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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107912 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:03:38 am »

Massimo Riva


Più feudale che liberale


A parole, il governo Berlusconi non fa che lodare le virtù dell'economia di mercato. Nei fatti, in materia di riforme, l'immobilismo del centrodestra è a dir poco imbarazzante  Giulio Tremonti e Silvio BerlusconiParlano come Oliver Cromwell, agiscono come Carlo I. Nulla meglio di questa tipica locuzione inglese rende l'idea di come si comportano il governo Berlusconi e la sua maggioranza in tema di riforme.

Quando si tratta di magnificare a parole le virtù e i benefici dell'economia di mercato, il linguaggio di costoro assume sovente un ardore e una passione da fervidi rivoluzionari sotto il vessillo della libera impresa e della piena e leale concorrenza.

Viceversa, quando si passa alle specifiche scelte legislative da compiere sul corpo vivo degli affari, il cambiamento di rotta è totale e la deriva della restaurazione prende il sopravvento su tutto e su tutti.

Già c'era stato un pessimo segnale in questo senso con la decisione di modificare le regole del gioco borsistico in modo da aiutare i gruppi di controllo di molte società quotate ad arroccarsi di fronte al rischio di scalate esterne, in deliberato sfregio agli interessi della grande platea degli azionisti di minoranza e dei piccoli risparmiatori in genere.

Un tipico atto ostile al mercato fatto approvare dal Parlamento niente meno che previa scandalosa sollecitazione della Consob, ovvero proprio di quella Autorità 'indipendente' il cui compito fondamentale dovrebbe essere quello di garantire la parità di diritti e di opportunità fra tutti i soggetti del mercato azionario.

Ora a questa prima e grave svolta feudal-corporativa sta seguendo una serie di minacciati interventi settoriali il cui fine inconfessabile è la chiusura degli spazi di libera competizione a difesa dei privilegi acquisiti da chi dispone di posizioni di rendita sul mercato. Sotto tiro sono, in particolare, le liberalizzazioni introdotte dall'ex ministro Bersani in tema di commercio dei farmaci da banco: un provvedimento che, dando spazio a un minimo di concorrenza, ha prodotto sia importanti riduzioni dei prezzi di vendita a favore dei consumatori sia la nascita di migliaia di nuove piccole imprese.


E non basta: anche nel settore assicurativo incombono analoghe minacce di totale marcia indietro, nel senso che si vuole rimettere nelle mani delle grandi compagnie il potere di imporre alla rete degli agenti il ricatto del mandato in esclusiva che quel bolscevico di Bersani aveva tolto di mezzo in nome di una più sana apertura del mercato.

La tecnica con cui si sta sviluppando questa campagna di restaurazione delle vecchie rendite è, al tempo stesso, subdola e spudorata. Subdola perché l'iniziativa è sempre di qualche parlamentare che fa mostra di procedere per ispirazione individuale, ma poi - guarda caso - ottiene i voti dell'intera maggioranza e senza che il governo alzi neppure un sopracciglio (è accaduto così per le misure a favore dei baroni della Borsa, altrettanto sta accadendo con gli emendamenti che puntano a richiudere i pur minimi spazi di concorrenza da poco aperti nel settore dei farmaci e delle assicurazioni).

Spudorata perché questo modo semiclandestino di procedere è l'esplicita riprova della cattiva coscienza del governo Berlusconi che, in materia di libero mercato, è palesemente consapevole di fare l'esatto contrario di quel che fa finta di predicare.

(15 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #61 inserito:: Maggio 24, 2009, 11:25:59 am »

Massimo Riva


Il Paese delle favole


Migliaia di lavoratori, nonostante le promesse del governo, iniziano a sentirsi in balia di una congiuntura che per molti significa perdita del posto di lavoro o o drastica riduzione del salario  Gianni RinaldiniAlcune reazioni politiche e sindacali all'aggressione subita a Torino dal segretario della Fiom, Gianni Rinaldini, appaiono molto più preoccupanti del pur increscioso episodio in se stesso.

Certo, non è la prima volta e non sarà neppure l'ultima che una manifestazione organizzata dai sindacati confederali offra il fianco a contestazioni anche violente da parte di qualche frangia di scalmanati. Ma minimizzare l'accaduto, come ha fatto il leader dell'Uil Angeletti, o di contro a cogliervi addirittura germogli di rinascita brigatista, come ha detto il ministro Calderoli, significa rifiutarsi di guardare con razionalità alla brutta piega che il clima sociale può prendere a seguito della recessione economica in atto.

Con buona pace del presidente del Consiglio, che non demorde dalla sua grottesca tesi di una crisi più psicologica che reale, i dati sulla decrescita del Pil, sul crollo della produzione industriale e sull'aumento della disoccupazione non lasciano spazio a futili esorcismi verbali.

Nei prossimi mesi, non solo la Fiat ma anche altre maggiori o minori imprese finiranno per annunciare ulteriori riduzioni di manodopera, che in molti casi, per giunta, non saranno neppure ammortizzabili con il ricorso al misero salario di sopravvivenza della cassa integrazione. Né per tamponare la situazione è alle viste alcun intervento di sostegno alla congiuntura dato che il governo Berlusconi insiste nel proclamare di aver già fatto tutto quel che si doveva e nel propagandare la favola che ormai il peggio sarebbe alle spalle.

