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Autore Discussione: Claudio MAGRIS  (Letto 28175 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:19:52 pm »

Il caso
La morte di Mimmo, una cicatrice sul volto del Paese
Un mese fa il delitto di Palagiano: uccisi il bimbo di 3 anni, la madre e il compagno della donna.
Una strage già dimenticata?

di Claudio Magris

La Procura della Repubblica e la Questura di Taranto, il Comando provinciale del Carabinieri e gli altri organi e forze di Pubblica Sicurezza del territorio in cui un mese fa è avvenuto l’immondo e atroce delitto di Palagiano - tre persone assassinate, fra cui un bambino di tre anni cui i criminali, una sottospecie antropoide, hanno sparato in faccia - stanno dedicando tutti i loro sforzi alla ricerca dei bestiali colpevoli, esecutori e mandanti. Poliziotti e carabinieri hanno rinunciato a giorni e ore di ferie per intensificare e accelerare quelle ricerche, divenute un centro dell’interesse e della passione di quella regione, mentre nel resto del Paese, travolti come si è da tanti problemi, sciagure e anche meschinità, ci si bada assai poco, non è più un problema all’ordine del giorno. È forse un altro esempio della spaccatura dell’Italia, delle due Italie e in particolare della distanza fra Nord e Sud del Bel Paese. È ovvio che ogni problema o sciagura vengano affrontati in primo luogo da chi ha competenza e responsabilità nel luogo in cui essi avvengono; anche il terremoto dell’Aquila investe prima i vigili del fuoco abruzzesi piuttosto che quelli sardi, anche se gli aiuti hanno visto unità di intervento provenienti da ogni parte. Ma il terremoto dell’Aquila è una calamità nazionale, non solo abruzzese; egualmente lo scopo che le autorità di Taranto e della zona si prefiggono, la cattura degli insetti velenosi cui si deve quell’atrocità, è un problema nazionale, che dev’essere seguito con tutto l’interesse, la passione, l’amore o l’odio con cui si seguono i grandi eventi - luttuosi, festosi, tragici, efferati, gloriosi, a seconda dei casi - che segnano, come cicatrici, e anzi costituiscono il volto del Paese, di tutti noi.

18 aprile 2014 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_18/morte-mimmo-cicatrice-volto-paese-e45acd6a-c6c3-11e3-ae19-53037290b089.shtml
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« Risposta #31 inserito:: Maggio 26, 2014, 06:29:15 pm »

Le ragioni dell’identità europea
Il passaporto della civiltà

Di CLAUDIO MAGRIS

Con l’Europa, succede quello che succedeva a Sant’Agostino col tempo: quando non ci si chiede cosa sia, si sa cos’è, ma quando lo si domanda, non lo si sa più. Se per Europa s’intende non solo un’espressione geografica o un progetto politico, bensì una civiltà, un modo di essere, un’appartenenza culturale, è difficile e forse pure retorico discuterne. Si può vivere questo senso di appartenenza, sentirsi a casa - almeno parzialmente - anche al di fuori del proprio Stato o della propria lingua, così come si vive l’amore per un paesaggio o per una persona, oppure lo si può raccontare, farlo sentire, ma in modo indiretto, come fa la letteratura.

Si può - si deve - parlare dei problemi concreti che ha oggi l’Europa, di ciò che favorisce oppure ostacola il processo di una sua reale unificazione, delle possibilità o difficoltà di arrivare un giorno - malgrado l’attuale gravissima crisi - a un vero e proprio Stato europeo. Si può - si deve - parlare dell’euro, della disoccupazione, dell’immigrazione e della necessità di leggi comuni a tutti i Paesi.

È invece arduo e rischioso voler definire la cultura europea. Tuttavia se ne possono forse tracciare alcune linee fondanti. A differenza di altre grandi civiltà, l’Europa, sin dalle sue origini, ha posto l’accento non sulla totalità (statale, politica, filosofica, religiosa) bensì sull’individuo e sul valore universale di alcuni suoi diritti inalienabili. Dalla democrazia della Polis greca al pensiero stoico e cristiano col suo concetto di persona, dal diritto romano con la sua tutela concreta dell’individuo all’umanesimo che ne fa la misura delle cose, dal liberalismo che proclama le sue intoccabili libertà al socialismo che si preoccupa del loro esercizio concreto e delle possibilità di vivere una vita dignitosa, il protagonista della civiltà europea è l’individuo, che la letteratura e l’arte raffigurano nella sua irripetibile e inesauribile complessità, che Kant proclama essere un fine e mai un mezzo.

La civiltà europea contiene un grande potenziale antitotalitario ed è stata la «culla dei diritti umani» validi per tutti gli uomini, di principi universali che trascendono ogni orizzonte storicamente limitato e dunque pure l’orizzonte europeo e gli interessi dell’Europa. Antigone afferma le «leggi non scritte degli dèi» che nessuna legge positiva dello Stato può violare; di qui si arriverà, in un lungo e contorto processo, agli inalienabili diritti di tutti gli uomini, proclamati dalla costituzione americana del 1776 e da quella francese del 1792, sino ai diritti civili che comprendono pure la «disobbedienza civile», formulata da Thoreau, nei riguardi dello Stato quando esso violi quei diritti la cui estensione è ancora in corso, anche se contraddetta da tante situazioni di barbarie.

25 maggio 2014 | 08:19
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_25/passaporto-civilta-0bd3b142-e3d2-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 18, 2014, 08:49:39 am »

Striscia di Gaza
L'orrore senza fine
Il bombardamento sulla spiaggia e i quattro bambini morti

Di Claudio Magris

La morte orribile e straziante dei quattro bambini palestinesi intenti a giocare o ad aiutare i padri pescatoria gettare le reti - morte che si aggiunge a quella di tante altre vittime egualmente innocenti di una parte e dell’altra e alla quale seguiranno verosimilmente altre morti altrettanto strazianti ed orribili - non tollera alcuna effusione sentimentale, che dinanzi alla terribile realtà suonerebbe retorica anche se sentita profondamente.

È ovvio, e un dovere, dinanzi a questa realtà, gridare che la guerra deve finire. Ma la morte cesserà di essere la regina in quelle terre non certo soltanto se esprimiamo il nostro sdegno per un crimine o un altro, il nostro lutto per vite come queste e tante altre stroncate in una assoluta assurdità.

La morte di qualsiasi bambino - e certo non solo di un bambino ma di chiunque, a cominciare dai tre israeliani rapiti - sotto qualsiasi bomba è un momento in cui la vita, la Storia, il potere politico mostrano il loro volto più imbecille e sanguinoso. Ma tutto ciò potrà cessare, in quei Paesi, soltanto se i contendenti saranno capaci di risolvere realmente il loro conflitto, di rimuovere ed eliminare le cause oggettive che portano inevitabilmente all’orrore, oppure se, nel gioco della politica mondiale, si riuscirà ad imporre loro la pace, una pace reale.

Entrambe le ipotesi - le uniche suscettibili di porre fine alla barbarie - appaiono altamente improbabili ed è invece tragicamente probabile che ci attendano altre catastrofi umane.

