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Autore Discussione: Claudio MAGRIS  (Letto 28260 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Settembre 08, 2009, 07:02:28 pm »

GIORNI D'AGOSTO

Nel Punto Franco mosaico del mondo


Nel Punto Franco, a Trieste. Qui il nome evoca indirettamente splendori commerciali ed emporiali passati, decreti imperiali absburgici che trasformavano il nobile ma angusto borgo nel porto della Mitteleuropa e in un crogiolo di genti diverse. Ora arrivano navi, soprattutto turche, dai cui ventri escono grandi autocarri che si disperdono nei più diversi Paesi. I camionisti, che arrivano periodicamente, si riposano all'ombra mangiando qualcosa prima di partire, nostri frontalieri di oggi di cui non sappiamo nulla, perché è più facile interessarsi delle frontiere e delle chiusure del passato ora superate, come quella con la Slovenia. Anni fa, durante il mio breve mandato parlamentare, mi sono trovato coinvolto in un conflitto fra il ministero dell'Interno e la Polmare, la polizia marittima, relativo a un gruppo di curdi sbarcati clandestinamente, che il primo accettava e la seconda rifiutava di lasciar transitare per Trieste; ricordo le facce gravi di quei fuggiaschi — accovacciati fra i montacarichi e gli elevatori, sotto le gru elettriche simili a uccelli preistorici — con i quali ci intendevamo in tedesco, la lingua del Paese in cui cercavano di andare e in cui alcuni di essi erano già stati. Accanto al Punto Franco c'è l'Ausonia, uno stabilimento balneare da estate fitzgeraldiana degli anni Trenta — gli anni in cui era frequentato dai nomi mitici della triestinità — con le sue bagnanti che ricordano la bellissima ragazza cantata da Saba, la cui improvvisa ombra di malinconia sulla bocca altera, dice la lirica, sposava per un attimo la sua aurora alla sera del poeta.

In queste settimane un grande magazzino del Punto Franco ospita una strana merce, una favolosa poesia, antica di milioni e milioni di anni, di pietre, cristalli e gemme dai colori incredibili e iridescenti. Agate, calcedoni dal rosso tenue o intenso, quarzi cristallini, soprattutto citrini e ametiste, ambra, opale, fossili che, come le alghe stromatoliti, risalgono al Precambrico, anche più di due miliardi di anni fa. Le dimensioni sono varie, piccole o gigantesche, come ad esempio una specie di enorme volta di cielo stellato costituita da un'ametista punteggiata di riflessi luminosi. Le screziature delle pietre disegnano paesaggi, osservava Vittorio Sgarbi, e anche le figure più strane: volti umani, golfi marini, calici, fiori impensabili; una sezione di geode di quarzo ialino brasiliano, che ha 130 milioni di anni, simula quasi perfettamente la bellezza dell'iride dell'occhio umano.

Iridescenze, disegni fantastici, immagini realistiche o deliri dell'immaginario, venature di colori — specie azzurri — incantevoli, luce imprigionata nella pietra in cui sembra ardere; è come se questi cristalli e queste pietre fossero lastre in cui siano rimaste impresse la bellezza di laghi e montagne, ma anche le allucinazioni di una droga, l'istante in cui un fuoco d'artificio disegna un enorme fiore nella notte. Queste pietre, questi cristalli sono un mosaico del mondo e sono anche una sua radiografia, il tempo rappreso della sua storia. Arrivano, per la maggior parte, dall'America meridionale e in particolare dal Brasile, ad arricchire la collezione Ipanema di Primo Rovis, non meno bizzarro e imprevedibile di queste pietre che sono divenute la sua passione dominante. Nato ottantasette anni fa in una famiglia assai povera in un paesino interno dell'Istria, rimasto orfano da ragazzo, Rovis ha iniziato a lavorare come aiuto-commesso in un negozio di alimentari a Trieste ed è divenuto un imperatore del caffè, uno dei massimi contribuenti d'Italia, un uomo che nel 1980 pagava complessivamente 650 milioni e 470 mila lire di tasse e si dichiarava lieto di pagarle, in quanto desideroso di vivere in un Paese civile per tutti e soddisfatto del molto denaro che comunque gli restava. Il garzone istriano travolto come tutti dall'esodo seguito all'occupazione jugoslava ha avuto modo, anni dopo, di insegnare al maresciallo Tito come si fa un buon caffè, mettendolo dietro il banco alla Fiera di Zagabria, ed è divenuto un filantropo nei più vari settori sociali.

Con quelle pietre che si aggiungono alle altre del suo deposito, potrebbe fare cospicui guadagni; il loro valore, attestato da scienziati di mezzo mondo, attira musei di ogni parte, specie a Mosca, e farebbe la gioia di qualche sceicco o di qualche altro miliardario, anche se Rovis rischia di innamorarsi troppo dei suoi cristalli e di volerli per sé. In quella bellezza, non creata dagli uomini, vorrebbe vedere «l'arte di Dio», quasi le mirabili screziature talora incredibilmente mimetiche della realtà obbedissero non al caso o a un mero processo chimico bensì a un disegno, così come nel Doktor Faustus di Thomas Mann il padre di Adrian cerca di decifrare le scritture del firmamento stellato o delle striature sulle conchiglie come fossero alfabeti. Comunque non è chiaro cosa sia vivo e cosa non lo sia. Dall'alchimia a tanta grande letteratura, la vita segreta e il significato dei minerali hanno affascinato gli uomini. Dinanzi al grande mare, questi geodi ora al Punto Franco dicono che le profondità della terra hanno bellezze non meno enigmatiche di quelle del mare. Come il mare, anche questi miliardi di anni cristallizzati danno un senso sereno, confortante della nostra insignificanza; le pietre, dice una poesia di Goethe, sono antiche maestre.

Claudio Magris

22 agosto 2009(ultima modifica: 05 settembre 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 17, 2009, 05:07:38 pm »

IL COMMENTO

La politica e il senso della misura

Berlusconi e la battuta sul «miglior premier degli ultimi 150 anni»: una buffa autoesaltazione

di  CLAUDIO MAGRIS


Vere o presunte vicende private attribuite al Presidente del Consiglio hanno fatto passare sotto silenzio, col loro clamore, alcune dichiarazioni del medesimo Presidente che riguardano il suo ruolo politico e dunque interessano più dei suoi fatti personali. Una, ad esempio, è quella rilasciata alla Maddalena durante la conferenza stampa congiunta con Zapatero il 10 settembre e riportata il giorno dopo sul Corriere , in cui ha affermato di essere «di gran lunga il miglior Presidente del Consiglio in 150 anni di storia d’Italia».

Cavour, Giolitti e De Gasperi dunque scompaiono, diventano nani della politica rispetto alla sua alta statura di uomo di Stato; ricordo che tempo fa, quando Berlusconi, più modestamente, si era limitato a equipararsi a De Gasperi, Francesco Cossiga aveva sarcasticamente osservato che, se le cose stavano così, lui si considerava Carlo Magno.

Quella buffa autoesaltazione del nostro presidente del Consiglio — che di fatto è un’involontaria autocaricatura e potrebbe essere la battuta di un comico che cerca di metterlo malignamente in ridicolo — è imbarazzante, al di là di ogni orientamento politico di centrodestra o centrosinistra, per tutti e specialmente per i suoi sostenitori.

De Gasperi, che era un ben più grande uomo politico, non si paragonava certo a Bismarck o a Napoleone; anche per questo era un grande e aveva tutti i titoli per governare un Paese, il che richiede molte e diverse qualità fra cui l’equilibrio e soprattutto il senso della realtà, dei rapporti di grandezza e di forza, delle oggettive misure di se stessi e delle cose. Ciò vale in ogni campo ed è particolarmente necessario in politica.

Ma può darsi che quell’impennata sia dovuta alla frequentazione di compagnie discutibili; Berlusconi è reduce da un cordiale incontro col Colonnello Gheddafi, e la Libia, che il prossimo 23 settembre assumerà la presidenza dell’Assemblea generale dell’Onu, si appresta, come è stato annunciato, a chiedere ufficialmente la dissoluzione della Svizzera tra la Francia, la Germania e l’Italia...


17 settembre 2009
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 22, 2009, 11:01:37 am »

1909-2009
Norberto Bobbio

Il maestro laico che manca all’Italia


Se fosse vivo e in età ancor combatti­va, non so se Norberto Bobbio — trovandosi in un mondo sempre più opposto al suo modo di essere, di sentire e di pensare — sarebbe più spro­nato a dar libero corso alla sua vena «ira­conda », come egli diceva, e polemica oppu­re ad abbandonarsi a una rassegnata e stoi­ca amarezza. Bobbio incarna esattamente ciò che manca, sempre più vistosamente e volgarmente, alla nostra società: la capacità di ragionare, di distinguere, premessa fon­damentale dell’onestà verso gli altri e verso se stessi. Una volta, alle scuole elementari, ci insegnavano che non si possono somma­re litri a chili o a metri, cosa che ora si fa normalmente, in un coro di imbroglioni e imbrogliati che sono spesso le medesime persone. Mai come oggi è mancata la laicità e Bobbio è anzitutto un maestro di laicità, non nel senso stupido e scorretto in cui vie­ne correntemente usata questa parola, qua­si significasse l’opposto di credente, di reli­gioso o di praticante, come credono e vo­gliono far credere gli ignoranti e i disone­sti.