Il fatto che una robusta quota di elettori ami lasciarsi cullare dalle dolci menzogne del governo, tuttavia, non impedisce a una non meno importante minoranza di cittadini, concentrata nel mondo operaio, di sentirsi viceversa esposta e abbandonata alla mercé di una congiuntura che per molti significa soltanto perdita del posto di lavoro o regressione a redditi da fame. Il tutto, come non bastasse, in clamorosa concomitanza con la certificazione ufficiale che già oggi le retribuzioni dei lavoratori italiani sono agli ultimi posti nella classifica internazionale stilata dall'Ocse.


Occorre ricordare che il tema del recupero salariale era già stato posto - non a caso - in cima all'agenda del governo Prodi all'inizio del 2008. Poi ci furono la crisi politica, le elezioni anticipate e il ritorno di Silvio Berlusconi. Il quale ha sì sollevato dall'Ici le tasche dei più abbienti ma nulla ha fatto per la questione salariale, che oggi si ripropone peggio che intatta perché aggravata drammaticamente dagli effetti della crisi generale.

C'è forse da meravigliarsi, in un simile scenario, se focolai di esasperazione sociale si vanno formando nelle aree del Paese dove la ristrutturazione industriale minaccia di lasciare i segni più profondi? C'è da stupirsi, quindi, se alcune minoranze cominciano già a esprimere questo malessere fuori dalle buone regole della convivenza civile e perfino accusando qualcuno dei maggiori sindacati di subalternità a un governo che fa finta di negare la gravità della crisi? Vera e unica ragione di sconcerto è l'ottusa noncuranza del premier verso i drammi sociali in atto.

(22 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 19, 2009, 05:11:01 pm »


Taci, il nemico ti ascolta

di Massimo Riva


Il centrodestra continua a scagliarsi contro chiunque diffonda cifre e previsioni sull'andamento della crisi economica in atto. Statistiche, secondo Berlusconi, frutto soltanto di una sindrome psicologica depressivalargamente diffusa  Taci, il nemico ti ascolta... Forse non sono più tanto numerosi gli italiani in grado di ricordare la cupa intimidazione di un tristemente celebre manifesto di ispirazione fascista. Ma Silvio Berlusconi e i suoi ministri stanno facendo davvero di tutto per rinverdire la memoria di quei tempi infelici con le loro intemerate contro la diffusione di cifre e previsioni sull'andamento della crisi economica in atto.

Al fondo di questi atteggiamenti, infatti, c'è una pretesa dall'evidente sapore totalitario che può essere sintetizzata così: solo il governo è depositario della verità e sempre e solo al governo spetta stabilire in quali tempi e in quali dosi far conoscere ai cittadini lo stato dell'arte. In conseguenza, tutti coloro che fanno circolare dati e stime in contraddizione con quelli del governo vanno considerati come pericolosi disfattisti, perché alimentano la paura fra la gente e così precludono o comunque allontanano la via d'uscita dalla crisi.

Già da tempo il presidente del Consiglio insiste con la sua stravagante diagnosi secondo cui le difficoltà attuali sarebbero più che altro frutto di una sindrome psicologica depressiva dalla quale gli italiani dovrebbero uscire dandosi alle spese pazze. Un'idea grottesca e francamente insolente verso il malessere economico diffuso fra ampi strati della popolazione, dove ormai licenziati e cassintegrati si contano a centinaia di migliaia. Poi s'è dovuto assistere con forte imbarazzo istituzionale alle reiterate battute provocatorie del ministro Giulio Tremonti contro il governatore di Bankitalia ogni volta che Mario Draghi rendeva pubblici un dato o una stima dei suoi uffici.

Ora siamo alla polemica del governo anche contro istituzioni internazionali quali il Fondo monetario, l'Unione europea e l'Ocse - nonché contro la stampa non allineata alle direttive di Palazzo Chigi - tutti colpevoli di "diffondere dati che alimentano la paura". La visione sottostante è drammaticamente chiara: i cittadini non devono sapere, non devono poter confrontare notizie e opinioni, ovvero devono comportarsi come sudditi obbedienti agli ordini o, per meglio dire, ai consigli per gli acquisti del capo del governo.


Perdita di credibilità internazionale a parte, tutto questo denuncia un aggravamento serio della condizione di marasma in cui versa il governo di fronte alla sfida di una realtà che non sa come affrontare e perciò vorrebbe che non fosse rivelata nei suoi termini effettivi ai cittadini. Un esempio tipico di questa volontà manipolatoria lo si è appena visto con l'annuncio dell'ultimo decreto del governo, che è stato presentato fra squilli di tromba come una manovra di rilancio del valore di ben 6,2 miliardi.

Peccato però che, a ben guardare, si scopre che questa cifra sarà spalmata su quattro anni, per cui lo stanziamento effettivo per il 2009 si riduce a non più di 1,3 miliardi. In rapporto con il Pil si tratta di qualcosa meno dello 0,1 per cento: la classica e velleitaria goccia d'olio sul mare in tempesta. Far notare questo dettaglio sarà magari da disfattisti. Ma tacerlo equivarrebbe stavolta a considerare come nemici gli italiani.

(03 luglio 2009)


La febbre dell'oro

di Massimo Riva

 Uno stock di lingotti in oroÈ dagli albori della civiltà che l'oro suscita negli uomini gli istinti peggiori. Forse c'è qualcosa di diabolico nel nobile metallo che obnubila le menti e spinge a comportamenti malsani tanto semplici cittadini quanto re, imperatori e perfino governanti delle moderne democrazie. Come oggi sta accadendo sotto i nostri occhi in Italia, dove le ingenti riserve auree della Banca centrale (oltre 2.450 tonnellate) sono tornate al centro dell'ennesimo tentativo di arrembaggio da parte del potere politico.

