale muoversi, perché altrimenti si cade in astrattezze ideologiche o in una truce concezione eutanasica dell’esistenza intera, la quale si arroga il diritto di stabilire il criterio della qualità della vita e il diritto di vita e di morte. Conosco uomini e donne che da anni continuano a vivere con persone amate ridotte a una condizione che impedisce loro ogni reazione e ogni comunicazione, ma non impedisce una misteriosa e concreta comunicazione affettiva; per usare una vecchia parola —la più antica, difficile del mondo, direbbe Saba —l’amore. Ora Eluana Englaro è in quella grande oscurità che, diceva il teologo gesuita Karl Rahner, è l’incomprensibile mano di Dio che raccoglie ogni destino; oscurità la quale non è forse meno importante della vita che va amata e protetta ma non idolatrata. Restano le ferite che la sua morte ha inferto a chi l’ama e quelle che l’indecente attacco, in suo nome, ai principi elementari dello Stato, ha inferto al Paese, alla qualità della vita di tutti. Anche un Paese può essere costretto a fare testamento.

10 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS. Un'altra resistenza
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2009, 11:01:26 am
I MILITARI INTERNATI CHE DISSERO NO

Un'altra resistenza


di Claudio Magris


L’altra Resistenza, dice il titolo di un celebre libro di Alessandro Natta. Di Resistenze - anche di formazione molto diversa, pur nella comune lotta contro il fascismo e soprattutto contro l'occupatore nazista - ce ne furono, come si sa, molte. Quella di Giustizia e Libertà, quella repubblicana, socialista, cattolica, monarchica, comunista; quest'ultima la più rilevante e organizzata, quella che ha dato il maggior contributo di sangue e che si è pure resa più colpevole di criminose violenze eccedenti la terribile logica della Guerra civile.

Come è noto, le divergenze politiche all'interno della Resistenza portarono, specie ai confine orientali d'Italia, anche a scontri sanguinosi e a delitti fratricidi, quali ad esempio l'eccidio di Malga Porzús. I resistenti al fascismo e soprattutto al nazismo - e le vittime - furono diversi non solo quanto a posizione politica, ma anche per appartenenza etnica, come soprattutto gli ebrei o gli zingari, e per quel che riguarda l'estrazione sociale.

Una di queste categorie di deportati, di resistenti al Leviatano nazista, di cui certo si parla (è stata di recente ricordata e onorata dal presidente Napolitano, col suo forte senso dell'Italia) ma di cui in genere non si parla abbastanza, col rilievo che essa merita, è quella dei militari italiani, massacrati (come a Cefalonia) o catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre - in seguito a quel pauroso sbandamento e talora pure all'ignavia di alcuni loro comandanti - e deportati in Germania o trattenuti nei Balcani; rispettivamente circa 550.000 e 100.000, come riporta una recente pubblicazione di Nicolino de Roberto.

Qualificati dai nazisti come «internati» e privati dunque dei diritti riconosciuti, secondo le convenzioni internazionali, ai «prigionieri di guerra », questi militari, soldati e ufficiali, rifiutarono, in stragrande maggioranza, di aderire al nazismo e alla Repubblica di Salò sua alleata, scegliendo così il Lager e durissime condizioni di sofferenza e di umiliazione. Questa loro scelta è stata tanto più difficile e meritoria in quanto non era facile - specialmente per chi non era ideologicamente inquadrato in una formazione politica - capire, nella confusione e nel caos dell' Italia spaccata in due, quale fosse veramente l'Italia.

Vanno parimenti ricordati quei militari che, prigionieri degli inglesi o degli americani, rinunciarono alla libertà per non aderire all'Italia badogliana, spinti da un senso di onore comprensibilmente rafforzato dall'incertezza della situazione e dalla fellonia del re fuggiasco. L'internato militare in un Lager Tedesco era solo, dinanzi ai suoi oppressori e alla sua scelta; solo con la sua coscienza e il suo sentimento, perlopiù senza il sostegno morale e psicologico di una appartenenza politica, che aiuta a scegliere e a combattere, come l'appartenenza a un reggimento in una battaglia.

Quella scelta, essi l'hanno fatta per amore dell'Italia e per un senso profondo dell'onore, oltre che per l'intelligenza che ha fatto loro capire da che parte stava l'umanità. Anch'essi sono protagonisti di quel riscatto della patria e della libertà da cui è nata l'Italia democratica, con la sua Costituzione che oggi si vuole non correggere o aggiornare, bensì distruggere nei suoi fondamenti, che rappresentano la base della nostra vita civile.

E' sconcertante che questa sovversione provenga da chi governa il Paese fondato sulla Costituzione. Oggi quegli ex internati non rappresentano una forza politica né un movimento ideologico e tanto meno una riserva di voti. Forse per questo non siamo loro grati come dovremmo; questi giorni dedicati alla memoria sono una buona occasione per ricordarci a fondo anche di loro.

16 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS Le ronde sbagliate
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 09:24:42 am
A SENSO UNICO

Le ronde sbagliate


di Claudio Magris


Una vecchia canzone, che molti anni fa ho sentito cantare da Milly — credo in uno dei suoi ultimi récital — dice del malinconico giro notturno di una ronda militare guidata da un caporale. La ronda sfiora le insidie della notte, senza riuscire a sventarle; anche quando s'imbatte in una coppia clandestina teneramente abbracciata, il caporale, che ha riconosciuto nella donna sua moglie, non può intervenire e deve proseguire, perché si è accorto che l'uomo è il suo generale.

Benché inconcludente, quella ronda è almeno composta di soldati e il suo passo cadenzato comunque rassicura almeno un po', in quella dimessa notte, nell'eventualità di pericoli più gravi. Certo, non solo di notte ci si può sentire insicuri, come dicono le cronache recenti. Pure certe facce possono, da sole, incutere un po' di paura, a vedersele davanti e troppo vicine.

Una di queste facce deve essere per esempio quella del giovanotto aspirante rondista che si vantava di avere in tasca un'arma impropria, con l'evidente voglia di usarla, menzionato dall'onorevole Tabacci, in un magnifico intervento di alcuni giorni fa durante una trasmissione televisiva (Ballarò), in cui diceva che non avrebbe proprio voluto trovarselo di fronte. Un liberale dovrebbe sapere che una società civile si fonda sul presupposto che solo lo Stato abbia il monopolio della forza e il compito di esercitarla; talora — se occorre, dinanzi a criminali agguerriti e pericolosi — con tutta la durezza necessaria. Sono i soldati a difendere la Patria con le armi; il termine «forze dell'ordine » designa polizia e carabinieri (i quali sono pure militari) e non altri. Quell'aspirante rondista con l'arma impropria in tasca è un nemico della società e dei cittadini e deve essere messo — dalle forze dell'ordine, non dalla Società Ginnastica o da quella Filatelica — in condizione di non nuocere. Si parla dell'urgenza di tutelare la sicurezza dei cittadini affiancando in quest'opera alle forze dell'ordine ronde costituite da volonterosi volontari.

Ma perché non si parla di tutte le forme di violenza che ci minacciano? Ci sono gli stupri, che vanno ovviamente impediti e repressi con la massima severità, siano essi compiuti da romeni su italiani o da italiani su romeni, come è pure avvenuto anche se se n'è parlato un po' meno, da poveri immigrati o da bellimbusti di più fortunati natali, come pure avviene. È evidente che nessun lacrimevole buonismo e nessuna sconcia solidarietà di classe possono intralciare l'azione penale, sia il reato commesso da un immigrato clandestino o da un rispettabile professionista, simile a quei delinquenti dalle buone maniere e dal prestigio sociale che il genio di Buñuel ha immortalato ne Il fascino discreto della borghesia. Non tutti i poveracci che dormono sotto i ponti («gli oppressi ragionano male», diceva Marx), e non tutti i soci di un elegante club hanno cuore e sono brave persone.

Tuttavia i bravi cittadini non sono minacciati solo da stupratori, ladri o rapinatori. La mafia, la camorra o la 'ndrangheta delinquono ben di più; assassinano, uccidono bambini che spariscono nel calcestruzzo, taglieggiano migliaia di onesti commercianti, incendiando i loro negozi se non pagano il pizzo. Il fenomeno è così diffuso da rendere difficile alle forze dell'ordine, sovraccariche di lavoro, fronteggiarlo. Perché chi propone le ronde non le destina a proteggere quei commercianti dalla criminalità organizzata, vigilando sui loro esercizi taglieggiati, pronti a segnalare l'arrivo degli scagnozzi della camorra o della mafia? E perché, se si vogliono le ronde, non adibirle a un altro servizio, pur esso provvido e urgente: la protezione dei pacifici cittadini dalle bestiali violenze dei bestiali cosiddetti ultrà del calcio, che aggrediscono persone causando loro gravi o gravissime lesioni, devastano e distruggono (l'ho visto con i miei occhi) esercizi e locali per puro sfogo osceno di violenza, causando gravissimi danni a individui e famiglie che vedono distrutto il risultato di anni di lavoro e di risparmio e si vedono economicamente danneggiati in misura assai pesante. Anche in questo caso, ovviamente, l'esercizio della repressione e la tutela della sicurezza spettano allo Stato. Sicurezza di tutti, senza pregiudizi a priori nei confronti di nessuno e senza troppe titubanze. Sarebbe increscioso se le forze dell'ordine, già così oberate, dovessero pure intervenire per difendere i pacifici cittadini da ronde esaltate o, ancor peggio, per difendere inesperte ronde da esperti malviventi.

07 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS Così è stato tradito Basaglia: successi (e lacune) di una legge
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2009, 11:47:11 pm
Saggi e proposte parlamentari a trent’anni dalle norme che chiusero i manicomi

Così è stato tradito Basaglia: successi (e lacune) di una legge

Accuse ideologiche, rivalità personali, carenze nell’applicazione
 
 
«Da dentro il giardino di San Giovanni si poteva leggere il mondo; con quella lettura qualcosa è cambiato».
Così scrive Franco Rotelli, attualmente direttore generale della ASS n. 1 a Trieste e a suo tempo successore di Franco Basaglia alla direzione dell'ospedale psichiatrico triestino di San Giovanni, in cui è maturata l'esperienza che ha cambiato radicalmente l’atteggiamento dinanzi alla malattia mentale e all’istituzione manicomiale, realizzando nel 1978 la legge 180 che poneva fine a quest'ultima — la cosiddetta legge Basaglia, dal nome del suo carismatico promotore — e riconoscendo finalmente i malati psichici come persone a pieno titolo, persone in difficoltà, anche assai gravi, ma nella pienezza della dignità umana. La legge 180 non proclama che i malati mentali sono guariti o non esistono, bensì semplicemente che essi sono cittadini da tutelare al pari di tutti gli altri; anche da punire, se compiono reati, come si punisce un malato di cancro se ruba, ma da considerare sempre e comunque uomini. Si tratta di una fondamentale conquista civile, che estende il riconoscimento della dignità umana a una categoria di persone cui si tendeva a negarlo: mentre non si è mai considerato un uomo sofferente di cuore o di tubercolosi un mero caso di cardiopatia o di tbc, bensì un uomo, un malato di schizofrenia è stato spesso percepito unicamente come uno schizofrenico, quasi fosse soltanto la mostruosa e astratta incarnazione di una malattia anziché un individuo colpito da una malattia. Non a caso il linguaggio, prima spia della violenza, ha visto usare quali ingiurie tanti termini che definiscono dolorose malattie psichiche. Esposti, perlomeno in alcuni ospedali, anche a condizioni innominabili e a violenze, i malati erano spesso esclusi dalla pietà, dalla considerazione, quasi non appartenessero alla condizione umana; il manicomio, quale istituzione totale e chiusa, sembrava funzionare non tanto per curarli quanto per segregarli dalla società umana, di cui ogni uomo, sino alla morte, fa parte. Scattava in tal modo un meccanismo sociale di esclusione pure nei confronti di forme di disagio, di emarginazione, di diversità, di comportamenti bizzarri ancorché inoffensivi ma difformi dalla convenzionale normalità sociale.

Così finivano magari in manicomio asociali stravaganti anche se innocui come quello che pochi giorni fa, in una farmacia, mi ha fatto giustamente anche se inopinatamente notare che la mia borsa di finta pelle nera scalcagnata gli dava fastidio. Nell’Unione Sovietica, peraltro, vi finivano molti dissidenti, ben più sani di mente dei loro carcerieri. Non è stata certo solo la scuola basagliana, come alcuni suoi settari esponenti hanno talora presuntuosamente preteso, ad operare per il reale bene del malato di mente, ma fondamentale è stata la direzione di Franco Basaglia, dal 1971 al 1979, all’ospedale psichiatrico triestino di San Giovanni, ora diretto da un altro medico del suo gruppo, Peppe Dell’Acqua. Assai rilevante era stata la precedente attività di Basaglia a Gorizia, dal 1963 al 1968, mentre il periodo intermedio da lui passato all’ospedale di Colorno era stato meno fecondo, anche per la scarsa comprensione dell’amministrazione provinciale, allora comunista. A Trieste, Basaglia e la sua équipe hanno trovato un appassionato e totale sostegno in un’amministrazione democristiana di centrosinistra o meglio nel suo presidente, Michele Zanetti, anomalo politico di coraggiosa intraprendenza, a suo tempo creativo presidente della provincia e poi del porto; vero coprotagonista, più ancora di quanto gli venga riconosciuto, della legge 180 e delle battaglie e difficoltà che l’hanno accompagnata e in cui si è impegnato a fondo, pagando il prezzo di una successiva emarginazione dalla vita politica triestina, da lui accolta senza batter ciglio. A lui, che insieme con Francesco Parmegiani ha scritto di recente una biografia di Basaglia, chiedo cos’abbia significato, per un amministratore, l’esperienza basagliana a Trieste; quali ostacoli, quali problemi, quali errori hanno accompagnato quest’avventura.

Michele Zanetti —«È stata una costante sfida su molti fronti: da quello più propriamente politico (non è stato facile ottenere un consenso sufficiente) a quello di un’opinione pubblica e di una stampa alle quali si chiedeva un cambio di cultura; da quello più strettamente amministrativo (dove si è imposto un radicale mutamento di prassi amministrative —non solo sanitarie— e di regolamenti) a quello giudiziario (in quanto i malati, a mano a mano che venivano riabilitati, venivano consensualmente sottratti al controllo tutorio del competente Ufficio della Procura). Sfida pure sul fronte culturale: è grazie al rapporto con l’Organizzazione mondiale della sanità e con una cultura internazionale non soltanto sanitaria che si è potuto reggere ai molti attacchi alla riforma. Non dubito ci siano stati errori e non ho condiviso tutte le scelte di Basaglia, ma mai è venuto a mancare l’impegno totale per realizzare gli obiettivi concordati, in una leale amicizia».

Claudio Magris — Oggi esistono in Parlamento due progetti di revisione della legge 180 e di recente si sono levate voci aspramente critiche nei suoi confronti, che accusano i basagliani di aver trascurato l’aspetto scientifico e di aver ridotto ideologicamente la malattiamentale a cause sociali. Ma Basaglia non ha mai negato—come erroneamente gli si rinfaccia e come hanno occasionalmente fatto alcuni suoi vacui e improvvisati seguaci—la realtà clinica della malattiamentale; ha respinto l’«antipsichiatria» (si veda per esempio pagina 358 del II volume dei suoi scritti editi da Einaudi) e non ha mai ridotto la malattia mentale a mero effetto dell’emarginazione sociale. Ha solo sottolineato che, come per un cardiopatico abitare al decimo piano di una casa senz’ascensore è un fattore che incide sulla sua malattia, la situazione esistenziale, sociale, affettiva di un malato mentale incide sulla sua condizione. Il che non significa affatto sottovalutare la scienza medica. Tra le dure critiche alla legge 180 c’è il libro di Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis, La razionalità negata (Bollati Boringhieri). Tuttavia, chiedo al professor Corbellini, in un suo articolo del 2 marzo sul «Sole 24Ore», lei scrive che «la legge 180 era una legge quadro, che lasciava alle Regioni di organizzarne l’applicazione. Ma mentre alcune Regioni, soprattutto nel Nord del Paese, hanno applicato efficacemente i principi generali, altre li hanno disattesi, scaricando sulle famiglie un carico ulteriore di disagi». Dunque non è la legge 180 in sé da criticare, bensì — come fanno i suoi stessi sostenitori—la sua carente applicazione, che spesso abbandona il malato alla famiglia, la quale non solo non è adeguata a sostenerlo, ma talora è stata magari, anche solo parzialmente, all’origine dei suoi disagi.

Gilberto Corbellini — «Il libro scritto con Jervis non è tanto una critica alla legge 180, di cui nondimeno analizziamo dettagliatamente, riportando e interpretando tutti i dati epidemiologici disponibili, l’impatto sanitario. Il nostro scopo era di mostrare che i difetti di quella legge dipendevano dall’influenza culturale, a nostro parere nefasta, che l’ideologia antipsichiatrica aveva avuto durante il decennio precedente nel creare una diffusa percezione della malattia mentale come un problema non medico ma sociale e politico. Inoltre abbiamo voluto documentare che gli aspetti positivi della legge non dipendevano da coloro che ne rivendicavano e ne continuano a rivendicare politicamente la paternità. Alcune manifestazioni di pura intolleranza nei riguardi del nostro libro, cioè nessuna critica argomentata ma solo scomuniche e insulti da parte di qualche sopravvissuto della setta basagliana, confermano che le nostre tesi non sono campate in aria. Aggiungo che dal nostro libro il lavoro, la statura intellettuale e le qualità personali di Basaglia, storicamente contestualizzate, emergono anche in positivo».

Claudio Magris — Dal giardino della follia, come ha scritto così intensamente Rotelli, si legge il mondo, la sua verità e la sua distorsione, la vita nelle sue contraddizioni. Nella vostra biografia di Basaglia, chiedo a Michele Zanetti, non nascondete i momenti critici di quell’esperienza. Fra questi limiti, credo vi fosse, in alcuni dei suoi seguaci, la presunzione di essere gli unici depositari della verità psichiatrica, tendente a ridurre il dibattito a una schematica contrapposizione tra basagliani e antibasagliani escludendo altre stimolanti e creative posizioni. Ma Basaglia era l’opposto di tale dogmatismo da assemblea pulsionale, con la sua generosità calda e fantasiosa, la sua fanciullesca e amabile capacità di ridere anche di se stesso, la sua incredibile disponibilità ad aiutare chiunque. Non a caso, e va ricordato a suo onore, Basaglia è stato quasi malmenato dalle teste calde e vuote di Nuova autonomia, «radicali di sinistra» alcuni dei quali sarebbero coerentemente divenuti di lì a poco reazionari, che vedevano in lui il riformatore— e dunque un sostegno — del nostro mondo e non il suo distruttore. Anche la legge 180—hai detto—è frutto del suo tempo e dunque potrà e dovrà essere corretta e migliorata. In che senso?

Michele Zanetti—«Va pregiudizialmente affermato che non vanno cambiati i due fondamenti della legge: il riconoscimento dei diritti di cittadinanza alle persone gravate da disturbo psichico e il rifiuto del manicomio quale "cura" della malattia mentale. Nei confronti di persone sofferenti non vanno mai ammesse l’esclusione, la segregazione e la violenza, che ogni manicomio produce di per sé anche se non pratica l’elettrochoc o la lobotomia. Ciò che si è fatto a Trieste è in realtà molto semplice, anche se non è stato facile: si è dimostrato concretamente—inmaniera pragmatica e non ideologica —che con un uso non assolutizzante delle tecniche disponibili (farmacologiche, psicologiche), con interventi di sostegno sociale sul lavoro e sulla comunità di appartenenza dei soggetti deboli e a rischio, con servizi territoriali a costo sostenibile aperti 24 ore su 24, si possono prevenire e comunque ridurre le crisi e si può curare il malato. La legge 180 può e deve essere corretta perché ancora oggi ci sono varie zone, anche nelle regioni giudicate tra le più avanzate in materia sanitaria, dove non ci sono servizi accessibili di giorno e di notte, come se la crisi ovvero il disagio psichico dovesse rispettare un orario di apertura. C’è il pericolo che si vogliano aprire nuovi servizi segreganti, anche privati, che ridarebbero a qualcuno, come in passato, la possibilità di lucrare alle spalle delle famiglie, che nella condivisione della sofferenza dei loro cari meritano rispetto e sostegno, mai però a prezzo della libertà e della dignità del malato».

