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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107949 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Agosto 26, 2011, 06:38:52 pm »

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Il fantasma recessione

di Massimo Riva

La bufera che investe i mercati finanziari tocca la Germania.

E il rallentamento della crescita economica tedesca preoccupa l'intera Europa

(19 agosto 2011)

Nel bel mezzo della tempesta che sta scuotendo da settimane i mercati finanziari, ora l'Europa rischia di doversi confrontare con serie difficoltà anche sul piano della congiuntura economica. I dati ultimi sull'andamento del secondo trimestre dell'anno, infatti, denunciano un netto rallentamento della crescita e tornano a riproporre l'incubo di una nuova recessione. In particolare, avvalora questa plumbea prospettiva la brusca frenata del Pil tedesco, che ha segnato un misero più 0,1 per cento contro aspettative dello 0,4. E non basta: l'apposito ufficio federale di Berlino ha anche rivisto al ribasso la cifra relativa alla crescita del primo trimestre dell'anno. Contro una stima precedente del più 1,5 per cento ora il dato ufficiale è stato corretto in un assai meno confortante 1,3.

Chi sia in cerca di consolazioni a tutti i costi - com'è antico vizio di Silvio Berlusconi e dei suoi ministri - potrà magari aggrapparsi all'inattesa performance dell'Italia che, sempre nel secondo trimestre, ha realizzato un aumento del Pil dello 0,3 un poco sopra la media europea, attestata sullo 0,2 per cento. Ma, premesso che anche dopo questa prestazione il nostro tasso di crescita tendenziale resta comunque inferiore all'uno per cento, sarebbe miope sottovalutare il peso generale dell'ultimo dato tedesco. La Germania non è solo e di gran lunga la maggiore economia del sistema euro oltre che dell'Europa intera. Il punto specifico è che da quasi due anni essa aveva ripreso a esercitare il ruolo di locomotiva del continente in forza di un boom delle esportazioni che aveva dato un discreto impulso ai consumi interni. Con diffusi benefici anche su altri paesi dell'Unione, non ultima l'Italia.

Per logica conseguenza una frenata della locomotiva tedesca è destinata a coinvolgere, chi più chi meno, tutti i vagoni che le si erano agganciati. Di recente la Confindustria ha reso note previsioni preoccupanti sul terzo e quarto trimestre italiani di quest'anno, denunciando il rischio di una crescita prossima allo zero. Non so se queste stime scontassero già il calo tedesco, certo che quest'ultimo sembra avvalorare i pronostici peggiori. Tanto più perché l'ultima stangata fiscale - benché varata sotto la necessità e l'urgenza di arginare le falle della finanza pubblica - non contiene alcun elemento di pronto rilancio delle attività economiche e rischia perciò di avere un impatto ulteriormente depressivo sulla crescita.

Questo scenario carica di ancor maggiori responsabilità la Bce, unico organismo sovranazionale dell'eurozona, in attesa del Consiglio economico ora proposto da Merkel e Sarkozy. Così come è intervenuta per commissariare governi fragili, quali quelli di Atene e di Roma, la Bce sarà costretta a riesaminare la sua politica sul costo del denaro. Non ha senso, a ben vedere, che essa impieghi decine di miliardi di riserve per acquistare i titoli degli Stati in difficoltà e insieme continui sulla linea di rincaro dei tassi d'interesse dopo gli aumenti di aprile e luglio. Il riaffacciarsi dello spettro della recessione o comunque di una crescita cascante è un segnale d'allarme non meno preoccupante dei timori per una ripresa dell'inflazione. La ricerca di un punto di mediazione fra questi due pericoli è l'eredità più difficile che Jean-Claude Trichet lascia sulle spalle di Mario Draghi nel prossimo autunno.

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« Risposta #151 inserito:: Settembre 02, 2011, 06:08:20 pm »

La cometa privatizzazioni

di Massimo Riva

(25 agosto 2011)

Con la puntualità dei fenomeni astronomici la cometa delle privatizzazioni ricompare periodicamente quando i conti pubblici tornano in emergenza. E, infatti, ci risiamo anche stavolta. Non solo i liberali dal cuore duro e puro, ma anche molte voci di pur differente inclinazione dicono che esiste un'alternativa maestra al prelievo di nuove tasse dalle tasche dei cittadini. L'idea è quella di sottoporre a una drastica cura dimagrante il patrimonio che lo Stato continua a detenere sia come proprietario di una sconfinata quantità di beni immobili sia come azionista di primarie imprese, soprattutto di servizi.

In linea di principio, simile proposito suona senz'altro condivisibile. Anche perché risulta davvero estraneo alla più banale logica economica che un soggetto oberato di debiti, come lo Stato italiano, preferisca lasciar crescere i suoi oneri anziché ridurli con cessioni patrimoniali. Una svolta in materia sarebbe la benvenuta, ma intanto a una condizione pregiudiziale che si può leggere anche nei più sintetici manuali di ragioneria elementare. La vendita di un bene - mobile o immobile che esso sia - rientra in una corretta gestione del bilancio se il suo ricavato va imputato a riduzione del debito e non utilizzato per alimentare la gestione corrente. Altrimenti il rischio è che il debito alla lunga sia lasciato privo di garanzie sottostanti con accelerazione della corsa verso il default. Non sempre e non tutti i sostenitori delle privatizzazioni sembrano avere chiaro in testa questo rigido ma indispensabile vincolo.

Oltre a queste considerazioni di metodo, chi vuole ridimensionare lo Stato padrone ha però anche l'obbligo di uscire dai proclami astratti e di rimettere i piedi per terra. Si fa presto, per esempio, a dire che si può cominciare con la cessione delle caserme e di tanti immobili pubblici, poco o per nulla utilizzati. L'esperienza insegna che iniziative consimili sono state ripetutamente annunciate da parecchi lustri anche con la creazione di apposite società (le famigerate Scip) ma con risultati di fatto nulli. Oggi, per giunta, il mercato immobiliare risulta praticamente bloccato in numerose aree urbane come testimonia la realtà boccheggiante di alcuni imperi privati del settore. Chi e a quale prezzo, per esempio, comprerebbe le caserme in una Milano dove Ligresti e colleghi fanno la fila davanti alle banche con il cappello in mano?