In tempi recenti ci aveva già provato l'ultimo governo Prodi nell'estate del 2007, facendo approvare dal Parlamento una risoluzione nella quale si raccomandava la vendita, almeno parziale, dell'oro di Bankitalia per destinarne il ricavato a riduzione della sempre incombente montagna di debito pubblico. Operazione di per sé non scandalosa - in Francia si era appena fatto allora qualcosa di analogo - se non fosse stato per la grave controindicazione che nulla di serio era alle viste in parallelo per arginare i flussi in uscita dalle casse pubbliche. Cosicché la riduzione del patrimonio, conseguente all'alienazione delle riserve auree, avrebbe avuto il vistoso difetto di risolversi in una boccata d'ossigeno priva di benefici duraturi. Per fortuna, non se ne fece nulla.

Adesso a riprovarci è il governo Berlusconi con una trovata in apparenza meno traumatica, in sostanza altrettanto allarmante. L'idea sopraffina non è più quella di mettere direttamente le mani sui lingotti, ma di sottoporre a specifico prelievo fiscale le plusvalenze realizzate da Bankitalia sul suo oro, introducendo un'imposta sostitutiva che, nelle stime del governo, dovrebbe dare un gettito pari a un miliardo di euro. La pensata è indubbiamente scaltra, ma non per questo si sottrae a pesanti obiezioni di merito.


La principale e risolutiva fra queste non è tanto dissimile da quella avanzata a suo tempo contro la risoluzione prodiana. Quale senso economico ha lo spremere imposte dal patrimonio aureo di Bankitalia da parte di un governo che, secondo gli ultimi dati, non ha più il controllo della spesa pubblica? Fra le cifre fornite dall'Istat sul primo trimestre dell'anno, ha suscitato, per altro giustamente, forte impressione il balzo del deficit al 9,3 per cento del Pil. Ma questo è soltanto uno dei termometri della febbre contabile in atto. La radice profonda della malattia va cercata nel saldo al netto degli interessi, che è diventato negativo per oltre il 4 per cento del Pil. Ciò significa che, anche escludendo il peso del debito pubblico, le uscite dello Stato sono tornate a superare pericolosamente le entrate. Altro, dunque, che «messa in sicurezza dei conti» come Berlusconi e Tremonti hanno predicato, abbindolando gli italiani per mesi: il bilancio pubblico ha ripreso la corsa sul piano inclinato del dissesto.

E in queste condizioni si vorrebbe pure gettare nel vento della spesa il gettito di un'imposta speciale sull'oro di Bankitalia? Fortuna vuole che l'insano proposito debba, in forza delle regole europee, passare al vaglio della Banca centrale di Francoforte. Dalla quale è lecito attendersi un fermo e severo alt a espedienti miserevoli e disperati.
(09 luglio 2009)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 04, 2009, 04:03:00 pm »

I silenzi sul superdebito

di Massimo Riva

A fine maggio del 2008 il debito pubblico ammontava a 1.648 miliardi. Un anno dopo risulta salito a quota 1.752: 104 miliardi in più.

Ma sia Silvio Berlusconi che Giulio Tremonti continuano a far finta di niente


A costo di farmi dare anch'io della testa di c. - secondo l'elegante linguaggio che il ministro Tremonti usa verso chi fa domande a lui sgradite - credo sia necessario porre qualche quesito su quel che sta accadendo sul fronte del debito pubblico.

A fine maggio del 2008 esso ammontava a 1.648 miliardi. Un anno dopo, alla stessa data, risulta salito a quota 1.752: 104 miliardi in più. Di questi ben 90 accumulatisi nei cinque mesi che vanno dal 31 dicembre 2008 al 31 maggio 2009 con una crescita media giornaliera davvero impressionante: circa 600 milioni di euro ogni ventiquattr'ore, sabati e domeniche compresi.

Sia Silvio Berlusconi sia Giulio Tremonti non amano tanto parlare del debito e, le poche volte che lo fanno, allargano le braccia per far intendere che questa è purtroppo una sciagurata eredità che una sorte avversa ha fatto cadere sulle loro incolpevoli spalle. Peccato, però, che un'impennata così rapida e virulenta come quella verificatasi nei primi cinque mesi di quest'anno non si fosse mai vista.

Quei 90 miliardi in più corrispondono - tanto per usare lo stesso metro cui ricorre spesso il premier per farsi capire meglio - a circa 175mila miliardi di vecchie lire. Sono, insomma, un'enormità. Tanto più allarmante perché finora nessun membro del governo ha avuto l'amabilità di fornire anche la più vaga spiegazione sulle cause di una simile voragine.

Sì, certo, l'ottimo Tremonti è tornato al vecchio vizio di portare a zero, anzi sotto lo zero, il saldo fra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi sul debito. Ma anche questo non è sufficiente a giustificare una cifra così elevata come i suddetti 90 miliardi in cinque mesi. Che cosa è successo di tanto clamoroso e drammatico? Nella sua ultima conferenza stampa il ministro dell'Economia ha accennato alla sua decisione di sbloccare il versamento di crediti arretrati vantati dalle imprese verso l'Erario, ironizzando sui suoi predecessori che avrebbero 'risanato' i conti semplicemente rinviando il pagamento del dovuto.