17 luglio 2014 | 16:55
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DA - http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_17/orrore-senza-fine-8056448a-0dc1-11e4-9f11-cba0b313a927.shtml
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 01, 2014, 06:29:47 pm »

La crisi e noi

L’impresa di resistere alla crisi in un Paese stanco e senza più passioni
Il declino economico sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza quanto rassegnazione.
Tra tanti negozi vuoti la gola è l’ultimo appetito a morire

Di CLAUDIO MAGRIS

Nel Tramonto dell’Occidente - libro che negli anni Venti ebbe un enorme successo per il suo pathos epocale e il suo miscuglio di intuizioni geniali ed enfasi apocalittica zeppa di strafalcioni logici - Spengler annunciava che la civiltà occidentale - per lui sostanzialmente germanica - esaurito il suo slancio faustiano di espansione e di conquista sarebbe presto morta. Il suo ultimo stadio sarebbe stata una sua pallida ed esangue copia collocata vagamente in Oriente, fra la Vistola e l’Amur, presto destinata a spegnersi. Non è il caso di lasciarsi affascinare dai bagliori della decadenza - già la musica e il suono della parola «Occidente» hanno una seduzione di declino - né dai profeti quasi sempre soddisfatti di proclamare sventure e impermaliti, come Giona, quando tali sventure non si avverano. Se la nostra civiltà occidentale ha certo le sue gravi difficoltà, nelle altre parti del mondo e nelle altre culture non si sta molto bene.

È innegabile tuttavia che la descrizione di quella civiltà spenta e opaca, priva di passioni, che Spengler situa in un’Europa orientale semiasiatica, assomiglia all’atmosfera che, da non molto tempo ma sempre più diffusamente, si è creata nel nostro Paese. La crisi economica sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza, quanto una fiacca rassegnazione. Certamente vi sono molti individui che lottano, con le unghie e con i denti, per la loro esistenza e per la dignità della loro esistenza. Sono essi i protagonisti, i combattenti di questa difficile battaglia. Quello che resiste è il più autentico capitalismo legato ancora all’iniziativa individuale, al rapporto diretto tra il lavoro e il profitto, alla piccola attività ed impresa, mentre il grande capitalismo dei tronfi ed inetti signori del mondo, sempre più anonimi e scissi dalla dura realtà del lavoro, è spesso largamente, talvolta criminosamente colpevole della crisi.

Ma la nostra società sembra aver perso, in generale, mordente, slancio, capacità di progetto e di protesta, passione. Ciò che manca, da qualche tempo, è soprattutto la passione politica, che ha contrassegnato - con le sue lotte, i suoi furori, le sue faziosità, i suoi ideali - la vita del Paese dal Dopoguerra (l’antifascismo e i diversi antifascismi, lo scontro tra comunismo e democrazia liberale, la tumultuosa crescita economica che portava con sé tensioni, entusiasmi e progressi sociali) agli anni dei governi Berlusconi, che scatenavano ancora amori e odi. L’ultima fiammata di irruente accensione degli animi è stato il Movimento 5 Stelle, che tuttavia non solo sembra affievolirsi, ma che non pare essere stato, a differenza di altre formazioni pur tendenti all’estremismo, una componente organica del Paese.

L’Italia sembra vivere stanca, depressa ma senza drammi, indifferente alla politica ovvero al proprio destino, giacché la politica è la vita della Polis, della comunità. Un Paese senza. Fra i negozi vuoti spiccano le trattorie e i ristoranti, decisamente più frequentati; la gola è l’ultimo appetito a morire, resiste alla depressione e alla mancanza di senso più del sesso. Speriamo di non essere alle soglie di un abisso, come negli anni Venti; in ogni caso, manca quella frenesia trasgressiva e disperata di vita che c’era in quegli anni sciagurati ma vivi e che risuona nelle canzoni di Brecht o nelle musiche di Cabaret. La nostra esistenza assomiglia piuttosto a quella di un personaggio di Gozzano, Totò Merùmeni: «E vive. Un giorno è nato, un giorno morirà».

1 settembre 2014 | 07:39
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_settembre_01/impresa-resistere-crisi-un-paese-stanco-senza-piu-passioni-2da9be0a-3199-11e4-a94c-7f68b8e9ffdd.shtml
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« Risposta #34 inserito:: Settembre 24, 2014, 06:26:29 pm »

Il pianto dei soccorritori a cui vorremmo assomigliare
La scelta di Catia tra i naufraghi da salvare. Il video sconvolgente di Corriere.it

Di Claudio Magris

Dinnanzi alle immagini del video, ai volti del comandante Catia e dei marinai e alle loro parole, a chi sta annegando o è annegato o viene salvato, ogni commento è penoso come una predica. È come se, mentre quei marinai cercano di salvare più vite possibili, qualcuno seduto sulla spiaggia tenesse una nobile conferenza. Quell’ennesima tragedia nel canale di Sicilia fa sentire cosa possano essere, in ogni circostanza nel mare della vita, la prontezza fisica, la disponibilità a buttarsi in aiuto di qualcuno, virtù militari e non solo militari.

Vedendo «La scelta di Catia» mi venivano in mente le pagine di Solgenitsin in «Agosto 1914», in cui egli contrappone gli intellettuali parolai al maresciallo che nel fuoco della battaglia non perde la testa e salva la vita a qualcuno, anche a un nemico ferito. Colpisce, nelle laconiche dichiarazioni dei soccorritori, non solo la generosa e trattenuta emozione, ma anche la consapevolezza del proprio stato fortunato rispetto a ciò che avviene nel mondo, consapevolezza che è rara, perché quasi ognuno, anche se sta bene, si sente incompreso e mal ripagato dagli altri e dal destino e mostra spesso alla vita un viso risentito e inappagato, ben diverso dalle facce di quei marinai, facce di belle persone cui vorremmo assomigliare. Colpisce il loro conflitto tra la pietas nei confronti dei morti e la necessità di abbandonarli per salvare gli altri, quasi obbedendo alla dura parola di Gesù che ammonisce a lasciare che i morti seppelliscano i loro morti.

Questo tragico naufragio, per una volta tanto, non è doloso. Ma troppi altri, vere stragi, sono stati causati dai mercanti di questi nuovi schiavi. Il loro problema, con tutte le implicazioni umane, politiche e sociali, è un problema non solo italiano ma europeo, di quell’Europa di cui l’Italia è una punta protesa sul mare che bagna pure l’Africa come lo è la Sicilia per l’Italia. L’immigrazione clandestina è un dramma per gli sventurati che ne sono protagonisti-vittime, per le strutture spesso insufficienti ad accoglierli, per il loro numero che può rendere insufficienti anche le strutture più adeguate, per le difficoltà economiche e psicologiche che arrivi massicci creano oggettivamente nel Paese d’arrivo, specie in momenti di crisi. Ma quando al problema di per sé drammatico per tutti dell’immigrazione di dannati della terra si aggiunge il loro criminale sfruttamento foriero di morte, tutto ciò diviene una vera guerra. Il traffico degli schiavi deve essere affrontato con la durezza con cui si affronta un nemico in guerra.

Ho letto qualche settimana fa di un noto scafista capoccia di negrieri arrestato per sette volte e dunque per sei volte rilasciato. Evidentemente la pena, in quel caso, non ha avuto il potere deterrente che fa parte del ruolo della pena; quel delinquente non è uscito dalla galera sufficientemente spaventato per non ripetere i suoi crimini. A parte questo caso, che va giudicato in sé conoscendo tutti i suoi elementi attuali e formali giuridici, fra le misure per fronteggiare queste tragedie ci deve essere anche — non certo soltanto, ma anche — un apparato repressivo particolarmente duro. Come nel caso della delinquenza organizzata, dinanzi a questa nuova tratta ci si trova in una vera e propria guerra e bisogna comportarsi come ci si comporta in guerra.


Web serie e docuweb: «La scelta di Catia - 80 miglia a sud di Lampedusa» partirà su Corriere.it lunedì 29 settembre (10 puntate, una al giorno da lunedì al venerdì) e verrà trasmessa su Rai3 in prima serata lunedì 6 ottobre. È la storia di tanti salvataggi di migranti e della prima donna comandante di una nave militare italiana, Catia Pellegrino. La docufiction è stata realizzata da H24 (idea di Mauro Parissone, regia Roberto Burchielli) per Rai Fiction con Corriere della Sera e Marina Militare.