Interrogativi analoghi si pongono se poi si guarda alle proprietà mobiliari dello Stato azionista. Si accantoni pure ogni remora politica sull'uscita della mano pubblica dal controllo delle aziende energetiche. Ma anche solo in una chiave di mera valutazione economica sarebbe una buona idea quella di vendere i pacchetti pubblici di Eni o di Enel quando la crisi delle Borse ha tagliato il loro valore di quasi un terzo nel giro di poche settimane? Chi sollecita oggi simili operazioni non lo farà per favorire eventuali acquirenti privati, più probabilmente si muove per furore ideologico o perché spazientito dopo tanto vane attese. Il risultato sarebbe in ogni caso pur sempre quello di obbligare lo Stato a svendere.
E' una cometa davvero maledetta quella delle privatizzazioni domestiche. La sua luce splende quando esse risultano poco lucrose per il venditore. Ma si spegne subito non appena esse diventano meno redditizie per gli acquirenti.

 
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« Risposta #152 inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:46:18 pm »

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Diritti e doveri visti da destra

di Massimo Riva
(08 settembre 2011)

Ai tanti "desabusés" che ritengono ormai superata e indecifrabile ogni differenziazione fra destra e sinistra si raccomanda vivamente una lettura più attenta del percorso battuto dalla maggioranza berlusconiana con l'attuale manovra d'emergenza. In particolare per due aspetti che riguardano da vicino gli equilibri fra diritti e doveri dei diversi ceti sociali. In un caso si tratta delle novità sull'ordinamento dei rapporti di lavoro, nell'altro caso delle misure relative alla lotta contro l'evasione fiscale. Due interventi che, per modi e contenuti, denunciano in modo esplicito e clamoroso la radice classista e neoconservatrice della loro ispirazione.
Sono anni che nel centrodestra si gira attorno alla questione della libertà di licenziamento da parte delle imprese per far saltare il vincolo della giusta causa sancito nello Statuto dei lavoratori. Dapprima si è tentato un disastroso attacco frontale, poi si è passati a una strategia più subdola mirata a sfruttare la competizione fra le maggiori confederazioni per indebolire il potere sindacale e minarne la capacità di risposta.

Con grande tenacia su questa linea si è mosso l'attuale ministro del Lavoro - l'ex (in tutti i sensi) socialista Maurizio Sacconi - che ha trovato pronta e fattiva collaborazione nella Cisl di Raffaele Bonanni e nella Uil di Luigi Angeletti, entrambi attirati dal miraggio di poter scavalcare la Cgil e assurgere al ruolo di interlocutori privilegiati del governo in carica. Cosicché ora quest'ultimo si è sentito in grado di tirare le somme della collaborazione ricevuta con una proposta normativa di contratti aziendali che potranno annullare le garanzie per i lavoratori previste sia nello Statuto sia nei contratti collettivi nazionali. Vero è che per licenziare sarà comunque necessario un assenso sindacale. Ma in un sistema produttivo di gran lunga costituito da piccole-medie imprese questo limite più che una reale tutela appare come una foglia di fico per mascherare il netto spostamento di potere dalle spalle dei lavoratori alle tasche di quelli che Ernesto Rossi - in tempi nei quali la distinzione fra destra e sinistra era ben chiara a tutti - chiamava i padroni del vapore.

In identica direzione il governo ha mostrato di volersi muovere quanto alla lotta contro gli evasori. La conoscenza del contributo di ciascun cittadino alle spese comuni dovrebbe rientrare in una banale logica di trasparenza contabile: lo si fa in tutti i condomini, perché non con lo Stato? Viceversa, si è scelto di pubblicare sì le cifre degli imponibili fiscali ma in forma anonima. Non si capisce quale deterrente possa esercitare questa indistinta parata di numeri sui ladri di tasse, mentre se ne capisce benissimo il fine sottostante di preservare i medesimi dalla pur minima pena della pubblica riprovazione. Ecco così un'altra scelta che fa quasi rimpiangere la ben più povera Italia di mezzo secolo fa. Quando i conflitti economici e sindacali erano ancora più profondi, ma ogni anno i Comuni rendevano pubblici gli elenchi nominativi dei contribuenti dell'allora imposta di famiglia senza che a nessuno venisse per la mente di parlare di violazione della privacy o di incitamento all'odio sociale. Miseri alibi che vengono ora esibiti soltanto al fine di nascondere la matrice chiaramente classista e destrorsa dei provvedimenti annunciati.


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« Risposta #153 inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:48:18 pm »

Due leve per la crescita

di Massimo Riva

(14 settembre 2011)

Sotto la pressione (anche stavolta) dei richiami allarmati da parte del Quirinale sembra che il governo Berlusconi - bontà sua - voglia finalmente occuparsi di quel problemino che è la scarsa crescita o, peggio, il rischio di una nuova caduta in recessione. Che è esattamente quello che fanno temere sia gli ultimi dati Istat sia le più aggiornate previsioni Ocse sull'andamento del Pil a fine anno. Ma anche questa tardiva presa di coscienza del governo non nasce sotto i migliori auspici perché - come appena accaduto con la manovra di contenimento dei conti - c'è seriamente da temere che improvvisazione e superficialità la facciano da padrone.
Dice, infatti, Giulio Tremonti che egli intende cominciare la sua opera facendo "il tagliando" alla quarantina di provvedimenti che, a suo avviso, sarebbero già stati presi per stimolare l'economia. Se si parte così davvero l'inizio è pessimo. Quaranta provvedimenti di sostegno alla congiuntura? Alla luce delle statistiche, che ci condannano a una crescita 2011 nettamente inferiore al singolo punto percentuale, il meno che si possa dire è che quelle misure sono state drammaticamente inefficaci e insufficienti alla bisogna. L'idea di "fare il tagliando" a strumenti così imbelli suona come una perdita di tempo. Inclinazione quest'ultima che sta diventando un po' un vizio del ministro dell'Economia visto che anche con la manovra di aggiustamento contabile è partito annunciando piccoli interventi di manutenzione ordinaria e ha dovuto finire con misure fin troppo eccezionali. Qualcuna, poi, come la Robin Tax sull'energia addirittura di segno opposto al rilancio degli investimenti.

Due sono i principali nodi cruciali che dovrebbero essere affrontati per fare qualcosa di serio in tema di crescita. Il primo riguarda quel freno strutturale allo sviluppo che è rappresentato dalla presenza sul mercato interno di un eccesso di posizioni di rendita in una quantità di settori. Su questo l'ultimo gran decreto del governo Berlusconi avrebbe potuto e dovuto fare molto di più di quel poco o nulla che è stato cambiato in materia di "libere" professioni, di esercizi commerciali e di paramonopoli sotto il controllo della mano pubblica, vuoi di Stato vuoi degli enti locali. Qui il problema è semplice: o Tremonti ha il coraggio di prendere per le corna il tema delle liberalizzazioni oppure la smetta di menare il can per l'aia.