Ma anche questo è un argomento incongruo a spiegare i famigerati 90 miliardi: non solo per i tempi e l'entità della cifra, ma anche perché, in termini di debito, quello estinto con le imprese pareggerebbe il conto con quello contratto per chiudere l'operazione. Dunque, sarebbe una partita a saldo zero.

Resta perciò intatto il mistero, poco glorioso, sull'esplosione del debito pubblico in questi primi mesi dell'anno. Altro, quindi, che ripararsi dietro il facile paravento del pesante lascito del passato: qui c'è un debito nuovo che il governo sta lasciando correre a briglia sciolta verso picchi drammatici. Cosicché, se per lo stato del bilancio ereditato poteva essere buona la classica metafora della coperta corta, ora siamo alla ben più stringente allegoria del cappio al collo.

E, purtroppo, non soltanto di quegli italiani che continuano a credere nella favola berlusconiana della messa in sicurezza dei conti, ma anche di tutti gli altri. Particolare quest'ultimo che può forse spiegare qualche irritata reazione scurrile del ministro Tremonti, ma rende la noncuranza del governo in materia ancora più odiosa.

(24 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #64 inserito:: Settembre 03, 2009, 10:21:52 pm »

2013, ritorno al passato

di Massimo Riva


E' giunto il momento di guardarsi attorno con un po' meno paura della crisi economica? Forse sì, ma a condizione di non perdere il contatto con la realtà. Per uscire dal tunnel bisognerà aspettare ancora qualche anno
 
Qualche germoglio di ripresa sta sbocciando qua e là nel mondo. In Europa i dati sull'andamento del Pil nel secondo trimestre dell'anno hanno riservato gradevoli sorprese: in Francia e Germania vi è stata una crescita dello 0,3 per cento. Certo, in Italia il segno è rimasto negativo ancora di mezzo punto, ma il fatto che le due maggiori economie di Eurolandia abbiano avuto un sussulto in avanti legittima qualche speranza anche da noi. Quanto al versante americano c'è da registrare il recente messaggio del presidente della Fed, Ben Bernanke, che ha detto di intravedere qualche prima avvisaglia della tanto attesa 'recovery'.

I mercati azionari, che tendono sempre ad anticipare le svolte, si stanno muovendo un po' dappertutto al rialzo. Capita magari che un battito d'ali di farfalla alla Borsa di Shanghai produca sbandate improvvise, ma la curva degli indici delle ultime settimane sembra voler insistere verso l'alto. È giunto, dunque, il momento di guardarsi attorno con un po' meno paura? Forse sì, ma a condizione di non perdere il contatto con la realtà e di voler fare il punto della situazione senza abbandonarsi a entusiasmi fuori luogo. Soprattutto per quanto riguarda il nostro paese.

Il bilancio delle rovine provocate dalla crisi, infatti, non legittima ottimismi. I primi guai, lo si ricorderà, si sono manifestati giusto due anni fa, nell'estate 2007. Ultimo anno nel quale l'Italia ha avuto una crescita positiva, pur se di un buon punto inferiore alla media dei paesi dell'euro. Proviamo a dare valore cento al Pil del 2007 e facciamo due conti. Nel 2008 la crescita è stata negativa di un punto rispetto al precedente: quindi siamo scesi a quota 99. Per quest'anno usiamo pure una stima di calo del Pil meno pessimistica del 6 per cento attuale: diciamo cinque. Rispetto al cento del 2007 scenderemo a quota 94. Facciamo ora lo sforzo generoso di prevedere nel
2010 un rimbalzo positivo non di mezzo ma di un intero punto: il risultato è che arriveremmo a sfiorare quota 95. Per recuperare i livelli del 2007 ci vorrà un ulteriore biennio di crescita attorno al due per cento. Impresa non da poco.

Cosicché se tutto - proprio tutto - andrà per il meglio, soltanto nel 2013 saremo tornati al punto di partenza e gli italiani avranno da spartirsi una torta di ricchezza pari a quella di due anni fa. Con due aggravanti, però, allora assenti. La prima d'ordine finanziario, dovuta al pesante peggioramento in corso sul fronte dei conti pubblici: in termini sia di deficit corrente sia di stock del debito. La seconda d'ordine sociale perché le centinaia e centinaia di migliaia di posti di lavoro perduti fra il 2009 e il 2010 non saranno di certo recuperati negli anni seguenti se non in piccola parte. Che fare, allora? I germogli di ripresa potrebbero, per esempio, essere innaffiati dalla spesa pubblica per infrastrutture. Peccato che Confindustria abbia appena certificato come tali investimenti - chiacchiere del premier a parte - siano stati ridotti di oltre il 13 per cento rispetto al 2008. Ma non era Berlusconi ad aver promesso che l'Italia sarebbe uscita dalla crisi prima e meglio degli altri?