23 settembre 2014 | 21:35
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Da - http://www.corriere.it/inchieste/pianto-soccorritori-cui-vorremmo-assomigliare/78975390-4356-11e4-9734-3f5cd619d2f5.shtml
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 16, 2014, 05:56:25 pm »

Cultura

L’avvocato delle streghe e l’iniquità dei processi contro le «indemoniate»
Nel 1631 un testo critica a fondo le indagini basate sull’uso sistematico della tortura Una voce sostenuta dall’amore per la verità: figlia, ma non prigioniera del suo tempo

Di Claudio Magris

Anni fa, il vescovo di Trieste Lorenzo Bellomi mi raccontò che qualche giorno prima aveva ospitato tre suoi amici, due uomini e una donna, suoi compagni di scuola poi divenuti medici con cui era rimasto in stretti rapporti d’amicizia e che si erano fermati a Trieste, tornando a casa, dopo essere stati a Medjugorje. Durante la cena gli avevano detto, con imbarazzo e senza alcuna enfasi mistica, di aver visto la Madonna, aggiungendo che sapevano bene come lui non amasse quelle cose e fosse alquanto scettico, memore forse che Gesù rimprovera duramente chi chiede miracoli. Bellomi rispose: «Siamo amici da una vita e non mi passa per la testa di non credervi se mi dite di aver visto la Madonna. Se mi dite di averla vista, certamente l’avete vista. Il che non vuole ancora dire che la Madonna vi sia realmente apparsa».

Le difficoltà di guardare la realtà
Quel vescovo, ancor oggi ricordato con grande affetto e considerazione, non intendeva certo insinuare che i suoi amici potessero soffrire di allucinazioni. Diceva una cosa molto più generale e importante della fondatezza di quelle apparizioni. Sottolineava un’universale debolezza umana, ossia la difficoltà - difficoltà che riguarda tutti - di vedere la realtà, portati come siamo a vedere ciò che ci attendiamo di vedere, che siamo preparati a vedere e che proiettiamo, in assoluta buona fede, su ciò che ci sta davanti agli occhi e magari è molto diverso. Capita più o meno a tutti; ricordo che una volta, raccontando un fatto per fortuna di minima importanza, ho alterato in piena sincerità un particolare, deformandolo secondo la mia aspettativa, piegandolo all’immagine e alla convinzione che c’era già nella mia mente prima di vederlo. Per fortuna non si trattava di una testimonianza in un processo e quella mia onesta ancorché deplorevole invenzione non poteva danneggiare nessuno.

Pregiudizi
Questa difficoltà di vedere ciò che realmente accade è spesso accresciuta dalla cosiddetta «aria del tempo», dalle convinzioni, abitudini e credenze dell’epoca in cui si vive e che talora illuminano talora appannano la realtà e la sua visione. Non farsi condizionare dai pregiudizi e dalla mentalità del mondo in cui si vive è una delle più ardue e rare virtù, che rivela un’eccezionale libertà e creatività di spirito. Uno dei più grandi esempi di questa creatività - che smonta l’idea della verità quale figlia del proprio tempo - è Friedrich von Spee, un gesuita del Seicento che fu confessore di molte donne condannate al rogo perché streghe.

Streghe e stregoni
Figlio del suo tempo e degli idoli del suo tempo, von Spee credeva che potessero esistere streghe e commerci di vario genere con il demonio. Sarebbe stato facile - e, sotto il profilo storico-culturale, comprensibile - che egli, come tanti suoi contemporanei e soprattutto come tanti che si occupavano di quei processi, vedesse delle streghe e degli stregoni nelle persone perseguitate, esaltate, mentalmente e fisicamente malate, spesso repellenti, torturate, ree confesse sotto tortura. Preparato a incontrare complici e seguaci del Maligno, von Spee ebbe la straordinaria, geniale capacità di accorgersi che nessuna di quelle persone disgraziate e sciagurate era una strega o uno stregone ed ebbe il coraggio di dirlo e denunciarlo apertamente, in uno scritto, Cautio criminalis (1631), che rischiò di mettere lui stesso in pericolo e che è un vero capolavoro di cristiano amore del prossimo e della verità, di logica incalzante e serrata, di razionalità che non si lascia abbagliare né intimidire.

Cautio criminalis
Nella Cautio criminalis - ottimamente tradotta da Mietta Timi già nel 1986 per la casa editrice Salerno e introdotta con particolare finezza da Anna Foa - rivive la terribile Germania di quei decenni, devastata da guerre politiche e religiose che distruggeranno due terzi della popolazione, lacerata in un caos di anarchia e di violenza cui si accompagna un incredibile fervore culturale, una fioritura letteraria, filosofica e teologica che darà i suoi frutti per secoli, ma non lenisce l’orrore delle stragi, della fame, delle pestilenze, della morte. Spee è fermo, equilibrato ma implacabile nella sua denuncia e nella sua difesa di martoriati e martoriate innocenti. Contesta la validità delle confessioni rese sotto tortura, perché - dice - sotto tortura si finisce per dire e ammettere qualsiasi cosa, pur di farla cessare, ed ammette di non sapere come si comporterebbe egli stesso se sottoposto a intollerabili sofferenze. Da questo punto di vista, incalza con sottigliezza, la tortura è colpevole perché induce gli uomini a peccare, a dire il falso, ad accusare innocenti inceppando così la stessa giustizia, giacché il torturato deve inventare colpevoli e svia in tal modo le indagini. Descrive con asciutta efficacia la crudeltà di magistrati inquirenti, anche sacerdoti, i riti precedenti la tortura o l’esecuzione (la rasatura delle imputate, i marchi le cicatrici le deformità interpretati quale opera del demonio, l’implausibile vaghezza delle ammissioni di aver partecipato al sabba diabolico).

Presunzione di innocenza
Spee non ha solo un cuore caldo, ha anche una testa lucida ed esperta del diritto. Sostiene il principio della presunzione di innocenza, individua il bisogno che i prìncipi hanno di quei processi ma, politicamente più sottile di loro, pure il danno che tali messinscene dell’orrore recano alla stessa autorità pubblica che li promuove. La Cautio criminalis può gareggiare con la manzoniana Colonna infame , con l’ulteriore merito di essere stata scritta più di due secoli prima. Spee sa bene come l’Inquisizione non sia solo la leggenda nera creata nei secoli successivi e che la storiografia contemporanea - si pensi, per fare solo alcuni esempi, agli studi di Adriano Prosperi, a un’opera fondamentale come il Dizionario storico dell’Inquisizione da lui diretto, oppure agli studi di Carlo Ginzburg e di molti altri - ha indagato a fondo. Il meccanismo mortale dell’Inquisizione è complesso e comprende - come si vede leggendo il Sacro Arsenale , il manuale per i giudici - anche minuziosi garantismi, quali la necessità di almeno tre testimoni per accusare qualcuno, la verifica dei testimoni stessi e il divieto di suggerire, neppure indirettamente, agli imputati le risposte.