Il secondo nodo è di ben maggiore spessore e richiede un'opera di lunga lena. In Italia la congiuntura è fiacca perché la domanda interna è debolissima. E ciò dipende principalmente dal crescente squilibrio nella distribuzione dei redditi e del relativo carico fiscale. Quando le ricchezze si concentrano nelle mani di gruppi ristretti a scapito del resto della società si verifica quel classico ingorgo depressivo che il reverendo Malthus aveva indicato un paio di secoli fa. Accade cioè che il capitale in eccesso degli "happy few" va a ingigantire quelle speculazioni che poi sovente procurano (lo si è appena sperimentato) bolle finanziarie dagli esiti disastrosi. Mentre la scarsità di denaro dei ceti più numerosi provoca la caduta dei consumi togliendo così agli investimenti l'ossigeno più importante. Anche qui: o si avvia una riforma fiscale, che sposti il peso dai redditi inferiori ai patrimoni maggiori, oppure ci si risparmi almeno le prese per il naso.

 
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« Risposta #154 inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:49:04 pm »

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Se Emma si dissocia

di Massimo Riva

(29 settembre 2011)

La Confindustria è per sua natura filogovernativa, diceva non poi tanti anni fa Gianni Agnelli. Oltre che per natura, è lecito soggiungere, anche per storia. Basti pensare al ruolo che essa ha svolto nelle fasi di ascesa e poi di dominio della dittatura fascista. Durante la quale proprio l'omonimo nonno dell'Avvocato, senatore del Regno, si distinse per i fecondi rapporti (in dare e in avere) coN IL regime, senza mai prenderne le distanze come pure cercò di fare qualche altra voce confindustriale, autorevole ma minoritaria, come fu quella di Alberto Pirelli.
E' utile oggi richiamare questa costante attitudine del passato, più e meno recente, se si vogliono meglio comprendere la portata e il significato delle ultime prese di posizione dell'attuale presidente degli industriali, Emma Marcegaglia. Da quei precedenti non sembra trascorso qualche decennio, ma un'intera era geologica. Negli anni dissensi critici anche molto pesanti non sono mai mancati nei confronti di questo o quel governo: per esempio, contro il centro-sinistra ai tempi della nazionalizzazione dell'industria elettrica. Ma davvero mai s'era sentito un leader degli imprenditori spingersi fino al punto di lanciare contro l'esecutivo una sorta di decreto di sfratto da Palazzo Chigi, come Marcegaglia sta reiterando da settimane nei confronti del gabinetto guidato da Silvio Berlusconi. Con parole di giorno in giorno più sferzanti, a mano a mano che la presidente raccoglie crescenti consensi nella sua base confindustriale.

I puristi dei ruoli istituzionali possono anche storcere il naso e considerare simili iniziative come un fuor d'opera: non spetta certo a Confindustria tenere in sella o disarcionare un governo. Ma proprio questo strappo dà la misura della drammatica torsione cui gli eventi economici del presente stanno sottoponendo i rapporti fra potere politico e società civile. Anche perché la tensione si sta manifestando a tutto tondo.

Quando Marcegaglia dice che o il governo fa qualcosa di serio entro domani oppure è meglio che se ne vada dopodomani segnala la totale insoddisfazione del mondo produttivo per l'assenza di misure dirette a rianimare un'economia che si sente abbandonata a se stessa. Ma quando afferma che gli imprenditori sono stufi di essere accolti come lo zimbello del mondo ogni volta che vanno a vendere i loro prodotti all'estero, denuncia qualcosa di ancora più grave: la caduta verticale di credibilità dell'Italia a causa di una politica economica improvvisata e pressappochista gestita in quel clima a metà fra il postribolare e il circense che avvolge Palazzo Chigi.

Le sue parole sottintendono una domanda che molti italiani si sentono fare quando si trovano fuori dai patri confini: ma come fate a reggere una situazione del genere? Interrogativo che insinua un implicito giudizio negativo sull'assenza di reazioni efficaci a questo stato di cose da parte della classe dirigente economica nazionale. Ecco perché il "Manifesto per salvare l'Italia" annunciato da Confindustria va inteso non soltanto come un insieme di proposte sulle riforme da fare, ma soprattutto come un tentativo di dissociare nettamente le responsabilità del mondo delle imprese dall'onda di discredito che dal governo sta dilatandosi all'intero Paese.
Una sorta di legittima difesa che riflette, purtroppo, la tragica condizione di stallo del presente.

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« Risposta #155 inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:49:56 pm »

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I Buffett de' noantri

di Massimo Riva
(22 settembre 2011)

Dall'alto della sua montagna di dollari, il plurimilionario americano Warren Buffett ha voluto compiere un bel gesto di civismo sollecitando la Casa Bianca a far pagare più tasse ai grandi ricchi. Non è giusto - egli ha scritto in sostanza - che la mia segretaria sia soggetta a un prelievo percentualmente doppio di quello che io subisco sulle mie fortune. Così richiamando l'attenzione su una stortura di quel sistema tributario per cui la tassazione su plusvalenze patrimoniali e rendite finanziarie in genere si situa attorno al 15 per cento, mentre sugli stipendi si arriva a prelevare anche il 35. Il presidente Obama ha preso la palla al balzo e ha inviato al Congresso una proposta ribattezzata "Buffett rule" al fine di istituire un'aliquota minima del 35 per cento a carico di chi abbia un reddito oltre il milione di dollari (in euro circa 700 mila).
Non sfugge il secondo fine politico di questa iniziativa. La Camera di Washington è dominata dal partito repubblicano da sempre contrario a nuove tasse per i ricchi. Poiché l'anno prossimo si voterà per la presidenza, Obama intende mettere con le spalle al muro i suoi avversari politici facendoli apparire agli occhi della stragrande maggioranza degli americani come i difensori dei privilegi di una minoranza egoista e antisociale. Resta il fatto che anche nel "sancta sanctorum" del capitalismo c'è un governo che si pone il problema di riequilibrare la pressione tributaria in termini di maggiore equità distributiva.