(28 agosto 2009)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #65 inserito:: Settembre 10, 2009, 10:55:09 am »

Ritorno al corporativismo

di Massimo Riva


Il meno che si possa dire sulle recenti mosse del ministro Sacconi è che si basano su un uso spregiudicato dello strumento fiscale  Il ministro SacconiIl ministro Maurizio Sacconi ci riprova. Non pago di aver voluto la detassazione del lavoro straordinario, ora insiste con un'analoga misura a favore degli aumenti retributivi aziendali. La prima trovata è affondata nel ridicolo perché proposta in una fase nella quale le imprese già stentavano a reggere i normali orari di lavoro a causa di una recessione che il sagacissimo ministro non aveva visto arrivare. La seconda, viceversa, appare concepita con maggiore astuzia politica. Dapprima Sacconi ha promosso un accordo fra Confindustria e sindacati (tutti tranne la Cgil) per ridurre il peso dei contratti nazionali a favore dei patti aziendali e ora per mandare in porto il suo progetto minaccia ritorsioni fiscali: o i rinnovi contrattuali si adeguano allo schema da lui voluto oppure saltano gli sgravi tributari promessi. Il meno che si possa dire è che questo modo di governare si basa su un uso spregiudicato dello strumento fiscale. E ciò perché la segmentazione del prelievo sulle buste paga è destinata a rendere ancora più distorto un regime tributario già viziato in Italia da forti elementi di iniquità. Stando all'ipotesi Sacconi, infatti, può accadere che la parte più elevata di una retribuzione finisca col subire una tassazione di aliquota inferiore a quella applicata alla quota di salario basata sul contratto nazionale. In aperto sfregio a quel principio di civiltà fiscale che si sostanzia nella progressività del prelievo in rapporto alla capacità contributiva del singolo cittadino. Ma forse richiamare all'attenzione di questo governo i punti fermi della Carta costituzionale è tempo perso. Con la complicità di sindacati un po' ingialliti - come Cisl e Uil - è in atto un progressivo scivolamento verso modelli neocorporativi sia nei rapporti di lavoro sia nel regime fiscale. Avvalora, del resto, questa impressione anche la proposta di compartecipazione dei lavoratori agli utili d'impresa avanzata da
Giulio Tremonti e subito sposata con foga dall'infaticabile Sacconi. Non a caso l'idea è stata salutata con particolare entusiasmo dalla Ugl, sindacato che non fa mistero di affondare le sue radici in una visione corporativistica dell'economia. Qualcuno può magari stupirsi che a promuovere una simile deriva siano ministri dai trascorsi socialisti. Ma la lunga e tormentata storia dell'Italia moderna insegna che chi si distacca dall'albero socialista per spostarsi politicamente a destra non trova di meglio - Mussolini docet - che puntare sul corporativismo per poi finire col salire sul vapore dei padroni e col baciare l'anello a qualche monsignore. Proprio come il pio Sacconi sta già facendo da ministro della Sanità su tutte le materie sensibili agli occhi del Vaticano. Un aspetto paradossale di questa riscoperta del corporativismo è che i suoi promotori sono forse convinti di poter seppellire definitivamente le dottrine marxiste. Non si rendono conto che così si stanno invece allontanando dalla lezione di Adam Smith: lo si è già visto con il dietrofront sulle liberalizzazioni. Come leggere allora la sigla PdL in un paese già soffocato dal prepotere delle corporazioni? Partito della Libertà o Paura della Libertà?

(03 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #66 inserito:: Settembre 13, 2009, 09:59:01 pm »

Le mani sulle banche

di Massimo Riva


Le insistenti polemiche del ministro Giulio Tremonti contro banche e banchieri stanno ormai assumendo toni e modi da sindrome compulsiva. Da tempo non passa settimana - e talvolta neppure giorno - senza che il titolare del Tesoro pronunci parole di fuoco contro gli istituti di credito e i loro amministratori. Poiché la crisi che ha sconvolto l'economia mondiale nasce da errori - in qualche caso perfino nefandezze - riconducibili proprio alle banche, forse Tremonti ritiene che questa sua campagna possa garantirgli un facile consenso popolare.

Infatti, la parte in commedia che il ministro dell'Economia ama recitare è proprio quella del difensore degli oppressi: in particolare, di quella vasta platea di piccoli o medi imprenditori che da sempre ha avuto difficili rapporti con il credito e ora lamenta di essere discriminata dalle banche o comunque non aiutata a superare la fase acuta della crisi. Ma come, protesta il ministro, il governo ha messo a disposizione una gran quantità di soldi, attraverso i cosiddetti Tremonti-bond, e le banche si rifiutano di prenderli per fare da ponte verso una clientela così assetata di finanziamenti? Chi agisce così - sentenzia lapidario lo stesso ministro - si muove "contro l'interesse del Paese". Un'accusa pesante.

A prima vista, l'argomentazione sembra stringente. Peccato che essa non tenga conto di un paio di elementi di fatto non trascurabili. Il primo è che oggi le banche non si trovano dinanzi a un problema di casse vuote o comunque insufficienti a coprire le richieste di finanziamento della clientela. L'ostacolo all'incontro tra domanda e offerta di credito è semmai su un altro piano: quello dell'occhiuta prudenza con cui i banchieri, alla luce della malcerta congiuntura, soppesano l'affidabilità dei loro debitori. Eccesso che il buon Tremonti ha creduto di superare con la balzana impennata dirigista di sottoporre le istruttorie creditizie al vaglio delle prefetture. Risultati? Zero.


Il secondo, determinante, dato di fatto è che le condizioni del mercato finanziario sono mutate rispetto a pochi mesi fa. Oggi i celebrati Tremonti-bond incontrano la temibile concorrenza di altri strumenti ben più appetibili. In altre parole, le banche in cerca di liquidità sono in grado di raccogliere, per esempio, prestiti obbligazionari a tassi significativamente inferiori a quelli dei titoli offerti dal Tesoro. Perché non dovrebbero preferire questa via a quella proposta da Tremonti, che non solo costa di più in termini di stretta contabilità ma rischia pure di portare loro in casa un coinquilino scomodo e impiccione come il potere politico?