Le parole degli accusati
Spee si muove con forza e prudenza in questa selva, inflessibile e insieme avveduto nella sua battaglia. Leggendo le sue pagine così forti e insieme misurate, si vorrebbe sentire anche direttamente la voce delle accusate e degli accusati, le parole rotte e sanguinanti che uscivano dalle loro bocche ridotte, dall’incultura e dalla violenza subita, quasi all’afasia. Andrea Del Col ci ha fatto sentire, nelle sue notevolissime ricerche, queste voci spezzate e balbuzienti - vorremmo poter sentire anche il loro timbro, il loro suono, il loro respiro strozzato. Spee lo ha sentito; le parole di quella gente sventurata gli arrivavano all’orecchio insieme al loro fiato e forse anche questo gli ha dato la forza di battersi, giungendo a dire che vacillino pure i poteri giudiziari se debbono fondarsi su quelle infamie. Non stupisce che fosse pure un delicato e intenso poeta, che ha cantato l’amore di Gesù e la dolcezza della natura, gareggiando, come dice il titolo della sua principale raccolta di versi che ha un suo posto rilevante nella letteratura tedesca, con gli usignoli. «Deh, lasciati vedere, io cerco te!/ Gridai tosto di nuovo,/ non sole ma solo l’ultime parole/ sentii ripetere, io cerco te». Era figlio del suo tempo. Tutti lo siamo, ma qualcuno, come quei carnefici, è pure figlio di buona donna.

16 novembre 2014 | 13:14
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_novembre_16/avvocato-streghe-l-iniquita-processi-contro-indemoniate-ce16d360-6d7f-11e4-a925-1745c90ecb18.shtml
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« Risposta #36 inserito:: Dicembre 17, 2014, 06:05:46 pm »

Il caos e la pietà
Pakistan, le atrocità di una guerra perpetua

Di Claudio Magris

È ovvio, è incontenibile, è doveroso, è inutile anche se appassionatamente sincero gridare tutto l’orrore per questa inaudita bestialità e tutta la stravolta pietà per le vittime di una simile inumana barbarie.

È più difficile rispondere alla prima domanda di ogni politica, posta da molti famosi pamphlet, specie in una situazione abnorme come questa: che fare? Non siamo nella Terza Guerra Mondiale; questa è finita nel 1989 o nel 1991, con la vittoria dell’Occidente sul mondo sovietico e 45 milioni di morti, per nostra egoistica fortuna caduti in altre regioni della Terra.

Siamo in una Quarta Guerra Mondiale, in cui, a differenza dalle precedenti, non è sempre ben chiaro chi sia contro chi. Assad è un dichiarato nemico quando esercita le sue repressioni ma è quasi un alleato quando gli si chiede l’autorizzazione a lasciar passare gli aerei che si avviano a (modesti) interventi in altre regioni del Medio Oriente. La guerra in Afghanistan sta durando due volte e mezzo la Seconda Guerra Mondiale ed evidentemente non è stata ancora vinta e non è finita, se succede quello che è successo ieri.

Le guerre si possono fare o non fare, come si augura ogni persona ragionevole.
Ma non si possono contemporanea mente fare e non fare, provocando vittime sempre tragiche e doppiamente inutili perché non giovano a risolvere alcun problema. Le guerre vanno evitate con ogni sforzo, ma ci sono situazioni in cui, come disse Churchill dopo il vile cedimento al Nazismo a Monaco nel 1938, nella scelta tra il disonore e la guerra si sceglie il disonore senza per questo evitare poco dopo la guerra. O ggi, ipocritamente, non si dichiara più la guerra, nemmeno quando la si fa. Ma una guerra o si vince o si perde; essa non può essere, come è oggi, un incerto e interdetto stillicidio di vite umane che non risolve nulla e non elimina la tragedia della sofferenza e della morte. Il mondo è oggi un focolaio di guerre, di guerra. Di chi, contro chi? Il progresso tecnologico permette oggi ad un pugno di disperati e ben preparati fanatici di mettere in difficoltà le grandi potenze, cosa mai avvenuta in passato. Le grandi potenze - a cominciare dalla più grande, dalla grande potenza per antonomasia, gli Stati Uniti - appaiono esitanti, impappinate. Non vogliono e forse non possono più esercitare il ruolo, un tempo brutalmente redditizio e ora ingrato, di guardiani del mondo, ma non sanno bene come rinunciarvi e neanche se proprio lo vogliono e nel frattempo si invischiano in pantani fatali.

La Quarta Guerra Mondiale è forse quella dell’Islam, o di un certo Islam contro tutti gli altri? Non lo credo, perché ritengo che il caos nel mondo sia oggi molto più complesso, ma l’incubo di tale scontro è innegabile. Lo aveva capito genialmente Giovanni Paolo II, che si oppose alla guerra contro l’Iraq non per ingenuo pacifismo né per bontà d’animo (la guerra in Jugoslavia non sembra averlo troppo turbato) né certo per simpatia verso feroci tiranni come Saddam Hussein, ma per una straordinaria visione storico-epocale, per la consapevolezza che il conflitto con il mondo islamico sarebbe stato foriero di ulteriori conflitti e squilibri sanguinosi e che la caduta di abietti regimi tirannici non avrebbe creato democrazie, ma altri totalitarismi, forse più pericolosi perché atomizzati e incontrollabili.

Una guerra la si vince o la si perde, non la si protrae in un indefinito sgocciolio di morte. Certe volte si vince dando all’avversario un buon colpo che tuttavia non lo distrugge, come la Prussia che nel 1870 batte la Francia prendendosi l’Alsazia e la Lorena ma senza mettere a terra il Paese. Altre volte la si vince solo annientando il nemico, come la Germania nazista rasa al suolo nel 1945.

Con i talebani o tanti altri loro cugini ferocemente rivali ma anche solidali non sembra possibile - a parte ogni considerazione umana e morale - né l’una né l’altra soluzione. E come se la Quarta Guerra Mondiale fosse veramente l’ultima guerra ma solo perché sembra che non finirà mai. E intanto, in questa stanca e febbrile violenza perpetua, continueranno ad accadere innominabili atrocità come quella di poche ore fa. È grottesco dire, tra qualche giorno, «Buon Natale».

17 dicembre 2014 | 07:20
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_17/atrocita-una-guerra-perpetua-c265e9ce-85b3-11e4-a2bf-0fba46a30b83.shtml
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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:42:05 pm »

La dialettica del segreto secondo Claudio Magris

Di Francesco Clemente
07/02/2015

Abstract
In “Segreti e No”, Magris ragiona sull’uso politico delle pratiche di segretezza e sulla custodia privata delle cose non confessate, evidenziandone il valore nel contesto dell’attuale società dominata dai media.

Dopo averlo sfogliato è anche possibile non condividerne gli esiti, ma è difficile non riconoscerne lo spessore stilistico che lo irrobustisce, nella sua stringatezza. Con “Segreti e No” di Claudio Magris siamo di fronte a un distillato raffinato dell’ars scrivendi, un esempio tangibile di cosa significhi la scrittura matura, dove la semplicità della parola non è semplificazione ma sapiente sottrazione in vista dell’essenzialità definitiva. Una scrittura densa, quella dell’Autore, al pari della materia di un buco nero (dove un cucchiaino di materia può pesare tonnellate terrestri), con un periodare che fende la mente del lettore come uno stiletto lanciato nell’aria, che impreziosisce gli argomenti affrontati con un gusto per l’equilibrio fra riflessione politica e meditazione intimistica. Sul piano dei contenuti il libro definisce i tratti di una dialettica del segreto, soffermandosi sulle sue polarità opposte: da una parte il segreto come instrumentum regni, mezzo di conservazione o conquista del potere politico; dall’altra come atto di coraggiosa preservazione della libertà individuale. Una dialettica, questa, nella quale non trova spazio la volgarizzazione occultistica.