Bobbio ha insegnato che laico non indi­ca il seguace di una specifica idea filosofi­ca, bensì chi è capace di distinguere le sfere delle diverse competenze; distinguere ciò che è oggetto di dimostrazione razionale da ciò che è oggetto di fede, a prescindere dal­l’adesione o meno ad essa. Laicità: distin­guere fra diritto e morale, sentimento e con­cetto, legge e passione; articolare le proprie idee secondo principi logici non condizio­nati da alcuna fede né ideologia; mettere in discussione pure le proprie certezze; sceve­rare l’autentico sentimento dalle incontrol­late reazioni emotive, ancor più nefaste dei dogmatismi.

Oggi viviamo in una temperie culturale assai poco laica, funestata dai fondamentali­sti religiosi come da quelli aggressivamen­te atei, entrambi capaci di ragionare solo con le viscere e con slogan orecchiati. La cronaca di ogni giorno ci mostra come si confondano e si pasticcino politica e mora­le, diritto e sentimentalismo, in un’allegra sgrammaticatura linguistica, concettuale ed etica che mette spesso il soggetto all’ac­cusativo e viceversa, per scambiare i ruoli tra vittime e colpevoli e mettere in galera il derubato anziché il ladro. Il sistema politi­co regredisce a una barbarie premoderna, cancellando progressivamente secoli di ci­viltà liberale che aveva elaborato controlli e garanzie per impedire abusi di potere.

Oggi c’è più che mai bisogno di intelli­genza e di passione come quelle di Norber­to Bobbio, che ha difeso e vissuto questi va­lori — i quali, prima di essere cardini della vita civile e del buon governo, sono il sale dell’esistenza quotidiana — sui fronti più diversi, dai mirabili studi filosofici e giuridi­ci, che fanno di lui un eccezionale maestro, alla milizia etico-politica e alla presenza ge­nerosa e creativa nella vita culturale. In quel vero, sobrio capolavoro che è De Senec­tute ,

un commiato dalla vita insieme classi­co e cocentemente contemporaneo, Bob­bio, richiamandosi al mito platonico dei due cavalli dell’anima, si duole di aver per­messo al destriero irascibile di aver preval­so su quello nobilmente razionale, ma non so se sia un’autocritica giustificata. Sem­mai, è stato troppo mite; oggi c’è bisogno più dell’ira che della mitezza a lui cara, nel baraccone in cui ci troviamo.

La sua lucidità nasce da un cuore genero­so, ricco di affetto e amicizia, di ironia e au­toironia. Bobbio ha insegnato che la batta­glia del pensiero è talora pure una battaglia contro la propria passione, ma sempre nu­trita di passione, anche quando deve dolo­rosamente dominare quest’ultima. Il cuore va sempre ascoltato, anche quando urta contro la legge, ma sapendo che spesso il cuore è pure «pasticcio e gran confusione», come ha scritto in un suo romanzo un altro grande piemontese, Stefano Jacomuzzi. La sofferta chiarezza chiamata a far rispettare l’umano, anche quando ciò — nel groviglio delle contraddizioni — può far male al cuo­re, affonda le proprie linfe in quest’ultimo. Bobbio, maestro nel difendere i valori «freddi» della democrazia — l’esercizio del voto, le fondamentali garanzie giuridiche, l’osservanza delle regole e dei princìpi logi­ci — sa che essi sono meno appassionanti dei valori «caldi» del sentimento, degli af­fetti, degli amori; magari pure meno appas­sionanti delle passeggiate nel suo amato Piemonte o nella nostra Torino, capitale di quell’Italia più civile che credevamo possibi­le. Ma Bobbio ci insegna che solo i valori freddi, i quali stabiliscono condizioni di partenza uguali per tutti, permettono a ognuno di coltivare i propri valori caldi, di inseguire la propria passione. La logica ren­de possibile l’umanità e difende la «calda vita», come direbbe Saba. Anche a rischio dell’impopolarità — la vita vera è impopola­re — come quando Bobbio, da vero laico, faceva chiarezza sulla vita nascente e sui di­ritti del nascituro o come quando rivendica­va, in certe vicende eclatanti che eccitavano l’opinione pubblica in nome di buoni senti­menti, la prosaica osservanza della legge

Claudio Magris
13 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #18 inserito:: Novembre 07, 2009, 10:56:54 am »

LA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA

Il crocifisso, simbolo di sofferenza che non può offendere nessuno


Il giovane Sami Albertin — la cui madre ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle scuole statali approvata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricevendo per questo su forum e blog volgari insulti da chi, per il solo fatto di proferirli, non ha diritto di dirsi cristiano — dev’essere molto sensibile e delicato come una mimosa, se,
com’egli dice, «si sentiva osservato» dagli occhi dei crocifissi appesi nella sua classe.

Se erano tre, come egli ricorda, erano un po’ troppi, ma provare turbamenti da giovane Werther o da giovane Törless è forse un po’ esagerato; fa pensare a quella prevalenza dei nervi sui muscoli irrisa da Croce, che preferiva studenti studiosi e gagliardi a precoci giacobini.

La sentenza e soprattutto i suoi strascichi provocheranno — ed è questa la conseguenza più grave — un passo indietro in quella continua lotta per la laicità che è fondamentale, ma che è efficace — ha ricordato Bersani, uno dei pochi a reagire con equilibrio a tale vicenda — solo se non travolge il buon senso e non confonde le inique ingerenze clericali da combattere con le tradizioni che, ancora Bersani, non possono essere offensive per nessuno. La difesa della laicità esige ben altre e più urgenti misure: ad esempio — uno fra i tanti — il rifiuto di finanziare le scuole private, cattoliche o no, e di parificarle a quella pubblica, come esortava il cattolicissimo e laicissimo Arturo Carlo Jemolo.

Sono contrario a ogni Concordato che stabilisca favori a una Chiesa piuttosto che a un’altra anche se numericamente poco rilevante; ritengo ad esempio — è solo un altro esempio fra i tanti — che il matrimonio cattolico e il suo eventuale annullamento ecclesiastico non dovrebbero avere alcuna rilevanza giuridica, che dovrebbe essere conferita solo dal matrimonio e dal suo eventuale annullamento civile. «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», pare abbia detto Cavour in punto di morte al religioso che lo esortava a confessarsi. Forse è una leggenda, ma esprime bene la fede nel valore della laicità — che non è negazione di alcuna fede religiosa e può anzi coesistere con la fede più appassionata, ma è distinzione rigorosa di sfere, prerogative e competenze.

L’obbligatoria rimozione del crocifisso è formalmente ineccepibile, in quanto la separazione fra lo Stato e la Chiesa — tutte le Chiese — non richiede di per sé la presenza di alcun simbolo religioso. La legge tuttavia consente di temperare la formale applicazione del diritto con l’equità ossia con la giustizia nel caso concreto. Ad esempio è giusto che i responsabili di istituzioni pubbliche non possano affidare lavori che riguardino quest’ultime senza indire pubbliche gare di appalto, perché altrimenti si favorirebbe la corruzione.

Confesso che trenta o quarant’anni fa, all’epoca in cui dirigevo a Trieste un minuscolo e fatiscente Istituto di Filologia germanica, quando in una gelida giornata invernale di bora si era rotto il vetro di una piccola finestra ed entrava il gelo, non ho indetto alcuna gara d’appalto bensì ho cercato nella guida telefonica il vetraio più vicino, l’ho chiamato e gli ho pagato la piccola cifra richiesta, facendola gravare sulle piccole spese destinate all’acquisto di cancelleria, gomme, carta igienica, gesso.

Formalmente sarebbe stato possibile incriminarmi, ipotizzando un mio illecito accordo col vetraio; ad ogni buon conto confesso il reato solo ora, in quanto caduto in prescrizione. Credo tuttavia che, in quel caso come in altri, ciò avrebbe convalidato il detto, proclamato da rigorosi giuristi e non da teste calde, «summum ius, summa iniuria» — massimo diritto, massima ingiustizia.

E così forse è il caso del crocifisso. Quella figura rappresenta per alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; come tale non offende nessuno, purché ovviamente non si voglia inculcare a forza o subdolamente questa fede a chi non la condivide. Per altri, per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che esso rappresentava per Tolstoj o per Gandhi, che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta. Un analogo discorso, naturalmente vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di altre civiltà come il cristianesimo nella nostra. Per altri ancora, scriveva qualche anno fa Michele Serra, quel crocifisso è avvolto dalla pietas dei sentimenti di generazioni. Altri ancora possono essere del tutto indifferenti, ma difficilmente offesi.

Si può e si deve osservare che le potenze terrene di cui quel crocifisso è simbolo e sostanza ossia le Chiese si sono macchiate e talvolta si macchiano ancora di violenze, prepotenze, ipocrisie, che negano quell’uomo in croce e fanno del male agli uomini. Tutte le Chiese, non solo la cattolica; anche i protestanti hanno i loro roghi di streghe e la consonante finale dell’orrenda sigla razzista wasp (bianchi anglosassoni protestanti, sprezzantemente contrapposti ai neri). Naturalmente, siccome a noi stanno sullo stomaco le prepotenze della Chiesa cattolica, quando essa le commette, è giusto prendersela con essa prima che con le malefatte di altre confessioni in altri Paesi.