Ci sarebbero tante cose utili da fare per un ministro che volesse mettere un po' d'ordine nel nostro sistema creditizio. A cominciare, per esempio, da una decente disciplina dell'intreccio banca-industria, nel quale proliferano scandalosi conflitti d'interesse. Tutta questa insistenza sui Tremonti-bond legittima perciò più di un dubbio sgradevole. In particolare, che essa nasconda l'inconfessato desiderio di questo governo di allungare mani e piedi sulle banche. Prospettiva ben peggiore del male che si dice di voler curare.

(10 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #67 inserito:: Settembre 19, 2009, 12:00:01 am »

Chi frena la class action

di Massimo Riva


Con la legge sullo sviluppo economico pubblicata a Ferragosto si è stabilita l'entrata in vigore del nuovo strumento giudiziario, seppure con un'ulteriore dilazione al primo gennaio 2010. Sempre meglio piuttosto che niente. Peccato che resti ancora aperto qualche dettaglio non trascurabile in materia che, nei tre mesi di qui a fine anno, rischia di diventare pretesto per l'ennesimo rinvio dell'ultimo minuto  Renato BrunettaAll'indomani dei crac Cirio e Parmalat, che hanno inghiottito i risparmi di decine di migliaia di persone, sembrava scontato che anche gli italiani potessero avere a disposizione in breve tempo quel tipico strumento di difesa dei propri interessi che è la cosiddetta class action. Ovvero quell'azione collettiva per il risarcimento dei danni, che è un caposaldo della democrazia economica americana, perché offre alle parti più deboli la possibilità di unire le proprie forze per sostenere i costi, spesso proibitivi per i singoli, delle vertenze giudiziarie contro gli abusi di potere delle grandi aziende.

Di rinvio in rinvio, da allora sono trascorsi invano più di sei anni. Soltanto adesso, finalmente, anche nel nostro Paese l'azione collettiva sta per venire alla luce: con la legge sullo sviluppo economico pubblicata a Ferragosto si è stabilita l'entrata in vigore del nuovo strumento giudiziario, seppure con un'ulteriore dilazione al primo gennaio 2010. Sempre meglio piuttosto che niente, e potrebbe esserci motivo di rallegrarsene sebbene a denti stretti. Peccato che resti ancora aperto qualche dettaglio non trascurabile in materia che, nei tre mesi di qui a fine anno, rischia di diventare pretesto per l'ennesimo rinvio dell'ultimo minuto.

Il nodo riguarda la class action nei confronti della Pubblica Amministrazione o dei gestori di pubblici servizi quali luce, gas, acqua, telefoni e anche ospedali. Già al riguardo si intende operare una discriminazione francamente scandalosa. Mentre nei confronti dei soggetti privati i titolari dell'azione potranno richiedere e, se del caso, ottenere un pieno risarcimento dei danni subiti, nei confronti del sistema pubblico l'indennizzo sarà escluso. Cosicché si potrà sì reclamare per un disservizio subito, ma ottenendo soltanto il ripristino, per esempio, di una fornitura mancata e niente più. Insomma, quanto al danno patito lo Stato punta a nascondersi dietro il noto adagio napoletano: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.

Ma ai ministri del governo Berlusconi questa prevaricatoria guarentigia non basta, essi vogliono essere certi che la class action nella Pubblica Amministrazione si riduca a un'arma spuntata. Tant'è che nel testo della disciplina in esame è stata cancellata la dizione secondo cui 'al ricorso è data adeguata pubblicità sui mezzi d'informazione'. Se qualcuno proporrà l'azione, della medesima si potrà dare notizia soltanto sui siti istituzionali dell'amministrazione o del concessionario intimato. In modo da ridimensionare o addirittura azzerare proprio uno dei pilastri costitutivi della class action e cioè la possibilità di raccogliere adesioni attraverso il massimo di pubblicità per unire le forze di tutti coloro che si ritengano vittime dello stesso sopruso. In altre parole, l'azione si potrà fare, purché non se ne parli.

Questo lo stato dell'arte al momento. Chissà se il ministro Brunetta, dismessi per un giorno i panni da McCarthy di Cannaregio in guerra contro il culturame, troverà il tempo per far sì che la Pubblica Amministrazione diventi amica del cittadino, come lui dice, anche con la disciplina della class action.

(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:11:27 am »

Lo scudo è connivente

di Massimo Riva

L'annesimo premio agli evasori fiscali è stato concepito con un surplus di volontà luciferina. Ai malavitosi viene aperto un insperato canale di riciclaggio senza problemi sotto l'autorevole egida dello Stato
 

Già l'idea di promuovere un terzo scudo fiscale per i capitali all'estero è di quelle che indicano nell'accoppiata Berlusconi-Tremonti una perseveranza diabolica nell'errore. Ma bisogna riconoscere che stavolta l'ennesimo premio agli evasori è stato concepito con un surplus di volontà luciferina. Visto che i primi due tentativi non erano riusciti a prosciugare che una piccola parte della palude di denaro imboscato fuori dai confini, stavolta si è deciso di fare le cose in grande per rendere più allettante la sanatoria offerta dal governo. Con un furbesco gioco di sponda fra proposta ministeriale e emendamenti della maggioranza parlamentare, si sono tolti di mezzo anche quei residuali elementi di cautela giuridica che accompagnavano gli esperimenti precedenti. In particolare, si è stabilita un'amnistia sostanziale per gravi reati contro la pubblica fiducia come il falso in bilancio e si è pure cancellato l'obbligo per gli intermediari di segnalare ogni ragione di sospetto sull'eventuale origine criminale dei soldi in via di rimpatrio.