Sono tre i meriti di questa impresa saggistica. 
In primo luogo, queste pagine ci ricordano che il potere politico nella sua visibilità pubblica ha agito e continua ad agire sempre in ottemperanza alle trame oscure. Di per sé ciò può anche non apparire una constatazione originalissima, ma essa, a nostro avviso, acquista valore alla luce dell’eccesso di esposizione pubblica rincorsa dal potere e dai suoi occasionali rappresentanti. Il potere, soprattutto quello istituzionale, è lì a due passi, è catturato dalle immagini fotografiche e dalle telecamere: sembra essere esso stesso dentro le maglie di un’autorità mediatica più estesa. Non appare evidente, addirittura forse inconcepibile, il suo sempiterno agire sotterraneo. Tuttavia, proprio in questa sua spasmodica ricerca di svelamento definitivo, le strategie segrete di gestione del mondo appaiono ancora più raffinate di quello che si possa supporre: nel suo far credere che non abbia segreti, il potere ne riesce a conservare intatta l’efficacia.

In secondo luogo, l’attenzione verso la dimensione intimistica del segreto contribuisce a dissolvere un certo moralismo che affetta l’obbligo della manifestazione della verità. Magris ricorda, a proposito, quel Torquato Accetto autore di “Della dissimulazione onesta”, opera nella quale si sostiene l’idea che se la simulazione comunica il falso, la dissimulazione può anche risultare un modo discreto di non alterare la realtà.

A riguardo, non stona osservare che nelle opere letterarie citate da Magris avrebbe potuto trovare spazio anche un libro di Ignazio Silone, risalente al 1956 e intitolato “Il segreto di Luca”, opera che nel 1969 ebbe anche una trasposizione cinematografica grazie al regista Ottavio Spadaro.

L’aspetto salvifico del segreto anche a costo di immensi sacrifici personali permea, infatti, quest’opera di Silone, dove il protagonista preferisce non difendersi in un processo per difendere l’onore di una donna.

In terzo luogo, la critica sprezzante di Magris verso i segreti in ambito occultistico coglie una polemica di un certo rilievo nel panorama della cultura non solo “di massa”, ma anche, per così dire, di nicchia. Il travisamento dell’etimo della parola “segreto” si realizza perfettamente lì dove l’esoterismo e la magia cercano, sgomitando, un preteso palcoscenico mediatico, che impone l’ostentazione dell’invisibile con goffi esiti di una immensa chiacchiera sul silenzio iniziatico.

Che dire poi della retorica del segreto che affetterebbe molta letteratura esoterica, debitrice (come ha fatto notare Marco Pasi, docente ad Amsterdam di Storia della Filosofia ermetica) proprio del suo opposto, ovvero del disvelamento per illuminazione? Fedele alla sua cultura triestina, Magris, di fronte a ciò, alza educatamente le spalle e ricorda al pubblico la paradossalità ironica delle storie popolari della sua terra, dove il segreto strappa un sorriso sommessamente umoristico.

Claudio Magris, Segreti e No, Bompiani, Milano 2014, pp. 58, € 7,00.

DA - http://www.sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=233&ID=523
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 25, 2015, 05:00:51 pm »

Immigrazione
Dove cessa l’umanità
Queste infami tragedie sono la prova di un’altra triste realtà: l’inesistenza dell’Europa.
Sarebbe opportuno il codice marziale per i mercanti di schiavi

Di Claudio Magris

Ogni volta la tragedia è più grande - e lo sarà sempre più - e ogni volta si dice, mentendo in buona fede a se stessi, che si è raggiunto il colmo.
E che è vicino il momento in cui si volterà pagina, proprio perché è intollerabile che continui questo crescendo di orrori.

Invece con ogni probabilità continuerà, se non accadrà qualche radicale e inimmaginabile cambiamento nella situazione e nella politica mondiali. La pietà, l’indignazione e lo sgomento del mondo - di noi tutti - si accenderanno, sinceri e inutili, a ogni nuovo episodio di barbarie.

Ma forse sempre meno, perché ci si abitua a tutto e proprio il ripetersi delle orrende e criminose tragedie renderà più assuefatte e meno reattive le coscienze.

Che fare, come dice il titolo di un famoso pamphlet politico? Il problema è tragico, perché agli immigrati e senza nome e senza destino si oppongono non solo le livide, imbecilli e regressive paure di chi teme ogni forestiero incapace di bestemmiare nel suo dialetto e sogna un mondo endogamico e gozzuto di consanguinei.

Alla doverosa accoglienza umana di tanti fratelli perseguitati e infelici si oppone e purtroppo si opporrà una difficoltà o impossibilità oggettiva, il numero di questi fratelli infelici, che un giorno potrebbe essere materialmente impossibile accogliere. Un ospedale che ha cento posti letto può ospitare, in situazioni di emergenza, 150 malati, ma non 10 mila, e chi facesse entrare nelle sue corsie 10 mila persone creerebbe, irresponsabilmente, la premessa di nuove difficoltà e di nuovi conflitti. Queste infami tragedie sono la prova di un’altra triste realtà: l’inesistenza dell’Europa. Il problema dei dannati della Terra che arrivano sulle nostre coste è europeo, non italiano; coinvolge l’Europa, non solo l’Italia. Che l’Unione Europea se ne disinteressi è oscenamente autodistruttivo; è come se il governo italiano si sbarazzasse del problema dicendo che è affare della regione di Sicilia, visto che i naufraghi, vivi o morti, non arrivano a Roma o a Torino. Se l’Unione Europea se ne disinteressa, e non può essere un tardivo intervento a dimostrare il contrario, significa che l’Unione Europea non esiste. Che fare? Certo, si possono adottare piccole misure. Ad esempio, sarebbe opportuno che i mercanti di schiavi, colpevoli spesso volontariamente di crimini, fossero sottoposti, data l’emergenza di questa vera guerra per l’Italia, al codice marziale.

Non sarebbe male se i mercanti di schiavi e di morte sbrigassero i loro affari rischiando la morte come i loro schiavi.

Fa impressione leggere di alcuni di questi assassini arrestati e presto scarcerati e tornati al loro traffico lurido e lucroso. Che fare? Nessuno, sembra, lo sa.

20 aprile 2015 | 07:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_20/dove-cessa-l-umanita-a9752a5a-e71b-11e4-95de-75f89e715407.shtml
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« Risposta #39 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:48:18 pm »

LA STORIA
Grecia, nessun grande passato può essere un alibi
Anche i colonnelli al potere ad Atene erano figli di uno dei più grandi popoli del mondo
Di Claudio Magris

Tsipras, nelle polemiche e improbabili trattative con l’Unione Europea, ha ricordato, quale argomento a favore delle sue richieste e delle esigenze del suo Paese, che la Grecia è stata la madre della civiltà dell’Europa e in particolare della democrazia. È verissimo. La Grecia è stata la culla della democrazia, della Polis, di quei valori su cui si fondano la nostra umanità e la nostra vita civile. Lo ha illustrato a fondo, qualche giorno fa, sul Corriere Eva Cantarella. Ma alla Grecia classica dobbiamo pure la filosofia, la poesia, il senso delle cose ultime. Non c’è nessun testo che possa far comprendere, ieri oggi e domani, cosa sia l’uomo come il secondo coro dell’Antigone di Sofocle ed è un solo esempio fra tante vette assolute.

Ma Tsipras o altri suoi connazionali possono vantarsene più di altri nati sotto altri cieli? Nessun grande passato garantisce a nessuno un altrettanto grande presente.

L’Impero Romano è stato la più alta creazione politica della Storia, ancora fondamento del mondo in cui viviamo, ma era ridicolo invocarlo a sostegno, immagine e somiglianza del fascismo né potrebbe essere invocato a giustificare l’infame e disastroso attacco di Mussolini alla Grecia. A quell’epoca ad assomigliare di più ai Romani non erano gli italiani bensì piuttosto gli inglesi, come disse lo stesso Mussolini parlando degli inglesi come di «questi formidabili Romani moderni».