Il nostro sistema fiscale è diverso - certo non migliore - rispetto a quello americano e la "Buffett rule" non sarebbe riproducibile in Italia così come formulata negli Usa. Anche da noi, tuttavia, la provocazione del milionario di Omaha ha trovato seguito in voci rappresentative del capitalismo domestico come quelle, per esempio, di Della Valle o di Montezemolo in favore di un'imposta sui patrimoni maggiori. Ma, al contrario di quanto accaduto dall'altra parte dell'Atlantico, è l'autorità di governo che ha lasciato cadere nel vuoto simili sollecitazioni perché il nostro plurimilionario di Palazzo Chigi non vuole nemmeno sentir parlare di prelievi sulle ricchezze né mobiliari né immobiliari.

E così per meglio scongiurare l'ipotesi stessa di un'imposta patrimoniale si sta ricorrendo alla furbizia di dibatterne una versione sconveniente. Quella, cioè, di un cospicuo prelievo straordinario al fine di dare un taglio importante al debito pubblico per riportare il bilancio in linea di galleggiamento. Che una simile ipotesi sia fuori luogo è evidente. Vuoi perché rischia di ricreare spazi per la corsa della spesa pubblica e, quindi, per nuovo indebitamento. Vuoi perché la sua dimensione necessariamente rilevante può ingenerare un effetto depressivo su una congiuntura già debolissima.

Ma di patrimoniale c'è almeno un'altra versione. Si tratta di un prelievo ordinario, con aliquota molto bassa e una franchigia ragionevole. In questo modo non solo si chiamerebbero a contribuzione le rendite privilegiate e le ricchezze accumulate con l'evasione, ma soprattutto si otterrebbe un gettito con il quale - a pressione fiscale invariata - ridurre le aliquote sui redditi medio-bassi favorendo quella ripresa dei consumi che è l'ossigeno primario per investimenti e crescita economica. Ma chissà perché di questa "Italian rule" si fa così tanta fatica a parlare.

 
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« Risposta #156 inserito:: Ottobre 13, 2011, 04:40:26 pm »

La secessione del Lingotto

di Massimo Riva

(06 ottobre 2011)

E secessione fu. S'era capito fin dalla prima lettera a EMMA Marcegaglia del 30 giugno che la Fiat stava già con un piede e mezzo fuori da Confindustria. Le motivazioni cui ora SERGIO Marchionne ricorre per spiegare il passo definitivo, del resto, non fanno altro che confermare quello che era e rimane il suo principale obiettivo: condizionare la presenza Fiat in Italia alla mano libera in materia di contratti e, soprattutto, di licenziamenti. Un obiettivo perseguito con determinazione e arroganza dapprima prendendo per la gola i sindacati (a Pomigliano come a Mirafiori) e poi ricattando il governo con la reiterata minaccia di andare a investire altrove.

Che questa linea di condotta potesse creare fratture pericolose nelle relazioni sindacali e surriscaldare il clima di fabbrica per tutti gli altri associati di Confindustria è apparsa fin dal principio l'ultima preoccupazione di Marchionne e degli eredi Agnelli. A Marcegaglia e soci è stato così riservato un trattamento uguale a quello degli altri interlocutori: o fate quel che vogliamo o ce ne andiamo. Al contrario del governo, che nella persona del ministro Sacconi ha cavalcato i siluri di Torino nella convinzione di poter così chiudere la sua antica guerra contro la Cgil, l'attuale presidente di Confindustria ha cercato di evitare gli scontri frontali ritenendoli esiziali in una congiuntura plumbea come la presente. Perciò non si è opposta al fatidico articolo 8 del decreto d'agosto con il quale il governo recepiva le richieste della Fiat, ma poi il 21 settembre ha concordato coi sindacati (tutti) una lettura che ne ridimensionava l'impatto sulla libertà di licenziamento. Così offrendo, però, il pretesto che Marchionne aspettava per sbatterle la porta in faccia.

Gesto che pone nuovi problemi e ne lascia aperti non pochi di vecchi. I primi riguardano l'impatto che potrà avere la svolta torinese sulla struttura interna di Confindustria: anche altri e quanti potranno seguire l'esempio di Marchionne? Il momento è politicamente delicato dato che Marcegaglia sta contestando il governo in carica con una durezza senza precedenti. La secessione della Fiat potrebbe alimentare tentazioni analoghe sul versante dei più irriducibili imprenditori filo-berlusconiani.

I problemi vecchi e tuttora insoluti riguardano la sorte del gruppo Fiat. Nel numero scorso "l'Espresso" si chiedeva se Marchionne ce la farà a compiere quella che lui stesso ha definito una "traversata del deserto". E su questo nodo - con Fiat dentro o fuori da Confindustria - nulla è cambiato. I progetti che dovrebbero implementare i famosi 20 miliardi di investimenti del piano Fabbrica Italia sono ancora ignoti o cambiano in continuazione come a Mirafiori. Ora che si è liberata da ogni vincolo sul versante sindacale, sarebbe lecito aspettarsi che la Fiat si decidesse finalmente a darsi una mossa, ma di nuovi modelli in grado di contrastare una concorrenza sempre più spavalda non si vede traccia. L'impressione è che la vera e più ardua "traversata del deserto" sia quella che attende i lavoratori della Fiat e tutti gli interlocutori politici e sindacali che hanno creduto al verbo di Marchionne.

 
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« Risposta #157 inserito:: Ottobre 23, 2011, 05:38:44 pm »

di Massimo Riva

Pensioni e lavoro per i giovani

    L’aumento della vita media e la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale impongono un rialzo accelerato dell’età pensionabile. Un’esigenza che si colloca in contrasto con quella di favorire maggiori opportunità di lavoro alle generazioni più giovani. Il superamento di questa contraddizione postula, in primo luogo, misure generali per forzare la crescita del Pil, ma può essere aiutato anche da alcuni interventi mirati.

    In particolare si tratta di assumere provvedimenti che consentano di prosciugare nel tempo la palude del precariato con la quale si è data una falsa soluzione al problema. Vanno, quindi, previsti benefici fiscali per le aziende che assumono con contratti a tempo indeterminato giovani sotto i 30 anni oltre che pari vantaggi fiscali sui redditi percepiti dai nuovi assunti almeno per i primi anni.