Claudio Magris
10 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS Il voto troppo tiepido per l’Europa
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2009, 09:33:15 am
SPERANZA E SCETTICISMO SUL FUTURO STATO EUROPEO

Il voto troppo tiepido per l’Europa


Con l’Europa ci suc­cede un po’ quel­lo che succedeva a Sant’Agostino col tempo: se non gli chie­devano cos’era, credeva di saperlo, ma quando glielo chiedevano gli sembrava di non saperlo più. Il forte ma vago senso di apparte­nenza all’Europa — a una civiltà comune e ben di­stinta non solo da quelle di altri continenti, Asia o Africa, ma anche, sia pure in modo assai più sfuma­to, da quella americana sua discendente — non si lascia definire. Non certo soltanto, ma forse anche per questo il voto per il Parlamento Europeo, no­nostante la campagna elet­torale, è generalmente eu­roscettico. È un voto tiepi­do, perché si elegge un Parlamento che non è pro­prio veramente tale, nella pienezza dei suoi poteri; nel quale in linea generale non si varano le leggi da cui più dipende il nostro destino. Gli eletti non po­tranno decidere, almeno direttamente, se paghere­mo più o meno tasse, se potremo fare il testamen­to biologico o no, se la no­stra Costituzione sarà o no sfregiata.

In Italia ci si interessa al­le prossime elezioni euro­pee pensando non tanto al­l’Europa, quanto alle riper­cussioni che esse avranno sulla politica interna del nostro Paese. Pochi pensa­no a ciò che, nonostante i limiti che purtroppo vinco­lano il Parlamento Euro­peo, gli eletti possono co­munque fare in tanti setto­ri, promuovendo o ostaco­lando misure di grande im­portanza, lavorando al compimento dell’Unione Europea, che prima o do­po — piuttosto dopo che prima, purtroppo — do­vrà divenire la nostra più forte realtà e i cui poteri si spera saranno un bel gior­no più importanti, per tut­ti, di quelli dei singoli go­verni nazionali, così come oggi il governo dell’Italia mi interessa più di quello della mia pur amata Regio­ne Friuli-Venezia Giulia.

Ma pochi pensano real­mente con passione all’Eu­ropa, come invece pensa­vano e sentivano i suoi pa­dri fondatori. In un artico­lo uscito l’1.5.2009 sul «Pic­colo », Ferdinando Camon riportava, ad esempio, al­cune dichiarazioni che il ministro Brunetta avrebbe rilasciato a una Miss Vene­to poi non ammessa fra le candidate al Parlamento: secondo tali dichiarazioni, il Parlamento Europeo «non conta niente». L’af­fermazione attribuita al ministro Brunetta è impor­tante, perché sembra riflet­tere un atteggiamento dif­fuso, forse anche fra i can­didati al Parlamento stes­so. Si ha l’impressione che molti di essi conoscano molto meglio i problemi italiani di quelli europei che, se eletti, avranno la re­sponsabilità di affrontare e cercare di risolvere.

Si ha l’impressione, no­nostante tante nobili e va­ghe dichiarazioni pro­grammatiche, che nume­rosi candidati al Parlamen­to Europeo, prima di legge­re ad esempio l’articolo di Ivo Caizzi sul «Corriere», non sapessero esattamen­te che cosa ha fatto la legi­slatura europea ora tra­scorsa, di che cosa si è oc­cupata, quali problemi — tariffari, etici, sociali — ha trattato, con successo o meno, e quali problemi concreti attendono al var­co la legislatura europea che inizierà tra poco.

È facile fare generiche dichiarazioni sulla cultura o sulla libertà, ma è ben più difficile occuparsi di quegli innumerevoli, ingarbu­gliati, apparentemente prosaici aspetti in cui la libertà e la cultura si incarnano concre­tamente.

È strano che, posto che la testimonianza della Miss Veneto riportata da Camon sia at­tendibile, il ministro Brunetta — dalla faccia feroce quando annuncia licenziamenti, ma dalla lacrima facile quando viene lodato — abbia fatto quelle dichiarazioni sull’irrilevan­za del Parlamento Europeo quasi con soddi­sfazione anziché con tristezza, in quanto, se ciò che egli dice corrispondesse alla realtà, sarebbe la constatazione di un male, che do­vrebbe invitare a correggerlo.

Se l’Europa non esiste ancora abbastanza, questa è una disgrazia o almeno una fase di stallo che va superata. Dovremmo sentirci, armoniosamente e con altrettanta intensità, europei ed italiani nello stesso modo in cui ci sentiamo — a parte qualche ringhioso bo­tolo di provincia, incapace di guardare oltre la sua cuccia — italiani e lombardi o marchi­giani.

Non occorre scomodare Mazzini, Croce o Curtius, che ci hanno insegnato l’unità spiri­tuale, culturale dell’Europa. C’è una realtà materiale ancora più importante. Oggi i pro­blemi che ci investono coinvolgono l’Europa intera, dalla crisi finanziaria alla pressione dell’immigrazione; così come l’economia di Milano non può crollare senza ripercuotersi su Bologna o su Bari, ogni singolo Stato tra­scina in parte con sé, nel bene e nel male, tutti gli altri e ne è trascinato. Sarebbe ridico­lo che l’immigrazione fosse regolata a Taran­to da leggi diverse da quelle in vigore a Geno­va ed è ormai ridicola una politica diversa a Parigi e a Berlino rispetto ai problemi che in­teressano tutti gli europei. Se la realtà mate­riale, per tutti, è europea, essa deve tradursi, prima o poi, in una realtà politica anche for­male ben più forte e compatta di quella at­tuale, che riduca i singoli Stati a funzioni so­stanzialmente regionali, peraltro assai im­portanti.

L’Europa fonda la sua civiltà, rispetto ad altre pure grandi, sul primato dell’individuo rispetto alla totalità e perciò è stata la madre del liberalismo e della democrazia. A diffe­renza di alcuni cugini d’oltre Atlantico, la va­lorizzazione europea dell’individuo non è l’esaltazione del cowboy che basta a se stes­so e si fa giustizia da sé, bensì dell’individuo quale «animale politico», come diceva Ari­stotele, che si pone in relazione con la socie­tà e si sente responsabile della sorte di tutti i componenti della Polis, perché sa che il suo benessere esige, per essere veramente vissu­to e goduto, il benessere o almeno la decen­za di chi gli vive intorno. In tal senso, il socia­lismo è profondamente europeo e le civiltà o gli Stati che non hanno conosciuto il socia­lismo (s’intende quello democratico) non so­no europei. Sono, possono e debbono esse­re nostri buoni vicini, ma non sono noi.

L’esigenza di un futuro vero Stato euro­peo e la fiducia nel suo avvento non escludo­no lo scetticismo circa i tempi e le difficoltà della sua necessaria realizzazione. Ci saran­no regressivi rigurgiti di egoismi nazionali, paure fondate e infondate che ostacoleran­no le iniziative più preveggenti, meschinità, elefantiasi burocratiche, scontri fra particola­rismi, difese di privilegi e anche di enti e isti­tuzioni inutili e costose. Chi crede nell’Euro­pa sarà contento se si farà ogni tanto un pas­so avanti e mezzo passo indietro. La demo­crazia, ha scritto Günter Grass lodandola per questo, ha il passo della lumaca.

Non invidiamo dunque gli eletti, nono­stante la loro cospicua remunerazione, per­ché — a parte i cinici che si candidano maga­ri solo per lucro e i narcisisti, peggiori di lo­ro, per vanità — il lavoro degli eletti onesti sarà duro, prosaico e noioso. Lo è del resto ogni autentico lavoro politico. Ma anche quello della madre di famiglia (oggi lo fanno un po’ pure i giovani padri, ma non tanto) che si occupa dei figli e della casa è fatto di tante cose di per sé non esaltanti, lavare, asciugare, fare la spesa, stirare, eppure… An­che questa, in fondo, è politica, cura di ciò che concorre al bene della Polis; non per nul­la Lenin diceva che una brava madre di fami­glia poteva essere commissario del popolo. Forse anche parlamentare europea, meglio di altre più appariscenti categorie femmini­li.


Claudio Magris

01 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS Nel Punto Franco mosaico del mondo
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2009, 07:02:28 pm
GIORNI D'AGOSTO

Nel Punto Franco mosaico del mondo


Nel Punto Franco, a Trieste. Qui il nome evoca indirettamente splendori commerciali ed emporiali passati, decreti imperiali absburgici che trasformavano il nobile ma angusto borgo nel porto della Mitteleuropa e in un crogiolo di genti diverse. Ora arrivano navi, soprattutto turche, dai cui ventri escono grandi autocarri che si disperdono nei più diversi Paesi. I camionisti, che arrivano periodicamente, si riposano all'ombra mangiando qualcosa prima di partire, nostri frontalieri di oggi di cui non sappiamo nulla, perché è più facile interessarsi delle frontiere e delle chiusure del passato ora superate, come quella con la Slovenia. Anni fa, durante il mio breve mandato parlamentare, mi sono trovato coinvolto in un conflitto fra il ministero dell'Interno e la Polmare, la polizia marittima, relativo a un gruppo di curdi sbarcati clandestinamente, che il primo accettava e la seconda rifiutava di lasciar transitare per Trieste; ricordo le facce gravi di quei fuggiaschi — accovacciati fra i montacarichi e gli elevatori, sotto le gru elettriche simili a uccelli preistorici — con i quali ci intendevamo in tedesco, la lingua del Paese in cui cercavano di andare e in cui alcuni di essi erano già stati. Accanto al Punto Franco c'è l'Ausonia, uno stabilimento balneare da estate fitzgeraldiana degli anni Trenta — gli anni in cui era frequentato dai nomi mitici della triestinità — con le sue bagnanti che ricordano la bellissima ragazza cantata da Saba, la cui improvvisa ombra di malinconia sulla bocca altera, dice la lirica, sposava per un attimo la sua aurora alla sera del poeta.

In queste settimane un grande magazzino del Punto Franco ospita una strana merce, una favolosa poesia, antica di milioni e milioni di anni, di pietre, cristalli e gemme dai colori incredibili e iridescenti. Agate, calcedoni dal rosso tenue o intenso, quarzi cristallini, soprattutto citrini e ametiste, ambra, opale, fossili che, come le alghe stromatoliti, risalgono al Precambrico, anche più di due miliardi di anni fa. Le dimensioni sono varie, piccole o gigantesche, come ad esempio una specie di enorme volta di cielo stellato costituita da un'ametista punteggiata di riflessi luminosi. Le screziature delle pietre disegnano paesaggi, osservava Vittorio Sgarbi, e anche le figure più strane: volti umani, golfi marini, calici, fiori impensabili; una sezione di geode di quarzo ialino brasiliano, che ha 130 milioni di anni, simula quasi perfettamente la bellezza dell'iride dell'occhio umano.

Iridescenze, disegni fantastici, immagini realistiche o deliri dell'immaginario, venature di colori — specie azzurri — incantevoli, luce imprigionata nella pietra in cui sembra ardere; è come se questi cristalli e queste pietre fossero lastre in cui siano rimaste impresse la bellezza di laghi e montagne, ma anche le allucinazioni di una droga, l'istante in cui un fuoco d'artificio disegna un enorme fiore nella notte. Queste pietre, questi cristalli sono un mosaico del mondo e sono anche una sua radiografia, il tempo rappreso della sua storia. Arrivano, per la maggior parte, dall'America meridionale e in particolare dal Brasile, ad arricchire la collezione Ipanema di Primo Rovis, non meno bizzarro e imprevedibile di queste pietre che sono divenute la sua passione dominante. Nato ottantasette anni fa in una famiglia assai povera in un paesino interno dell'Istria, rimasto orfano da ragazzo, Rovis ha iniziato a lavorare come aiuto-commesso in un negozio di alimentari a Trieste ed è divenuto un imperatore del caffè, uno dei massimi contribuenti d'Italia, un uomo che nel 1980 pagava complessivamente 650 milioni e 470 mila lire di tasse e si dichiarava lieto di pagarle, in quanto desideroso di vivere in un Paese civile per tutti e soddisfatto del molto denaro che comunque gli restava. Il garzone istriano travolto come tutti dall'esodo seguito all'occupazione jugoslava ha avuto modo, anni dopo, di insegnare al maresciallo Tito come si fa un buon caffè, mettendolo dietro il banco alla Fiera di Zagabria, ed è divenuto un filantropo nei più vari settori sociali.

Con quelle pietre che si aggiungono alle altre del suo deposito, potrebbe fare cospicui guadagni; il loro valore, attestato da scienziati di mezzo mondo, attira musei di ogni parte, specie a Mosca, e farebbe la gioia di qualche sceicco o di qualche altro miliardario, anche se Rovis rischia di innamorarsi troppo dei suoi cristalli e di volerli per sé. In quella bellezza, non creata dagli uomini, vorrebbe vedere «l'arte di Dio», quasi le mirabili screziature talora incredibilmente mimetiche della realtà obbedissero non al caso o a un mero processo chimico bensì a un disegno, così come nel Doktor Faustus di Thomas Mann il padre di Adrian cerca di decifrare le scritture del firmamento stellato o delle striature sulle conchiglie come fossero alfabeti. Comunque non è chiaro cosa sia vivo e cosa non lo sia. Dall'alchimia a tanta grande letteratura, la vita segreta e il significato dei minerali hanno affascinato gli uomini. Dinanzi al grande mare, questi geodi ora al Punto Franco dicono che le profondità della terra hanno bellezze non meno enigmatiche di quelle del mare. Come il mare, anche questi miliardi di anni cristallizzati danno un senso sereno, confortante della nostra insignificanza; le pietre, dice una poesia di Goethe, sono antiche maestre.

Claudio Magris

22 agosto 2009(ultima modifica: 05 settembre 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS La politica e il senso della misura
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 05:07:38 pm
IL COMMENTO

La politica e il senso della misura

Berlusconi e la battuta sul «miglior premier degli ultimi 150 anni»: una buffa autoesaltazione

di  CLAUDIO MAGRIS


Vere o presunte vicende private attribuite al Presidente del Consiglio hanno fatto passare sotto silenzio, col loro clamore, alcune dichiarazioni del medesimo Presidente che riguardano il suo ruolo politico e dunque interessano più dei suoi fatti personali. Una, ad esempio, è quella rilasciata alla Maddalena durante la conferenza stampa congiunta con Zapatero il 10 settembre e riportata il giorno dopo sul Corriere , in cui ha affermato di essere «di gran lunga il miglior Presidente del Consiglio in 150 anni di storia d’Italia».

Cavour, Giolitti e De Gasperi dunque scompaiono, diventano nani della politica rispetto alla sua alta statura di uomo di Stato; ricordo che tempo fa, quando Berlusconi, più modestamente, si era limitato a equipararsi a De Gasperi, Francesco Cossiga aveva sarcasticamente osservato che, se le cose stavano così, lui si considerava Carlo Magno.

Quella buffa autoesaltazione del nostro presidente del Consiglio — che di fatto è un’involontaria autocaricatura e potrebbe essere la battuta di un comico che cerca di metterlo malignamente in ridicolo — è imbarazzante, al di là di ogni orientamento politico di centrodestra o centrosinistra, per tutti e specialmente per i suoi sostenitori.

De Gasperi, che era un ben più grande uomo politico, non si paragonava certo a Bismarck o a Napoleone; anche per questo era un grande e aveva tutti i titoli per governare un Paese, il che richiede molte e diverse qualità fra cui l’equilibrio e soprattutto il senso della realtà, dei rapporti di grandezza e di forza, delle oggettive misure di se stessi e delle cose. Ciò vale in ogni campo ed è particolarmente necessario in politica.

Ma può darsi che quell’impennata sia dovuta alla frequentazione di compagnie discutibili; Berlusconi è reduce da un cordiale incontro col Colonnello Gheddafi, e la Libia, che il prossimo 23 settembre assumerà la presidenza dell’Assemblea generale dell’Onu, si appresta, come è stato annunciato, a chiedere ufficialmente la dissoluzione della Svizzera tra la Francia, la Germania e l’Italia...


17 settembre 2009
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS Norberto Bobbio - Il maestro laico che manca all’Italia
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2009, 11:01:37 am
1909-2009
Norberto Bobbio

Il maestro laico che manca all’Italia


Se fosse vivo e in età ancor combatti­va, non so se Norberto Bobbio — trovandosi in un mondo sempre più opposto al suo modo di essere, di sentire e di pensare — sarebbe più spro­nato a dar libero corso alla sua vena «ira­conda », come egli diceva, e polemica oppu­re ad abbandonarsi a una rassegnata e stoi­ca amarezza. Bobbio incarna esattamente ciò che manca, sempre più vistosamente e volgarmente, alla nostra società: la capacità di ragionare, di distinguere, premessa fon­damentale dell’onestà verso gli altri e verso se stessi. Una volta, alle scuole elementari, ci insegnavano che non si possono somma­re litri a chili o a metri, cosa che ora si fa normalmente, in un coro di imbroglioni e imbrogliati che sono spesso le medesime persone. Mai come oggi è mancata la laicità e Bobbio è anzitutto un maestro di laicità, non nel senso stupido e scorretto in cui vie­ne correntemente usata questa parola, qua­si significasse l’opposto di credente, di reli­gioso o di praticante, come credono e vo­gliono far credere gli ignoranti e i disone­sti.

Bobbio ha insegnato che laico non indi­ca il seguace di una specifica idea filosofi­ca, bensì chi è capace di distinguere le sfere delle diverse competenze; distinguere ciò che è oggetto di dimostrazione razionale da ciò che è oggetto di fede, a prescindere dal­l’adesione o meno ad essa. Laicità: distin­guere fra diritto e morale, sentimento e con­cetto, legge e passione; articolare le proprie idee secondo principi logici non condizio­nati da alcuna fede né ideologia; mettere in discussione pure le proprie certezze; sceve­rare l’autentico sentimento dalle incontrol­late reazioni emotive, ancor più nefaste dei dogmatismi.

Oggi viviamo in una temperie culturale assai poco laica, funestata dai fondamentali­sti religiosi come da quelli aggressivamen­te atei, entrambi capaci di ragionare solo con le viscere e con slogan orecchiati. La cronaca di ogni giorno ci mostra come si confondano e si pasticcino politica e mora­le, diritto e sentimentalismo, in un’allegra sgrammaticatura linguistica, concettuale ed etica che mette spesso il soggetto all’ac­cusativo e viceversa, per scambiare i ruoli tra vittime e colpevoli e mettere in galera il derubato anziché il ladro. Il sistema politi­co regredisce a una barbarie premoderna, cancellando progressivamente secoli di ci­viltà liberale che aveva elaborato controlli e garanzie per impedire abusi di potere.

Oggi c’è più che mai bisogno di intelli­genza e di passione come quelle di Norber­to Bobbio, che ha difeso e vissuto questi va­lori — i quali, prima di essere cardini della vita civile e del buon governo, sono il sale dell’esistenza quotidiana — sui fronti più diversi, dai mirabili studi filosofici e giuridi­ci, che fanno di lui un eccezionale maestro, alla milizia etico-politica e alla presenza ge­nerosa e creativa nella vita culturale. In quel vero, sobrio capolavoro che è De Senec­tute ,

un commiato dalla vita insieme classi­co e cocentemente contemporaneo, Bob­bio, richiamandosi al mito platonico dei due cavalli dell’anima, si duole di aver per­messo al destriero irascibile di aver preval­so su quello nobilmente razionale, ma non so se sia un’autocritica giustificata. Sem­mai, è stato troppo mite; oggi c’è bisogno più dell’ira che della mitezza a lui cara, nel baraccone in cui ci troviamo.