Anche i colonnelli al potere in Grecia decenni fa erano figli di uno dei più grandi popoli del mondo, ma non avrebbero potuto certo appellarsi a Pericle o ad Aristotele. Quando si ha un’altissima civiltà nel proprio DNA, essa si rivela non nella citazione del passato, ma nel modo in cui si affrontano i problemi del proprio presente. Questo vale oggi per tutti i governi impegnati ad affrontare le tremende difficoltà del popolo greco. Agire irrazionalmente, rabbiosamente, caparbiamente, tignosamente, rumorosamente, truffaldinamente significa, per tutti, compiere quello che per la civiltà greca era la massima colpa, la hybris, la dismisura, peccato senza remissione.

9 luglio 2015 | 09:56
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Da - http://www.corriere.it/economia/fondi/15_luglio_09/grecia-nessun-grande-passato-puo-essere-alibi-d7bd712e-260e-11e5-9a08-f80f881ecc8e.shtml
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 15, 2015, 09:02:03 pm »

Noi e l’islam
Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista
La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno


Di Claudio Magris

Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio, è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora quale possibile alleato.

In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio - di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati.

Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito. Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile -- anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene.

È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb.

A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.

È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. Quei dirigenti scolastici che hanno annullato per quel motivo la gita dovrebbero essere licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati, perché evidentemente non sono in grado di svolgere il loro lavoro, come dovrebbe essere licenziato un insegnante che in una gita scolastica a Granada vietasse ai suoi allievi di visitare l’Alhambra per non offendere la loro fede cristiana.

La violenza va repressa con la violenza, ma anche - e sperabilmente - esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando pure nelle zucche più dure la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno. Solo Allah, ripetono i versetti sulle pareti dell’Alhambra, è il vincitore. Le stragi di Parigi e tutte le violenze dimostrano, purtroppo, che spesso l’imbecille violenza è più forte del Signore, comunque questi venga chiamato.

15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 08:23)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_15/gli-attentati-parigi-quel-complesso-colpa-che-ispira-l-equivoco-buonista-0e5ec956-8b65-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 06, 2016, 07:03:46 pm »

Corriere che da 140 anni racconta il mondo

Di Claudio Magris

Il Corriere della Sera compie 140 anni. Il quotidiano fondato da Eugenio Torelli Viollier nacque il 5 marzo 1876 nella Galleria Vittorio Emanuele, da poco terminata. Per celebrare lo storico anniversario domani sarà in edicola uno speciale gratuito di 96 pagine con le prestigiose firme di oggi e di ieri. L’evento coincide con la rivoluzione digitale e dei contenuti che il Corriere sta realizzando. Anticipiamo il racconto di Claudio Magris sulla sua lunga esperienza al Corriere, contenuto nel supplemento.

Cinque marzo 1876, esce il primo numero del Corriere della Sera. L’Italia di quel giorno a noi sembra protostoria; Garibaldi e Marx sono ancora vivi, il Partito socialista non è stato ancora fondato, i fratelli Wright non sono ancora riusciti a volare e a smentire il loro padre vescovo metodista secondo il quale mai l’uomo ne sarebbe stato capace. Quei 140 anni, quei 51.000 giorni e più, con l’incredibile e sempre più accelerata trasformazione della realtà e dell’uomo stesso, sono un’era. Ed è per me ogni volta stupefacente e insieme rassicurante pensare che da più di un terzo di quell’era scrivo sul Corriere, da quando, credo su suggerimento di Enzo Bettiza, Giovanni Grazzini nell’ottobre del 1967 mi pubblicò, in quello che allora si chiamava Corriere letterario, un articolo su Max Brod e Kafka, un battesimo fondamentale nella mia vita. Il giornale si tuffa nel mondo e nella sua polvere, senza paura di sporcarsi le mani ma sapendo che per restare pulite e rendere più pulito il mondo quelle mani devono immergersi nel disordine delle cose, pronte anche a prendere per il bavero la menzogna. È una barca di carta spazzata di continuo dalle onde, è sempre in viaggio e non conosce la pace del porto. Quanto più è esatta e onesta nella sua rappresentazione del reale, tanto più la sua cronaca assomiglia spesso a un testo surrealista, perché accosta sulla pagina le cose più diverse del reale, l’assurdità, il bene ed il male, il coraggio, il sudiciume e le inimmaginabili trasformazioni del mondo. È il brogliaccio di un tentacolare e gigantesco romanzo ormai globale.

Un giornale ha enorme importanza e responsabilità — che è facile tradire — nella formazione di un Paese. Nessun giornale, con tutte le forche caudine delle varie pressioni e ragnatele, della gregaria convenzionalità spesso imperante talora di epoche terribili che deve attraversare, è senza peccato. Nemmeno il Corriere. Ma nella sua lunga e talora contraddittoria storia esso ha assolto complessivamente in grande misura al compito di un grande giornale. Per questo è divenuto, nella sua navigazione di lungo corso, il giornale d’Italia. Sulle sue pagine hanno scritto giornalisti, scrittori, politici, studiosi che hanno fatto grande non solo il Corriere ma l’Italia. Servizi, inchieste, reportage — cronache fedeli all’istante che diventano Storia.

Forse il segreto del Corriere e della sua grandezza (credo fin dai tempi di Albertini) risiede pure nella medietà, se così si può dire, che con sfumature diverse e con grandi impennate di originalità lo ha caratterizzato. Risiede in quell’assenza di partito preso a priori e di tono eclatante, spocchioso o ideologico, che ha potuto farne il giornale di quasi tutti e non solo per l’eccellenza delle firme e dei servizi. Ho sempre amato i giornali che — a parte quelli esplicitamente e onestamente di partito — non fanno capire subito l’orientamento politico o ideologico di chi li tiene in mano. Il Corriere non è mai stato e non è un club supponente di migliori né un salotto di chi la sa più lunga e si considera più avanzato degli altri. È un giornale civile, originariamente espressione di una solida borghesia, con i suoi pregi e difetti, e forse oggi per questo in una certa difficoltà, in un mondo in cui sono sparite le tradizionali classi sociali, pressoché amalgamate in una palude colloidale e gelatinosa.

Certamente, in tanti anni, il Corriere ha avuto le sue oscillazioni, ardite innovazioni e guardinghe cautele; ha avuto le sue cadute e le sue confusioni, incertezze titubanti con i poteri economici o il melmoso e rovinoso coinvolgimento con la P2, affrontato e respinto con sanguigno coraggio da Alberto Cavallari, mio fratello maggiore. Ma il Corriere ha saputo difendere la propria autonomia anche con toni più ironici eppure non meno inflessibili, come quando ad esempio Ferruccio de Bortoli, altro grande direttore che mi ha aiutato a crescere, scriveva in prima pagina «pubblichiamo volentieri questa lettera dell’on. Previti e l’avremmo pubblicata anche senza i cortesi solleciti di Palazzo Chigi».

Il Corriere mi ha fatto crescere, è stato una fondamentale scuola della mia vita. Una scuola di scrittura, che insegna a mettere i propri fantasmi a contatto con il mondo e a prestare più attenzione a quest’ultimo che a quelli; che insegna a scrivere su un evento che piomba addosso all’improvviso senza poter studiarlo prima di scrivere ma riflettendovi e studiandolo mentre lo si scrive in lotta con il tempo e con il numero delle battute, altra salutare ginnastica del pensiero e della fantasia. Una grande educazione linguistica, che insegna a essere comprensibili a quel lettore medio sconosciuto che è sempre il tuo interlocutore ma senza cedere alla falsa e ingannevole semplificazione, mettendosi a rischio in quel dialogo col lettore, come in ogni vero dialogo.