    Questo mutamento delle convenienze per le imprese e i giovani disoccupati produrrebbe effetti importanti sul mercato del lavoro dilatando l’offerta e favorendo nuove assunzioni. La crescita conseguente degli occupati finirebbe così per compensare la riduzione del gettito implicita nelle agevolazioni concesse dall’Erario. Un’altra novità a costo zero, dovuta alle giovani generazioni, è l’abrogazione di quella pessima reliquia ottocentesca che si chiama valore legale del titolo di studio. Riforma indispensabile per dare una scossa di vitalità al sistema dell’istruzione e al mercato del lavoro.

da - http://www.repubblica.it/static/speciali/altri/agenda-per-italia/?ref=HREC2-10
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« Risposta #158 inserito:: Ottobre 30, 2011, 11:44:14 pm »

L'impotenza della Consob

di Massimo Riva

(20 ottobre 2011)

In prossimità della tradizionale assemblea del 28 ottobre, Mediobanca si trova al centro di un'esemplare vertenza che la dice lunga sulle bulimie di potere di cui si nutre il nostro "capitalismo relazionale". Ma la dice forse ancora più lunga sulla sostanziale impotenza dell'Autorità di vigilanza sulla Borsa a ricondurre entro regole di ovvia correttezza gli inevitabili conflitti d'interessi connaturati a un sistema dove gli intrecci azionari continuano a farla da padroni.

Tutto comincia con una singolare iniziativa della Fondazione Cariverona che, in previsione dell'assemblea dell'istituto di cui possiede un pacchetto azionario del 3,2 per cento, ha presentato una sua lista per i posti del collegio sindacale che la legge assegna alla minoranza. A prima vista, tutto bene. Se non fosse che l'ente veronese è pure socio al 4,2 per cento di Unicredit, che è anche il primo azionista della medesima Mediobanca con l'8,6 per cento e perciò concorre alla presentazione delle liste di maggioranza sia per il collegio sindacale sia per il consiglio d'amministrazione.

L'iniziativa non è piaciuta ad Assogestioni, che per i sindaci di minoranza ha messo in campo una sua lista alternativa. Poiché il Testo unico della finanza stabilisce che "la seconda lista non debba essere collegata, neppure indirettamente, con la lista che risulta prima" un esposto è subito partito all'indirizzo della Consob. La quale, a sua volta, ha inviato due lettere con richiesta di chiarimenti sia all'ente scaligero sia ai vertici di Mediobanca. Questi ultimi risponderanno dopo una riunione del consiglio d'amministrazione convocata ad hoc per lunedì 24 ottobre.

I veronesi, invece, hanno prontamente replicato protestando che la loro "relazione con Mediobanca (per tramite indiretto di Unicredit) presenta tratti così poco qualificanti da sfumare in un'ipotesi priva di qualunque rilevanza giuridica". Come dire, insomma, che tengono impegnata una non trascurabile quantità di denaro tanto in Unicredit quanto in Mediobanca senza avere alcuna seria voce in capitolo sulle nomine più importanti da parte dei due istituti.

Per credere a una simile favoletta ci vorrebbe una così robusta dose di candore da far sperare che i commissari della Consob non si lascino impressionare da tali sofismi da azzeccagarbugli. Resta, però, da vedere che cosa potranno fare per scongiurare questo aggiramento di un evidente conflitto d'interessi. Molto potrebbe aiutarli la risposta del consiglio di Mediobanca, ma le probabilità che questo si schieri contro un suo socio, diretto e indiretto, appaiono francamente minime.

La Consob potrebbe avvalersi di un precedente, quello delle Assicurazioni Generali, per le quali a suo tempo il socio Benetton aveva presentato un'analoga lista di minoranza. Iniziativa che l'Autorità giudicò contrastante con la partecipazione dello stesso Benetton al capitale di Mediobanca, azionista di riferimento del colosso triestino. Pronuncia che spinse l'interessato a lasciar perdere. Ma proprio qui siamo al punto cruciale. In base alle norme vigenti la Consob ha certo una facoltà di "moral suasion" ma i suoi pareri restano in ogni caso non vincolanti per le parti in causa. Conclusione logica: gli abusi del capitalismo relazionale prosperano perché il potere politico, con le sue leggi, non si limita a tollerarli ma li incoraggia.

 
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« Risposta #159 inserito:: Novembre 03, 2011, 05:06:18 pm »

L'analisi

L'ultimo strappo del Cavaliere disperato

di MASSIMO RIVA


LE INVETTIVE - perché di questo esattamente si tratta - che Silvio Berlusconi ha lanciato ieri contro l'euro non sono voci dal sen fuggite. E c'è poco, quindi, da tentare di ridimensionarle.

Palazzo Chigi ha denunciato in serata interpretazioni maliziose e distorte, ma è il solito stucchevole copione  di smentite tardive e bugiarde. Il fatto è che il Cavaliere, come gli è già capitato ormai decine e decine di altre volte, ha detto esattamente quello che  pensa in cuor suo, secondo quella visione grossolana e sostanzialmente incolta dei problemi che gli tocca di affrontare in qualità di presidente del Consiglio.

Denigrare l'euro come una moneta "strana perché attaccabile sui mercati" è una gaffe politica imperdonabile in una fase di estrema delicatezza come l'attuale. Proprio mentre il Paese è chiamato a fare sacrifici durissimi per salvare la propria economia, proprio mentre gli stati dell'Unione cercano in tutti i modi di salvare Eurolandia, il Cavaliere si sfoga contro la moneta unica che non "convince nessuno". Ma la sua  è molto peggio di una gaffe: significa non aver capito nulla né del ruolo della moneta unica nel processo di costruzione dell'Europa né degli enormi benefici che il nostro Paese ha tratto e potrà continuare a trarre dalla partecipazione a questa storica trasformazione del vecchio continente in una grande area di stabilità e di democrazia a vantaggio dell'intero pianeta. E non basta: significa non
possedere nemmeno gli elementi di conoscenza elementare per capire ciò che sta accadendo da mesi sui mercati finanziari.

Che senso ha, per esempio, parlare di moneta "strana perché attaccabile"? Ma dove ha vissuto finora il sedicente imprenditore di successo Berlusconi? Tutte le monete sono attaccabili dalla speculazione: la storia della lira, della sterlina, del franco e perfino del dollaro ne hanno dato ripetute dimostrazioni. Il fatto è che da qualche tempo ormai il Cavaliere dà chiari segni di aprire la bocca per dare sfogo ai suoi confusi malumori senza rendersi conto di pronunciare parole che - ahinoi - impegnano il presidente del Consiglio della Repubblica Italiana.