La sua lucidità nasce da un cuore genero­so, ricco di affetto e amicizia, di ironia e au­toironia. Bobbio ha insegnato che la batta­glia del pensiero è talora pure una battaglia contro la propria passione, ma sempre nu­trita di passione, anche quando deve dolo­rosamente dominare quest’ultima. Il cuore va sempre ascoltato, anche quando urta contro la legge, ma sapendo che spesso il cuore è pure «pasticcio e gran confusione», come ha scritto in un suo romanzo un altro grande piemontese, Stefano Jacomuzzi. La sofferta chiarezza chiamata a far rispettare l’umano, anche quando ciò — nel groviglio delle contraddizioni — può far male al cuo­re, affonda le proprie linfe in quest’ultimo. Bobbio, maestro nel difendere i valori «freddi» della democrazia — l’esercizio del voto, le fondamentali garanzie giuridiche, l’osservanza delle regole e dei princìpi logi­ci — sa che essi sono meno appassionanti dei valori «caldi» del sentimento, degli af­fetti, degli amori; magari pure meno appas­sionanti delle passeggiate nel suo amato Piemonte o nella nostra Torino, capitale di quell’Italia più civile che credevamo possibi­le. Ma Bobbio ci insegna che solo i valori freddi, i quali stabiliscono condizioni di partenza uguali per tutti, permettono a ognuno di coltivare i propri valori caldi, di inseguire la propria passione. La logica ren­de possibile l’umanità e difende la «calda vita», come direbbe Saba. Anche a rischio dell’impopolarità — la vita vera è impopola­re — come quando Bobbio, da vero laico, faceva chiarezza sulla vita nascente e sui di­ritti del nascituro o come quando rivendica­va, in certe vicende eclatanti che eccitavano l’opinione pubblica in nome di buoni senti­menti, la prosaica osservanza della legge

Claudio Magris
13 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS Il crocifisso simbolo di sofferenza che non può offendere nessuno
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2009, 10:56:54 am
LA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA

Il crocifisso, simbolo di sofferenza che non può offendere nessuno


Il giovane Sami Albertin — la cui madre ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle scuole statali approvata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricevendo per questo su forum e blog volgari insulti da chi, per il solo fatto di proferirli, non ha diritto di dirsi cristiano — dev’essere molto sensibile e delicato come una mimosa, se,
com’egli dice, «si sentiva osservato» dagli occhi dei crocifissi appesi nella sua classe.

Se erano tre, come egli ricorda, erano un po’ troppi, ma provare turbamenti da giovane Werther o da giovane Törless è forse un po’ esagerato; fa pensare a quella prevalenza dei nervi sui muscoli irrisa da Croce, che preferiva studenti studiosi e gagliardi a precoci giacobini.

La sentenza e soprattutto i suoi strascichi provocheranno — ed è questa la conseguenza più grave — un passo indietro in quella continua lotta per la laicità che è fondamentale, ma che è efficace — ha ricordato Bersani, uno dei pochi a reagire con equilibrio a tale vicenda — solo se non travolge il buon senso e non confonde le inique ingerenze clericali da combattere con le tradizioni che, ancora Bersani, non possono essere offensive per nessuno. La difesa della laicità esige ben altre e più urgenti misure: ad esempio — uno fra i tanti — il rifiuto di finanziare le scuole private, cattoliche o no, e di parificarle a quella pubblica, come esortava il cattolicissimo e laicissimo Arturo Carlo Jemolo.

Sono contrario a ogni Concordato che stabilisca favori a una Chiesa piuttosto che a un’altra anche se numericamente poco rilevante; ritengo ad esempio — è solo un altro esempio fra i tanti — che il matrimonio cattolico e il suo eventuale annullamento ecclesiastico non dovrebbero avere alcuna rilevanza giuridica, che dovrebbe essere conferita solo dal matrimonio e dal suo eventuale annullamento civile. «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», pare abbia detto Cavour in punto di morte al religioso che lo esortava a confessarsi. Forse è una leggenda, ma esprime bene la fede nel valore della laicità — che non è negazione di alcuna fede religiosa e può anzi coesistere con la fede più appassionata, ma è distinzione rigorosa di sfere, prerogative e competenze.

L’obbligatoria rimozione del crocifisso è formalmente ineccepibile, in quanto la separazione fra lo Stato e la Chiesa — tutte le Chiese — non richiede di per sé la presenza di alcun simbolo religioso. La legge tuttavia consente di temperare la formale applicazione del diritto con l’equità ossia con la giustizia nel caso concreto. Ad esempio è giusto che i responsabili di istituzioni pubbliche non possano affidare lavori che riguardino quest’ultime senza indire pubbliche gare di appalto, perché altrimenti si favorirebbe la corruzione.

Confesso che trenta o quarant’anni fa, all’epoca in cui dirigevo a Trieste un minuscolo e fatiscente Istituto di Filologia germanica, quando in una gelida giornata invernale di bora si era rotto il vetro di una piccola finestra ed entrava il gelo, non ho indetto alcuna gara d’appalto bensì ho cercato nella guida telefonica il vetraio più vicino, l’ho chiamato e gli ho pagato la piccola cifra richiesta, facendola gravare sulle piccole spese destinate all’acquisto di cancelleria, gomme, carta igienica, gesso.

Formalmente sarebbe stato possibile incriminarmi, ipotizzando un mio illecito accordo col vetraio; ad ogni buon conto confesso il reato solo ora, in quanto caduto in prescrizione. Credo tuttavia che, in quel caso come in altri, ciò avrebbe convalidato il detto, proclamato da rigorosi giuristi e non da teste calde, «summum ius, summa iniuria» — massimo diritto, massima ingiustizia.

E così forse è il caso del crocifisso. Quella figura rappresenta per alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; come tale non offende nessuno, purché ovviamente non si voglia inculcare a forza o subdolamente questa fede a chi non la condivide. Per altri, per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che esso rappresentava per Tolstoj o per Gandhi, che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta. Un analogo discorso, naturalmente vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di altre civiltà come il cristianesimo nella nostra. Per altri ancora, scriveva qualche anno fa Michele Serra, quel crocifisso è avvolto dalla pietas dei sentimenti di generazioni. Altri ancora possono essere del tutto indifferenti, ma difficilmente offesi.

Si può e si deve osservare che le potenze terrene di cui quel crocifisso è simbolo e sostanza ossia le Chiese si sono macchiate e talvolta si macchiano ancora di violenze, prepotenze, ipocrisie, che negano quell’uomo in croce e fanno del male agli uomini. Tutte le Chiese, non solo la cattolica; anche i protestanti hanno i loro roghi di streghe e la consonante finale dell’orrenda sigla razzista wasp (bianchi anglosassoni protestanti, sprezzantemente contrapposti ai neri). Naturalmente, siccome a noi stanno sullo stomaco le prepotenze della Chiesa cattolica, quando essa le commette, è giusto prendersela con essa prima che con le malefatte di altre confessioni in altri Paesi.

Ma come quella p di wasp non offusca la grandezza della Riforma protestante e del suo libero esame, i misfatti e le pecche delle Chiese cristiane d’ogni tipo non offuscano l’universalità di Cristo, che anzi le chiama a giudizio. Su ogni bandiera e anche sulla croce ci sono le fetide macchie dei delitti commessi dai loro seguaci. In nome della patria si sono perpetrate violenze feroci; in nome della libertà e della giustizia si sono innalzate ghigliottine e creati gulag; in nome del profitto svincolato da ogni legge si sono compiute inaudite ingiustizie e crimini. Sulla bandiera dell’Inghilterra e della Francia c’è anche lo sterco della guerra dell’oppio, una guerra mossa per costringere un grande ma allora indifeso Paese a drogarsi in nome del profitto altrui.

L’elenco potrebbe continuare a piacere. Ma le barbarie nazionaliste non cancellano l’amor di patria; la guerra dell’oppio non cancella l’universalità della Magna Charta e della Dichiarazione dei Diritti dell’89 e quelle bandiere, inglese e francese, restano degne di rispetto e d’amore; il gulag installato in uno Stato che si proclamava socialista non distrugge l’universalità del socialismo e la ghigliottina non ha decapitato l’idea di libertà e di repubblica. E così tutto il negativo che si può e si deve addebitare alle Chiese cristiane non può far scordare anche il grande bene che loro si deve; la Chiesa cattolica non è solo Monsignor Marcinkus; è anche don Gnocchi e don Milani o padre Camillo Torres, morto combattendo per difendere i più miseri dannati della terra.

Quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio. La bagarre creata da questa sentenza farà dimenticare temi ben più importanti della difesa della laicità, fomenterà i peggiori clericalismi; dividerà il Paese in modo becero su entrambi i fronti, darà a tanti buffoni la tronfia soddisfazione di atteggiarsi a buon prezzo a campioni della Libertà o dei Valori, il crocifisso troverà i difensori più ipocriti e indegni, quelli che a suo tempo lui definì «sepolcri imbiancati».

Il Nostro Tempo ha ricordato che Piero Calamandrei — laico antifascista, intransigente nemico della legge truffa dei governi democristiani e centristi di allora— aveva proposto di affiggere, nei tribunali, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti. Evidentemente Calamandrei era meno delicatino del giovane Albertin.

In Italia, la sentenza è un anticipato regalo di Natale al nostro presidente del Consiglio, cui viene offerta una imprevista e gratissima occasione di presentarsi nelle vesti a lui invero poco consone, di difensore della fede, dei valori tradizionali, della famiglia, del matrimonio, della fedeltà, che quell’uomo in croce è venuto a insegnare. È venuto per tutti, e dunque anche per lui, ma questo regalo di Natale non glielo fa Gesù bambino bensì piuttosto quel rubizzo, giocondo e svampito Babbo Natale che fra poche settimane ci romperà insopportabilmente le scatole, a differenza di quel nato nella stalla.

Claudio Magris

07 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Claudio MAGRIS Il teatro della vita (e della politica)
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2010, 09:47:14 am

LA CULTURA NON È COMMESTIBILE

Il teatro della vita (e della politica)

Fa una certa impressione, e non solo agli appassionati, pensare che, anche solo per un giorno, in tutta l’Italia il teatro taccia, sia chiuso. Non è solo una preoccupazione culturale in senso stretto; quei palcoscenici — grandi o piccoli, sacri templi dello spettacolo o ardite e fugaci messinscene di gruppi avventurosi, opere classiche o provocatoriamente dissacranti — fanno parte del paesaggio d’Italia, del paesaggio della nostra vita. Attori o cantanti che entrano o escono dalla scena, parole immortali o amabili battute scacciapensieri che vivono sul palcoscenico e restano nell’aria, sono — anche a prescindere dalla grandezza di alcuni capolavori — uno sfondo della nostra esistenza come il mare o la collina della città natale. Anche quando non si va a teatro o al cinema, fa piacere sapere che comunque ci sono.

Naturalmente si può benissimo vivere anche senza teatro e ci sono beni immediatamente più necessari e indispensabili, dal pane alle cure mediche. Il teatro sciopera per protesta contro i tagli ai finanziamenti senza i quali non può sopravvivere. Non ho alcuna competenza per valutare se e fino a qual punto quei tagli siano inevitabili, in che misura potrebbero essere mitigati, con quale giustizia o ingiustizia colpiscano l’una o l’altra istituzione, quali altri spese invece inutili potrebbero essere limitate a beneficio del teatro e dello spettacolo in generale. Spesso, inoltre, quando si parla di cultura la si identifica arbitrariamente con alcuni suoi settori — la letteratura, l’arte, la musica, il teatro, il cinema — come se il diritto, l’economia, la medicina, la matematica e la fisica e tante altre attività umane non fossero altrettanto «cultura» e non richiedessero quindi creatività, spirito critico, capacità di osservazione e di analisi quanto il romanzo.

Il teatro, tuttavia, ha da millenni un ruolo fondante non solo nell’arte, ma anche nella vita comune della Polis, ossia, nel senso più alto del termine, della politica. È un’arte in cui l’irripetibile e insostituibile creatività individuale (dell’autore, del regista, dell’attore, dello scenografo e via dicendo) si fonde in una coralità che, senza mortificarla, va al di là di essa e ne fa un’opera sovraindividuale, un’espressione insieme personale e collettiva o meglio corale. Quest’ultima, a sua volta, instaura un dialogo non solo con ogni singolo individuo, ma con la società e la civiltà da cui essa nasce e che essa interpreta, per celebrarle o per criticarle.

Dalle origini rituali e religiose alle sacre rappresentazioni, al teatro totale wagneriano, a quello epico brechtiano a ogni forma—anche la più iconoclasta e lacerata, o l’esperimento più solitario e ribelle — il teatro è un evento pubblico ed è un fondamento della comune vita civile. Il teatro classico contribuisce in misura determinante a fondare la democrazia della Polis greca, a sua volta fondamento della civiltà occidentale. Le «leggi non scritte degli dèi» di Antigone, ossia i princìpi universali che nessuna legge positiva può violare, essenza dell’umanità, nascono non a caso sulle scene di Atene, con la tragedia di Sofocle, e traggono la loro forza anche da quest’origine.

Quando, nella tragedia di Eschilo, Oreste, il matricida, viene assolto — sia pure con formula dubitativa — si afferma il luminoso principio di valori laici superiori ai tribali legami di sangue ed è ancora il teatro dinanzi al pubblico di Atene a fondare questo universale-umano.

Non occorre essere Sofocle o Eschilo per essere riconosciuti nella dignità del lavoro teatrale che, come ogni lavoro, nasce non solo dai geni ma dall’opera, più o meno nota o oscura, di tutti coloro che vi contribuiscono. Certo, è meglio vivere senza teatro che senza pane. Ma la vita sarebbe triste senza il teatro e siamo nati non solo per sopravvivere, ma anche per capire qualcosa della vita e, se possibile, pure per goderla.

Claudio Magris

23 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_23/magris-teatro-della-vita-editoriale_0e3db216-f6c8-11df-ba4f-00144f02aabc.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Brembate ci insegna l'umana civiltà
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2010, 12:36:16 pm
Il manovale accusato ingiustamente, ha rischiato una sorte terribile

Brembate ci insegna l'umana civiltà

Il muratore marocchino, l'errata traduzione dall'arabo e la reazione del paese

   
Sembra incredibile, ma ogni tanto gli uomini, le istituzioni e l'opinione pubblica mostrano anche segni di umana civiltà. Un muratore marocchino che lavora a Brembate di Sopra, presso Bergamo, è stato sospettato di aver assassinato Yara Gambirasio, la ragazza scomparsa da alcuni giorni; sospettato ingiustamente e poi rilasciato in base alla traduzione sbagliata di una sua frase in arabo detta al telefono.

Non si è scatenata, come purtroppo è avvenuto in altri casi (lo stupro commesso da un romeno che ha creato una feroce psicosi verso i romeni accusati quasi in blocco d'essere stupratori, l'indiscriminata violenza verso gli zingari), alcuna bestiale caccia al marocchino, non si sono sentiti idioti insulti razzisti rivolti globalmente agli arabi.

La comunità di Brembate di Sopra ha dato in generale un esempio civile oggi più che mai prezioso nel clima teso ed eccitato - anche comprensibilmente, per le difficoltà dei problemi legati all'immigrazione e al contatto fra culture diverse - che stiamo vivendo, in cui spesso si sentono risuonare selvagge parole di odio generico e si assiste a violenze gratuite. Non sarebbe male se tutta l'Italia, sotto tale profilo, assomigliasse a questa Brembate.

C'è sempre, e sempre più drammatica, l'angoscia per la sorte di Yara, la speranza o meglio la necessità di trovarla; e - nella tragica eventualità di una sua morte per mano di un assassino - la necessità di individuare quest'ultimo e punirlo con tutti i rigori della legge. Troppo spesso si dimentica che Dio è anche collera.

Mohamed Fikri, il manovale accusato ingiustamente, ha rischiato una sorte terribile per una traduzione sbagliata. La lingua regge il mondo, nel suo potere di comunicare, informare, plasmare e talora plagiare gli animi. Determina la giustizia o l'ingiustizia, può far trionfare la verità o la menzogna, chiarire o avvelenare la vita. Se non si mette correttamente il soggetto al nominativo e il complemento oggetto all'accusativo ma si inverte la sintassi, non si capisce più chi ruba e chi è derubato, si mette in galera la vittima e si manda libero il colpevole. Una punteggiatura sbagliata o alterata può falsare e sconvolgere l'ordine delle cose.

Oggi è sempre più necessaria, nello scambio e nel contatto sempre più a gomito di genti e culture diverse, la conoscenza delle lingue ovvero la possibilità di comunicare, capire, incontrarsi, difendersi, aiutare. L'insegnamento reale delle lingue, così carente in Italia, dovrebbe essere una pietra angolare dell'istruzione, a tutti i livelli. Se il ministro dell'Istruzione - colpito da questo episodio che mostra come la conoscenza linguistica possa dannare o salvare una vita - recedesse dall'assurdo provvedimento che ha abolito i lettori di madre lingua straniera all'università, la vicenda di Mohamed Fikri sarebbe stata, tra le tante altre cose, pure utile al nostro Paese.

Claudio Magris

08 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_dicembre_08/brembate-ci-insegna-l-umana-civilta-claudio-magris_046dd934-029c-11e0-83ab-00144f02aabc.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Il rispetto e la speranza
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2010, 06:39:15 pm
LE COSE DA CHIEDERE AL NATALE DI OGGI

Il rispetto e la speranza

Il Natale — quella nascita e quella notte che tagliano la Storia e fanno balenare la promessa o almeno l’esigenza che questa possa essere anche Storia della salvezza — non è cosa da family day. Quel neonato concepito fuori del matrimonio è irregolare, illegittimo secondo le regole del mondo. Proprio per questo è un figlio per eccellenza, accettato e voluto nonostante le difficoltà, anziché casualmente subito come talora accade pure nelle migliori famiglie. Il suo diritto alla vita, calpestato nelle forme più varie sotto tutti i cieli — negato dalla fame, dalla guerra, dalle malattie e dalla stessa debolezza dell’individuo, che nelle fasi iniziali della sua esistenza gli impedisce di rivendicarlo esplicitamente — è stato garantito dal coraggio della donna che lo sta allattando.

Quando Maria riceve l’annuncio della sua maternità, non sa ancora quale sarà l’atteggiamento di Giuseppe ed è decisa ad affrontare tutte le conseguenze della sua accettazione, anche il disonore e la vergogna che marchiano una ragazza madre; è pronta ad assumere sulle sue spalle l’infame peso della colpa e dell’emarginazione iniquamente messo in carico soltanto alla donna. Maria, che nella sua solitudine dice sì, è una donna, non quell’idolo di gesso o quel fantasma in cui più tardi una superstizione idolatrica degraderà spesso la sua immagine. Il suo compagno si comporterà come un vero uomo, virile e libero da tutte le prepotenze, convenzioni e insicurezze maschili; anche per questo si attirerà le pacchiane barzellette di tanti cretini, così frequenti fra i narratori di barzellette.

In quella capanna di Betlemme ci sono un figlio, una madre e un padre. Non c’è, per loro fortuna — è giusto che il figlio di Dio si sia concesso almeno questo privilegio—la consueta torma di suocere, zii, terzi cugini, suoceri di cognate, un clan talora caldamente protettivo ma spesso asfissiante e invadente, quelle tante donne Prassede, di cui esistono altrettante e altrettanto micidiali versioni maschili, che in nome della Provvidenza— di cui si considerano gli unici interpreti autorizzati —guastano la festa al loro prossimo in generale e soprattutto a chi hanno sottomano.

A quella capanna, a festeggiare il neonato, non arriva alcun parentado, arrivano alcuni pastori. Sono loro, in quel momento, la famiglia di quel bambino. Anche da adulto egli ribadirà, pure con durezza, il primato dei legami nati da libera scelta e affinità spirituali su quelli di sangue, dicendo che i suoi fratelli e le sue sorelle sono coloro che ascoltano e condividono la sua parola e chiedendo perfino bruscamente alla madre, dinanzi a una sua interferenza, cosa vi sia fra loro due. Dopo i pastori arriveranno, secondo la tradizione, i Magi, seguaci e maestri di un’alta religione—quella di Zoroastro, la prima a proclamare l’immortalità dell’anima individuale. Quella capanna è un tempio di tre grandi religioni mondiali; la quarta, che arriverà secoli dopo, l’Islam, si richiamerà ad esse e soprattutto alla prima, quella ebraica.

Pastori e più tardi Magi restano davanti alla capanna; dentro ci sono, a riscaldare il bambino col loro fiato, un bue e un asino, a testimoniare che anche per gli animali, per questi nostri oscuri cugini, dovrebbe esserci salvezza, come ben sa quel personaggio di un racconto di Singer che recita il Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti, per una farfalla morta e come sapeva, nel poema sacro indiano Mahabharata, il re Iudistira che rifiuta di accedere al paradiso abbandonando il fedele cane all’inferno.

Quel bambino non è venuto a fondare una nuova religione, di cui non c’era bisogno perché ce n’erano già forse troppe. È venuto a cambiare la vita, cosa ben più importante di ogni Chiesa. Indubbiamente la promessa di pace, annunciata in quella notte, è stata e continua ad essere clamorosamente smentita. È difficile dire se, in questo senso, quel neonato abbia finora vinto o perso la sua partita. Ma è indubbio che egli abbia posto per sempre, nel nostro cuore, nella nostra mente e nelle nostre vene, l’esigenza insopprimibile di quella salvezza. L’albero di Natale col suo verde scuro di foresta, le sue candele e i suoi globi colorati (sul mio ce n’è ancora uno proveniente dalle favolose vetrerie di Norimberga, che adornava quello di mia madre quando era bambina) non dice un’idillica quiete domestica, ma una speranza sinora delusa. Ma proprio perché nel mondo c’è tanta sofferenza e ingiustizia e il male così spesso trionfa, ammoniva Kant, è necessaria l’accanita e lucida speranza, che vede quanto sciaguratamente vanno le cose ma si rifiuta di credere che non possano andare altrimenti.