Ma come quella p di wasp non offusca la grandezza della Riforma protestante e del suo libero esame, i misfatti e le pecche delle Chiese cristiane d’ogni tipo non offuscano l’universalità di Cristo, che anzi le chiama a giudizio. Su ogni bandiera e anche sulla croce ci sono le fetide macchie dei delitti commessi dai loro seguaci. In nome della patria si sono perpetrate violenze feroci; in nome della libertà e della giustizia si sono innalzate ghigliottine e creati gulag; in nome del profitto svincolato da ogni legge si sono compiute inaudite ingiustizie e crimini. Sulla bandiera dell’Inghilterra e della Francia c’è anche lo sterco della guerra dell’oppio, una guerra mossa per costringere un grande ma allora indifeso Paese a drogarsi in nome del profitto altrui.

L’elenco potrebbe continuare a piacere. Ma le barbarie nazionaliste non cancellano l’amor di patria; la guerra dell’oppio non cancella l’universalità della Magna Charta e della Dichiarazione dei Diritti dell’89 e quelle bandiere, inglese e francese, restano degne di rispetto e d’amore; il gulag installato in uno Stato che si proclamava socialista non distrugge l’universalità del socialismo e la ghigliottina non ha decapitato l’idea di libertà e di repubblica. E così tutto il negativo che si può e si deve addebitare alle Chiese cristiane non può far scordare anche il grande bene che loro si deve; la Chiesa cattolica non è solo Monsignor Marcinkus; è anche don Gnocchi e don Milani o padre Camillo Torres, morto combattendo per difendere i più miseri dannati della terra.

Quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio. La bagarre creata da questa sentenza farà dimenticare temi ben più importanti della difesa della laicità, fomenterà i peggiori clericalismi; dividerà il Paese in modo becero su entrambi i fronti, darà a tanti buffoni la tronfia soddisfazione di atteggiarsi a buon prezzo a campioni della Libertà o dei Valori, il crocifisso troverà i difensori più ipocriti e indegni, quelli che a suo tempo lui definì «sepolcri imbiancati».

Il Nostro Tempo ha ricordato che Piero Calamandrei — laico antifascista, intransigente nemico della legge truffa dei governi democristiani e centristi di allora— aveva proposto di affiggere, nei tribunali, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti. Evidentemente Calamandrei era meno delicatino del giovane Albertin.

In Italia, la sentenza è un anticipato regalo di Natale al nostro presidente del Consiglio, cui viene offerta una imprevista e gratissima occasione di presentarsi nelle vesti a lui invero poco consone, di difensore della fede, dei valori tradizionali, della famiglia, del matrimonio, della fedeltà, che quell’uomo in croce è venuto a insegnare. È venuto per tutti, e dunque anche per lui, ma questo regalo di Natale non glielo fa Gesù bambino bensì piuttosto quel rubizzo, giocondo e svampito Babbo Natale che fra poche settimane ci romperà insopportabilmente le scatole, a differenza di quel nato nella stalla.

Claudio Magris

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« Risposta #19 inserito:: Novembre 23, 2010, 09:47:14 am »


LA CULTURA NON È COMMESTIBILE

Il teatro della vita (e della politica)

Fa una certa impressione, e non solo agli appassionati, pensare che, anche solo per un giorno, in tutta l’Italia il teatro taccia, sia chiuso. Non è solo una preoccupazione culturale in senso stretto; quei palcoscenici — grandi o piccoli, sacri templi dello spettacolo o ardite e fugaci messinscene di gruppi avventurosi, opere classiche o provocatoriamente dissacranti — fanno parte del paesaggio d’Italia, del paesaggio della nostra vita. Attori o cantanti che entrano o escono dalla scena, parole immortali o amabili battute scacciapensieri che vivono sul palcoscenico e restano nell’aria, sono — anche a prescindere dalla grandezza di alcuni capolavori — uno sfondo della nostra esistenza come il mare o la collina della città natale. Anche quando non si va a teatro o al cinema, fa piacere sapere che comunque ci sono.

Naturalmente si può benissimo vivere anche senza teatro e ci sono beni immediatamente più necessari e indispensabili, dal pane alle cure mediche. Il teatro sciopera per protesta contro i tagli ai finanziamenti senza i quali non può sopravvivere. Non ho alcuna competenza per valutare se e fino a qual punto quei tagli siano inevitabili, in che misura potrebbero essere mitigati, con quale giustizia o ingiustizia colpiscano l’una o l’altra istituzione, quali altri spese invece inutili potrebbero essere limitate a beneficio del teatro e dello spettacolo in generale. Spesso, inoltre, quando si parla di cultura la si identifica arbitrariamente con alcuni suoi settori — la letteratura, l’arte, la musica, il teatro, il cinema — come se il diritto, l’economia, la medicina, la matematica e la fisica e tante altre attività umane non fossero altrettanto «cultura» e non richiedessero quindi creatività, spirito critico, capacità di osservazione e di analisi quanto il romanzo.

Il teatro, tuttavia, ha da millenni un ruolo fondante non solo nell’arte, ma anche nella vita comune della Polis, ossia, nel senso più alto del termine, della politica. È un’arte in cui l’irripetibile e insostituibile creatività individuale (dell’autore, del regista, dell’attore, dello scenografo e via dicendo) si fonde in una coralità che, senza mortificarla, va al di là di essa e ne fa un’opera sovraindividuale, un’espressione insieme personale e collettiva o meglio corale. Quest’ultima, a sua volta, instaura un dialogo non solo con ogni singolo individuo, ma con la società e la civiltà da cui essa nasce e che essa interpreta, per celebrarle o per criticarle.

Dalle origini rituali e religiose alle sacre rappresentazioni, al teatro totale wagneriano, a quello epico brechtiano a ogni forma—anche la più iconoclasta e lacerata, o l’esperimento più solitario e ribelle — il teatro è un evento pubblico ed è un fondamento della comune vita civile. Il teatro classico contribuisce in misura determinante a fondare la democrazia della Polis greca, a sua volta fondamento della civiltà occidentale. Le «leggi non scritte degli dèi» di Antigone, ossia i princìpi universali che nessuna legge positiva può violare, essenza dell’umanità, nascono non a caso sulle scene di Atene, con la tragedia di Sofocle, e traggono la loro forza anche da quest’origine.

Quando, nella tragedia di Eschilo, Oreste, il matricida, viene assolto — sia pure con formula dubitativa — si afferma il luminoso principio di valori laici superiori ai tribali legami di sangue ed è ancora il teatro dinanzi al pubblico di Atene a fondare questo universale-umano.

Non occorre essere Sofocle o Eschilo per essere riconosciuti nella dignità del lavoro teatrale che, come ogni lavoro, nasce non solo dai geni ma dall’opera, più o meno nota o oscura, di tutti coloro che vi contribuiscono. Certo, è meglio vivere senza teatro che senza pane. Ma la vita sarebbe triste senza il teatro e siamo nati non solo per sopravvivere, ma anche per capire qualcosa della vita e, se possibile, pure per goderla.

Claudio Magris

23 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_23/magris-teatro-della-vita-editoriale_0e3db216-f6c8-11df-ba4f-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 08, 2010, 12:36:16 pm »

Il manovale accusato ingiustamente, ha rischiato una sorte terribile

Brembate ci insegna l'umana civiltà

Il muratore marocchino, l'errata traduzione dall'arabo e la reazione del paese

   
Sembra incredibile, ma ogni tanto gli uomini, le istituzioni e l'opinione pubblica mostrano anche segni di umana civiltà. Un muratore marocchino che lavora a Brembate di Sopra, presso Bergamo, è stato sospettato di aver assassinato Yara Gambirasio, la ragazza scomparsa da alcuni giorni; sospettato ingiustamente e poi rilasciato in base alla traduzione sbagliata di una sua frase in arabo detta al telefono.

Non si è scatenata, come purtroppo è avvenuto in altri casi (lo stupro commesso da un romeno che ha creato una feroce psicosi verso i romeni accusati quasi in blocco d'essere stupratori, l'indiscriminata violenza verso gli zingari), alcuna bestiale caccia al marocchino, non si sono sentiti idioti insulti razzisti rivolti globalmente agli arabi.

La comunità di Brembate di Sopra ha dato in generale un esempio civile oggi più che mai prezioso nel clima teso ed eccitato - anche comprensibilmente, per le difficoltà dei problemi legati all'immigrazione e al contatto fra culture diverse - che stiamo vivendo, in cui spesso si sentono risuonare selvagge parole di odio generico e si assiste a violenze gratuite. Non sarebbe male se tutta l'Italia, sotto tale profilo, assomigliasse a questa Brembate.

C'è sempre, e sempre più drammatica, l'angoscia per la sorte di Yara, la speranza o meglio la necessità di trovarla; e - nella tragica eventualità di una sua morte per mano di un assassino - la necessità di individuare quest'ultimo e punirlo con tutti i rigori della legge. Troppo spesso si dimentica che Dio è anche collera.

Mohamed Fikri, il manovale accusato ingiustamente, ha rischiato una sorte terribile per una traduzione sbagliata. La lingua regge il mondo, nel suo potere di comunicare, informare, plasmare e talora plagiare gli animi. Determina la giustizia o l'ingiustizia, può far trionfare la verità o la menzogna, chiarire o avvelenare la vita. Se non si mette correttamente il soggetto al nominativo e il complemento oggetto all'accusativo ma si inverte la sintassi, non si capisce più chi ruba e chi è derubato, si mette in galera la vittima e si manda libero il colpevole. Una punteggiatura sbagliata o alterata può falsare e sconvolgere l'ordine delle cose.