Sul piano intimistico si può anche comprendere che egli si senta infastidito o addirittura assediato dalle regole di disciplina imposte dalla partecipazione del nostro paese al condominio monetario europeo. Così come si può capirne la frustrazione di non sentirsi preso sul serio ormai in nessun consesso internazionale e perciò non resista all'impulso di rovesciare il tavolo ignorando anche le norme più elementari della correttezza politica. Ma egli ricopre la carica di capo del governo  e così coinvolge nelle nefaste conseguenze dei suoi malesseri il destino dell'intero paese.

Appena qualche giorno fa hanno suscitato inviperite reazioni di difesa patriottica gli umilianti sorrisi coi quali Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno commentato una domanda sull'affidabilità degli impegni berlusconiani. In realtà, ci è andata ancora bene.

Se in Europa dovessero prendere sul serio le parole pronunciate ieri dal Cavaliere contro l'euro, l'Italia rischia di essere lasciata da sola alla mercé dei mercati con il suo debito e tutti gli altri guai al seguito. Ancora una volta Berlusconi ha dimostrato che il suo ritiro dalla scena è la prima emergenza nazionale.

(29 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #160 inserito:: Novembre 03, 2011, 11:32:25 pm »

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L'opinione

Assuefazione da spread

di Massimo Riva

(27 ottobre 2011)

Dimentichiamoci pure dei tempi d'oro nei quali i conti pubblici erano gestiti dalla mano maestra di Carlo Azeglio Ciampi. Allora il fatidico differenziale fra i nostri titoli del Tesoro e i "bund" tedeschi se ne stava pacificamente al di sotto dei 100 punti. Ma ancora nel pieno della passata primavera, quando il sisma della crisi greca era in piena attività, il livello era pur sempre lontano da quota 200. Tanto che nessuno si sognava di chiedere e neppure di immaginare interventi di sostegno sui mercati da parte della Banca centrale europea.

Poi sono arrivati gli improvvisi strappi al rialzo nel cuore dell'estate a fronte della manifesta incapacità di pronta risposta del governo Berlusconi agli attacchi speculativi sul mercato e ai conseguenti declassamenti del nostro debito pubblico da parte delle agenzie di "rating". In poche settimane lo "spread" è balzato oltre i 300 punti per superare nelle giornate peggiori perfino quota 400 a dispetto dei massicci acquisti di titoli italiani effettuati a partire da agosto dalla Bce. Nemmeno la manovra d'emergenza varata dopo il sostanziale commissariamento europeo del governo di Roma ha spento l'incendio. Ormai da qualche tempo quel decisivo differenziale si muove in altalena fra i 350 e i 400 punti.

I riflessi di questa situazione si stanno ampiamente manifestando sull'intero sistema finanziario. Sono saliti inesorabilmente i tassi d'interesse un po' in tutte le ultime aste dei titoli di nuova emissione, mentre i Btp decennali riescono a tenere sul mercato solo a condizione di offrire rendimenti prossimi al 6 per cento.
Ciò significa che si è messa in moto un'onda lunga che minaccia di far salire di non pochi punti percentuali quella montagna di denaro (già prossima agli 80 miliardi) che lo Stato italiano deve sborsare ogni anno ai finanziatori del suo debito.

Ma conseguenze non meno pesanti si stanno abbattendo sulle banche domestiche. Data la caduta delle quotazioni dei nostri titoli pubblici, infatti, gli istituti di credito si vedono costretti ad accrescere la quantità di obbligazioni che devono offrire in garanzia alla Banca centrale di Francoforte ogni volta che abbiano bisogno di ricorrere ai suoi finanziamenti. Cosicché i tassi d'interesse richiesti per i crediti alla clientela italiana sono tornati a crescere: con quale effetto sulla già scarsa propensione agli investimenti è facile arguire.

Ma l'aspetto più sorprendente (o meglio inquietante) di questo stato di cose è che ormai l'intero paese sembra essersi assuefatto all'idea di poter convivere con un simile grado di febbre finanziaria. Sì, talvolta, torna a manifestarsi un po' d'allarme quando il differenziale coi "bund" si riavvicina a quota 400. Ma basta che qualche giorno dopo si riabbassi di 20 o magari 30 punti e tutti si mettono tranquilli.
Tanto che la stessa parola "spread" scompare non solo dalla prima, ma anche dalle altre pagine dei giornali oltre che dai notiziari televisivi. Possibile che non ci si renda conto che anche solo 3 punti in più sui tassi d'interesse sono un dazio micidiale per il nostro debito? Sarà pure che questo stato ipnotico è figlio degli inganni che l'illusionista di Palazzo Chigi sparge a piene mani, ma che cosa aspetta il resto della cosiddetta classe dirigente per svegliarsi?

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/assuefazione-da-spread/2164828/18
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« Risposta #161 inserito:: Novembre 10, 2011, 11:37:13 pm »

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Economia

'Licenziare fa bene': che bufala

di Massimo Riva

Il ministro Sacconi continua a vendere il mantra secondo cui rendere precari i lavoratori accrescerebbe la ricchezza collettiva.

Una teoria mai provata, che forse (forse) può funzionare in una fase di crescita, ma sarebbe devastante in queste condizioni

(07 novembre 2011)

Immaginare che rendendo più facili i licenziamenti si favoriscano maggiori assunzioni da parte delle imprese, come dice di voler fare la riforma minacciata dal governo Berlusconi, è un teorema tutto da dimostrare. Purtroppo, infatti, esso ricorda molto da vicino lo stesso fragile impianto logico di un'altra escogitazione del pensiero liberista: la cosiddetta curva di Laffer. Quella secondo cui una diminuzione delle imposte comporta necessariamente un aumento del gettito fiscale a favore dello Stato perché la minore esosità dell'Erario rende meno conveniente il ricorso a stratagemmi di evasione o elusione tributaria.

Finora nessun paese si è azzardato ad applicare la cura Laffer in termini tali da verificarne gli esiti effettivi.

Né i parziali esperimenti adottati in materia dall'amministrazione Reagan sono stati tali da portare a conclusioni positive. Tanto che un premio Nobel come Joseph Stiglitz si è sentito autorizzato a liquidare quella teoria come uno "scarabocchio su un qualunque pezzo di carta". Uno scarabocchio, tuttavia, che nelle sue pur limitate applicazioni americane ha prodotto conseguenze pesanti sulla distribuzione sociale delle risorse: in particolare, concentrando vieppiù le ricchezze nelle mani delle classi più agiate così spostando a danno dei ceti più poveri l'asse di equilibrio nel sostegno allo Stato fiscale.