Pure quel bambino di Betlemme è nato per morire. Morirà anzi presto e fra angoscia e tormento, che la resurrezione non cancella in alcun facile lieto fine. Gesù ha scelto la morte perché, pur amando la vita, sapeva che essa non è il bene supremo e che talora si può essere chiamati a perderla per amore degli altri. Ama il prossimo tuo come te stesso, sta scritto. Dunque il nostro prossimo sono gli altri ma siamo anche noi ed è lecito, anzi doveroso amare noi stessi e lenire le nostre sofferenze insieme a quelle altrui. Ogni compiaciuta mortificazione viene dal Maligno. C’è un diritto di nascere, di cui si parla poco, e c’è un diritto di morire, di cui si parla molto. Per quel che mi riguarda, faccio mia la dichiarazione congiunta della conferenza delle Chiese cattolica e protestante tedesche sul diritto—rivendicato però dall’interessato e soltanto da lui — di sospendere, in determinate condizioni inaccettabili, cure a quel punto inutilmente accanite. Un uomo che ha fede, ha scritto il teologo Wiener Thiede, non artiglia spasmodicamente quel pezzetto di vita che gli è stato assegnato; le sue mani, non contratte dall’ansia, possono aprirsi e lasciare la presa.

È la libertà — del cristianesimo, ma anche della grande classicità pagana, serenamente inserita nel ciclo della natura—che fa dell’uomo un viandante, un nomade senza fissa dimora e non un sedentario nella vita. Ma spesso si sente dire — con un’espressione infelice e involontariamente rivelatrice — non che l’uomo è libero, ma che è il proprietario della sua vita, declassando così il sacro diritto di morire ad una delle tante e sempre più frequenti leggine ad personam, in difesa dell’uno o dell’altro monopolio di cui si vuol godere. Si può essere proprietari soltanto di cose, di cui si può disporre a piacimento. Non si può essere proprietari di persone, perché in tal caso si è padroni di schiavi e dunque pure schiavi, giacché ogni padrone di uomini perde ogni rapporto con la libertà: «Mi me credevo — Un omo lìbero / E sento nascere — in mi el paron », dice un verso del grande Noventa. Poco importa se lo schiavo di cui siamo proprietari reca il nostro nome: in questo caso trattiamo noi stessi da schiavi, cosa forse ancor più umiliante.

Il proprietario dispone delle cose che possiede; posseggo un’automobile e posso venderla o demolirla a mio arbitrio, essa è in mio potere. Ma il mio io — i miei pensieri, sentimenti, sogni, timori — è in mio potere, come la mia automobile? Posso ordinarmi di innamorarmi, di credere in Dio, di cambiare fede politica, di capire la meccanica quantistica? Ogni io è tutt’al più un condominio, costituito come tutti i condomîni da vicini litigiosi; forse ogni io non è neanche questo, bensì piuttosto un agglomerato di inquilini provvisori che nemmeno posseggono le due camere e cucina e il riscaldamento centrale per cui litigano. Quando ci innamoriamo, votiamo, preghiamo, lavoriamo, ci divertiamo, possiamo e dobbiamo cercare di essere liberi nel nostro agire, ma senza alcuna presunzione di essere proprietari della vita, neanche della nostra, perché in quel caso saremmo come quei padroni delle commedie, cui i servi rubano tutto sotto il naso. Anche il diritto di morire può affidarsi solo alla libertà e al senso del sacro, non all’arroganza di un inesistente padronato di se stessi. La vita è sempre sacra, quando la si riceve e quando la si restituisce. Anche quando la si toglie, come tragicamente può accadere — ad esempio in guerre in cui può sciaguratamente ma inevitabilmente capitare di trovarsi, in una Stalingrado o in una Normandia in cui non si è potuto fare a meno di sparare per impedire che il mondo diventasse Auschwitz.

Sotto l’albero di Natale ci si aspetta di trovare dei doni, ogni anno sempre più mestamente aggiornati alla nostra età e meno fantasiosi dei giocattoli d’infanzia, che un mio zio inventava e fabbricava con le sue mani. È possibile fare una lista di regali desiderati, come si usa per quelli di nozze? In questo caso, cosa chiedere, dato che comunque sarebbe svergognato chiedere di essere felici, come se due sposi chiedessero non un servizio di bicchieri o una lavatrice, ma una grande villa con parco? Forse è presuntuoso chiedere l’amore, anche se è per questo che è venuto quel bambino. Se ci guardiamo in giro e allo specchio, gli orrori la mediocrità l’aridità e la viltà che vediamo scoraggia dal pretendere l’amore che ci manca. Pretendere di renderci capaci di amare è come pretendere di renderci capaci di comporre la musica di Mozart.

Se l’amore è una grazia troppo alta possiamo chiedere almeno un’altra virtù fondamentale, il rispetto, che per Kant è la premessa di ogni altra virtù e che sembra sempre più latitante. Se non possiamo amare la folla oscura come noi che entra nella metropolitana, possiamo sentire concretamente che ognuno di quelli sconosciuti ha gli stessi nostri diritti e la stessa nostra povera dignità. Rispetto per ognuno, anche per l’avversario e per il nemico, anche per chi crediamo di dover combattere duramente, anche per chi va giustamente e pure pesantemente punito per un reato commesso. È questo rispetto, nient’affatto incompatibile con la severità, che manca sempre più, ovunque: nella lotta politica, nella violazione di ogni intimità, nell’arrogante negazione dell’altro.

Non chiediamo di essere perfetti, ma almeno di non essere crudeli e indecenti; di vivere in un mondo in cui si perseguono inesorabilmente i crimini ma si riconosce anche nel volto del criminale giustamente punito senza indulgenza il volto del Cristo o più semplicemente dell’uomo; in cui nessun colpevole—terrorista, pedofilo, mafioso, stupratore, assassino — venga trattato ignominiosamente come ad esempio quel sacerdote, verosimilmente pedofilo e dunque da punire, che si è gettato sotto il treno dopo essere stato insidiato da un falso penitente—inviato da una petulante trasmissione televisiva pretesamente spiritosa—che, in confessione, si è finto tentato dall’omosessualità per adescarlo e scoprirlo, colpendolo in un punto colpevole, debole e tormentato della sua personalità. Vorremmo chiedere, quale dono di Natale, che persone come quel sacerdote finiscano in carcere, se viene appurato un loro crimine, ma non sotto un treno. Una trasmissione televisiva non può diventare un plotone d’esecuzione.

Sotto l’albero di Natale, davanti al Presepe ci sono anche innumerevoli storie terribili, perché quel bambino è venuto a redimere il mondo ed è ovvio che abbia a che fare soprattutto con le sue brutture. Lava ciò che è sordido, piega ciò che è rigido, dice uno dei più grandi inni cristiani.

Claudio Magris

24 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_24/magris-rispetto-speranza-editoriale_5310e3aa-0f36-11e0-bda7-00144f02aabc.shtml


Titolo: MAGRIS. L'urlo universale della natura e la coscienza (perduta) del pericolo
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2011, 06:21:00 pm

DI FRONTE ALLA CATASTROFE DEL GIAPPONE

L'urlo universale della natura e la coscienza (perduta) del pericolo

In queste ore si ha talvolta l'impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l'acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D'improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s'incendia. Ma cos'è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l'arroganza del dominatore, ora con l'angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch'essi parte della natura, come se non fossero anch'essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell'uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L'apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un'ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell'uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.

L'orgoglio dell'uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l'invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l'uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C'è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l'agire di chi coltiva la vite e vendemmia l'uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l'attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell'appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l'impulso dell'uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all'impeto, altrettanto naturale, delle acque.

L'uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura.

La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell'uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall'ansia di sapere di dovere, un giorno o l'altro, morire.

Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall'esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l'atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l'uomo sa talora far fronte al disastro.

Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l'equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall'antica madre ossia dalla totalità che l'ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l'albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie.

C'è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell'uomo; l'ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi».

Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo.

Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli.

Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l'uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto.

Claudio Magris

13 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Claudio MAGRIS Un dolore senza nome
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:06:41 pm
l'EDITORIALE
Un dolore senza nome

Nella parabola evangelica degli operai della vigna quelli che hanno lavorato soltanto un'ora, l'ultima della giornata, ricevono lo stesso salario di quelli ingaggiati all'alba, che hanno lavorato tutto il giorno. Ma, se avevano atteso oziosi tutto il giorno, è perché nessuno prima li aveva chiamati; perché fino a quel momento non avevano avuto, a differenza degli altri, alcuna opportunità.

L'inaccettabile disuguaglianza di partenza tra gli uomini, che destina alcuni ad una vita miserabile e impedisce ogni selezione di merito, va dunque corretta, anche con misure apparentemente parziali e disegualitarie, come fa il padrone della vigna.

Il mondo intero è un turpe, equivoco teatro di disuguaglianze; non di inevitabili e positive diversità di qualità, tendenze, capacità, doti, risorse, ruoli sociali, bensì di punti di partenza, di opportunità. È un'offesa all'individuo, a tanti singoli individui, che diviene un dramma anche per l'efficienza di una società. I profughi che arrivano alle nostre coste e alle nostre isole appartengono a questi esclusi a priori, a questi corridori nella corsa della vita condannati a partire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi perdenti già prima della gara. A parte il caso specifico dell'emergenza di queste settimane, con tutte le sue variabili - l'improvvisa crisi nordafricana, la confusione e mistificazione di pietà, ragioni umanitarie, interessi economici e politica di potenza, la lacerazione e l'impotenza o meglio quasi l'inesistenza di un'Europa con una sua politica - quello che è successo e succede a Lampedusa non è solo un grave momento, ma anche un'involontaria prova generale di eventi e situazioni destinati a ripetersi nelle più varie occasioni e parti del mondo, di migrazioni inevitabili e impossibili, che potranno aprire un abisso fra umanità, sentimenti umani e doveri morali da una parte e possibilità concrete dall'altra.

Il numero dei dannati della terra, giustamente desiderosi di vivere con un minimo di dignità, è tale da poter un giorno diventare insostenibile e rendere materialmente impossibile ciò che è moralmente doveroso ovvero la loro accoglienza. In Italia certo ancora si strepita troppo facilmente, dinanzi a una situazione peraltro ancora sostenibile e meno drammatica di altre sinora affrontate in altri Paesi. Ma quello che è avvenuto a Lampedusa è un simbolico segnale di una possibilità drammatica ben più grande; se a Milano o a Firenze arrivasse di colpo un numero proporzionalmente altrettanto ingente di fuggiaschi, le reazioni sarebbero - sgradevolmente ma comprensibilmente - ben più aspre. Quello che è successo a Lampedusa dimostra, con la violenza e l'ambiguità di una parabola evangelica, la necessità e l'impossibilità di una autentica fraternità umana universale, il dovere e il non potere accogliere tutti coloro che chiedono aiuto.

Proprio per questo, proprio perché la situazione è così grave e implica contraddizioni forse insanabili per la civiltà, quel di più di ottuso rifiuto razzista, di calcolato e manovrato allarmismo, di livida chiusura è inaccettabile. C'è un elemento quasi simbolico e in realtà terribilmente concreto che esemplifica questa tragedia e richiama la parabola evangelica interpretata in questo senso da un saggio di Giovanni Bazoli. Barconi sono affondati nel Mediterraneo, persone sono annegate senza che di esse si conosca il nome. Questi operai non hanno avuto la chiamata e nemmeno il salvagente dell'ultima ora; sono stati cancellati dal mare come se non fossero mai esistiti, sepolti senza un nome. Di molti, nessuno forse saprà nemmeno che sono morti; ad essi è stato tolto anche il minimo di una dignità, il nome, segno di un unico e irripetibile individuo. La cancellazione del nome è un oltraggio supremo, di cui la storia umana è crudelmente prodiga. Livio Sirovich, in un suo libro, racconta ad esempio di un bambino ebreo nato in un lager di sterminio e ucciso prima di ricevere un nome. Meno tragico ma altrettanto umiliante è quanto racconta il maresciallo Chu Teh, lo stratega cinese della Lunga Marcia, quando nelle sue memorie dice che sua madre contadina non aveva un nome, come non lo avevano le galline del pollaio, a differenza degli animali che amiamo e cui rivolgiamo affetti e cure. Nella cerchia allargata della mia famiglia acquisita c'è, in passato, una bambina illegittima, causa dell'ostracismo destinato a quell'epoca a sua madre nubile, morta piccola; ho cercato invano, a distanza di tanti decenni, di ritrovare il suo nome e sento come una vergogna non esservi riuscito.

Il mare è un enorme cimitero di ignoti, come gli schiavi senza nome periti nella tratta dei neri e gettati nelle acque dalle navi negriere. Oggi - nonostante le gravi difficoltà, fra l'altro messe ingiustamente soprattutto sulle spalle dell'Italia - si può e quindi si deve fare ancora molto per accogliere quelli che il Vangelo chiama gli ultimi e che è difficile immaginare possano veramente un giorno diventare i primi, come il Vangelo annuncia. Talvolta sono vilmente contento che la mia età mi possa forse preservare dal vedere un eventuale giorno in cui non fosse materialmente possibile accogliere chi fugge da una vita intollerabile.

Claudio Magris

07 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_07/magris


Titolo: Claudio MAGRIS Un antidoto all’indifferenza
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2011, 12:04:57 am
IL 25 APRILE, OLTRE LA STORIA

Un antidoto all’indifferenza

Non è stato solo il Terzo Reich a proclamarsi e a credersi destinato a durare mille anni, anche se è durato solo dodici, meno del mio scaldabagno. Ogni potere, soprattutto ma non solo quello totalitario, ogni civiltà, ogni sistema di valori e di costumi si vogliono e si ritengono definitivi; siamo inclini a scambiare il presente, l’assetto delle cose che ci circondano, per l’eterno, qualcosa che non può cambiare. In questo senso, siamo quasi tutti ciechi conservatori, incapaci di credere che il nostro mondo—la politica, le gerarchie sociali, gli usi, le regole — possa mutare. Se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il muro di Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo sognatore. Forse chi ha il senso religioso dell’eterno è più protetto dalla supina adorazione idolatrica di quel momento di tempo in cui vive e delle momentanee ed effimere forze che in quel momento appaiono vittoriose e insostituibili.

Le cose invece cambiano, i muri cadono, ma l’idolatria del momento, che impone di essere «al passo dei tempi», permane, profondamente radicata nel cuore e nella mente. Caduto il muro di Berlino che pareva eterno e con esso tutto il sistema comunista, uno studioso si è affannato a enunciare, con una celebre frase poco intelligente, che «la storia è finita» e dunque che il mondo sorto dal crollo del comunismo era quello definitivo, destinato a durare — con il suo meccanismo politico, le sue strutture economiche, il suo stile di vita — per sempre. Semmai è vero il contrario; quel muro congelava o cercava di congelare la storia, che invece oggi è vertiginosamente instabile, imprevedibile e mutevole.

Sono soprattutto le dittature — quelle «molli» che soggiogano con strumenti economici, mediatici e culturali, e ancor più quelle «dure» che s’impongono direttamente con la forza bruta — che si presentano come l’unico sistema, l’unica realtà possibile. Le dittature invece cadono e il 25 aprile ricorda la caduta di quella fascista in Italia. C’è poco da aggiungere a quanto è stato detto tante volte sull’antifascismo e sulla Resistenza, sull’imperituro significato di quest’ultima quale liberazione nazionale, sulle sue contraddizioni, sulle sue diverse e contrastanti anime, sui suoi eroismi e sui misfatti compiuti in suo nome. Il 25 aprile simboleggia vent’anni di un’altra Italia, differente da quella del regime fascista; una resistenza che non è solo quella partigiana, ma anche quella di coloro che non si sono piegati quando un’altra Italia sembrava impossibile; di coloro che si sono opposti nettamente e clamorosamente, nella lotta clandestina, ma anche di chi, più modestamente, ha cercato di salvare il salvabile di dignità e ragionevolezza, senza eroismi ma con la capacità di non lasciarsi abbagliare dall’ «aria del tempo», di respingere la tentazione di «marciare con la Storia», di preservare quell’intelligenza critica che non si lascia sedurre dai belati del gregge, neanche quando sembrano ruggiti di leoni.

Ogni resistenza ha una componente pasquale, di resurrezione; è un risorgere dalla morte, da quella falsa vita che si spaccia per immutabile e definitiva ossia finita e dunque morta.

Anche oggi, dinanzi al dilagare di confusione, volgarità, prepotenza, corruzione, sconcezza che sommerge il Bel Paese come liquami che salgano dalle fognature, è forte la tentazione di arrendersi, di lasciarsi andare, di credere che l’andazzo disgustoso sia uno stadio ultimo, che una vera mutazione antropologica abbia creato un nuovo tipo d’uomo, un non-cittadino, e che questa specie, nella selezione darwiniana, sia fatalmente dominante. L’indifferenza che mette in soffitta la Resistenza vera e propria e l’attentato alla Costituzione, che da essa è nata e che è la spina dorsale dell’Italia civile, sono un sintomo fra i tanti di questa involuzione morale. Ma proprio quella data insegna a non scoraggiarsi; ricorda come credere che tutto sia perduto e che non si possa più reagire sia una tentazione, stupida come lo sono in genere le tentazioni. C’è un’altra Italia possibile, rispetto a quella che oggi subiamo. Non è il caso di fare inchini al mondo così com’è e come esso pretende, anche perché, se proprio si è costretti a farlo, ci si può inchinare come Bertoldo, che si piegava davanti ai potenti, ma voltandosi dall’altra parte.

Claudio Magris

24 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_24/


Titolo: Claudio MAGRIS L'assuefazione per quei morti
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 10:48:06 am
L'intervento

L'assuefazione per quei morti

L'abitudine alle sciagure che colpiscono i profughi accresce la distanza tra chi soffre e noi


Su alcuni giornali, duecento morti o dispersi in mare come quelli dell'altro ieri, in una fuga della disperazione, non finiscono neppure più in prima pagina, scivolano in quelle seguenti fra le notizie certo rilevanti ma non eclatanti. Per sciagure analoghe, solo qualche anno fa pure un presidente del Consiglio si commuoveva o almeno sentiva il dovere di commuoversi pubblicamente. Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un'eccezione sia pur frequente, bensì una regola.

Diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive.
Questa assuefazione che conduce all'indifferenza è certo inquietante e accresce l'incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell'attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno.

Diversamente da altri casi, in cui l'indifferenza o la livida ostilità si accaniscono sullo straniero, sul miserabile, su chi ci è etnicamente o socialmente diverso, in questa circostanza la nostra insensibilità non nasce dalla provenienza e dall'identità a noi ostica di quelli annegati. Nasce dalla ripetizione di quei drammi e dall'inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati italiani caduti in Afghanistan, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti come una consuetudine.

Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo; pure la commozione per qualche delitto particolarmente raccapricciante, ad esempio l'efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l'ordine del mondo né il cuore. L'assuefazione - alla droga, alla guerra, alla violenza - è la regina del mondo. «Bisogna pur vivere - si dice in un romanzo di Bernanos - ed è questa la cosa più orribile».

Forse una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un'altra e poi un'altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo - perché, a differenza di Cristo, non possiamo veramente soffrire per tutti, così come non ci rattrista la lettura degli annunci mortuari nei giornali - non possiamo affidarci solo al sentimento per essere vicini agli altri. Il nostro sentimento, comprensibilmente, ci fa piangere per un amico che amiamo e non per uno sconosciuto, ma dobbiamo sapere - non astrattamente, ma realmente, con la comprensione di tutta la nostra persona - che uomini da noi mai visti e non concretamente amati sono altrettanto reali.

Sta qui la differenza tra il pensiero reazionario e la democrazia. Il reazionario facilmente irride l'umanità astratta e l'astratto amore ideologico per il genere umano, perché sa amare il proprio compagno di scuola, ma non sa veramente capire che anche compagni di scuola di persone a lui ignote sono altrettanto reali; non astrazioni ma carne e sangue. La democrazia - schernita come fredda e ideologica - è invece concretamente poetica, perché sa mettersi nella pelle degli altri, come Tolstoj in quella di Anna Karenina, e dunque pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare.