Oggi è sempre più necessaria, nello scambio e nel contatto sempre più a gomito di genti e culture diverse, la conoscenza delle lingue ovvero la possibilità di comunicare, capire, incontrarsi, difendersi, aiutare. L'insegnamento reale delle lingue, così carente in Italia, dovrebbe essere una pietra angolare dell'istruzione, a tutti i livelli. Se il ministro dell'Istruzione - colpito da questo episodio che mostra come la conoscenza linguistica possa dannare o salvare una vita - recedesse dall'assurdo provvedimento che ha abolito i lettori di madre lingua straniera all'università, la vicenda di Mohamed Fikri sarebbe stata, tra le tante altre cose, pure utile al nostro Paese.

Claudio Magris

08 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_dicembre_08/brembate-ci-insegna-l-umana-civilta-claudio-magris_046dd934-029c-11e0-83ab-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 24, 2010, 06:39:15 pm »

LE COSE DA CHIEDERE AL NATALE DI OGGI

Il rispetto e la speranza

Il Natale — quella nascita e quella notte che tagliano la Storia e fanno balenare la promessa o almeno l’esigenza che questa possa essere anche Storia della salvezza — non è cosa da family day. Quel neonato concepito fuori del matrimonio è irregolare, illegittimo secondo le regole del mondo. Proprio per questo è un figlio per eccellenza, accettato e voluto nonostante le difficoltà, anziché casualmente subito come talora accade pure nelle migliori famiglie. Il suo diritto alla vita, calpestato nelle forme più varie sotto tutti i cieli — negato dalla fame, dalla guerra, dalle malattie e dalla stessa debolezza dell’individuo, che nelle fasi iniziali della sua esistenza gli impedisce di rivendicarlo esplicitamente — è stato garantito dal coraggio della donna che lo sta allattando.

Quando Maria riceve l’annuncio della sua maternità, non sa ancora quale sarà l’atteggiamento di Giuseppe ed è decisa ad affrontare tutte le conseguenze della sua accettazione, anche il disonore e la vergogna che marchiano una ragazza madre; è pronta ad assumere sulle sue spalle l’infame peso della colpa e dell’emarginazione iniquamente messo in carico soltanto alla donna. Maria, che nella sua solitudine dice sì, è una donna, non quell’idolo di gesso o quel fantasma in cui più tardi una superstizione idolatrica degraderà spesso la sua immagine. Il suo compagno si comporterà come un vero uomo, virile e libero da tutte le prepotenze, convenzioni e insicurezze maschili; anche per questo si attirerà le pacchiane barzellette di tanti cretini, così frequenti fra i narratori di barzellette.

In quella capanna di Betlemme ci sono un figlio, una madre e un padre. Non c’è, per loro fortuna — è giusto che il figlio di Dio si sia concesso almeno questo privilegio—la consueta torma di suocere, zii, terzi cugini, suoceri di cognate, un clan talora caldamente protettivo ma spesso asfissiante e invadente, quelle tante donne Prassede, di cui esistono altrettante e altrettanto micidiali versioni maschili, che in nome della Provvidenza— di cui si considerano gli unici interpreti autorizzati —guastano la festa al loro prossimo in generale e soprattutto a chi hanno sottomano.

A quella capanna, a festeggiare il neonato, non arriva alcun parentado, arrivano alcuni pastori. Sono loro, in quel momento, la famiglia di quel bambino. Anche da adulto egli ribadirà, pure con durezza, il primato dei legami nati da libera scelta e affinità spirituali su quelli di sangue, dicendo che i suoi fratelli e le sue sorelle sono coloro che ascoltano e condividono la sua parola e chiedendo perfino bruscamente alla madre, dinanzi a una sua interferenza, cosa vi sia fra loro due. Dopo i pastori arriveranno, secondo la tradizione, i Magi, seguaci e maestri di un’alta religione—quella di Zoroastro, la prima a proclamare l’immortalità dell’anima individuale. Quella capanna è un tempio di tre grandi religioni mondiali; la quarta, che arriverà secoli dopo, l’Islam, si richiamerà ad esse e soprattutto alla prima, quella ebraica.

Pastori e più tardi Magi restano davanti alla capanna; dentro ci sono, a riscaldare il bambino col loro fiato, un bue e un asino, a testimoniare che anche per gli animali, per questi nostri oscuri cugini, dovrebbe esserci salvezza, come ben sa quel personaggio di un racconto di Singer che recita il Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti, per una farfalla morta e come sapeva, nel poema sacro indiano Mahabharata, il re Iudistira che rifiuta di accedere al paradiso abbandonando il fedele cane all’inferno.

Quel bambino non è venuto a fondare una nuova religione, di cui non c’era bisogno perché ce n’erano già forse troppe. È venuto a cambiare la vita, cosa ben più importante di ogni Chiesa. Indubbiamente la promessa di pace, annunciata in quella notte, è stata e continua ad essere clamorosamente smentita. È difficile dire se, in questo senso, quel neonato abbia finora vinto o perso la sua partita. Ma è indubbio che egli abbia posto per sempre, nel nostro cuore, nella nostra mente e nelle nostre vene, l’esigenza insopprimibile di quella salvezza. L’albero di Natale col suo verde scuro di foresta, le sue candele e i suoi globi colorati (sul mio ce n’è ancora uno proveniente dalle favolose vetrerie di Norimberga, che adornava quello di mia madre quando era bambina) non dice un’idillica quiete domestica, ma una speranza sinora delusa. Ma proprio perché nel mondo c’è tanta sofferenza e ingiustizia e il male così spesso trionfa, ammoniva Kant, è necessaria l’accanita e lucida speranza, che vede quanto sciaguratamente vanno le cose ma si rifiuta di credere che non possano andare altrimenti.

Pure quel bambino di Betlemme è nato per morire. Morirà anzi presto e fra angoscia e tormento, che la resurrezione non cancella in alcun facile lieto fine. Gesù ha scelto la morte perché, pur amando la vita, sapeva che essa non è il bene supremo e che talora si può essere chiamati a perderla per amore degli altri. Ama il prossimo tuo come te stesso, sta scritto. Dunque il nostro prossimo sono gli altri ma siamo anche noi ed è lecito, anzi doveroso amare noi stessi e lenire le nostre sofferenze insieme a quelle altrui. Ogni compiaciuta mortificazione viene dal Maligno. C’è un diritto di nascere, di cui si parla poco, e c’è un diritto di morire, di cui si parla molto. Per quel che mi riguarda, faccio mia la dichiarazione congiunta della conferenza delle Chiese cattolica e protestante tedesche sul diritto—rivendicato però dall’interessato e soltanto da lui — di sospendere, in determinate condizioni inaccettabili, cure a quel punto inutilmente accanite. Un uomo che ha fede, ha scritto il teologo Wiener Thiede, non artiglia spasmodicamente quel pezzetto di vita che gli è stato assegnato; le sue mani, non contratte dall’ansia, possono aprirsi e lasciare la presa.

È la libertà — del cristianesimo, ma anche della grande classicità pagana, serenamente inserita nel ciclo della natura—che fa dell’uomo un viandante, un nomade senza fissa dimora e non un sedentario nella vita. Ma spesso si sente dire — con un’espressione infelice e involontariamente rivelatrice — non che l’uomo è libero, ma che è il proprietario della sua vita, declassando così il sacro diritto di morire ad una delle tante e sempre più frequenti leggine ad personam, in difesa dell’uno o dell’altro monopolio di cui si vuol godere. Si può essere proprietari soltanto di cose, di cui si può disporre a piacimento. Non si può essere proprietari di persone, perché in tal caso si è padroni di schiavi e dunque pure schiavi, giacché ogni padrone di uomini perde ogni rapporto con la libertà: «Mi me credevo — Un omo lìbero / E sento nascere — in mi el paron », dice un verso del grande Noventa. Poco importa se lo schiavo di cui siamo proprietari reca il nostro nome: in questo caso trattiamo noi stessi da schiavi, cosa forse ancor più umiliante.

Il proprietario dispone delle cose che possiede; posseggo un’automobile e posso venderla o demolirla a mio arbitrio, essa è in mio potere. Ma il mio io — i miei pensieri, sentimenti, sogni, timori — è in mio potere, come la mia automobile? Posso ordinarmi di innamorarmi, di credere in Dio, di cambiare fede politica, di capire la meccanica quantistica? Ogni io è tutt’al più un condominio, costituito come tutti i condomîni da vicini litigiosi; forse ogni io non è neanche questo, bensì piuttosto un agglomerato di inquilini provvisori che nemmeno posseggono le due camere e cucina e il riscaldamento centrale per cui litigano. Quando ci innamoriamo, votiamo, preghiamo, lavoriamo, ci divertiamo, possiamo e dobbiamo cercare di essere liberi nel nostro agire, ma senza alcuna presunzione di essere proprietari della vita, neanche della nostra, perché in quel caso saremmo come quei padroni delle commedie, cui i servi rubano tutto sotto il naso. Anche il diritto di morire può affidarsi solo alla libertà e al senso del sacro, non all’arroganza di un inesistente padronato di se stessi. La vita è sempre sacra, quando la si riceve e quando la si restituisce. Anche quando la si toglie, come tragicamente può accadere — ad esempio in guerre in cui può sciaguratamente ma inevitabilmente capitare di trovarsi, in una Stalingrado o in una Normandia in cui non si è potuto fare a meno di sparare per impedire che il mondo diventasse Auschwitz.