Di questi quarantanove anni al Corriere vorrei raccontare tante cose che mi hanno formato. Piccole e grandi; belle, dure, comiche, tragiche, conflittuali, fraterne. La mia mania di litigare per i titoli, con Grazzini e Nascimbeni che mi prendevano in giro e poi, nel caso di quest’ultimo, una conciliatrice partita a carte, a cotecio, di cui Nascimbeni era un campione — aveva pure vinto il trofeo dell’Oca d’argento a Verona — spirito che continua oggi nel fraterno cammino insieme ad Antonio Troiano. La severa, formatrice gerarchia di un tempo; i miei primi direttori, Alfio Russo e Giovanni Spadolini — di cui più tardi sarei divenuto molto amico — non li ho neppure mai visti e sulla Terza Pagina ho potuto scrivere un articolo solo dopo sei anni di collaborazione al Corriere letterario, nonostante Gaspare Barbiellini Amidei, altro amico cui sono debitore, avesse cercato di «spingermi» più in alto un paio d’anni prima. Gli anni del terrorismo, il corpo di Tobagi steso a terra. Il fumo rassicurante della pipa di Ugo Stille. Mieli che mi rende meno ansiosa la mia breve parentesi parlamentare spingendomi a continuare a scrivere pure in quel periodo.

Momenti drammatici, in cui ho visto pressoché l’intero corpo del giornale stringersi in una battaglia comune e ho capito che il lavoro tecnico, concreto all’ingranaggio del giornale non vale meno di chi lo scrive o lo dirige, come i marinai che sbrogliano le vele o i motoristi in sala macchine conducono la nave non meno degli ufficiali sul ponte. Altri momenti invece conflittuali, in cui l’unità del giornale sembrava in pericolo. Tante cose si affollano. I viaggi per il Corriere, che mi hanno aiutato a trovare me stesso; le battaglie etico-politiche, i grandi personaggi del Corriere, solo intravisti, come Buzzati al suo tavolo, o frequentati, come Biagi e, purtroppo tardi, Montanelli. Le lettere dei lettori, cui rispondo una per una — precisazioni, ringraziamenti, commenti, correzioni, richieste, elogi, insulti. I dimafonisti, necessari al mio analfabetismo digitale, con i quali un tempo avevo pure cordiali discussioni circa le loro proposte, ora accettate ora rifiutate, di correzioni al mio articolo che stavo loro dettando. Dopo che il loro numero era stato drasticamente ridotto, è toccato anche al direttore de Bortoli ricevere la mia dettatura al telefono e lo considero una vera promozione simbolica, i gradi di caporale napoleonicamente ricevuti sul campo.

Il tempo passa, dice un personaggio di Cent’anni di solitudine. Mica tanto, risponde un altro. Il tempo condensato dei decenni trascorsi fa tutt’uno con quello frenetico del giornale da fare ogni giorno, con le notizie che arrivano e le pagine composte, scomposte e ricomposte fino all’ultimo momento. Vita convulsa in cui però ci si sente a casa. Sì, il tempo passa ed è sempre più difficile. «Ah per queste cose ci vorrebbe un giornale!» diceva sarcastico il direttore Missiroli. Forse questo giornale, come del resto lui sapeva benissimo, e come sa il direttore Fontana, c’è.

2 marzo 2016 (modifica il 2 marzo 2016 | 23:23)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_03/corriere-140-anni-34d37cca-e0bb-11e5-86bb-b40835b4a5ca.shtml
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« Risposta #42 inserito:: Agosto 12, 2017, 05:14:55 pm »

Magris: Saba, un amore doloroso che è l’anima di Trieste
Lo scrittore racconta il poeta a sessant'anni dalla morte. “Una bramosia di comunione né borghese né aristocratica”

Pubblicato il 09/08/2017

BRUNO QUARANTA
TRIESTE

No, non abita qui il fantasma di Saba. Qui, il «San Marco», è la cuna di Claudio Magris, l’officina di mille parole e ancora mille, da Danubio a Non luogo a procedere, onorando una letteratura «che si ribella contro i tempi puri della grammatica, per rendere giustizia alla vita».

Altri i Caffè di Trieste cantati da Saba. Dal «Tergeste», caffè «di plebe» che «concili l’italo e lo slavo, / a tarda notte, lungo il tuo bigliardo», al Caffè dei Negozianti, dove «venivo fanciullo, d’altro ignaro / che non fosse quel mio vasto avvenire».

Era fresco di maturità classica, Claudio Magris, quando il «puer» del Canzoniere se ne andava, sessant’anni fa, il 25 agosto 1957. «L’avrò intravisto una volta. Ciò che so di lui, uomo e poeta, me lo hanno innanzitutto trasmesso amici comuni. Come Dora Baldi. Come Giorgio Voghera. Come Piero Kern, forse il primo ad apprezzare Borges in Italia».
 
Saba, nome de plume di Umberto Poli, un omaggio, si suppone, alla materna ebraicità, nemo propheta in patria? «Solo a Torino, dove giunsi in novembre per seguire i corsi universitari - rivela Magris -, lo accostai. Ero un lettore strenuo, da Dostoevskij a Tolstoj, ma evitavo, avevo evitato, a Trieste, le anime indigene. I giovani hanno, ieri come oggi, una sana diffidenza per le cose di casa».
Sotto la Mole, dove - una lirica di Saba - le vie «si prolungano come squilli»... «Allora, lungo il Po - ricorda Magris, con Angelo Ara tra gli scrutatori esatti ed appassionati di Trieste - Un’identità di frontiera (per Einaudi ) - mi immersi nel Canzoniere. Mi fece un’impressione enorme. Il suo artefice risaltando, nonostante fosse viziatissimo, pure come critico di se stesso, di una implacabile lucidità, se giungerà a dire, come giungerà a dire, di avere scritto le poesie più belle e più brutte del secolo».
 
Saba che non sceglie. Saba che nulla o quasi rifiuta della sua officina. Saba che non agita il setaccio. Così come il Saba della libreria antiquaria di via San Nicolò. Acquistata la bottega, si prefiggeva di buttare nell’Adriatico «tutti quei vecchi libri che conteneva», infine rinunciandovi: «Quei libri - nessuno dei quali mi interessava per il contenuto - mi avevano incantato». Ispirando un incipit mai arrugginito: «Morti chiedono a un morto libri morti...».
 
Saba che prediligeva i versi composti tra i 17 e i 19 anni, i soli «che ripeta qualche volta fra me e me». Mentre Magris fa vela verso il secondo tempo del poeta: Da Parole a Ultime cose, da Mediterranee a Quasi un racconto. «In Mediterranee - non esita - sta il vertice, Ulisse - “...me al largo / sospinge ancora il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore» -, ovvero l’inno alla vita selvaggia, dolce, tenera».

Saba a sé. Un po’ nell’ombra, rispetto a Montale e a Ungaretti. «Montale - distingue Magris - è la profondità, Ungaretti la verticalità. Saba, invece, spicca per l’orizzontalità. Non affermava forse di ammirare il melodramma? Lo zum pa pa della Traviata più di Wagner. La schiettezza dell’esistenza, il tran tran dei giorni...».

Saba, Trieste, «laggiù», come si era soliti indicare la capitale giuliana. «La marginalità di Saba - interpreta Magris - è la marginalità di Trieste. Anche. Una voce di confine, al confine. Non “universale”. Anzi: di difficile traduzione. Basta cambiare l’ordine delle parole e la sua poesia si arena, si spegne, si disarticola».

Saba che argina la marginalità non indulgendo, come Virgilio Giotti, al dialetto. «È Giacomo Leopardi - rammenta Magris - il suo poeta. Non può che scrivere in italiano, “nel mio triste italiano”». Al conte Giacomo invidiando un critico come De Sanctis, nonché, rispetto al suo («Nessuna creatura umana soffre come me»), «un piccolo dolore».
 