Claudio Magris

04 giugno 2011(ultima modifica: 05 giugno 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/cronache/11_giugno_05/


Titolo: Claudio MAGRIS La vacanza dell'assassino
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2011, 05:19:11 pm
I DIFENSORI DI CESARE BATTISTI

La vacanza dell'assassino

Dunque Cesare Battisti, il killer che ha assassinato quattro persone e reso paralizzata per sempre una quinta - senza dimostrare mai, a differenza di altri suoi colleghi nel crimine, pentimento per i suoi delitti o pietà per le sue vittime e i loro familiari, a parte una frettolosa dichiarazione di queste ultime ore - potrà godersi deliziose vacanze a Copacabana, coltivare le sue amicizie altolocate.

La Francia - che ha rifiutato a suo tempo l'estradizione di Battisti in Italia - è forse il Paese migliore del mondo, quello che combina nella misura più felice o meno infelice ordine e libertà, i due poli della vita civile. Ma anche la Francia è culla di qualche supponente e spesso ignorante conventicola intellettualoide che trancia giudizi ignorando i fatti. In questo caso, per pura ignoranza - mista a civetteria - alcuni autentici e/o sedicenti intellettuali hanno scambiato Battisti per un martire della Resistenza, come se noi dichiarassimo che un fascistoide antisemita quale Papon è un eroe della Résistence.

Con i terroristi di casa loro, quali i membri di «Action Directe», il governo francese ha usato il pugno di ferro e non ci sono state grandi proteste. Le Brigate Rosse - questi pezzenti della politica, che disonorano un colore per noi sacro disse il presidente Pertini - hanno colpito l'Italia più aperta e civile; hanno assassinato non già corrotti, mafiosi o golpisti (il che sarebbe stato comunque un grave reato) ma i rappresentanti dell'Italia migliore, un'Italia più libera e democratica che avrebbe potuto essere diversa da quella di oggi; uomini come l'avvocato Croce, l'operaio comunista Guido Rossa, giornalisti come Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il professor Bachelet e molti altri, fra i quali numerosi magistrati. (Il 5 maggio 2003 in un'intervista sul Corriere, Toni Negri si dichiarava solidale con Berlusconi in quanto entrambi perseguitati dalla magistratura). Non a caso, all'epoca dei processi contro i brigatisti rei di omicidio, quando alcuni giurati declinavano per timore l'incarico, ad offrirsi di sostituirli era, ad esempio a Torino, un militante antifascista resistente come Galante Garrone; sempre a Torino, un altro impavido comandante partigiano, il grande storico Franco Venturi, appresa la notizia del rapimento Moro e della mattanza della sua scorta - eravamo per caso insieme, nella presidenza della facoltà di Lettere - disse che forse si sarebbe dovuto ritornare in montagna. La profondità politico-filosofica delle Brigate Rosse può essere riassunta nella frase di quel brigatista pentito il quale dichiarò che, avendo avuto nel frattempo una figlia, aveva capito che non è lecito uccidere un papà, come se fosse invece meno grave uccidere chi è soltanto zio. Francesco Merlo ha scolpito con la sua consueta forza la malafede di tutta questa vicenda, ricordando, egli scrive, il ghigno ammiccante di Battisti che non ha neppure la dignità del duro. Si pensi, per contrasto, alla dignità con la quale altri pure passati attraverso quegli anni di piombo - ad esempio Sofri - hanno saputo fare i conti con se stessi.

Ora Battisti potrà scrivere in pace i suoi gialli - anzi, noir suona più fascinoso - anche perché è un genere in cui si muove bene, grazie alla sua familiarità con gli assassinii. Mi viene in mente un vecchio racconto di fantascienza, in cui si immagina che i fatti e gli eventi obbediscano a un copione in cui tutto è già stato scritto da sempre, ma in cui ci sono errori di stampa che, tradotti in realtà come ogni parola di quel testo misterioso, creano assurdi pasticci: ad esempio, se invece di scrivere «negare i fatti» si digita «annegare i gatti», ecco che ciò provoca una strage di felini. Forse, in quel testo, si è fatta confusione tra due Cesare Battisti, il patriota di cent'anni fa e il killer di oggi, e a finire impiccato a Trento, quella volta, non è stato quello che era previsto.

Claudio Magris

11 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_11/


Titolo: Claudio MAGRIS L'infinita idiozia del Male
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 12:02:43 pm
Alle radici dell'orrore

L'infinita idiozia del Male

Il dolore, il cordoglio del mondo

di CLAUDIO MAGRIS


Finché non emergeranno inoppugnabili - per ora altamente improbabili - prove di una cospirazione terroristica, l'inaudito massacro norvegese va considerato un fatto di cronaca nera, ancorché di immani proporzioni. Esistono certo nel mondo tante e antitetiche associazioni terroristiche capaci di qualsiasi efferatezza, ma esiste anche il crimine - ancor più misterioso e più inquietante proprio perché spesso apparentemente immotivato - che nasce, si organizza e si consuma nella mente di un solo individuo, all'infuori di ogni pur delirante progetto politico.

Come ha scritto sul Corriere Pierluigi Battista, cercare sempre il complotto (a suo modo razionale pur nella sua perversità), la spiegazione politica e sociologica, un preciso disegno collettivo, è un modo inconsapevole di rassicurarsi, identificando un ordine pur abbietto; un modo di abbandonarsi a fantasticherie su trame enigmatiche, fondamentalmente paurose ma anche involontariamente gratificanti, come è spesso gratificante soffermarsi sulle vaghe immagini dell'incubo, dell'orrore e della paura. Interpretare o cercare di interpretare dà sempre conforto, quando non addirittura supponente compiacimento; dinnanzi a tanti delitti ancora insoluti i pareri sulle loro più o meno nascoste motivazioni sembrano più importanti (e occupano più spazio nei giornali) delle indagini, che invece sono in quel momento la prima e forse l'unica cosa che conti.

Certamente, come diceva uno strombazzato e spesso pappagallesco ma veritiero slogan sessantottesco, «tutto è politico». Nessun individuo arriva dalla luna. Ognuno è intessuto del mondo in cui vive, sia egli un solitario misantropo o il più socievole degli uomini; vive nel mondo e almeno in parte lo assorbe, mescola al proprio dna ciò che penetra consapevolmente o inconsapevolmente in lui dalla realtà esterna. Non c'è idea, passione, abitudine, desiderio, paura, comportamento che sia unicamente nostro; è vero che, come dicevano i filosofi Scolastici, l'individuo è ineffabile o almeno che c'è in ognuno qualcosa di ineffabile, ma anche questa imprendibile e mobile ombra del nostro cuore è intessuta di socialità.

Detto questo, resta una netta differenza tra il gesto individuale di una persona e un progetto, collettivo anche se messo in atto individualmente, di un'organizzazione. L'omicida norvegese sembra assimilabile, con alta probabilità, ai Landru o a Jack lo Squartatore - pure essi, come tutti, figli del loro tempo - piuttosto che agli assassini dell'Italicus o di Piazza Fontana. Sarebbe infame usarlo per infangare l'uno o l'altro movimento politico. Il suo gesto atroce mostra la continua latenza del male, la sua possibilità di scatenarsi in qualsiasi inatteso momento; rivela la nostra convivenza quotidiana, gomito a gomito, con il male, sempre in agguato e talora spaventosamente in azione. Quella macelleria di esseri umani mostra pure l'infinita banalità e idiozia del male e della violenza, che tante volte ci vengono invece mostrati quasi avvolti di seduzione, espressioni di chissà quali infere ma profonde verità; il coltello di Jack lo Squartatore sembra aver affascinato come la spada di un angelo diabolico tante persone, anche se non certo il ventre squarciato e le sofferenze delle donne da lui uccise, le uniche, vere protagoniste di quella tragica storia, in cui lui è una sia pur sciagurata comparsa. È una vergogna, pur inevitabile, mandare a memoria il nome dell'assassino norvegese e non quelli delle sue vittime.

Quel meccanico e ripetuto premere il grilletto fa assomigliare quell'assassino al meccanismo di una mostruosa catena di montaggio. Naturalmente anch'egli è un uomo la cui umanità non si esaurisce nei suoi crimini, uomo che va perseguito ma anche tutelato secondo la legge uguale per tutti, anche per gli efferati assassini; un uomo che probabilmente avrà avuto le sue ossessioni, le sue sofferenze, le sue paure. Si può e si deve avere rispetto - a parte la qualificazione giuridica dei suoi atti e la pena da essi richiesta - perfino per lui, ma non - secondo la banale retorica del male - perché è un assassino, bensì nonostante sia un assassino. Il suo delitto è la cosa non solo più orrenda, ma anche più stupida, più meccanica, più ottusa della sua vita. L'omicida di oltre 90 persone pare si sia definito «un fondamentalista cristiano», termine privo di qualsiasi senso. Spesso, fra l'altro, si identifica erroneamente il fondamentalismo con l'integralismo, specialmente religioso, di una o di un'altra fede (oggi soprattutto quella islamica), e in generale con una forma particolarmente intollerante di tradizionalismo religioso. Il fondamentalismo ha poco o nulla a che fare con la tradizione, anche con quella più gelosamente custode dell'osservanza e dell'immobilità di un credo. Il fondamentalismo non è un fenomeno tradizionale, radicato nel passato, ma è un fenomeno squisitamente moderno, caratteristico delle società di massa e della globalizzazione, così come - per fare un esempio - il fascismo è un fenomeno totalitario moderno radicalmente diverso dagli autoritarismi del passato.

Quel dito meccanicamente omicida non dovrebbe indurre a riflessioni sulle società ricche e tranquille come quella norvegese o a disquisizioni del genere. Altre forme del male - queste sì politiche, sociali, collettive - giungono non solo da società arretrate e barbariche, bensì pure da società aperte e civili, considerate modelli di democrazia quali ad esempio l'Olanda o certi Paesi scandinavi in cui avanzano aggressivi movimenti xenofobi in aperto contrasto con la tradizione dei loro Paesi. Se la xenofobia è più forte in Olanda che in Spagna, ciò deriva forse dal fatto che la cultura di quest'ultima, come di altri Paesi, ha conservato più a fondo quel senso sacro della vita che distingue fortemente i molti, moltissimi valori che devono essere messi in discussione da quei due o tre valori essenziali (per esempio l'uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dall'appartenenza sessuale, etnica, religiosa o di altro genere) che dobbiamo considerare come assoluti, non più discutibili e non più negoziabili. Molto, quasi tutto, deve essere optional , ma non tutto. Quando «tutto è possibile», come scriveva con orrore Dostoevskij, il mondo diventa orribile. Ma non si può fare di questo una colpa all'assassino norvegese, né fondamentalista né cristiano; è sufficiente addebitargli oltre 90 omicidi.

25 luglio 2011 08:51
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_25/magris-infinita-idiozia-male_0c792edc-b681-11e0-b3db-8b396944e2a2.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS soffia la bora sul mare di Barcellona - di Bruno Quaranta
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 07:04:59 pm
Cultura

10/04/2011 - INTERVISTA

Magris, soffia la bora sul mare di Barcellona

iPad, intervista a Claudio Magris

«La mia Trieste, crogiolo ma anche muro fra mondi diversi». La Spagna dedica una mostra all’autore di Danubio e alla sua città

BRUNO QUARANTA

Nell’infinito viaggiare, Claudio Magris ha fatto vela verso l’altro mare di Barcellona; lì, all’ombra di Gaudí, restaurando l’inseparabile culla, Trieste. In terra di Spagna, il timoniere di Danubio, dopo il premio Principe di Asturias, una sorta di pre-Nobel, riceve l’omaggio (una mostra dal titolo La Trieste di Magris nel Centro di cultura contemporanea fino al 17 luglio) toccato finora a Borges, Joyce, Kafka, Pessoa, per la regia di Giorgio Pressburger, fra i custodi del mito absburgico, originario com’è di Budapest. «La realtà è un teatro di posa continuamente smontato e noi ci muoviamo in esso come Don Chisciotte nella Mancha», è solito rammentare Magris. Una verità che il trasloco nella capitale catalana ulteriormente lucida. Un baule stipatissimo, una fuga di stanze che accolgono la bora (un’alchimia di motori la interpreta), i manoscritti, il Caffè San Marco, la libreria antiquaria di Saba, il Carso, la rivoluzione di Franco Basaglia...

Magris e la Spagna. In qualche modo affini?
«Il mio passaporto è Danubio, la metafora del trasloco che è, spirituale, culturale, politico. Un Paese che ha vissuto così intensamente il trasloco della Storia come la Spagna lo ha sentito profondamente suo».

Spagna e Italia, entrambe hanno alle spalle una guerra civile...
«Dove sta la differenza? Come la guerra civile si è riverberata in Spagna e in Italia? In Spagna, per cominciare, l’epoca di Franco si è esaurita negli anni 70, in un diverso contesto europeo. A colpirmi è stata la volontà nitida di andare oltre, suggellando un patto di oblio, pure non avaro di scorie, di ambiguità, come rifletterà Marías. In Italia, invece, da una parte e dall’altra, è prevalso l’uso strumentale del passato in chiave politica, ora accendendo ora spegnendo i riflettori. A un foglio di destra che mi interpellava, ho opposto: “Già trent’anni fa parlavo delle foibe sul Corriere della Sera. Voi dove eravate?”».

La mostra di Barcellona. Che cosa la accomuna ai suoi predecessori: Borges, Joyce, Kafka, Pessoa?
«Sicuramente il carattere problematico e mitico del rapporto fra lo scrittore e il suo mondo».

Fino a dire, per esempio con Borges, che la propria città assurge a vizio («... il brutto vizio di Buenos Aires»)?
«Sì, Trieste è anche un vizio».

Di vizio in vizio. Il vizio del fumo, così sveviano.
«Nasceva centocinquant’anni fa Italo Svevo. Non se n’è riconosciuta ancora appieno la grandezza. In letteratura ha fatto ciò che è riuscito a Nietzsche in filosofia: svellere i fondi, calarsi in un abisso vertiginoso. Una voce del nichilismo. Ha avvertito ogni squasso, ogni squartamento, intuendo la mutazione della specie umana, il passaggio verso una specie post-umana. Sicuramente svetta su Joyce, che assicura il piacere classico del testo, porgendo al lettore ciò che desidera ricevere. Era un genio, neanche intelligente, come asseriva Barthes...».

Trieste. Lei ha osservato che in molti casi «è chi rimane che riesce a recidere il regressivo cordone ombelicale e a liberarsi dell’incantesimo edipico». Essendo lei un viaggiatore, verrebbe da concludere che l’incantesimo, semmai, si è amplificato.
«Non per me. Trieste non è la mia unica città. E’ una delle due. La seconda è Torino, dove ho studiato e insegnato e vissuto, tra sentimenti, delusioni, insonnie... Due le città, un rapporto forte, ma libero con entrambe, due le famiglie, ecco perché nel mio bagaglio non c’è Edipo».

Trieste, ovvero la psicoanalisi, in Spagna meno in auge...
«Con la psicoanalisi non ho una relazione stretta. Credo che sia più significativa da un punto di vista terapeutico che non culturale. Come non ritengo, a differenza di Cesare Pavese, che mini la creatività. Scavare, scoprire, piuttosto, accresce la meraviglia».

Trieste, dove la psicoanalisi è un surrogato della mancante religiosità. La Spagna, di possente tradizione religiosa...
«Trieste borghese, o della mistica commerciale, quindi orizzontale, quindi, di per sé, non religiosa. Con alcune, sovrane eccezioni, come Umberto Saba: lo scortava il senso del sacro, la consapevolezza di una presenza divina nella vita, un respiro trascendente. A differenza di Svevo: riteneva che non ci fosse alcun “oltre”, ancorché questo non gli bastasse, non lo soddisfacesse. Circa la Spagna: ad attrarmi è la religiosità eterodossa, penso a Unamuno di San Manuel beuno martire, il sacerdote che giunto a non credere più nella resurrezione continua ad annunciarla ai fedeli».

Trieste città cosmopolita, crogiuolo di razze, di etnie, di lingue. Un modello per l’oggi?
«Crogiuolo, certo, e insieme muro. Italiani e sloveni di odî e di torti reciproci ne hanno accumulati. Come non sono mancati gli avvicinamenti e i riavvicinamenti. Penso al teatro intitolato a Verdi dov’è stata rappresentata Nekropola, la trasposizione teatrale del romanzo di Boirs Pahor Necropoli».

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/397248/


Titolo: Claudio MAGRIS L'attentato di Boston Semplicemente assassini
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2013, 11:42:24 am
L'attentato di Boston

Semplicemente assassini

di  CLAUDIO MAGRIS


Non credo abbia molto senso chiedersi, come alcuni fanno, come mai e perché il terrorismo stavolta abbia scelto, per il suo bagno di sangue, un'occasione come la maratona di Boston, una manifestazione dal carattere particolarmente popolare, meno collegabile di altre a centri o a simboli di potere.
Certamente il terrorismo o meglio i terrorismi hanno pure i loro rituali simbolici, talora un perverso e sacrale fanatismo moralistico, come quello che, in un articolo di molti anni fa, Moravia rilevava nella lettera con cui gli assassini della Raf, in Germania, annunciavano, con un tono da austeri giudici, la condanna a morte dell'industriale Hans Martin Schleyer per la sua vita considerata indegna.

Ci sono vari terrorismi, si dice giustamente, e si osserva, ancor più giustamente, che essi hanno radici e origini diverse, talora in ideologie e più spesso in situazioni umane intollerabili o in conflitti sociali, nazionali, religiosi. Senza risolvere, si dice, le sue cause prime - ingiustizie sociali, focolai di guerra - non si elimina il terrorismo. Tutto questo è giusto, ma serve, nel migliore dei casi, a impedire un terrorismo di domani, il che sarebbe già straordinario. Dinanzi a un terrorismo organizzato - comunque sia nato in origine, anche da proteste legittime - l'unica cosa da fare è trovare i mezzi e i modi per stroncarlo. La parola - quando succede ciò che è successo a Boston e, spesso più atrocemente, altrove - non spetta ai commentatori, ai filosofi, ai sociologi, ma, tecnicamente, alle forze incaricate di combattere il terrorismo; gli infiltrati contano più degli opinionisti o degli storici.

La lotta al terrorismo è difficile, per varie ragioni. Al terrorismo non interessa tanto uccidere quanto paralizzare un Paese con i controlli che la sua minaccia richiede; pochi uomini organizzati possono mettere in ginocchio le comunicazioni e la vita quotidiana di un Paese. Inoltre ciò può mettere di fronte alla difficile scelta tra la tutela della vita delle persone, che esige misure di sicurezza paralizzanti per tutti, e l'efficienza del Paese, che mal sopporta quelle misure. Inoltre il vertiginoso progresso tecnologico ha diminuito la differenza tra la potenza di cui dispongono gli Stati e quella di cui possono disporre piccoli gruppi di individui. Sotto questo profilo si ritorna, paradossalmente, a situazioni arcaiche fino a poco fa capovolte dal divenire storico. Il capo di una tribù primordiale disponeva delle stesse armi dei suoi avversari, clave e frecce; poteva solo avere più seguaci. Il progresso tecnico ha aumentato, nei secoli, la disuguaglianza tra le armi degli eserciti e delle polizie e quelle di chi si ribellava all'ordine vigente: era facile, per il generale Bava Beccaris massacrare bestialmente i dimostranti milanesi nel 1898. Anche gli strumenti del controllo, dell'informazione, della comunicazione erano in mano al potere costituito. La nostra epoca è, dal punto di vista tecnologico, anche l'era del terrorismo.

Oggi invece, anche se non nel caso di Boston, le sofisticatissime conquiste della scienza e soprattutto della tecnologia mettono a disposizione di un gruppo di agguerriti kamikaze e sicari esperti di informatica quasi gli stessi strumenti di cui si servono gli Stati e i vari servizi segreti che danno loro la caccia, anche se fortunatamente non ancora la bomba atomica, come anticipano tanti film. Ciò rende ancor più difficile la lotta al terrorismo. Lotta per altro ardua anche perché spesso tortuosa, ambigua; non sempre è una chiara e limpida lotta dello Stato contro il terrorismo, come tra lo sceriffo e i fuorilegge nel «western», bensì talora è compromissione e scambio di ruoli, forze dello Stato che si infiltrano nelle organizzazioni terroriste non per annientarle ma per usarle contro altre forze dello Stato, come è accaduto in Italia con la vicenda delle Brigate rosse e dell'assassinio di Moro, vicenda tragica ma anche sordida, e come è forse accaduto anche in altre circostanze, in altri Paesi, in altri eccidi.