Sotto l’albero di Natale ci si aspetta di trovare dei doni, ogni anno sempre più mestamente aggiornati alla nostra età e meno fantasiosi dei giocattoli d’infanzia, che un mio zio inventava e fabbricava con le sue mani. È possibile fare una lista di regali desiderati, come si usa per quelli di nozze? In questo caso, cosa chiedere, dato che comunque sarebbe svergognato chiedere di essere felici, come se due sposi chiedessero non un servizio di bicchieri o una lavatrice, ma una grande villa con parco? Forse è presuntuoso chiedere l’amore, anche se è per questo che è venuto quel bambino. Se ci guardiamo in giro e allo specchio, gli orrori la mediocrità l’aridità e la viltà che vediamo scoraggia dal pretendere l’amore che ci manca. Pretendere di renderci capaci di amare è come pretendere di renderci capaci di comporre la musica di Mozart.

Se l’amore è una grazia troppo alta possiamo chiedere almeno un’altra virtù fondamentale, il rispetto, che per Kant è la premessa di ogni altra virtù e che sembra sempre più latitante. Se non possiamo amare la folla oscura come noi che entra nella metropolitana, possiamo sentire concretamente che ognuno di quelli sconosciuti ha gli stessi nostri diritti e la stessa nostra povera dignità. Rispetto per ognuno, anche per l’avversario e per il nemico, anche per chi crediamo di dover combattere duramente, anche per chi va giustamente e pure pesantemente punito per un reato commesso. È questo rispetto, nient’affatto incompatibile con la severità, che manca sempre più, ovunque: nella lotta politica, nella violazione di ogni intimità, nell’arrogante negazione dell’altro.

Non chiediamo di essere perfetti, ma almeno di non essere crudeli e indecenti; di vivere in un mondo in cui si perseguono inesorabilmente i crimini ma si riconosce anche nel volto del criminale giustamente punito senza indulgenza il volto del Cristo o più semplicemente dell’uomo; in cui nessun colpevole—terrorista, pedofilo, mafioso, stupratore, assassino — venga trattato ignominiosamente come ad esempio quel sacerdote, verosimilmente pedofilo e dunque da punire, che si è gettato sotto il treno dopo essere stato insidiato da un falso penitente—inviato da una petulante trasmissione televisiva pretesamente spiritosa—che, in confessione, si è finto tentato dall’omosessualità per adescarlo e scoprirlo, colpendolo in un punto colpevole, debole e tormentato della sua personalità. Vorremmo chiedere, quale dono di Natale, che persone come quel sacerdote finiscano in carcere, se viene appurato un loro crimine, ma non sotto un treno. Una trasmissione televisiva non può diventare un plotone d’esecuzione.

Sotto l’albero di Natale, davanti al Presepe ci sono anche innumerevoli storie terribili, perché quel bambino è venuto a redimere il mondo ed è ovvio che abbia a che fare soprattutto con le sue brutture. Lava ciò che è sordido, piega ciò che è rigido, dice uno dei più grandi inni cristiani.

Claudio Magris

24 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #22 inserito:: Marzo 13, 2011, 06:21:00 pm »


DI FRONTE ALLA CATASTROFE DEL GIAPPONE

L'urlo universale della natura e la coscienza (perduta) del pericolo

In queste ore si ha talvolta l'impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l'acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D'improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s'incendia. Ma cos'è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l'arroganza del dominatore, ora con l'angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch'essi parte della natura, come se non fossero anch'essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell'uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L'apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un'ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell'uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.

L'orgoglio dell'uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l'invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l'uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C'è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l'agire di chi coltiva la vite e vendemmia l'uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l'attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell'appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l'impulso dell'uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all'impeto, altrettanto naturale, delle acque.

L'uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura.

La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell'uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall'ansia di sapere di dovere, un giorno o l'altro, morire.

Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall'esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l'atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l'uomo sa talora far fronte al disastro.

Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l'equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall'antica madre ossia dalla totalità che l'ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l'albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie.

C'è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell'uomo; l'ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi».

Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo.

Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli.

Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l'uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto.

Claudio Magris

13 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:06:41 pm »

l'EDITORIALE
Un dolore senza nome

Nella parabola evangelica degli operai della vigna quelli che hanno lavorato soltanto un'ora, l'ultima della giornata, ricevono lo stesso salario di quelli ingaggiati all'alba, che hanno lavorato tutto il giorno. Ma, se avevano atteso oziosi tutto il giorno, è perché nessuno prima li aveva chiamati; perché fino a quel momento non avevano avuto, a differenza degli altri, alcuna opportunità.

L'inaccettabile disuguaglianza di partenza tra gli uomini, che destina alcuni ad una vita miserabile e impedisce ogni selezione di merito, va dunque corretta, anche con misure apparentemente parziali e disegualitarie, come fa il padrone della vigna.

Il mondo intero è un turpe, equivoco teatro di disuguaglianze; non di inevitabili e positive diversità di qualità, tendenze, capacità, doti, risorse, ruoli sociali, bensì di punti di partenza, di opportunità. È un'offesa all'individuo, a tanti singoli individui, che diviene un dramma anche per l'efficienza di una società. I profughi che arrivano alle nostre coste e alle nostre isole appartengono a questi esclusi a priori, a questi corridori nella corsa della vita condannati a partire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi perdenti già prima della gara. A parte il caso specifico dell'emergenza di queste settimane, con tutte le sue variabili - l'improvvisa crisi nordafricana, la confusione e mistificazione di pietà, ragioni umanitarie, interessi economici e politica di potenza, la lacerazione e l'impotenza o meglio quasi l'inesistenza di un'Europa con una sua politica - quello che è successo e succede a Lampedusa non è solo un grave momento, ma anche un'involontaria prova generale di eventi e situazioni destinati a ripetersi nelle più varie occasioni e parti del mondo, di migrazioni inevitabili e impossibili, che potranno aprire un abisso fra umanità, sentimenti umani e doveri morali da una parte e possibilità concrete dall'altra.

Il numero dei dannati della terra, giustamente desiderosi di vivere con un minimo di dignità, è tale da poter un giorno diventare insostenibile e rendere materialmente impossibile ciò che è moralmente doveroso ovvero la loro accoglienza. In Italia certo ancora si strepita troppo facilmente, dinanzi a una situazione peraltro ancora sostenibile e meno drammatica di altre sinora affrontate in altri Paesi. Ma quello che è avvenuto a Lampedusa è un simbolico segnale di una possibilità drammatica ben più grande; se a Milano o a Firenze arrivasse di colpo un numero proporzionalmente altrettanto ingente di fuggiaschi, le reazioni sarebbero - sgradevolmente ma comprensibilmente - ben più aspre. Quello che è successo a Lampedusa dimostra, con la violenza e l'ambiguità di una parabola evangelica, la necessità e l'impossibilità di una autentica fraternità umana universale, il dovere e il non potere accogliere tutti coloro che chiedono aiuto.

Proprio per questo, proprio perché la situazione è così grave e implica contraddizioni forse insanabili per la civiltà, quel di più di ottuso rifiuto razzista, di calcolato e manovrato allarmismo, di livida chiusura è inaccettabile. C'è un elemento quasi simbolico e in realtà terribilmente concreto che esemplifica questa tragedia e richiama la parabola evangelica interpretata in questo senso da un saggio di Giovanni Bazoli. Barconi sono affondati nel Mediterraneo, persone sono annegate senza che di esse si conosca il nome. Questi operai non hanno avuto la chiamata e nemmeno il salvagente dell'ultima ora; sono stati cancellati dal mare come se non fossero mai esistiti, sepolti senza un nome. Di molti, nessuno forse saprà nemmeno che sono morti; ad essi è stato tolto anche il minimo di una dignità, il nome, segno di un unico e irripetibile individuo. La cancellazione del nome è un oltraggio supremo, di cui la storia umana è crudelmente prodiga. Livio Sirovich, in un suo libro, racconta ad esempio di un bambino ebreo nato in un lager di sterminio e ucciso prima di ricevere un nome. Meno tragico ma altrettanto umiliante è quanto racconta il maresciallo Chu Teh, lo stratega cinese della Lunga Marcia, quando nelle sue memorie dice che sua madre contadina non aveva un nome, come non lo avevano le galline del pollaio, a differenza degli animali che amiamo e cui rivolgiamo affetti e cure. Nella cerchia allargata della mia famiglia acquisita c'è, in passato, una bambina illegittima, causa dell'ostracismo destinato a quell'epoca a sua madre nubile, morta piccola; ho cercato invano, a distanza di tanti decenni, di ritrovare il suo nome e sento come una vergogna non esservi riuscito.

Il mare è un enorme cimitero di ignoti, come gli schiavi senza nome periti nella tratta dei neri e gettati nelle acque dalle navi negriere. Oggi - nonostante le gravi difficoltà, fra l'altro messe ingiustamente soprattutto sulle spalle dell'Italia - si può e quindi si deve fare ancora molto per accogliere quelli che il Vangelo chiama gli ultimi e che è difficile immaginare possano veramente un giorno diventare i primi, come il Vangelo annuncia. Talvolta sono vilmente contento che la mia età mi possa forse preservare dal vedere un eventuale giorno in cui non fosse materialmente possibile accogliere chi fugge da una vita intollerabile.