Ha un bel dire il ministro Sacconi che la sua nuova disciplina per i licenziamenti non nasce da una visione punitiva nei confronti delle parti più deboli nei contratti di lavoro. Fatto sta che la sua riforma mette assieme una certezza giuridica per la parte relativa alla dismissione dei lavoratori con una scommessa economica del tutto aleatoria per quanto riguarda l'auspicato effetto di rendere altrettanto più facili le assunzioni. Cosicché la novità che egli propone appare come una sperimentazione il cui peso è destinato a ricadere, almeno negli anni iniziali, interamente sulle spalle dei lavoratori. Mentre alle imprese nulla si chiede, nell'astratta speranza che la facilitazione loro concessa possa indurle a disfarsi di un lavoratore per assumerne un altro, se e quando lo riterranno vantaggioso.

Se l'Italia attraversasse una fase di crescita economica quanto meno moderata e di minor pressione inflazionistica sui salari, l'idea di sottoporre il mercato del lavoro a un così drastico esperimento di torsione potrebbe forse apparire un po' meno feroce. Ma il nostro paese arranca, l'inflazione è in crescita, il debito incombe e la disoccupazione aumenta (ben sopra l'8 per cento) anche perché diminuisce il numero degli occupati a dimostrazione che per licenziare non c'è affatto bisogno degli incentivi sacconiani. A parte, quindi, ogni considerazione di merito specifico, la proposta del governo cade oltre tutto nel momento più sbagliato.

Evidentemente il ministro del Lavoro soffre di un serio problema di adattamento delle sue convinzioni ideologiche alla realtà. Già al suo esordio governativo, infatti, Sacconi si produsse nella brillante trovata di puntare sulla defiscalizzazione del lavoro straordinario in una fase nella quale le imprese facevano fatica a mantenere nei loro impianti il normale orario di lavoro.

Perseverare in simili errori - esasperandoli ora con ambigue profezie terroristiche - è segno di malizia politica coniugata a dilettantismo economico.

 
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« Risposta #162 inserito:: Dicembre 03, 2011, 05:47:16 pm »


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Ici per tutti ma Chiesa compresa

di Massimo Riva

Nessun Paese d'Europa si può permettere di togliere l'imposta sulla prima casa.

Inevitabili dunque che il governo Monti la debba reintrodurre.

Ma deve seguire i principi dell'equità sociale e cancellare le esenzioni per i beni ecclesiastici

(02 dicembre 2011)

Il mattone è il bene rifugio per eccellenza degli italiani. Forse non c'è paese al mondo che superi il nostro nella classifica dei proprietari della casa d'abitazione. Tanto che l'acquisto di quest'ultima resta la prima aspirazione di coloro che sono costretti a vivere in affitto. Sottrarre all'imposizione fiscale un bene patrimoniale così diffuso è un lusso che si può permettere soltanto l'erario di uno Stato particolarmente solido e ricco. Cosicché non c'è grande paese in Europa che preveda simile esenzione e neppure per la cosiddetta "prima casa" che, viceversa, gode da qualche anno in Italia di un trattamento preferenziale.

Questa specifica "anomalia" come l'ha definita il nuovo presidente del Consiglio, è stata introdotta in due fasi diverse. Dapprima dal governo Prodi con l'esclusione dal pagamento dell'Ici (Imposta comunale sugli immobili) delle prime case possedute da titolari di redditi medio-bassi. Poi dal governo Berlusconi con l'estensione dell'identico beneficio a tutti, indipendentemente dal livello dei redditi denunciati al Fisco. Unica eccezione le case classificate di lusso: una rarità statistica.

Che in un frangente così particolarmente drammatico per le finanze pubbliche il governo Monti intenda reintegrare in forma di Ici o consimile un prelievo generalizzato sulle proprietà immobiliari è del tutto logico e scontato. Uno dei vizi di fondo del nostro sistema tributario è quello di aver eccessivamente forzato la mano nel tempo sui redditi da lavoro e da impresa. Con effetti distorsivi sull'allocazione delle risorse, avendo provocato una caduta dei consumi con conseguente frenata degli investimenti e perciò anche dell'occupazione.

La via maestra per spezzare questa spirale negativa indica la necessità di spostare la pressione del Fisco dalle persone alle cose, dai redditi ai patrimoni. E la casa, per quanto ricordato sopra, si offre come il primo e più ovvio cespite al quale rivolgersi.

Essenziale, però, che in materia si proceda nel solco dei buoni principi dell'equità sociale: primo fra tutti, quello della progressività delle imposte, come indicato dalla Costituzione. Circolano al riguardo ipotesi francamente discutibili come quella di commisurare l'entità del prelievo a quella del reddito dichiarato dal contribuente. Avessimo in Italia un basso tasso di evasione fiscale, nulla da eccepire. Purtroppo, così non è: prendere a base della tassazione delle case la dichiarazione Irpef significherebbe aggravare ancora la discriminazione fra i contribuenti onesti e quelli che fanno i furbi. Altra è la via da seguire: realizzare la progressività commisurando il prelievo sui valori catastali delle case opportunamente riveduti. Opera certo di lunga lena. Ma se non la si comincia neppure stavolta l'esito sarà quello di aggravare le ingiustizie del nostro sistema fiscale.

Va soggiunta, in fine ma non per ultima, un'altra avvertenza al governo Monti per la nuova imposta che s'accinge a introdurre. Ci sono esenzioni all'Ici o a quel che sarà che gridano - è proprio il caso di dire - vendetta al Cielo: quelle riferibili a beni ecclesiastici, nei quali un sapiente mix di utilizzo fra culto e commercio consente spesso di estendere i legittimi benefici della prima attività anche alla seconda. Qui non si tratta di dividersi fra cattolici e no, semplicemente di essere giusti.

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« Risposta #163 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:22:00 am »

Opinione

Monti, metti mano alle banche

di Massimo Riva

Va bene, in un momento come questo, che lo Stato si faccia garante delle loro passività. Ma in cambio dovrebbe imporre agli istituti un bella riforma contro gli intrecci pericolosi e per mettere fine a quelle dinamiche che hanno creato la crisi. Invece, niente

(12 dicembre 2011)

Fra i tanti che si lamentano per gli effetti della manovra Monti sulle proprie tasche di sicuro non possono esserci i banchieri. Va bene che dovranno imporre ai clienti un dazio più consistente sui depositi di titoli, ma al contempo gli istituti di credito incassano un beneficio straordinario quale la garanzia dello Stato sulle loro passività. Stabilisce, infatti, il decreto che il ministero dell'Economia è autorizzato fino al 30 giugno 2012 a diventare fideiussore dei debiti contratti dalle banche con scadenza da tre mesi fino a cinque anni ovvero, a partire dal primo gennaio prossimo, fino a sette anni per le obbligazioni emesse successivamente all'entrata in vigore del provvedimento. Il tutto a un costo contenuto entro l'uno per cento.