Perfino la Storia è ambigua con il terrorismo perché, con il passare del tempo, confonde i ruoli a seconda di chi abbia vinto o perso; Guglielmo Oberdan è un eroe per gli italiani, un terrorista per gli austriaci. Qualcuno si è chiesto, pensosamente, cosa sentano e provino gli uccisori vedendo il sangue degli uccisi a Boston o altrove. Interessa poco capire la psicologia e i sentimenti di un assassino. Interessa di più che sia individuato e messo in galera - cosa, purtroppo, più difficile.

Claudio Magris

17 aprile 2013 | 9:29

da - http://www.corriere.it/esteri/13_aprile_17/semplicemente-assassini-magris_894dcce6-a730-11e2-ae64-724b68a647ec.shtml



Titolo: Claudio MAGRIS La morte di Mimmo, una cicatrice sul volto del Paese
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:19:52 pm
Il caso
La morte di Mimmo, una cicatrice sul volto del Paese
Un mese fa il delitto di Palagiano: uccisi il bimbo di 3 anni, la madre e il compagno della donna.
Una strage già dimenticata?

di Claudio Magris

La Procura della Repubblica e la Questura di Taranto, il Comando provinciale del Carabinieri e gli altri organi e forze di Pubblica Sicurezza del territorio in cui un mese fa è avvenuto l’immondo e atroce delitto di Palagiano - tre persone assassinate, fra cui un bambino di tre anni cui i criminali, una sottospecie antropoide, hanno sparato in faccia - stanno dedicando tutti i loro sforzi alla ricerca dei bestiali colpevoli, esecutori e mandanti. Poliziotti e carabinieri hanno rinunciato a giorni e ore di ferie per intensificare e accelerare quelle ricerche, divenute un centro dell’interesse e della passione di quella regione, mentre nel resto del Paese, travolti come si è da tanti problemi, sciagure e anche meschinità, ci si bada assai poco, non è più un problema all’ordine del giorno. È forse un altro esempio della spaccatura dell’Italia, delle due Italie e in particolare della distanza fra Nord e Sud del Bel Paese. È ovvio che ogni problema o sciagura vengano affrontati in primo luogo da chi ha competenza e responsabilità nel luogo in cui essi avvengono; anche il terremoto dell’Aquila investe prima i vigili del fuoco abruzzesi piuttosto che quelli sardi, anche se gli aiuti hanno visto unità di intervento provenienti da ogni parte. Ma il terremoto dell’Aquila è una calamità nazionale, non solo abruzzese; egualmente lo scopo che le autorità di Taranto e della zona si prefiggono, la cattura degli insetti velenosi cui si deve quell’atrocità, è un problema nazionale, che dev’essere seguito con tutto l’interesse, la passione, l’amore o l’odio con cui si seguono i grandi eventi - luttuosi, festosi, tragici, efferati, gloriosi, a seconda dei casi - che segnano, come cicatrici, e anzi costituiscono il volto del Paese, di tutti noi.

18 aprile 2014 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_18/morte-mimmo-cicatrice-volto-paese-e45acd6a-c6c3-11e3-ae19-53037290b089.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Le ragioni dell’identità europea Il passaporto della civiltà
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2014, 06:29:15 pm
Le ragioni dell’identità europea
Il passaporto della civiltà

Di CLAUDIO MAGRIS

Con l’Europa, succede quello che succedeva a Sant’Agostino col tempo: quando non ci si chiede cosa sia, si sa cos’è, ma quando lo si domanda, non lo si sa più. Se per Europa s’intende non solo un’espressione geografica o un progetto politico, bensì una civiltà, un modo di essere, un’appartenenza culturale, è difficile e forse pure retorico discuterne. Si può vivere questo senso di appartenenza, sentirsi a casa - almeno parzialmente - anche al di fuori del proprio Stato o della propria lingua, così come si vive l’amore per un paesaggio o per una persona, oppure lo si può raccontare, farlo sentire, ma in modo indiretto, come fa la letteratura.

Si può - si deve - parlare dei problemi concreti che ha oggi l’Europa, di ciò che favorisce oppure ostacola il processo di una sua reale unificazione, delle possibilità o difficoltà di arrivare un giorno - malgrado l’attuale gravissima crisi - a un vero e proprio Stato europeo. Si può - si deve - parlare dell’euro, della disoccupazione, dell’immigrazione e della necessità di leggi comuni a tutti i Paesi.

È invece arduo e rischioso voler definire la cultura europea. Tuttavia se ne possono forse tracciare alcune linee fondanti. A differenza di altre grandi civiltà, l’Europa, sin dalle sue origini, ha posto l’accento non sulla totalità (statale, politica, filosofica, religiosa) bensì sull’individuo e sul valore universale di alcuni suoi diritti inalienabili. Dalla democrazia della Polis greca al pensiero stoico e cristiano col suo concetto di persona, dal diritto romano con la sua tutela concreta dell’individuo all’umanesimo che ne fa la misura delle cose, dal liberalismo che proclama le sue intoccabili libertà al socialismo che si preoccupa del loro esercizio concreto e delle possibilità di vivere una vita dignitosa, il protagonista della civiltà europea è l’individuo, che la letteratura e l’arte raffigurano nella sua irripetibile e inesauribile complessità, che Kant proclama essere un fine e mai un mezzo.

La civiltà europea contiene un grande potenziale antitotalitario ed è stata la «culla dei diritti umani» validi per tutti gli uomini, di principi universali che trascendono ogni orizzonte storicamente limitato e dunque pure l’orizzonte europeo e gli interessi dell’Europa. Antigone afferma le «leggi non scritte degli dèi» che nessuna legge positiva dello Stato può violare; di qui si arriverà, in un lungo e contorto processo, agli inalienabili diritti di tutti gli uomini, proclamati dalla costituzione americana del 1776 e da quella francese del 1792, sino ai diritti civili che comprendono pure la «disobbedienza civile», formulata da Thoreau, nei riguardi dello Stato quando esso violi quei diritti la cui estensione è ancora in corso, anche se contraddetta da tante situazioni di barbarie.

25 maggio 2014 | 08:19
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_25/passaporto-civilta-0bd3b142-e3d2-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Striscia di Gaza L'orrore senza fine
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2014, 08:49:39 am
Striscia di Gaza
L'orrore senza fine
Il bombardamento sulla spiaggia e i quattro bambini morti

Di Claudio Magris

La morte orribile e straziante dei quattro bambini palestinesi intenti a giocare o ad aiutare i padri pescatoria gettare le reti - morte che si aggiunge a quella di tante altre vittime egualmente innocenti di una parte e dell’altra e alla quale seguiranno verosimilmente altre morti altrettanto strazianti ed orribili - non tollera alcuna effusione sentimentale, che dinanzi alla terribile realtà suonerebbe retorica anche se sentita profondamente.

È ovvio, e un dovere, dinanzi a questa realtà, gridare che la guerra deve finire. Ma la morte cesserà di essere la regina in quelle terre non certo soltanto se esprimiamo il nostro sdegno per un crimine o un altro, il nostro lutto per vite come queste e tante altre stroncate in una assoluta assurdità.

La morte di qualsiasi bambino - e certo non solo di un bambino ma di chiunque, a cominciare dai tre israeliani rapiti - sotto qualsiasi bomba è un momento in cui la vita, la Storia, il potere politico mostrano il loro volto più imbecille e sanguinoso. Ma tutto ciò potrà cessare, in quei Paesi, soltanto se i contendenti saranno capaci di risolvere realmente il loro conflitto, di rimuovere ed eliminare le cause oggettive che portano inevitabilmente all’orrore, oppure se, nel gioco della politica mondiale, si riuscirà ad imporre loro la pace, una pace reale.

Entrambe le ipotesi - le uniche suscettibili di porre fine alla barbarie - appaiono altamente improbabili ed è invece tragicamente probabile che ci attendano altre catastrofi umane.

17 luglio 2014 | 16:55
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DA - http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_17/orrore-senza-fine-8056448a-0dc1-11e4-9f11-cba0b313a927.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Tra tanti negozi vuoti la gola è l’ultimo appetito a morire
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2014, 06:29:47 pm
La crisi e noi

L’impresa di resistere alla crisi in un Paese stanco e senza più passioni
Il declino economico sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza quanto rassegnazione.
Tra tanti negozi vuoti la gola è l’ultimo appetito a morire

Di CLAUDIO MAGRIS

Nel Tramonto dell’Occidente - libro che negli anni Venti ebbe un enorme successo per il suo pathos epocale e il suo miscuglio di intuizioni geniali ed enfasi apocalittica zeppa di strafalcioni logici - Spengler annunciava che la civiltà occidentale - per lui sostanzialmente germanica - esaurito il suo slancio faustiano di espansione e di conquista sarebbe presto morta. Il suo ultimo stadio sarebbe stata una sua pallida ed esangue copia collocata vagamente in Oriente, fra la Vistola e l’Amur, presto destinata a spegnersi. Non è il caso di lasciarsi affascinare dai bagliori della decadenza - già la musica e il suono della parola «Occidente» hanno una seduzione di declino - né dai profeti quasi sempre soddisfatti di proclamare sventure e impermaliti, come Giona, quando tali sventure non si avverano. Se la nostra civiltà occidentale ha certo le sue gravi difficoltà, nelle altre parti del mondo e nelle altre culture non si sta molto bene.

È innegabile tuttavia che la descrizione di quella civiltà spenta e opaca, priva di passioni, che Spengler situa in un’Europa orientale semiasiatica, assomiglia all’atmosfera che, da non molto tempo ma sempre più diffusamente, si è creata nel nostro Paese. La crisi economica sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza, quanto una fiacca rassegnazione. Certamente vi sono molti individui che lottano, con le unghie e con i denti, per la loro esistenza e per la dignità della loro esistenza. Sono essi i protagonisti, i combattenti di questa difficile battaglia. Quello che resiste è il più autentico capitalismo legato ancora all’iniziativa individuale, al rapporto diretto tra il lavoro e il profitto, alla piccola attività ed impresa, mentre il grande capitalismo dei tronfi ed inetti signori del mondo, sempre più anonimi e scissi dalla dura realtà del lavoro, è spesso largamente, talvolta criminosamente colpevole della crisi.

Ma la nostra società sembra aver perso, in generale, mordente, slancio, capacità di progetto e di protesta, passione. Ciò che manca, da qualche tempo, è soprattutto la passione politica, che ha contrassegnato - con le sue lotte, i suoi furori, le sue faziosità, i suoi ideali - la vita del Paese dal Dopoguerra (l’antifascismo e i diversi antifascismi, lo scontro tra comunismo e democrazia liberale, la tumultuosa crescita economica che portava con sé tensioni, entusiasmi e progressi sociali) agli anni dei governi Berlusconi, che scatenavano ancora amori e odi. L’ultima fiammata di irruente accensione degli animi è stato il Movimento 5 Stelle, che tuttavia non solo sembra affievolirsi, ma che non pare essere stato, a differenza di altre formazioni pur tendenti all’estremismo, una componente organica del Paese.

L’Italia sembra vivere stanca, depressa ma senza drammi, indifferente alla politica ovvero al proprio destino, giacché la politica è la vita della Polis, della comunità. Un Paese senza. Fra i negozi vuoti spiccano le trattorie e i ristoranti, decisamente più frequentati; la gola è l’ultimo appetito a morire, resiste alla depressione e alla mancanza di senso più del sesso. Speriamo di non essere alle soglie di un abisso, come negli anni Venti; in ogni caso, manca quella frenesia trasgressiva e disperata di vita che c’era in quegli anni sciagurati ma vivi e che risuona nelle canzoni di Brecht o nelle musiche di Cabaret. La nostra esistenza assomiglia piuttosto a quella di un personaggio di Gozzano, Totò Merùmeni: «E vive. Un giorno è nato, un giorno morirà».

1 settembre 2014 | 07:39
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_settembre_01/impresa-resistere-crisi-un-paese-stanco-senza-piu-passioni-2da9be0a-3199-11e4-a94c-7f68b8e9ffdd.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Il pianto dei soccorritori a cui vorremmo assomigliare
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2014, 06:26:29 pm
Il pianto dei soccorritori a cui vorremmo assomigliare
La scelta di Catia tra i naufraghi da salvare. Il video sconvolgente di Corriere.it

Di Claudio Magris

Dinnanzi alle immagini del video, ai volti del comandante Catia e dei marinai e alle loro parole, a chi sta annegando o è annegato o viene salvato, ogni commento è penoso come una predica. È come se, mentre quei marinai cercano di salvare più vite possibili, qualcuno seduto sulla spiaggia tenesse una nobile conferenza. Quell’ennesima tragedia nel canale di Sicilia fa sentire cosa possano essere, in ogni circostanza nel mare della vita, la prontezza fisica, la disponibilità a buttarsi in aiuto di qualcuno, virtù militari e non solo militari.

Vedendo «La scelta di Catia» mi venivano in mente le pagine di Solgenitsin in «Agosto 1914», in cui egli contrappone gli intellettuali parolai al maresciallo che nel fuoco della battaglia non perde la testa e salva la vita a qualcuno, anche a un nemico ferito. Colpisce, nelle laconiche dichiarazioni dei soccorritori, non solo la generosa e trattenuta emozione, ma anche la consapevolezza del proprio stato fortunato rispetto a ciò che avviene nel mondo, consapevolezza che è rara, perché quasi ognuno, anche se sta bene, si sente incompreso e mal ripagato dagli altri e dal destino e mostra spesso alla vita un viso risentito e inappagato, ben diverso dalle facce di quei marinai, facce di belle persone cui vorremmo assomigliare. Colpisce il loro conflitto tra la pietas nei confronti dei morti e la necessità di abbandonarli per salvare gli altri, quasi obbedendo alla dura parola di Gesù che ammonisce a lasciare che i morti seppelliscano i loro morti.

Questo tragico naufragio, per una volta tanto, non è doloso. Ma troppi altri, vere stragi, sono stati causati dai mercanti di questi nuovi schiavi. Il loro problema, con tutte le implicazioni umane, politiche e sociali, è un problema non solo italiano ma europeo, di quell’Europa di cui l’Italia è una punta protesa sul mare che bagna pure l’Africa come lo è la Sicilia per l’Italia. L’immigrazione clandestina è un dramma per gli sventurati che ne sono protagonisti-vittime, per le strutture spesso insufficienti ad accoglierli, per il loro numero che può rendere insufficienti anche le strutture più adeguate, per le difficoltà economiche e psicologiche che arrivi massicci creano oggettivamente nel Paese d’arrivo, specie in momenti di crisi. Ma quando al problema di per sé drammatico per tutti dell’immigrazione di dannati della terra si aggiunge il loro criminale sfruttamento foriero di morte, tutto ciò diviene una vera guerra. Il traffico degli schiavi deve essere affrontato con la durezza con cui si affronta un nemico in guerra.

Ho letto qualche settimana fa di un noto scafista capoccia di negrieri arrestato per sette volte e dunque per sei volte rilasciato. Evidentemente la pena, in quel caso, non ha avuto il potere deterrente che fa parte del ruolo della pena; quel delinquente non è uscito dalla galera sufficientemente spaventato per non ripetere i suoi crimini. A parte questo caso, che va giudicato in sé conoscendo tutti i suoi elementi attuali e formali giuridici, fra le misure per fronteggiare queste tragedie ci deve essere anche — non certo soltanto, ma anche — un apparato repressivo particolarmente duro. Come nel caso della delinquenza organizzata, dinanzi a questa nuova tratta ci si trova in una vera e propria guerra e bisogna comportarsi come ci si comporta in guerra.


Web serie e docuweb: «La scelta di Catia - 80 miglia a sud di Lampedusa» partirà su Corriere.it lunedì 29 settembre (10 puntate, una al giorno da lunedì al venerdì) e verrà trasmessa su Rai3 in prima serata lunedì 6 ottobre. È la storia di tanti salvataggi di migranti e della prima donna comandante di una nave militare italiana, Catia Pellegrino. La docufiction è stata realizzata da H24 (idea di Mauro Parissone, regia Roberto Burchielli) per Rai Fiction con Corriere della Sera e Marina Militare.

23 settembre 2014 | 21:35
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Da - http://www.corriere.it/inchieste/pianto-soccorritori-cui-vorremmo-assomigliare/78975390-4356-11e4-9734-3f5cd619d2f5.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS L’avvocato delle streghe e l’iniquità dei processi contro le ...
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2014, 05:56:25 pm
Cultura

L’avvocato delle streghe e l’iniquità dei processi contro le «indemoniate»
Nel 1631 un testo critica a fondo le indagini basate sull’uso sistematico della tortura Una voce sostenuta dall’amore per la verità: figlia, ma non prigioniera del suo tempo

Di Claudio Magris

Anni fa, il vescovo di Trieste Lorenzo Bellomi mi raccontò che qualche giorno prima aveva ospitato tre suoi amici, due uomini e una donna, suoi compagni di scuola poi divenuti medici con cui era rimasto in stretti rapporti d’amicizia e che si erano fermati a Trieste, tornando a casa, dopo essere stati a Medjugorje. Durante la cena gli avevano detto, con imbarazzo e senza alcuna enfasi mistica, di aver visto la Madonna, aggiungendo che sapevano bene come lui non amasse quelle cose e fosse alquanto scettico, memore forse che Gesù rimprovera duramente chi chiede miracoli. Bellomi rispose: «Siamo amici da una vita e non mi passa per la testa di non credervi se mi dite di aver visto la Madonna. Se mi dite di averla vista, certamente l’avete vista. Il che non vuole ancora dire che la Madonna vi sia realmente apparsa».

Le difficoltà di guardare la realtà
Quel vescovo, ancor oggi ricordato con grande affetto e considerazione, non intendeva certo insinuare che i suoi amici potessero soffrire di allucinazioni. Diceva una cosa molto più generale e importante della fondatezza di quelle apparizioni. Sottolineava un’universale debolezza umana, ossia la difficoltà - difficoltà che riguarda tutti - di vedere la realtà, portati come siamo a vedere ciò che ci attendiamo di vedere, che siamo preparati a vedere e che proiettiamo, in assoluta buona fede, su ciò che ci sta davanti agli occhi e magari è molto diverso. Capita più o meno a tutti; ricordo che una volta, raccontando un fatto per fortuna di minima importanza, ho alterato in piena sincerità un particolare, deformandolo secondo la mia aspettativa, piegandolo all’immagine e alla convinzione che c’era già nella mia mente prima di vederlo. Per fortuna non si trattava di una testimonianza in un processo e quella mia onesta ancorché deplorevole invenzione non poteva danneggiare nessuno.

Pregiudizi
Questa difficoltà di vedere ciò che realmente accade è spesso accresciuta dalla cosiddetta «aria del tempo», dalle convinzioni, abitudini e credenze dell’epoca in cui si vive e che talora illuminano talora appannano la realtà e la sua visione. Non farsi condizionare dai pregiudizi e dalla mentalità del mondo in cui si vive è una delle più ardue e rare virtù, che rivela un’eccezionale libertà e creatività di spirito. Uno dei più grandi esempi di questa creatività - che smonta l’idea della verità quale figlia del proprio tempo - è Friedrich von Spee, un gesuita del Seicento che fu confessore di molte donne condannate al rogo perché streghe.

Streghe e stregoni
Figlio del suo tempo e degli idoli del suo tempo, von Spee credeva che potessero esistere streghe e commerci di vario genere con il demonio. Sarebbe stato facile - e, sotto il profilo storico-culturale, comprensibile - che egli, come tanti suoi contemporanei e soprattutto come tanti che si occupavano di quei processi, vedesse delle streghe e degli stregoni nelle persone perseguitate, esaltate, mentalmente e fisicamente malate, spesso repellenti, torturate, ree confesse sotto tortura. Preparato a incontrare complici e seguaci del Maligno, von Spee ebbe la straordinaria, geniale capacità di accorgersi che nessuna di quelle persone disgraziate e sciagurate era una strega o uno stregone ed ebbe il coraggio di dirlo e denunciarlo apertamente, in uno scritto, Cautio criminalis (1631), che rischiò di mettere lui stesso in pericolo e che è un vero capolavoro di cristiano amore del prossimo e della verità, di logica incalzante e serrata, di razionalità che non si lascia abbagliare né intimidire.