Ai malavitosi viene così aperto un insperato canale di riciclaggio senza problemi sotto l'autorevole egida dello Stato. Basterebbero simili enormità per squalificare il provvedimento senza perdere tempo in ulteriori esami. Primo, perché nel nostro ordinamento un'amnistia va votata dal Parlamento a maggioranza qualificata, pena la sua invalidità, Secondo, perché spalancare le porte ai capitali accumulati all'estero dalla criminalità organizzata significa rendere lo Stato connivente e complice dei trafficanti di droga, armi, prostituzione e altre amenità penali. Un segnale politico indecente in un paese dove le mafie 'governano' con efferatezza vaste porzioni di territorio. Ma forse altrettanto vergognose sono le due principali giustificazioni che il governo Berlusconi adduce per il ricorso a simile porcheria. Risibile la prima, secondo cui in Italia si sta facendo quello che è in cantiere anche in altri paesi. Questa è soltanto una menzogna.

Certo che pure in Gran Bretagna o negli Usa si stanno varando provvedimenti per il rientro dei capitali, ma con una radicale differenza: in quei paesi non è previsto l'anonimato a favore degli evasori e il prezzo da pagare per la sanatoria è fino a dieci volte maggiore di quello offerto in Italia. La seconda giustificazione è addirittura ripugnante. Poiché quest'anno il bilancio dello Stato è stretto - si argomenta - ecco che il gettito dello scudo consentirà di avere i soldi per far fronte ad alcune uscite più urgenti come una parziale detassazione dei redditi da lavoro o finanziamenti all'università e via elencando da parte dei vari ministri spese sociali per i più bisognosi.
Con simili alibi si vorrebbe sminuire l'obbrobrio politico e giuridico dello scudo fiscale, ma si aggrava viceversa la situazione perché si usano i ceti e le categorie più deboli del paese come scudi umani - e non è un gioco di parole - per rendere socialmente accettabile il cospicuo regalo ai più ricchi e ai più furbi. Una strumentalizzazione così volgare e classista delle difficoltà di tanti italiani non s'era davvero mai veduta.

(01 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 16, 2009, 11:23:19 pm »

Lo spasimante frustrato

di Massimo Riva
 

La guerra di Giulio Tremonti contro le banche continua, ma con il passare dei mesi è diventata più patetica che allarmante. Anche perché, dopo il rifiuto dei suoi bond da parte dei due maggiori gruppi creditizi del Paese, il ministro sta sempre più assumendo toni e atteggiamenti da spasimante frustrato. Tanto che non si cura nemmeno più di tenere nascosti quelli che erano (e sarebbero ancora) i reali obiettivi degli aiuti pubblici offerti alle banche. Al punto che nell'ultima (almeno fino al momento in cui sto scrivendo) della sua inarrestabile serie di pubbliche sortite in materia egli si è spinto a celebrare con indispettita nostalgia il tempo delle Bin, le tre grandi banche di interesse nazionale che, attraverso l'Iri, erano costrette a rendere conto dei loro affari al potere politico del momento.

L'aspetto più sorprendente di questa 'dr le de guerre' tremontiana non è, però, che il ministro voglia rinverdire i tristi fasti della 'longa manus' politica sul credito: chi segua con un minimo di attenzione le mosse del governo Berlusconi su ogni scacchiere economico ha avvertito da un pezzo la sostanza dirigista delle sue scelte. Basti pensare alla lunga catena di stop in tema di liberalizzazioni del mercato: dai servizi locali all'Alitalia, passando per le misure antiscalata in Borsa. Ciò che più sconcerta in Tremonti è che l'ossessione di ottenere il bacio della pantofola dagli amministratori delle banche lo stia obnubilando al punto di fargli perdere di vista quanto di ben più serio e più utile lo Stato - vestendo i panni del regolatore e non del padrino - dovrebbe fare per migliorare l'efficienza e la trasparenza del credito.

È piuttosto penoso lo spettacolo di un ministro che va a sbattere la testa invano quasi quotidianamente contro la Maginot di Unicredit e Intesa-Sanpaolo
. Anziché prodursi in sterili assalti con la baionetta delle polemiche verbali, un serio responsabile della strategia politico-finanziaria dovrebbe, proprio come i tedeschi nel 1940, aggirare i fortilizi e dilagare nella pianura delle riforme indispensabili al sistema. Il campo di battaglia sarebbe vastissimo. Ci sono da spazzare via i mostri nati dagli incesti frutto dell'abbandono della separatezza fra banca e industria. Ci sono da eliminare gli abusi dei patti di sindacato e i conflitti d'interesse legati al controllo delle banche sulle società di gestione del risparmio, che sovente finiscono per tradursi in manipolazioni a danno dei risparmiatori: Cirio e Parmalat docent.

E non basta. Le banche sono anche i soggetti più implicati nelle transazioni fra cosiddette 'parti correlate', elegante locuzione che fa da paravento a un sordido commercio di sostegni e favori reciproci fra cupole di potere del mondo finanziario. Siamo al punto che la Consob, dopo aver steso un abbozzo di pur blande regole al riguardo, ha subito ritirato il testo cedendo alle proteste degli interessati. Ci sarebbe, insomma, tanto da fare per riportare ordine e pulizia nel sistema bancario domestico. È avvilente dover constatare che le colorite invettive ministeriali servono soltanto a nascondere il nulla di fatto in materia.