Claudio Magris

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« Risposta #24 inserito:: Aprile 25, 2011, 12:04:57 am »

IL 25 APRILE, OLTRE LA STORIA

Un antidoto all’indifferenza

Non è stato solo il Terzo Reich a proclamarsi e a credersi destinato a durare mille anni, anche se è durato solo dodici, meno del mio scaldabagno. Ogni potere, soprattutto ma non solo quello totalitario, ogni civiltà, ogni sistema di valori e di costumi si vogliono e si ritengono definitivi; siamo inclini a scambiare il presente, l’assetto delle cose che ci circondano, per l’eterno, qualcosa che non può cambiare. In questo senso, siamo quasi tutti ciechi conservatori, incapaci di credere che il nostro mondo—la politica, le gerarchie sociali, gli usi, le regole — possa mutare. Se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il muro di Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo sognatore. Forse chi ha il senso religioso dell’eterno è più protetto dalla supina adorazione idolatrica di quel momento di tempo in cui vive e delle momentanee ed effimere forze che in quel momento appaiono vittoriose e insostituibili.

Le cose invece cambiano, i muri cadono, ma l’idolatria del momento, che impone di essere «al passo dei tempi», permane, profondamente radicata nel cuore e nella mente. Caduto il muro di Berlino che pareva eterno e con esso tutto il sistema comunista, uno studioso si è affannato a enunciare, con una celebre frase poco intelligente, che «la storia è finita» e dunque che il mondo sorto dal crollo del comunismo era quello definitivo, destinato a durare — con il suo meccanismo politico, le sue strutture economiche, il suo stile di vita — per sempre. Semmai è vero il contrario; quel muro congelava o cercava di congelare la storia, che invece oggi è vertiginosamente instabile, imprevedibile e mutevole.

Sono soprattutto le dittature — quelle «molli» che soggiogano con strumenti economici, mediatici e culturali, e ancor più quelle «dure» che s’impongono direttamente con la forza bruta — che si presentano come l’unico sistema, l’unica realtà possibile. Le dittature invece cadono e il 25 aprile ricorda la caduta di quella fascista in Italia. C’è poco da aggiungere a quanto è stato detto tante volte sull’antifascismo e sulla Resistenza, sull’imperituro significato di quest’ultima quale liberazione nazionale, sulle sue contraddizioni, sulle sue diverse e contrastanti anime, sui suoi eroismi e sui misfatti compiuti in suo nome. Il 25 aprile simboleggia vent’anni di un’altra Italia, differente da quella del regime fascista; una resistenza che non è solo quella partigiana, ma anche quella di coloro che non si sono piegati quando un’altra Italia sembrava impossibile; di coloro che si sono opposti nettamente e clamorosamente, nella lotta clandestina, ma anche di chi, più modestamente, ha cercato di salvare il salvabile di dignità e ragionevolezza, senza eroismi ma con la capacità di non lasciarsi abbagliare dall’ «aria del tempo», di respingere la tentazione di «marciare con la Storia», di preservare quell’intelligenza critica che non si lascia sedurre dai belati del gregge, neanche quando sembrano ruggiti di leoni.

Ogni resistenza ha una componente pasquale, di resurrezione; è un risorgere dalla morte, da quella falsa vita che si spaccia per immutabile e definitiva ossia finita e dunque morta.

Anche oggi, dinanzi al dilagare di confusione, volgarità, prepotenza, corruzione, sconcezza che sommerge il Bel Paese come liquami che salgano dalle fognature, è forte la tentazione di arrendersi, di lasciarsi andare, di credere che l’andazzo disgustoso sia uno stadio ultimo, che una vera mutazione antropologica abbia creato un nuovo tipo d’uomo, un non-cittadino, e che questa specie, nella selezione darwiniana, sia fatalmente dominante. L’indifferenza che mette in soffitta la Resistenza vera e propria e l’attentato alla Costituzione, che da essa è nata e che è la spina dorsale dell’Italia civile, sono un sintomo fra i tanti di questa involuzione morale. Ma proprio quella data insegna a non scoraggiarsi; ricorda come credere che tutto sia perduto e che non si possa più reagire sia una tentazione, stupida come lo sono in genere le tentazioni. C’è un’altra Italia possibile, rispetto a quella che oggi subiamo. Non è il caso di fare inchini al mondo così com’è e come esso pretende, anche perché, se proprio si è costretti a farlo, ci si può inchinare come Bertoldo, che si piegava davanti ai potenti, ma voltandosi dall’altra parte.

Claudio Magris

24 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #25 inserito:: Giugno 06, 2011, 10:48:06 am »

L'intervento

L'assuefazione per quei morti

L'abitudine alle sciagure che colpiscono i profughi accresce la distanza tra chi soffre e noi


Su alcuni giornali, duecento morti o dispersi in mare come quelli dell'altro ieri, in una fuga della disperazione, non finiscono neppure più in prima pagina, scivolano in quelle seguenti fra le notizie certo rilevanti ma non eclatanti. Per sciagure analoghe, solo qualche anno fa pure un presidente del Consiglio si commuoveva o almeno sentiva il dovere di commuoversi pubblicamente. Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un'eccezione sia pur frequente, bensì una regola.

Diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive.
Questa assuefazione che conduce all'indifferenza è certo inquietante e accresce l'incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell'attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno.

Diversamente da altri casi, in cui l'indifferenza o la livida ostilità si accaniscono sullo straniero, sul miserabile, su chi ci è etnicamente o socialmente diverso, in questa circostanza la nostra insensibilità non nasce dalla provenienza e dall'identità a noi ostica di quelli annegati. Nasce dalla ripetizione di quei drammi e dall'inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati italiani caduti in Afghanistan, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti come una consuetudine.

Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo; pure la commozione per qualche delitto particolarmente raccapricciante, ad esempio l'efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l'ordine del mondo né il cuore. L'assuefazione - alla droga, alla guerra, alla violenza - è la regina del mondo. «Bisogna pur vivere - si dice in un romanzo di Bernanos - ed è questa la cosa più orribile».

Forse una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un'altra e poi un'altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo - perché, a differenza di Cristo, non possiamo veramente soffrire per tutti, così come non ci rattrista la lettura degli annunci mortuari nei giornali - non possiamo affidarci solo al sentimento per essere vicini agli altri. Il nostro sentimento, comprensibilmente, ci fa piangere per un amico che amiamo e non per uno sconosciuto, ma dobbiamo sapere - non astrattamente, ma realmente, con la comprensione di tutta la nostra persona - che uomini da noi mai visti e non concretamente amati sono altrettanto reali.

Sta qui la differenza tra il pensiero reazionario e la democrazia. Il reazionario facilmente irride l'umanità astratta e l'astratto amore ideologico per il genere umano, perché sa amare il proprio compagno di scuola, ma non sa veramente capire che anche compagni di scuola di persone a lui ignote sono altrettanto reali; non astrazioni ma carne e sangue. La democrazia - schernita come fredda e ideologica - è invece concretamente poetica, perché sa mettersi nella pelle degli altri, come Tolstoj in quella di Anna Karenina, e dunque pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare.

Claudio Magris

04 giugno 2011(ultima modifica: 05 giugno 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #26 inserito:: Giugno 11, 2011, 05:19:11 pm »

I DIFENSORI DI CESARE BATTISTI

La vacanza dell'assassino

Dunque Cesare Battisti, il killer che ha assassinato quattro persone e reso paralizzata per sempre una quinta - senza dimostrare mai, a differenza di altri suoi colleghi nel crimine, pentimento per i suoi delitti o pietà per le sue vittime e i loro familiari, a parte una frettolosa dichiarazione di queste ultime ore - potrà godersi deliziose vacanze a Copacabana, coltivare le sue amicizie altolocate.

La Francia - che ha rifiutato a suo tempo l'estradizione di Battisti in Italia - è forse il Paese migliore del mondo, quello che combina nella misura più felice o meno infelice ordine e libertà, i due poli della vita civile. Ma anche la Francia è culla di qualche supponente e spesso ignorante conventicola intellettualoide che trancia giudizi ignorando i fatti. In questo caso, per pura ignoranza - mista a civetteria - alcuni autentici e/o sedicenti intellettuali hanno scambiato Battisti per un martire della Resistenza, come se noi dichiarassimo che un fascistoide antisemita quale Papon è un eroe della Résistence.

Con i terroristi di casa loro, quali i membri di «Action Directe», il governo francese ha usato il pugno di ferro e non ci sono state grandi proteste. Le Brigate Rosse - questi pezzenti della politica, che disonorano un colore per noi sacro disse il presidente Pertini - hanno colpito l'Italia più aperta e civile; hanno assassinato non già corrotti, mafiosi o golpisti (il che sarebbe stato comunque un grave reato) ma i rappresentanti dell'Italia migliore, un'Italia più libera e democratica che avrebbe potuto essere diversa da quella di oggi; uomini come l'avvocato Croce, l'operaio comunista Guido Rossa, giornalisti come Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il professor Bachelet e molti altri, fra i quali numerosi magistrati. (Il 5 maggio 2003 in un'intervista sul Corriere, Toni Negri si dichiarava solidale con Berlusconi in quanto entrambi perseguitati dalla magistratura). Non a caso, all'epoca dei processi contro i brigatisti rei di omicidio, quando alcuni giurati declinavano per timore l'incarico, ad offrirsi di sostituirli era, ad esempio a Torino, un militante antifascista resistente come Galante Garrone; sempre a Torino, un altro impavido comandante partigiano, il grande storico Franco Venturi, appresa la notizia del rapimento Moro e della mattanza della sua scorta - eravamo per caso insieme, nella presidenza della facoltà di Lettere - disse che forse si sarebbe dovuto ritornare in montagna. La profondità politico-filosofica delle Brigate Rosse può essere riassunta nella frase di quel brigatista pentito il quale dichiarò che, avendo avuto nel frattempo una figlia, aveva capito che non è lecito uccidere un papà, come se fosse invece meno grave uccidere chi è soltanto zio. Francesco Merlo ha scolpito con la sua consueta forza la malafede di tutta questa vicenda, ricordando, egli scrive, il ghigno ammiccante di Battisti che non ha neppure la dignità del duro. Si pensi, per contrasto, alla dignità con la quale altri pure passati attraverso quegli anni di piombo - ad esempio Sofri - hanno saputo fare i conti con se stessi.