Cautio criminalis
Nella Cautio criminalis - ottimamente tradotta da Mietta Timi già nel 1986 per la casa editrice Salerno e introdotta con particolare finezza da Anna Foa - rivive la terribile Germania di quei decenni, devastata da guerre politiche e religiose che distruggeranno due terzi della popolazione, lacerata in un caos di anarchia e di violenza cui si accompagna un incredibile fervore culturale, una fioritura letteraria, filosofica e teologica che darà i suoi frutti per secoli, ma non lenisce l’orrore delle stragi, della fame, delle pestilenze, della morte. Spee è fermo, equilibrato ma implacabile nella sua denuncia e nella sua difesa di martoriati e martoriate innocenti. Contesta la validità delle confessioni rese sotto tortura, perché - dice - sotto tortura si finisce per dire e ammettere qualsiasi cosa, pur di farla cessare, ed ammette di non sapere come si comporterebbe egli stesso se sottoposto a intollerabili sofferenze. Da questo punto di vista, incalza con sottigliezza, la tortura è colpevole perché induce gli uomini a peccare, a dire il falso, ad accusare innocenti inceppando così la stessa giustizia, giacché il torturato deve inventare colpevoli e svia in tal modo le indagini. Descrive con asciutta efficacia la crudeltà di magistrati inquirenti, anche sacerdoti, i riti precedenti la tortura o l’esecuzione (la rasatura delle imputate, i marchi le cicatrici le deformità interpretati quale opera del demonio, l’implausibile vaghezza delle ammissioni di aver partecipato al sabba diabolico).

Presunzione di innocenza
Spee non ha solo un cuore caldo, ha anche una testa lucida ed esperta del diritto. Sostiene il principio della presunzione di innocenza, individua il bisogno che i prìncipi hanno di quei processi ma, politicamente più sottile di loro, pure il danno che tali messinscene dell’orrore recano alla stessa autorità pubblica che li promuove. La Cautio criminalis può gareggiare con la manzoniana Colonna infame , con l’ulteriore merito di essere stata scritta più di due secoli prima. Spee sa bene come l’Inquisizione non sia solo la leggenda nera creata nei secoli successivi e che la storiografia contemporanea - si pensi, per fare solo alcuni esempi, agli studi di Adriano Prosperi, a un’opera fondamentale come il Dizionario storico dell’Inquisizione da lui diretto, oppure agli studi di Carlo Ginzburg e di molti altri - ha indagato a fondo. Il meccanismo mortale dell’Inquisizione è complesso e comprende - come si vede leggendo il Sacro Arsenale , il manuale per i giudici - anche minuziosi garantismi, quali la necessità di almeno tre testimoni per accusare qualcuno, la verifica dei testimoni stessi e il divieto di suggerire, neppure indirettamente, agli imputati le risposte.

Le parole degli accusati
Spee si muove con forza e prudenza in questa selva, inflessibile e insieme avveduto nella sua battaglia. Leggendo le sue pagine così forti e insieme misurate, si vorrebbe sentire anche direttamente la voce delle accusate e degli accusati, le parole rotte e sanguinanti che uscivano dalle loro bocche ridotte, dall’incultura e dalla violenza subita, quasi all’afasia. Andrea Del Col ci ha fatto sentire, nelle sue notevolissime ricerche, queste voci spezzate e balbuzienti - vorremmo poter sentire anche il loro timbro, il loro suono, il loro respiro strozzato. Spee lo ha sentito; le parole di quella gente sventurata gli arrivavano all’orecchio insieme al loro fiato e forse anche questo gli ha dato la forza di battersi, giungendo a dire che vacillino pure i poteri giudiziari se debbono fondarsi su quelle infamie. Non stupisce che fosse pure un delicato e intenso poeta, che ha cantato l’amore di Gesù e la dolcezza della natura, gareggiando, come dice il titolo della sua principale raccolta di versi che ha un suo posto rilevante nella letteratura tedesca, con gli usignoli. «Deh, lasciati vedere, io cerco te!/ Gridai tosto di nuovo,/ non sole ma solo l’ultime parole/ sentii ripetere, io cerco te». Era figlio del suo tempo. Tutti lo siamo, ma qualcuno, come quei carnefici, è pure figlio di buona donna.

16 novembre 2014 | 13:14
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_novembre_16/avvocato-streghe-l-iniquita-processi-contro-indemoniate-ce16d360-6d7f-11e4-a925-1745c90ecb18.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Il caos e la pietà. Pakistan, le atrocità di una guerra perpetua
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2014, 06:05:46 pm
Il caos e la pietà
Pakistan, le atrocità di una guerra perpetua

Di Claudio Magris

È ovvio, è incontenibile, è doveroso, è inutile anche se appassionatamente sincero gridare tutto l’orrore per questa inaudita bestialità e tutta la stravolta pietà per le vittime di una simile inumana barbarie.

È più difficile rispondere alla prima domanda di ogni politica, posta da molti famosi pamphlet, specie in una situazione abnorme come questa: che fare? Non siamo nella Terza Guerra Mondiale; questa è finita nel 1989 o nel 1991, con la vittoria dell’Occidente sul mondo sovietico e 45 milioni di morti, per nostra egoistica fortuna caduti in altre regioni della Terra.

Siamo in una Quarta Guerra Mondiale, in cui, a differenza dalle precedenti, non è sempre ben chiaro chi sia contro chi. Assad è un dichiarato nemico quando esercita le sue repressioni ma è quasi un alleato quando gli si chiede l’autorizzazione a lasciar passare gli aerei che si avviano a (modesti) interventi in altre regioni del Medio Oriente. La guerra in Afghanistan sta durando due volte e mezzo la Seconda Guerra Mondiale ed evidentemente non è stata ancora vinta e non è finita, se succede quello che è successo ieri.

Le guerre si possono fare o non fare, come si augura ogni persona ragionevole.
Ma non si possono contemporanea mente fare e non fare, provocando vittime sempre tragiche e doppiamente inutili perché non giovano a risolvere alcun problema. Le guerre vanno evitate con ogni sforzo, ma ci sono situazioni in cui, come disse Churchill dopo il vile cedimento al Nazismo a Monaco nel 1938, nella scelta tra il disonore e la guerra si sceglie il disonore senza per questo evitare poco dopo la guerra. O ggi, ipocritamente, non si dichiara più la guerra, nemmeno quando la si fa. Ma una guerra o si vince o si perde; essa non può essere, come è oggi, un incerto e interdetto stillicidio di vite umane che non risolve nulla e non elimina la tragedia della sofferenza e della morte. Il mondo è oggi un focolaio di guerre, di guerra. Di chi, contro chi? Il progresso tecnologico permette oggi ad un pugno di disperati e ben preparati fanatici di mettere in difficoltà le grandi potenze, cosa mai avvenuta in passato. Le grandi potenze - a cominciare dalla più grande, dalla grande potenza per antonomasia, gli Stati Uniti - appaiono esitanti, impappinate. Non vogliono e forse non possono più esercitare il ruolo, un tempo brutalmente redditizio e ora ingrato, di guardiani del mondo, ma non sanno bene come rinunciarvi e neanche se proprio lo vogliono e nel frattempo si invischiano in pantani fatali.

La Quarta Guerra Mondiale è forse quella dell’Islam, o di un certo Islam contro tutti gli altri? Non lo credo, perché ritengo che il caos nel mondo sia oggi molto più complesso, ma l’incubo di tale scontro è innegabile. Lo aveva capito genialmente Giovanni Paolo II, che si oppose alla guerra contro l’Iraq non per ingenuo pacifismo né per bontà d’animo (la guerra in Jugoslavia non sembra averlo troppo turbato) né certo per simpatia verso feroci tiranni come Saddam Hussein, ma per una straordinaria visione storico-epocale, per la consapevolezza che il conflitto con il mondo islamico sarebbe stato foriero di ulteriori conflitti e squilibri sanguinosi e che la caduta di abietti regimi tirannici non avrebbe creato democrazie, ma altri totalitarismi, forse più pericolosi perché atomizzati e incontrollabili.

Una guerra la si vince o la si perde, non la si protrae in un indefinito sgocciolio di morte. Certe volte si vince dando all’avversario un buon colpo che tuttavia non lo distrugge, come la Prussia che nel 1870 batte la Francia prendendosi l’Alsazia e la Lorena ma senza mettere a terra il Paese. Altre volte la si vince solo annientando il nemico, come la Germania nazista rasa al suolo nel 1945.

Con i talebani o tanti altri loro cugini ferocemente rivali ma anche solidali non sembra possibile - a parte ogni considerazione umana e morale - né l’una né l’altra soluzione. E come se la Quarta Guerra Mondiale fosse veramente l’ultima guerra ma solo perché sembra che non finirà mai. E intanto, in questa stanca e febbrile violenza perpetua, continueranno ad accadere innominabili atrocità come quella di poche ore fa. È grottesco dire, tra qualche giorno, «Buon Natale».

17 dicembre 2014 | 07:20
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_17/atrocita-una-guerra-perpetua-c265e9ce-85b3-11e4-a2bf-0fba46a30b83.shtml


Titolo: La dialettica del segreto secondo Claudio Magris
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:42:05 pm
La dialettica del segreto secondo Claudio Magris

Di Francesco Clemente
07/02/2015

Abstract
In “Segreti e No”, Magris ragiona sull’uso politico delle pratiche di segretezza e sulla custodia privata delle cose non confessate, evidenziandone il valore nel contesto dell’attuale società dominata dai media.

Dopo averlo sfogliato è anche possibile non condividerne gli esiti, ma è difficile non riconoscerne lo spessore stilistico che lo irrobustisce, nella sua stringatezza. Con “Segreti e No” di Claudio Magris siamo di fronte a un distillato raffinato dell’ars scrivendi, un esempio tangibile di cosa significhi la scrittura matura, dove la semplicità della parola non è semplificazione ma sapiente sottrazione in vista dell’essenzialità definitiva. Una scrittura densa, quella dell’Autore, al pari della materia di un buco nero (dove un cucchiaino di materia può pesare tonnellate terrestri), con un periodare che fende la mente del lettore come uno stiletto lanciato nell’aria, che impreziosisce gli argomenti affrontati con un gusto per l’equilibrio fra riflessione politica e meditazione intimistica. Sul piano dei contenuti il libro definisce i tratti di una dialettica del segreto, soffermandosi sulle sue polarità opposte: da una parte il segreto come instrumentum regni, mezzo di conservazione o conquista del potere politico; dall’altra come atto di coraggiosa preservazione della libertà individuale. Una dialettica, questa, nella quale non trova spazio la volgarizzazione occultistica.

Sono tre i meriti di questa impresa saggistica. 
In primo luogo, queste pagine ci ricordano che il potere politico nella sua visibilità pubblica ha agito e continua ad agire sempre in ottemperanza alle trame oscure. Di per sé ciò può anche non apparire una constatazione originalissima, ma essa, a nostro avviso, acquista valore alla luce dell’eccesso di esposizione pubblica rincorsa dal potere e dai suoi occasionali rappresentanti. Il potere, soprattutto quello istituzionale, è lì a due passi, è catturato dalle immagini fotografiche e dalle telecamere: sembra essere esso stesso dentro le maglie di un’autorità mediatica più estesa. Non appare evidente, addirittura forse inconcepibile, il suo sempiterno agire sotterraneo. Tuttavia, proprio in questa sua spasmodica ricerca di svelamento definitivo, le strategie segrete di gestione del mondo appaiono ancora più raffinate di quello che si possa supporre: nel suo far credere che non abbia segreti, il potere ne riesce a conservare intatta l’efficacia.

In secondo luogo, l’attenzione verso la dimensione intimistica del segreto contribuisce a dissolvere un certo moralismo che affetta l’obbligo della manifestazione della verità. Magris ricorda, a proposito, quel Torquato Accetto autore di “Della dissimulazione onesta”, opera nella quale si sostiene l’idea che se la simulazione comunica il falso, la dissimulazione può anche risultare un modo discreto di non alterare la realtà.

A riguardo, non stona osservare che nelle opere letterarie citate da Magris avrebbe potuto trovare spazio anche un libro di Ignazio Silone, risalente al 1956 e intitolato “Il segreto di Luca”, opera che nel 1969 ebbe anche una trasposizione cinematografica grazie al regista Ottavio Spadaro.

L’aspetto salvifico del segreto anche a costo di immensi sacrifici personali permea, infatti, quest’opera di Silone, dove il protagonista preferisce non difendersi in un processo per difendere l’onore di una donna.

In terzo luogo, la critica sprezzante di Magris verso i segreti in ambito occultistico coglie una polemica di un certo rilievo nel panorama della cultura non solo “di massa”, ma anche, per così dire, di nicchia. Il travisamento dell’etimo della parola “segreto” si realizza perfettamente lì dove l’esoterismo e la magia cercano, sgomitando, un preteso palcoscenico mediatico, che impone l’ostentazione dell’invisibile con goffi esiti di una immensa chiacchiera sul silenzio iniziatico.

Che dire poi della retorica del segreto che affetterebbe molta letteratura esoterica, debitrice (come ha fatto notare Marco Pasi, docente ad Amsterdam di Storia della Filosofia ermetica) proprio del suo opposto, ovvero del disvelamento per illuminazione? Fedele alla sua cultura triestina, Magris, di fronte a ciò, alza educatamente le spalle e ricorda al pubblico la paradossalità ironica delle storie popolari della sua terra, dove il segreto strappa un sorriso sommessamente umoristico.

Claudio Magris, Segreti e No, Bompiani, Milano 2014, pp. 58, € 7,00.

DA - http://www.sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=233&ID=523


Titolo: Claudio MAGRIS Sarebbe opportuno il codice marziale per i mercanti di schiavi
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 05:00:51 pm
Immigrazione
Dove cessa l’umanità
Queste infami tragedie sono la prova di un’altra triste realtà: l’inesistenza dell’Europa.
Sarebbe opportuno il codice marziale per i mercanti di schiavi

Di Claudio Magris

Ogni volta la tragedia è più grande - e lo sarà sempre più - e ogni volta si dice, mentendo in buona fede a se stessi, che si è raggiunto il colmo.
E che è vicino il momento in cui si volterà pagina, proprio perché è intollerabile che continui questo crescendo di orrori.

Invece con ogni probabilità continuerà, se non accadrà qualche radicale e inimmaginabile cambiamento nella situazione e nella politica mondiali. La pietà, l’indignazione e lo sgomento del mondo - di noi tutti - si accenderanno, sinceri e inutili, a ogni nuovo episodio di barbarie.

Ma forse sempre meno, perché ci si abitua a tutto e proprio il ripetersi delle orrende e criminose tragedie renderà più assuefatte e meno reattive le coscienze.

Che fare, come dice il titolo di un famoso pamphlet politico? Il problema è tragico, perché agli immigrati e senza nome e senza destino si oppongono non solo le livide, imbecilli e regressive paure di chi teme ogni forestiero incapace di bestemmiare nel suo dialetto e sogna un mondo endogamico e gozzuto di consanguinei.

Alla doverosa accoglienza umana di tanti fratelli perseguitati e infelici si oppone e purtroppo si opporrà una difficoltà o impossibilità oggettiva, il numero di questi fratelli infelici, che un giorno potrebbe essere materialmente impossibile accogliere. Un ospedale che ha cento posti letto può ospitare, in situazioni di emergenza, 150 malati, ma non 10 mila, e chi facesse entrare nelle sue corsie 10 mila persone creerebbe, irresponsabilmente, la premessa di nuove difficoltà e di nuovi conflitti. Queste infami tragedie sono la prova di un’altra triste realtà: l’inesistenza dell’Europa. Il problema dei dannati della Terra che arrivano sulle nostre coste è europeo, non italiano; coinvolge l’Europa, non solo l’Italia. Che l’Unione Europea se ne disinteressi è oscenamente autodistruttivo; è come se il governo italiano si sbarazzasse del problema dicendo che è affare della regione di Sicilia, visto che i naufraghi, vivi o morti, non arrivano a Roma o a Torino. Se l’Unione Europea se ne disinteressa, e non può essere un tardivo intervento a dimostrare il contrario, significa che l’Unione Europea non esiste. Che fare? Certo, si possono adottare piccole misure. Ad esempio, sarebbe opportuno che i mercanti di schiavi, colpevoli spesso volontariamente di crimini, fossero sottoposti, data l’emergenza di questa vera guerra per l’Italia, al codice marziale.

Non sarebbe male se i mercanti di schiavi e di morte sbrigassero i loro affari rischiando la morte come i loro schiavi.

Fa impressione leggere di alcuni di questi assassini arrestati e presto scarcerati e tornati al loro traffico lurido e lucroso. Che fare? Nessuno, sembra, lo sa.

20 aprile 2015 | 07:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_20/dove-cessa-l-umanita-a9752a5a-e71b-11e4-95de-75f89e715407.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Grecia, nessun grande passato può essere un alibi
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:48:18 pm
LA STORIA
Grecia, nessun grande passato può essere un alibi
Anche i colonnelli al potere ad Atene erano figli di uno dei più grandi popoli del mondo
Di Claudio Magris

Tsipras, nelle polemiche e improbabili trattative con l’Unione Europea, ha ricordato, quale argomento a favore delle sue richieste e delle esigenze del suo Paese, che la Grecia è stata la madre della civiltà dell’Europa e in particolare della democrazia. È verissimo. La Grecia è stata la culla della democrazia, della Polis, di quei valori su cui si fondano la nostra umanità e la nostra vita civile. Lo ha illustrato a fondo, qualche giorno fa, sul Corriere Eva Cantarella. Ma alla Grecia classica dobbiamo pure la filosofia, la poesia, il senso delle cose ultime. Non c’è nessun testo che possa far comprendere, ieri oggi e domani, cosa sia l’uomo come il secondo coro dell’Antigone di Sofocle ed è un solo esempio fra tante vette assolute.

Ma Tsipras o altri suoi connazionali possono vantarsene più di altri nati sotto altri cieli? Nessun grande passato garantisce a nessuno un altrettanto grande presente.

L’Impero Romano è stato la più alta creazione politica della Storia, ancora fondamento del mondo in cui viviamo, ma era ridicolo invocarlo a sostegno, immagine e somiglianza del fascismo né potrebbe essere invocato a giustificare l’infame e disastroso attacco di Mussolini alla Grecia. A quell’epoca ad assomigliare di più ai Romani non erano gli italiani bensì piuttosto gli inglesi, come disse lo stesso Mussolini parlando degli inglesi come di «questi formidabili Romani moderni».

Anche i colonnelli al potere in Grecia decenni fa erano figli di uno dei più grandi popoli del mondo, ma non avrebbero potuto certo appellarsi a Pericle o ad Aristotele. Quando si ha un’altissima civiltà nel proprio DNA, essa si rivela non nella citazione del passato, ma nel modo in cui si affrontano i problemi del proprio presente. Questo vale oggi per tutti i governi impegnati ad affrontare le tremende difficoltà del popolo greco. Agire irrazionalmente, rabbiosamente, caparbiamente, tignosamente, rumorosamente, truffaldinamente significa, per tutti, compiere quello che per la civiltà greca era la massima colpa, la hybris, la dismisura, peccato senza remissione.

9 luglio 2015 | 09:56
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Da - http://www.corriere.it/economia/fondi/15_luglio_09/grecia-nessun-grande-passato-puo-essere-alibi-d7bd712e-260e-11e5-9a08-f80f881ecc8e.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 09:02:03 pm
Noi e l’islam
Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista
La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno


Di Claudio Magris

Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio, è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora quale possibile alleato.

In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio - di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati.

Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito. Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile -- anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene.

È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb.

A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.

È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. Quei dirigenti scolastici che hanno annullato per quel motivo la gita dovrebbero essere licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati, perché evidentemente non sono in grado di svolgere il loro lavoro, come dovrebbe essere licenziato un insegnante che in una gita scolastica a Granada vietasse ai suoi allievi di visitare l’Alhambra per non offendere la loro fede cristiana.

La violenza va repressa con la violenza, ma anche - e sperabilmente - esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando pure nelle zucche più dure la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno. Solo Allah, ripetono i versetti sulle pareti dell’Alhambra, è il vincitore. Le stragi di Parigi e tutte le violenze dimostrano, purtroppo, che spesso l’imbecille violenza è più forte del Signore, comunque questi venga chiamato.

15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 08:23)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_15/gli-attentati-parigi-quel-complesso-colpa-che-ispira-l-equivoco-buonista-0e5ec956-8b65-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml


Titolo: Claudio MAGRIS Corriere che da 140 anni racconta il mondo
Inserito da: Arlecchino - Marzo 06, 2016, 07:03:46 pm
Corriere che da 140 anni racconta il mondo

Di Claudio Magris

Il Corriere della Sera compie 140 anni. Il quotidiano fondato da Eugenio Torelli Viollier nacque il 5 marzo 1876 nella Galleria Vittorio Emanuele, da poco terminata. Per celebrare lo storico anniversario domani sarà in edicola uno speciale gratuito di 96 pagine con le prestigiose firme di oggi e di ieri. L’evento coincide con la rivoluzione digitale e dei contenuti che il Corriere sta realizzando. Anticipiamo il racconto di Claudio Magris sulla sua lunga esperienza al Corriere, contenuto nel supplemento.