E' chiaro che non si tratta di una comoda regalia perché la mossa obbedisce soprattutto alla necessità di aiutare le banche a superare l'attuale momento difficile nella raccolta di fondi: diventato così critico da dare corpo allo spettro del "credit crunch" che avrebbe effetti devastanti per l'intera economia europea. Tanto che la questione era stata affrontata nel vertice Ue del 26 ottobre ma senza arrivare a conclusioni comuni se non quella di rinviare la palla ai singoli governi per soluzioni a livello nazionale. E proprio in questa logica, anziché stare a vedere che cosa avrebbero fatto gli altri, il nuovo governo italiano ha preso l'iniziativa e fatto la sua parte.

Che il fine dell'operazione sia buono e condivisibile non c'è dubbio. Di fronte a un mercato interbancario in progressivo inaridimento e perciò con costi di raccolta in costante aumento, un governo responsabile non poteva starsene con le mani in mano ad assistere al conseguente strangolamento dei finanziamenti alle imprese, soprattutto medie e piccole. Mario Monti ha perciò calato l'asso della garanzia di Stato e c'è da sperare che la sua mossa possa dare risultati significativi e diffusi sul sistema economico nel suo complesso. Sarà, del resto, la Banca d'Italia a monitorare il merito dei passivi sui quali lo Stato sarà chiamato a offrire la sua garanzia. Fin qui tutto bene.

Tuttavia, un contraccolpo implicito e non particolarmente entusiasmante di questa decisione è che così si farà crescere il debito pubblico. Secondo un elementare criterio contabile, infatti, chi concede una garanzia su impegni altrui non può evitare di registrarne il peso conseguente sul proprio bilancio. Poi, per carità, tutto andrà per il meglio perché con il sostegno della mano pubblica le banche terranno fede magari anche più agevolmente ai loro obblighi. Ma l'aggravio, per quanto temporaneo, sul debito pubblico resta un dato di fatto. A fronte del quale non si intravvede alcuna forma di contropartita e questo sì lascia dell'amaro in bocca.

La crisi finanziaria aveva rilanciato un bel dibattito sulla riforma del sistema creditizio riportando in auge temi come la separatezza fra banca e industria o l'antica e rassicurante distinzione fra istituti di credito ordinario e di credito speciale. E' increscioso dover constatare che una volta di più la pressione condizionante dello stato d'emergenza spinge a dover correre al soccorso di un'architettura del mercato bancario che continua a reggersi sugli stessi schemi in larga misura responsabili dei guai da cui nasce, appunto, lo stato d'emergenza. Qualche riforma mai?


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« Risposta #164 inserito:: Dicembre 21, 2011, 06:31:47 pm »

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La polemica

Conflitti di interessi, che paura

di Massimo Riva

Quello italiano è un capitalismo chiuso, feudale, protetto da incroci di potere che niente hanno a che fare con la concorrenza. Ma finora il governo si è mostrato molto timido nell'affrontare la questione

(15 dicembre 2011)

Alla guida del governo c'è oggi un uomo come Mario Monti che ha saputo ingaggiare (e vincere) memorabili battaglie antimonopolistiche nella sua qualità di commissario europeo alla concorrenza. Al suo fianco, come sottosegretario alla presidenza, il nuovo premier ha voluto chiamare Antonio Catricalà, che si è trasferito a Palazzo Chigi dal vertice dell'Autorità Antitrust: una scelta che è subito apparsa come un chiaro messaggio di specifico impegno sul fronte della lotta contro i troppi abusi di posizione che caratterizzano la struttura del potere economico domestico. E, infatti, il primo frutto del lavoro di questa singolare accoppiata è subito maturato nell'articolo 36 del decreto cosiddetto Salva- Italia.

Dice testualmente la nuova norma: "E' vietato ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti".

A prima vista, la soddisfazione è davvero grande. Finalmente qualcuno che prende per le corna uno dei vizi più odiosi del capitalismo italiano: quello dei ben calibrati incroci di poltrone che consentono di aggirare i sani principi della concorrenza riducendo l'economia di mercato al vuoto simulacro di se stessa.

Non si fa fatica a riconoscere nella stesura di questo testo di legge anche la mano di Catricalà. Giusto un paio d'anni fa, un'indagine condotta dall'Antitrust sotto la sua presidenza aveva messo in luce in materia una realtà sconvolgente: spulciando i nomi dei membri dei consigli d'amministrazione delle società quotate in Borsa era emerso che in quasi il 90 per cento dei casi vi erano cumuli di incarichi in imprese fra loro concorrenti.

Mettere la parola fine a questo malcostume è opera meritoria. Quel che si capisce francamente meno è perché il divieto sia limitato ai mercati di credito, assicurazioni e finanza. Forse che l'intreccio delle poltrone è meno pericoloso per il dispiegarsi della concorrenza nel settore industriale? Si dura fatica a crederlo.

Un'altra e ben più seria questione riguarda, però, quella particolare struttura tardo-feudale del capitalismo italiano che sta a monte degli scambi di poltrone e ne costituisce spesso il fonte battesimale.

Secondo la già citata indagine dell'Antitrust sotto la gestione Catricalà, ben il 60 per cento delle società quotate in Borsa ha nel proprio capitale azionisti che sono al tempo stesso concorrenti. Va bene, anzi benissimo cominciare con il divieto dei cumuli di incarichi. Ma poiché quest'ultimo potrebbe anche essere aggirato con il ricorso a professionisti prezzolati alla bisogna, occorre fare un altro passo avanti per spezzare il cerchio di un potere economico che - come ha certificato, appunto, Catricalà - si fonda su una diffusione tenace e pervasiva del conflitto d'interessi. Ovvero sul più micidiale ostacolo alla realizzazione di un'economia di mercato aperta alla leale e libera concorrenza.

Certo, opera non facile né spedita quella di imporre per legge lo scioglimento degli abusi in materia di incroci azionari fra concorrenti. Ma questo è il prossimo passo che è lecito attendersi dall'uomo che da Bruxelles ha saputo sfidare in materia i titani dell'economia americana e perfino la Casa Bianca.

 
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