Ora Battisti potrà scrivere in pace i suoi gialli - anzi, noir suona più fascinoso - anche perché è un genere in cui si muove bene, grazie alla sua familiarità con gli assassinii. Mi viene in mente un vecchio racconto di fantascienza, in cui si immagina che i fatti e gli eventi obbediscano a un copione in cui tutto è già stato scritto da sempre, ma in cui ci sono errori di stampa che, tradotti in realtà come ogni parola di quel testo misterioso, creano assurdi pasticci: ad esempio, se invece di scrivere «negare i fatti» si digita «annegare i gatti», ecco che ciò provoca una strage di felini. Forse, in quel testo, si è fatta confusione tra due Cesare Battisti, il patriota di cent'anni fa e il killer di oggi, e a finire impiccato a Trento, quella volta, non è stato quello che era previsto.

Claudio Magris

11 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #27 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:02:43 pm »

Alle radici dell'orrore

L'infinita idiozia del Male

Il dolore, il cordoglio del mondo

di CLAUDIO MAGRIS


Finché non emergeranno inoppugnabili - per ora altamente improbabili - prove di una cospirazione terroristica, l'inaudito massacro norvegese va considerato un fatto di cronaca nera, ancorché di immani proporzioni. Esistono certo nel mondo tante e antitetiche associazioni terroristiche capaci di qualsiasi efferatezza, ma esiste anche il crimine - ancor più misterioso e più inquietante proprio perché spesso apparentemente immotivato - che nasce, si organizza e si consuma nella mente di un solo individuo, all'infuori di ogni pur delirante progetto politico.

Come ha scritto sul Corriere Pierluigi Battista, cercare sempre il complotto (a suo modo razionale pur nella sua perversità), la spiegazione politica e sociologica, un preciso disegno collettivo, è un modo inconsapevole di rassicurarsi, identificando un ordine pur abbietto; un modo di abbandonarsi a fantasticherie su trame enigmatiche, fondamentalmente paurose ma anche involontariamente gratificanti, come è spesso gratificante soffermarsi sulle vaghe immagini dell'incubo, dell'orrore e della paura. Interpretare o cercare di interpretare dà sempre conforto, quando non addirittura supponente compiacimento; dinnanzi a tanti delitti ancora insoluti i pareri sulle loro più o meno nascoste motivazioni sembrano più importanti (e occupano più spazio nei giornali) delle indagini, che invece sono in quel momento la prima e forse l'unica cosa che conti.

Certamente, come diceva uno strombazzato e spesso pappagallesco ma veritiero slogan sessantottesco, «tutto è politico». Nessun individuo arriva dalla luna. Ognuno è intessuto del mondo in cui vive, sia egli un solitario misantropo o il più socievole degli uomini; vive nel mondo e almeno in parte lo assorbe, mescola al proprio dna ciò che penetra consapevolmente o inconsapevolmente in lui dalla realtà esterna. Non c'è idea, passione, abitudine, desiderio, paura, comportamento che sia unicamente nostro; è vero che, come dicevano i filosofi Scolastici, l'individuo è ineffabile o almeno che c'è in ognuno qualcosa di ineffabile, ma anche questa imprendibile e mobile ombra del nostro cuore è intessuta di socialità.

Detto questo, resta una netta differenza tra il gesto individuale di una persona e un progetto, collettivo anche se messo in atto individualmente, di un'organizzazione. L'omicida norvegese sembra assimilabile, con alta probabilità, ai Landru o a Jack lo Squartatore - pure essi, come tutti, figli del loro tempo - piuttosto che agli assassini dell'Italicus o di Piazza Fontana. Sarebbe infame usarlo per infangare l'uno o l'altro movimento politico. Il suo gesto atroce mostra la continua latenza del male, la sua possibilità di scatenarsi in qualsiasi inatteso momento; rivela la nostra convivenza quotidiana, gomito a gomito, con il male, sempre in agguato e talora spaventosamente in azione. Quella macelleria di esseri umani mostra pure l'infinita banalità e idiozia del male e della violenza, che tante volte ci vengono invece mostrati quasi avvolti di seduzione, espressioni di chissà quali infere ma profonde verità; il coltello di Jack lo Squartatore sembra aver affascinato come la spada di un angelo diabolico tante persone, anche se non certo il ventre squarciato e le sofferenze delle donne da lui uccise, le uniche, vere protagoniste di quella tragica storia, in cui lui è una sia pur sciagurata comparsa. È una vergogna, pur inevitabile, mandare a memoria il nome dell'assassino norvegese e non quelli delle sue vittime.

Quel meccanico e ripetuto premere il grilletto fa assomigliare quell'assassino al meccanismo di una mostruosa catena di montaggio. Naturalmente anch'egli è un uomo la cui umanità non si esaurisce nei suoi crimini, uomo che va perseguito ma anche tutelato secondo la legge uguale per tutti, anche per gli efferati assassini; un uomo che probabilmente avrà avuto le sue ossessioni, le sue sofferenze, le sue paure. Si può e si deve avere rispetto - a parte la qualificazione giuridica dei suoi atti e la pena da essi richiesta - perfino per lui, ma non - secondo la banale retorica del male - perché è un assassino, bensì nonostante sia un assassino. Il suo delitto è la cosa non solo più orrenda, ma anche più stupida, più meccanica, più ottusa della sua vita. L'omicida di oltre 90 persone pare si sia definito «un fondamentalista cristiano», termine privo di qualsiasi senso. Spesso, fra l'altro, si identifica erroneamente il fondamentalismo con l'integralismo, specialmente religioso, di una o di un'altra fede (oggi soprattutto quella islamica), e in generale con una forma particolarmente intollerante di tradizionalismo religioso. Il fondamentalismo ha poco o nulla a che fare con la tradizione, anche con quella più gelosamente custode dell'osservanza e dell'immobilità di un credo. Il fondamentalismo non è un fenomeno tradizionale, radicato nel passato, ma è un fenomeno squisitamente moderno, caratteristico delle società di massa e della globalizzazione, così come - per fare un esempio - il fascismo è un fenomeno totalitario moderno radicalmente diverso dagli autoritarismi del passato.

Quel dito meccanicamente omicida non dovrebbe indurre a riflessioni sulle società ricche e tranquille come quella norvegese o a disquisizioni del genere. Altre forme del male - queste sì politiche, sociali, collettive - giungono non solo da società arretrate e barbariche, bensì pure da società aperte e civili, considerate modelli di democrazia quali ad esempio l'Olanda o certi Paesi scandinavi in cui avanzano aggressivi movimenti xenofobi in aperto contrasto con la tradizione dei loro Paesi. Se la xenofobia è più forte in Olanda che in Spagna, ciò deriva forse dal fatto che la cultura di quest'ultima, come di altri Paesi, ha conservato più a fondo quel senso sacro della vita che distingue fortemente i molti, moltissimi valori che devono essere messi in discussione da quei due o tre valori essenziali (per esempio l'uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dall'appartenenza sessuale, etnica, religiosa o di altro genere) che dobbiamo considerare come assoluti, non più discutibili e non più negoziabili. Molto, quasi tutto, deve essere optional , ma non tutto. Quando «tutto è possibile», come scriveva con orrore Dostoevskij, il mondo diventa orribile. Ma non si può fare di questo una colpa all'assassino norvegese, né fondamentalista né cristiano; è sufficiente addebitargli oltre 90 omicidi.

25 luglio 2011 08:51
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_25/magris-infinita-idiozia-male_0c792edc-b681-11e0-b3db-8b396944e2a2.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 16, 2011, 07:04:59 pm »

Cultura

10/04/2011 - INTERVISTA

Magris, soffia la bora sul mare di Barcellona

iPad, intervista a Claudio Magris

«La mia Trieste, crogiolo ma anche muro fra mondi diversi». La Spagna dedica una mostra all’autore di Danubio e alla sua città

BRUNO QUARANTA

Nell’infinito viaggiare, Claudio Magris ha fatto vela verso l’altro mare di Barcellona; lì, all’ombra di Gaudí, restaurando l’inseparabile culla, Trieste. In terra di Spagna, il timoniere di Danubio, dopo il premio Principe di Asturias, una sorta di pre-Nobel, riceve l’omaggio (una mostra dal titolo La Trieste di Magris nel Centro di cultura contemporanea fino al 17 luglio) toccato finora a Borges, Joyce, Kafka, Pessoa, per la regia di Giorgio Pressburger, fra i custodi del mito absburgico, originario com’è di Budapest. «La realtà è un teatro di posa continuamente smontato e noi ci muoviamo in esso come Don Chisciotte nella Mancha», è solito rammentare Magris. Una verità che il trasloco nella capitale catalana ulteriormente lucida. Un baule stipatissimo, una fuga di stanze che accolgono la bora (un’alchimia di motori la interpreta), i manoscritti, il Caffè San Marco, la libreria antiquaria di Saba, il Carso, la rivoluzione di Franco Basaglia...