Cinque marzo 1876, esce il primo numero del Corriere della Sera. L’Italia di quel giorno a noi sembra protostoria; Garibaldi e Marx sono ancora vivi, il Partito socialista non è stato ancora fondato, i fratelli Wright non sono ancora riusciti a volare e a smentire il loro padre vescovo metodista secondo il quale mai l’uomo ne sarebbe stato capace. Quei 140 anni, quei 51.000 giorni e più, con l’incredibile e sempre più accelerata trasformazione della realtà e dell’uomo stesso, sono un’era. Ed è per me ogni volta stupefacente e insieme rassicurante pensare che da più di un terzo di quell’era scrivo sul Corriere, da quando, credo su suggerimento di Enzo Bettiza, Giovanni Grazzini nell’ottobre del 1967 mi pubblicò, in quello che allora si chiamava Corriere letterario, un articolo su Max Brod e Kafka, un battesimo fondamentale nella mia vita. Il giornale si tuffa nel mondo e nella sua polvere, senza paura di sporcarsi le mani ma sapendo che per restare pulite e rendere più pulito il mondo quelle mani devono immergersi nel disordine delle cose, pronte anche a prendere per il bavero la menzogna. È una barca di carta spazzata di continuo dalle onde, è sempre in viaggio e non conosce la pace del porto. Quanto più è esatta e onesta nella sua rappresentazione del reale, tanto più la sua cronaca assomiglia spesso a un testo surrealista, perché accosta sulla pagina le cose più diverse del reale, l’assurdità, il bene ed il male, il coraggio, il sudiciume e le inimmaginabili trasformazioni del mondo. È il brogliaccio di un tentacolare e gigantesco romanzo ormai globale.

Un giornale ha enorme importanza e responsabilità — che è facile tradire — nella formazione di un Paese. Nessun giornale, con tutte le forche caudine delle varie pressioni e ragnatele, della gregaria convenzionalità spesso imperante talora di epoche terribili che deve attraversare, è senza peccato. Nemmeno il Corriere. Ma nella sua lunga e talora contraddittoria storia esso ha assolto complessivamente in grande misura al compito di un grande giornale. Per questo è divenuto, nella sua navigazione di lungo corso, il giornale d’Italia. Sulle sue pagine hanno scritto giornalisti, scrittori, politici, studiosi che hanno fatto grande non solo il Corriere ma l’Italia. Servizi, inchieste, reportage — cronache fedeli all’istante che diventano Storia.

Forse il segreto del Corriere e della sua grandezza (credo fin dai tempi di Albertini) risiede pure nella medietà, se così si può dire, che con sfumature diverse e con grandi impennate di originalità lo ha caratterizzato. Risiede in quell’assenza di partito preso a priori e di tono eclatante, spocchioso o ideologico, che ha potuto farne il giornale di quasi tutti e non solo per l’eccellenza delle firme e dei servizi. Ho sempre amato i giornali che — a parte quelli esplicitamente e onestamente di partito — non fanno capire subito l’orientamento politico o ideologico di chi li tiene in mano. Il Corriere non è mai stato e non è un club supponente di migliori né un salotto di chi la sa più lunga e si considera più avanzato degli altri. È un giornale civile, originariamente espressione di una solida borghesia, con i suoi pregi e difetti, e forse oggi per questo in una certa difficoltà, in un mondo in cui sono sparite le tradizionali classi sociali, pressoché amalgamate in una palude colloidale e gelatinosa.

Certamente, in tanti anni, il Corriere ha avuto le sue oscillazioni, ardite innovazioni e guardinghe cautele; ha avuto le sue cadute e le sue confusioni, incertezze titubanti con i poteri economici o il melmoso e rovinoso coinvolgimento con la P2, affrontato e respinto con sanguigno coraggio da Alberto Cavallari, mio fratello maggiore. Ma il Corriere ha saputo difendere la propria autonomia anche con toni più ironici eppure non meno inflessibili, come quando ad esempio Ferruccio de Bortoli, altro grande direttore che mi ha aiutato a crescere, scriveva in prima pagina «pubblichiamo volentieri questa lettera dell’on. Previti e l’avremmo pubblicata anche senza i cortesi solleciti di Palazzo Chigi».

Il Corriere mi ha fatto crescere, è stato una fondamentale scuola della mia vita. Una scuola di scrittura, che insegna a mettere i propri fantasmi a contatto con il mondo e a prestare più attenzione a quest’ultimo che a quelli; che insegna a scrivere su un evento che piomba addosso all’improvviso senza poter studiarlo prima di scrivere ma riflettendovi e studiandolo mentre lo si scrive in lotta con il tempo e con il numero delle battute, altra salutare ginnastica del pensiero e della fantasia. Una grande educazione linguistica, che insegna a essere comprensibili a quel lettore medio sconosciuto che è sempre il tuo interlocutore ma senza cedere alla falsa e ingannevole semplificazione, mettendosi a rischio in quel dialogo col lettore, come in ogni vero dialogo.

Di questi quarantanove anni al Corriere vorrei raccontare tante cose che mi hanno formato. Piccole e grandi; belle, dure, comiche, tragiche, conflittuali, fraterne. La mia mania di litigare per i titoli, con Grazzini e Nascimbeni che mi prendevano in giro e poi, nel caso di quest’ultimo, una conciliatrice partita a carte, a cotecio, di cui Nascimbeni era un campione — aveva pure vinto il trofeo dell’Oca d’argento a Verona — spirito che continua oggi nel fraterno cammino insieme ad Antonio Troiano. La severa, formatrice gerarchia di un tempo; i miei primi direttori, Alfio Russo e Giovanni Spadolini — di cui più tardi sarei divenuto molto amico — non li ho neppure mai visti e sulla Terza Pagina ho potuto scrivere un articolo solo dopo sei anni di collaborazione al Corriere letterario, nonostante Gaspare Barbiellini Amidei, altro amico cui sono debitore, avesse cercato di «spingermi» più in alto un paio d’anni prima. Gli anni del terrorismo, il corpo di Tobagi steso a terra. Il fumo rassicurante della pipa di Ugo Stille. Mieli che mi rende meno ansiosa la mia breve parentesi parlamentare spingendomi a continuare a scrivere pure in quel periodo.

Momenti drammatici, in cui ho visto pressoché l’intero corpo del giornale stringersi in una battaglia comune e ho capito che il lavoro tecnico, concreto all’ingranaggio del giornale non vale meno di chi lo scrive o lo dirige, come i marinai che sbrogliano le vele o i motoristi in sala macchine conducono la nave non meno degli ufficiali sul ponte. Altri momenti invece conflittuali, in cui l’unità del giornale sembrava in pericolo. Tante cose si affollano. I viaggi per il Corriere, che mi hanno aiutato a trovare me stesso; le battaglie etico-politiche, i grandi personaggi del Corriere, solo intravisti, come Buzzati al suo tavolo, o frequentati, come Biagi e, purtroppo tardi, Montanelli. Le lettere dei lettori, cui rispondo una per una — precisazioni, ringraziamenti, commenti, correzioni, richieste, elogi, insulti. I dimafonisti, necessari al mio analfabetismo digitale, con i quali un tempo avevo pure cordiali discussioni circa le loro proposte, ora accettate ora rifiutate, di correzioni al mio articolo che stavo loro dettando. Dopo che il loro numero era stato drasticamente ridotto, è toccato anche al direttore de Bortoli ricevere la mia dettatura al telefono e lo considero una vera promozione simbolica, i gradi di caporale napoleonicamente ricevuti sul campo.

Il tempo passa, dice un personaggio di Cent’anni di solitudine. Mica tanto, risponde un altro. Il tempo condensato dei decenni trascorsi fa tutt’uno con quello frenetico del giornale da fare ogni giorno, con le notizie che arrivano e le pagine composte, scomposte e ricomposte fino all’ultimo momento. Vita convulsa in cui però ci si sente a casa. Sì, il tempo passa ed è sempre più difficile. «Ah per queste cose ci vorrebbe un giornale!» diceva sarcastico il direttore Missiroli. Forse questo giornale, come del resto lui sapeva benissimo, e come sa il direttore Fontana, c’è.

2 marzo 2016 (modifica il 2 marzo 2016 | 23:23)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_03/corriere-140-anni-34d37cca-e0bb-11e5-86bb-b40835b4a5ca.shtml


Titolo: BRUNO QUARANTA Claudio MAGRIS : Saba, un amore doloroso che è l’anima di Trieste
Inserito da: Arlecchino - Agosto 12, 2017, 05:14:55 pm
Magris: Saba, un amore doloroso che è l’anima di Trieste
Lo scrittore racconta il poeta a sessant'anni dalla morte. “Una bramosia di comunione né borghese né aristocratica”

Pubblicato il 09/08/2017

BRUNO QUARANTA
TRIESTE

No, non abita qui il fantasma di Saba. Qui, il «San Marco», è la cuna di Claudio Magris, l’officina di mille parole e ancora mille, da Danubio a Non luogo a procedere, onorando una letteratura «che si ribella contro i tempi puri della grammatica, per rendere giustizia alla vita».

Altri i Caffè di Trieste cantati da Saba. Dal «Tergeste», caffè «di plebe» che «concili l’italo e lo slavo, / a tarda notte, lungo il tuo bigliardo», al Caffè dei Negozianti, dove «venivo fanciullo, d’altro ignaro / che non fosse quel mio vasto avvenire».

Era fresco di maturità classica, Claudio Magris, quando il «puer» del Canzoniere se ne andava, sessant’anni fa, il 25 agosto 1957. «L’avrò intravisto una volta. Ciò che so di lui, uomo e poeta, me lo hanno innanzitutto trasmesso amici comuni. Come Dora Baldi. Come Giorgio Voghera. Come Piero Kern, forse il primo ad apprezzare Borges in Italia».
 
Saba, nome de plume di Umberto Poli, un omaggio, si suppone, alla materna ebraicità, nemo propheta in patria? «Solo a Torino, dove giunsi in novembre per seguire i corsi universitari - rivela Magris -, lo accostai. Ero un lettore strenuo, da Dostoevskij a Tolstoj, ma evitavo, avevo evitato, a Trieste, le anime indigene. I giovani hanno, ieri come oggi, una sana diffidenza per le cose di casa».
Sotto la Mole, dove - una lirica di Saba - le vie «si prolungano come squilli»... «Allora, lungo il Po - ricorda Magris, con Angelo Ara tra gli scrutatori esatti ed appassionati di Trieste - Un’identità di frontiera (per Einaudi ) - mi immersi nel Canzoniere. Mi fece un’impressione enorme. Il suo artefice risaltando, nonostante fosse viziatissimo, pure come critico di se stesso, di una implacabile lucidità, se giungerà a dire, come giungerà a dire, di avere scritto le poesie più belle e più brutte del secolo».
 
Saba che non sceglie. Saba che nulla o quasi rifiuta della sua officina. Saba che non agita il setaccio. Così come il Saba della libreria antiquaria di via San Nicolò. Acquistata la bottega, si prefiggeva di buttare nell’Adriatico «tutti quei vecchi libri che conteneva», infine rinunciandovi: «Quei libri - nessuno dei quali mi interessava per il contenuto - mi avevano incantato». Ispirando un incipit mai arrugginito: «Morti chiedono a un morto libri morti...».
 
Saba che prediligeva i versi composti tra i 17 e i 19 anni, i soli «che ripeta qualche volta fra me e me». Mentre Magris fa vela verso il secondo tempo del poeta: Da Parole a Ultime cose, da Mediterranee a Quasi un racconto. «In Mediterranee - non esita - sta il vertice, Ulisse - “...me al largo / sospinge ancora il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore» -, ovvero l’inno alla vita selvaggia, dolce, tenera».

Saba a sé. Un po’ nell’ombra, rispetto a Montale e a Ungaretti. «Montale - distingue Magris - è la profondità, Ungaretti la verticalità. Saba, invece, spicca per l’orizzontalità. Non affermava forse di ammirare il melodramma? Lo zum pa pa della Traviata più di Wagner. La schiettezza dell’esistenza, il tran tran dei giorni...».

Saba, Trieste, «laggiù», come si era soliti indicare la capitale giuliana. «La marginalità di Saba - interpreta Magris - è la marginalità di Trieste. Anche. Una voce di confine, al confine. Non “universale”. Anzi: di difficile traduzione. Basta cambiare l’ordine delle parole e la sua poesia si arena, si spegne, si disarticola».

Saba che argina la marginalità non indulgendo, come Virgilio Giotti, al dialetto. «È Giacomo Leopardi - rammenta Magris - il suo poeta. Non può che scrivere in italiano, “nel mio triste italiano”». Al conte Giacomo invidiando un critico come De Sanctis, nonché, rispetto al suo («Nessuna creatura umana soffre come me»), «un piccolo dolore».
 
Quale la peculiarità della sofferenza di Saba? Non gli succede di confessare: «Io non so amare»? Riflette Magris: «Il suo non credo sia il dolore di Biagio Marin, il non essere in armonia con il fluire e il dissolversi dell’universo. È il desiderio inappagato di amare e di essere amato. Ancorché la figlia Linuccia avvertisse: “Mio padre sa amare, ma non voler bene”, l’amore in cui, onnipresente, irriducibile, è la componente predatoria. Come il rapporto con il giovinetto Federico Almansi testimonia. Saba infernale e celeste».
 
Infernale, celeste, non amorale. «Come voleva essere il suo Nietzsche, “grandezza solitaria” - coglie Magris -. Saba al di là del bene e del male. Innocente sempre. Bambino in aeternum. Una vita che non ha bisogno di scopi per essere nobilitata, a cui non occorre alcuna trascendenza». 
 
Nietzsche. E, ulteriore dioscuro di Saba, Freud. La nevrastenia attenuata, qua e là scalfita, grazie a Edoardo Weiss. Ma - confesserà Voghera - non anelando alla guarigione, ché «il completo superamento del mondo infantile avrebbe significato non essere più poeta». Una relazione che non ha l’imprimatur di Magris: «L’infanzia è, in Saba, intramontabile, a prova di analisi».
 
Saba, la poesia che, irrefrenabile, sgorga. Sovviene a Magris: «In un vero poeta - sosteneva - c’è un bambino che piange e un adulto che domina il pianto. La poesia si dissolve quando c’è solo il bambino che piange. E non sussiste quando c’è solo l’adulto. E comunque: accanto a Saba poeta non si dimentichi di innalzare Saba prosatore, le Scorciatoie e raccontini, i nostri Minima moralia».
 
Saba muore a Gorizia, la città di Michelstaedter, il filosofo di La persuasione e la rettorica. Saba, persuaso o retore, possedeva l’attimo o era in ansia per il presente, il passato, il futuro? «Il poeta era sicuramente persuaso. L’uomo, no. Gli si addice un’osservazione di Michelstaedter: “La vita gli apparve sempre insolvente”».

La «vita calda» a cui Saba inutilmente anelava: «Il desiderio dolce e vano / d’immettere la mia dentro la calda vita di tutti», Il desiderio di essere felice, a differenza dell’inetto di Italo Svevo che la felicità neppure la desidera. «La scontrosa grazia» della Trieste di Saba. Altra rispetto alla condizione borghese di Svevo. «Plebea come pare rifulgere nella Città vecchia, di prostituta in marinaio? - s’interroga Magris -. Più che plebea, popolare. In Saba, vivissimo, è il desiderio di essere una rosa e tutte le rose, di essere anche l’altro, una bramosia di comunione né borghese né aristocratica».
 
Trieste e una donna... Salutata, perché no? come un’amante indocile, capricciosa, aspra come un ragazzaccio. Destinandole, al cospetto del mare in uniforme, l’amarissima e impavida sfida: «Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce. / Morire è nulla; perderti è difficile».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/09/cultura/magris-un-amore-doloroso-che-lanima-di-trieste-OTE4Q1bcTIgFbwUhICIh2M/pagina.html


Titolo: Claudio MAGRIS “L’importante è vincere”. Tra Silvio e Matteo il listone non è...
Inserito da: Arlecchino - Agosto 27, 2017, 09:07:40 pm
“L’importante è vincere”. Tra Silvio e Matteo il listone non è più tabù
Passo dopo passo le distanze Cavaliere-Lega si vanno accorciando

Pubblicato il 17/08/2017

UGO MAGRI
ROMA
Non è più quel «no» a brutto muso dei mesi scorsi. Semmai un diniego gentile, ammiccante, quasi un «ni» che, se davvero le circostanze lo richiedessero, potrebbe completare la metamorfosi e diventare un «sì» alla lista unica del centrodestra per le elezioni del prossimo anno. Passo dopo passo, le distanze tra Berlusconi e Salvini si vanno accorciando. Sembravano siderali sull’Europa e sull’euro, invece ecco il leader della Lega che da Ponte di Legno dà per scontato: «Il programma del centrodestra è pronto», stare con la Merkel o con la Le Pen non è più il vero discrimine perché l’asticella si è già di molto abbassata: ormai si sta discutendo se imbarcare o meno in Sicilia Alfano e i reduci di Ncd che Silvio (a certe condizioni) riprenderebbe in casa però Matteo fa muro: «No ai poltronari», ha ribadito nel giorno di Ferragosto.
 
Basta punzecchiature
Da quando i due si sono finalmente parlati al telefono, alcuni giorni fa, la marcia di avvicinamento non ha registrato inciampi. Come d’incanto hanno cessato di punzecchiarsi e ieri addirittura Salvini ha respinto le provocazioni su possibili futuri accordi tra il Cav e l’altro Matteo, quello di casa sull’Arno: «Rifiuto di crederci, errare è umano, perseverare sarebbe diabolico». Ma non c’era un problema di leadership, di chi comanda nel centrodestra? Pure qui Salvini lascia delusi quanti vorrebbero il bagno di sangue. Tende la mano all’anziano rivale: «Rimango alla sua proposta che chi prende un voto in più decide». E non è tutto: anziché demolire la vecchia Lega arroccata al Nord per fondare un nuovo partito nazionale che entrerebbe in gara con Forza Italia, la ruspa salviniana frena, rinvia ogni decisione al momento in cui si capirà meglio con quale legge andremo a votare. «Niente lista unica» rimane il mantra, ma con sempre minore enfasi, perché nelle ultime settimane sono subentrati un paio di fatti nuovi che ai politici intelligenti non possono sfuggire. Anzitutto il trionfo del centrodestra alle Comunali, che ha scatenato appetiti: perché accontentarsi di perdere bene quando, unendo le forze, si potrebbe fare bottino pieno? L’altra novità è lo studio riservato di Euromedia Research, pervenuto ad Arcore i primi di agosto, da cui risulta il contrario di quanto si era sempre pensato, cioè che gli elettori di destra fossero schizzinosi, sofisticati, dal palato fine, dunque orripilati dalla prospettiva di un listone comune con tutti dentro, da Berlusconi a Salvini, da Gelmini a Meloni. È una preoccupazione infondata, rivela il sondaggio, perché di certe sfumature ai moderati non importa un fico, interessa soltanto vincere, per cui i partiti di centrodestra potrebbero tranquillamente fondersi insieme sotto una stessa sigla. E questa somma consentirebbe alla lista unica di superare il 30 per cento, battendo tanto il Pd quanto i Cinquestelle. Renato Brunetta, che dopo le previsioni azzeccate sul referendum costituzionale è diventato l’«oracolo» berlusconiano, ripete come un martello pneumatico: «Il centrodestra unito è vincente secondo tutti gli istituti di ricerca».
 
Soluzione di riserva
Lo stesso Berlusconi se ne va convincendo. Chiuso ad Arcore, l’ex premier ha passato Ferragosto al telefono con chi lo chiamava con la scusa degli auguri. E dalle mille conversazioni par di capire che il «listone» con Salvini non rappresenterebbe per lui un tabù. Certo, preferirebbe evitarlo perché l’uomo teme il giorno in cui dovesse spartire collegi e candidature. Correrebbe il rischio di non imporre i suoi nomi prediletti. Ma nello stesso tempo il «listone» concede al Cav un jolly da giocare con il Pd nella trattativa sulla legge elettorale. Se Renzi lascerà definitivamente cadere il modello tedesco, proporzionale della più bell’acqua che lui preferisce, Silvio avrà una ruota di scorta, la soluzione di ricambio per vincere comunque, anche con il sistema attuale.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/17/italia/cronache/limportante-vincere-tra-silvio-e-matteo-il-listone-non-pi-tab-NBtDy09Pal08UDo356gSGL/pagina.html