Quale la peculiarità della sofferenza di Saba? Non gli succede di confessare: «Io non so amare»? Riflette Magris: «Il suo non credo sia il dolore di Biagio Marin, il non essere in armonia con il fluire e il dissolversi dell’universo. È il desiderio inappagato di amare e di essere amato. Ancorché la figlia Linuccia avvertisse: “Mio padre sa amare, ma non voler bene”, l’amore in cui, onnipresente, irriducibile, è la componente predatoria. Come il rapporto con il giovinetto Federico Almansi testimonia. Saba infernale e celeste».
 
Infernale, celeste, non amorale. «Come voleva essere il suo Nietzsche, “grandezza solitaria” - coglie Magris -. Saba al di là del bene e del male. Innocente sempre. Bambino in aeternum. Una vita che non ha bisogno di scopi per essere nobilitata, a cui non occorre alcuna trascendenza». 
 
Nietzsche. E, ulteriore dioscuro di Saba, Freud. La nevrastenia attenuata, qua e là scalfita, grazie a Edoardo Weiss. Ma - confesserà Voghera - non anelando alla guarigione, ché «il completo superamento del mondo infantile avrebbe significato non essere più poeta». Una relazione che non ha l’imprimatur di Magris: «L’infanzia è, in Saba, intramontabile, a prova di analisi».
 
Saba, la poesia che, irrefrenabile, sgorga. Sovviene a Magris: «In un vero poeta - sosteneva - c’è un bambino che piange e un adulto che domina il pianto. La poesia si dissolve quando c’è solo il bambino che piange. E non sussiste quando c’è solo l’adulto. E comunque: accanto a Saba poeta non si dimentichi di innalzare Saba prosatore, le Scorciatoie e raccontini, i nostri Minima moralia».
 
Saba muore a Gorizia, la città di Michelstaedter, il filosofo di La persuasione e la rettorica. Saba, persuaso o retore, possedeva l’attimo o era in ansia per il presente, il passato, il futuro? «Il poeta era sicuramente persuaso. L’uomo, no. Gli si addice un’osservazione di Michelstaedter: “La vita gli apparve sempre insolvente”».

La «vita calda» a cui Saba inutilmente anelava: «Il desiderio dolce e vano / d’immettere la mia dentro la calda vita di tutti», Il desiderio di essere felice, a differenza dell’inetto di Italo Svevo che la felicità neppure la desidera. «La scontrosa grazia» della Trieste di Saba. Altra rispetto alla condizione borghese di Svevo. «Plebea come pare rifulgere nella Città vecchia, di prostituta in marinaio? - s’interroga Magris -. Più che plebea, popolare. In Saba, vivissimo, è il desiderio di essere una rosa e tutte le rose, di essere anche l’altro, una bramosia di comunione né borghese né aristocratica».
 
Trieste e una donna... Salutata, perché no? come un’amante indocile, capricciosa, aspra come un ragazzaccio. Destinandole, al cospetto del mare in uniforme, l’amarissima e impavida sfida: «Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce. / Morire è nulla; perderti è difficile».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/09/cultura/magris-un-amore-doloroso-che-lanima-di-trieste-OTE4Q1bcTIgFbwUhICIh2M/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Agosto 27, 2017, 09:07:40 pm »

“L’importante è vincere”. Tra Silvio e Matteo il listone non è più tabù
Passo dopo passo le distanze Cavaliere-Lega si vanno accorciando

Pubblicato il 17/08/2017

UGO MAGRI
ROMA
Non è più quel «no» a brutto muso dei mesi scorsi. Semmai un diniego gentile, ammiccante, quasi un «ni» che, se davvero le circostanze lo richiedessero, potrebbe completare la metamorfosi e diventare un «sì» alla lista unica del centrodestra per le elezioni del prossimo anno. Passo dopo passo, le distanze tra Berlusconi e Salvini si vanno accorciando. Sembravano siderali sull’Europa e sull’euro, invece ecco il leader della Lega che da Ponte di Legno dà per scontato: «Il programma del centrodestra è pronto», stare con la Merkel o con la Le Pen non è più il vero discrimine perché l’asticella si è già di molto abbassata: ormai si sta discutendo se imbarcare o meno in Sicilia Alfano e i reduci di Ncd che Silvio (a certe condizioni) riprenderebbe in casa però Matteo fa muro: «No ai poltronari», ha ribadito nel giorno di Ferragosto.
 
Basta punzecchiature
Da quando i due si sono finalmente parlati al telefono, alcuni giorni fa, la marcia di avvicinamento non ha registrato inciampi. Come d’incanto hanno cessato di punzecchiarsi e ieri addirittura Salvini ha respinto le provocazioni su possibili futuri accordi tra il Cav e l’altro Matteo, quello di casa sull’Arno: «Rifiuto di crederci, errare è umano, perseverare sarebbe diabolico». Ma non c’era un problema di leadership, di chi comanda nel centrodestra? Pure qui Salvini lascia delusi quanti vorrebbero il bagno di sangue. Tende la mano all’anziano rivale: «Rimango alla sua proposta che chi prende un voto in più decide». E non è tutto: anziché demolire la vecchia Lega arroccata al Nord per fondare un nuovo partito nazionale che entrerebbe in gara con Forza Italia, la ruspa salviniana frena, rinvia ogni decisione al momento in cui si capirà meglio con quale legge andremo a votare. «Niente lista unica» rimane il mantra, ma con sempre minore enfasi, perché nelle ultime settimane sono subentrati un paio di fatti nuovi che ai politici intelligenti non possono sfuggire. Anzitutto il trionfo del centrodestra alle Comunali, che ha scatenato appetiti: perché accontentarsi di perdere bene quando, unendo le forze, si potrebbe fare bottino pieno? L’altra novità è lo studio riservato di Euromedia Research, pervenuto ad Arcore i primi di agosto, da cui risulta il contrario di quanto si era sempre pensato, cioè che gli elettori di destra fossero schizzinosi, sofisticati, dal palato fine, dunque orripilati dalla prospettiva di un listone comune con tutti dentro, da Berlusconi a Salvini, da Gelmini a Meloni. È una preoccupazione infondata, rivela il sondaggio, perché di certe sfumature ai moderati non importa un fico, interessa soltanto vincere, per cui i partiti di centrodestra potrebbero tranquillamente fondersi insieme sotto una stessa sigla. E questa somma consentirebbe alla lista unica di superare il 30 per cento, battendo tanto il Pd quanto i Cinquestelle. Renato Brunetta, che dopo le previsioni azzeccate sul referendum costituzionale è diventato l’«oracolo» berlusconiano, ripete come un martello pneumatico: «Il centrodestra unito è vincente secondo tutti gli istituti di ricerca».
 
Soluzione di riserva
Lo stesso Berlusconi se ne va convincendo. Chiuso ad Arcore, l’ex premier ha passato Ferragosto al telefono con chi lo chiamava con la scusa degli auguri. E dalle mille conversazioni par di capire che il «listone» con Salvini non rappresenterebbe per lui un tabù. Certo, preferirebbe evitarlo perché l’uomo teme il giorno in cui dovesse spartire collegi e candidature. Correrebbe il rischio di non imporre i suoi nomi prediletti. Ma nello stesso tempo il «listone» concede al Cav un jolly da giocare con il Pd nella trattativa sulla legge elettorale. Se Renzi lascerà definitivamente cadere il modello tedesco, proporzionale della più bell’acqua che lui preferisce, Silvio avrà una ruota di scorta, la soluzione di ricambio per vincere comunque, anche con il sistema attuale.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/17/italia/cronache/limportante-vincere-tra-silvio-e-matteo-il-listone-non-pi-tab-NBtDy09Pal08UDo356gSGL/pagina.html
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