Magris e la Spagna. In qualche modo affini?
«Il mio passaporto è Danubio, la metafora del trasloco che è, spirituale, culturale, politico. Un Paese che ha vissuto così intensamente il trasloco della Storia come la Spagna lo ha sentito profondamente suo».

Spagna e Italia, entrambe hanno alle spalle una guerra civile...
«Dove sta la differenza? Come la guerra civile si è riverberata in Spagna e in Italia? In Spagna, per cominciare, l’epoca di Franco si è esaurita negli anni 70, in un diverso contesto europeo. A colpirmi è stata la volontà nitida di andare oltre, suggellando un patto di oblio, pure non avaro di scorie, di ambiguità, come rifletterà Marías. In Italia, invece, da una parte e dall’altra, è prevalso l’uso strumentale del passato in chiave politica, ora accendendo ora spegnendo i riflettori. A un foglio di destra che mi interpellava, ho opposto: “Già trent’anni fa parlavo delle foibe sul Corriere della Sera. Voi dove eravate?”».

La mostra di Barcellona. Che cosa la accomuna ai suoi predecessori: Borges, Joyce, Kafka, Pessoa?
«Sicuramente il carattere problematico e mitico del rapporto fra lo scrittore e il suo mondo».

Fino a dire, per esempio con Borges, che la propria città assurge a vizio («... il brutto vizio di Buenos Aires»)?
«Sì, Trieste è anche un vizio».

Di vizio in vizio. Il vizio del fumo, così sveviano.
«Nasceva centocinquant’anni fa Italo Svevo. Non se n’è riconosciuta ancora appieno la grandezza. In letteratura ha fatto ciò che è riuscito a Nietzsche in filosofia: svellere i fondi, calarsi in un abisso vertiginoso. Una voce del nichilismo. Ha avvertito ogni squasso, ogni squartamento, intuendo la mutazione della specie umana, il passaggio verso una specie post-umana. Sicuramente svetta su Joyce, che assicura il piacere classico del testo, porgendo al lettore ciò che desidera ricevere. Era un genio, neanche intelligente, come asseriva Barthes...».

Trieste. Lei ha osservato che in molti casi «è chi rimane che riesce a recidere il regressivo cordone ombelicale e a liberarsi dell’incantesimo edipico». Essendo lei un viaggiatore, verrebbe da concludere che l’incantesimo, semmai, si è amplificato.
«Non per me. Trieste non è la mia unica città. E’ una delle due. La seconda è Torino, dove ho studiato e insegnato e vissuto, tra sentimenti, delusioni, insonnie... Due le città, un rapporto forte, ma libero con entrambe, due le famiglie, ecco perché nel mio bagaglio non c’è Edipo».

Trieste, ovvero la psicoanalisi, in Spagna meno in auge...
«Con la psicoanalisi non ho una relazione stretta. Credo che sia più significativa da un punto di vista terapeutico che non culturale. Come non ritengo, a differenza di Cesare Pavese, che mini la creatività. Scavare, scoprire, piuttosto, accresce la meraviglia».

Trieste, dove la psicoanalisi è un surrogato della mancante religiosità. La Spagna, di possente tradizione religiosa...
«Trieste borghese, o della mistica commerciale, quindi orizzontale, quindi, di per sé, non religiosa. Con alcune, sovrane eccezioni, come Umberto Saba: lo scortava il senso del sacro, la consapevolezza di una presenza divina nella vita, un respiro trascendente. A differenza di Svevo: riteneva che non ci fosse alcun “oltre”, ancorché questo non gli bastasse, non lo soddisfacesse. Circa la Spagna: ad attrarmi è la religiosità eterodossa, penso a Unamuno di San Manuel beuno martire, il sacerdote che giunto a non credere più nella resurrezione continua ad annunciarla ai fedeli».

Trieste città cosmopolita, crogiuolo di razze, di etnie, di lingue. Un modello per l’oggi?
«Crogiuolo, certo, e insieme muro. Italiani e sloveni di odî e di torti reciproci ne hanno accumulati. Come non sono mancati gli avvicinamenti e i riavvicinamenti. Penso al teatro intitolato a Verdi dov’è stata rappresentata Nekropola, la trasposizione teatrale del romanzo di Boirs Pahor Necropoli».

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/397248/
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 17, 2013, 11:42:24 am »

L'attentato di Boston

Semplicemente assassini

di  CLAUDIO MAGRIS


Non credo abbia molto senso chiedersi, come alcuni fanno, come mai e perché il terrorismo stavolta abbia scelto, per il suo bagno di sangue, un'occasione come la maratona di Boston, una manifestazione dal carattere particolarmente popolare, meno collegabile di altre a centri o a simboli di potere.
Certamente il terrorismo o meglio i terrorismi hanno pure i loro rituali simbolici, talora un perverso e sacrale fanatismo moralistico, come quello che, in un articolo di molti anni fa, Moravia rilevava nella lettera con cui gli assassini della Raf, in Germania, annunciavano, con un tono da austeri giudici, la condanna a morte dell'industriale Hans Martin Schleyer per la sua vita considerata indegna.

Ci sono vari terrorismi, si dice giustamente, e si osserva, ancor più giustamente, che essi hanno radici e origini diverse, talora in ideologie e più spesso in situazioni umane intollerabili o in conflitti sociali, nazionali, religiosi. Senza risolvere, si dice, le sue cause prime - ingiustizie sociali, focolai di guerra - non si elimina il terrorismo. Tutto questo è giusto, ma serve, nel migliore dei casi, a impedire un terrorismo di domani, il che sarebbe già straordinario. Dinanzi a un terrorismo organizzato - comunque sia nato in origine, anche da proteste legittime - l'unica cosa da fare è trovare i mezzi e i modi per stroncarlo. La parola - quando succede ciò che è successo a Boston e, spesso più atrocemente, altrove - non spetta ai commentatori, ai filosofi, ai sociologi, ma, tecnicamente, alle forze incaricate di combattere il terrorismo; gli infiltrati contano più degli opinionisti o degli storici.

La lotta al terrorismo è difficile, per varie ragioni. Al terrorismo non interessa tanto uccidere quanto paralizzare un Paese con i controlli che la sua minaccia richiede; pochi uomini organizzati possono mettere in ginocchio le comunicazioni e la vita quotidiana di un Paese. Inoltre ciò può mettere di fronte alla difficile scelta tra la tutela della vita delle persone, che esige misure di sicurezza paralizzanti per tutti, e l'efficienza del Paese, che mal sopporta quelle misure. Inoltre il vertiginoso progresso tecnologico ha diminuito la differenza tra la potenza di cui dispongono gli Stati e quella di cui possono disporre piccoli gruppi di individui. Sotto questo profilo si ritorna, paradossalmente, a situazioni arcaiche fino a poco fa capovolte dal divenire storico. Il capo di una tribù primordiale disponeva delle stesse armi dei suoi avversari, clave e frecce; poteva solo avere più seguaci. Il progresso tecnico ha aumentato, nei secoli, la disuguaglianza tra le armi degli eserciti e delle polizie e quelle di chi si ribellava all'ordine vigente: era facile, per il generale Bava Beccaris massacrare bestialmente i dimostranti milanesi nel 1898. Anche gli strumenti del controllo, dell'informazione, della comunicazione erano in mano al potere costituito. La nostra epoca è, dal punto di vista tecnologico, anche l'era del terrorismo.

Oggi invece, anche se non nel caso di Boston, le sofisticatissime conquiste della scienza e soprattutto della tecnologia mettono a disposizione di un gruppo di agguerriti kamikaze e sicari esperti di informatica quasi gli stessi strumenti di cui si servono gli Stati e i vari servizi segreti che danno loro la caccia, anche se fortunatamente non ancora la bomba atomica, come anticipano tanti film. Ciò rende ancor più difficile la lotta al terrorismo. Lotta per altro ardua anche perché spesso tortuosa, ambigua; non sempre è una chiara e limpida lotta dello Stato contro il terrorismo, come tra lo sceriffo e i fuorilegge nel «western», bensì talora è compromissione e scambio di ruoli, forze dello Stato che si infiltrano nelle organizzazioni terroriste non per annientarle ma per usarle contro altre forze dello Stato, come è accaduto in Italia con la vicenda delle Brigate rosse e dell'assassinio di Moro, vicenda tragica ma anche sordida, e come è forse accaduto anche in altre circostanze, in altri Paesi, in altri eccidi.

Perfino la Storia è ambigua con il terrorismo perché, con il passare del tempo, confonde i ruoli a seconda di chi abbia vinto o perso; Guglielmo Oberdan è un eroe per gli italiani, un terrorista per gli austriaci. Qualcuno si è chiesto, pensosamente, cosa sentano e provino gli uccisori vedendo il sangue degli uccisi a Boston o altrove. Interessa poco capire la psicologia e i sentimenti di un assassino. Interessa di più che sia individuato e messo in galera - cosa, purtroppo, più difficile.

Claudio Magris

17 aprile 2013 | 9:29

da - http://www.corriere.it/esteri/13_aprile_17/semplicemente-assassini-magris_894dcce6-a730-11e2-ae64-724b68a647ec.shtml

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