(15 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #70 inserito:: Novembre 04, 2009, 11:15:13 am »

Liberalizzazioni, anzi no

di Massimo Riva


Ai tempi delle liberalizzazioni di Bersani, i berlusconiani sostenevano che non si erano toccati gli interessi delle grandi municipalizzate. Adesso tocca a loro liberalizzare e guarda un po': punto fermo è l'esclusione integrale dalla liberalizzazione dei settori del gas, dell'energia elettrica e delle ferrovie regionali  Ai tempi delle lenzuolate di liberalizzazioni dell'allora ministro Bersani, l'opposizione berlusconiana cavalcava a briglia sciolta una contestazione fondata su un argomento senz'altro accattivante. In sintesi si diceva: il centrosinistra sa fare la faccia feroce coi tassisti e altre categorie minori, ma si guarda bene dall'andare a toccare i corposi interessi delle aziende municipalizzate che forniscono in esclusiva gran parte dei servizi pubblici nei comuni rossi. Conclusione: quando toccherà a noi, vi faremo vedere come si liberalizza senza guardare in faccia a nessuno.

Sono passati un paio d'anni e adesso sta toccando a loro. E così lo scorso 25 settembre sulla 'Gazzetta Ufficiale' è uscito un decreto legge che all'articolo 15 reca la versione berlusconiana dell'apertura al mercato dei servizi pubblici locali. Guarda un po', punto fermo del provvedimento è l'esclusione integrale dalla liberalizzazione dei settori del gas, dell'energia elettrica e delle ferrovie regionali. Ovvero proprio di quei rami di attività dove più forte e lucrosa è la presenza di aziende controllate dagli enti locali, che così potranno continuare la discutibile pratica di essere lo stesso soggetto che prima affida e poi gestisce la concessione pubblica.

Il mercato si aprirà, viceversa, soltanto per i settori - in genere assai meno remunerativi - dei rifiuti, dell'acqua, dei trasporti su gomma. Ma poiché anche in questo caso gli enti locali potrebbero non gradire che le proprie aziende siano costrette a mettersi in gara con qualche concorrente al ribasso, si sta procedendo con una serie di ritocchi a rendere l'amara pillola un po' più dolce o addirittura innocua. La principale scappatoia escogitata al riguardo è quella di consentire ancora l'affidamento diretto del servizio a società miste con soci privati, ma nelle quali la quota maggioritaria del capitale - insomma, il controllo - resterà ben custodito in mano pubblica.
 
Forse non è un caso fortuito che queste sedicenti liberalizzazioni del centrodestra non siano state oggetto di un provvedimento specifico, ma siano state seminascoste dentro un decreto legge intitolato all'assolvimento di obblighi comunitari vari, nel quale c'è un po' di tutto. Consapevoli evidentemente che la loro montagna di promesse sull'apertura al mercato dei servizi locali aveva partorito un miserevole topolino, gli esponenti del centrodestra hanno così abilmente cercato di dissimulare la propria marcia indietro.

Ora però il decreto va sotto i riflettori perché comincerà ad essere votato dall'aula del Senato dal 3 novembre per poi passare alla Camera. Le probabilità che il testo subisca modifiche significative in senso più aperto al mercato sono minime: anzi, vista l'aria che tira dentro la maggioranza, c'è da temere qualche ulteriore passo indietro. Ma è lecito attendersi che almeno l'opposizione - a suo tempo svillaneggiata per la sua mancanza di coraggio in materia - sappia condurre una efficace battaglia per smascherare agli occhi della pubblica opinione l'inganno di queste false liberalizzazioni. Per Pier Luigi Bersani, neosegretario del Pd, dovrebbe essere un ghiotto boccone.

(30 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #71 inserito:: Novembre 09, 2009, 02:58:36 pm »

Bonanni cambia linea

di Massimo Riva


Dopo mesi di intesa cordiale con il governo il segretario della Cisl Raffaele Bonanni sta disotterrando l'ascia di guerra, sul fronte della scuola e degli sgravi fiscali
 
Dopo mesi di 'entente cordiale' con il governo Berlusconi (e di parallele polemiche contro gli 'estremisti' della Cgil) il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, sembra aver dissotterrato l'ascia di guerra. Sul fronte della scuola ha mobilitato la piazza ed ha lanciato un attacco frontale al ministro Gelmini, dichiarando inaccettabili le sue migliaia di tagli al personale del settore. Quanto al dibattito sugli eventuali sgravi fiscali si è spinto ancora più avanti. Se questi dovessero essere riservati al mondo delle imprese, come lasciano intendere le proposte parlamentari di una riduzione dell'Irap, il rinvigorito Bonanni non ha dubbi: la Cisl è pronta a proclamare uno sciopero generale.

Sarebbe senz'altro prematuro parlare di una svolta a 180 gradi. Al momento è più probabile che dietro questo linguaggio minaccioso si nasconda un calcolo tattico piuttosto elementare. Quello di far capire, soprattutto a quei ministri del governo che contano di usare la Cisl come testa d'ariete per rompere l'unità sindacale isolando la Cgil, che un simile gioco comporta qualche inevitabile prezzo da pagare a favore di chi si mostra più collaborativo con il governo. Altrimenti c'è il rischio di regalare ancora maggiori spazi di consenso sociale proprio alla Cgil.

Non è la prima volta che la Cisl si trova di colpo in difficoltà a causa delle sue aperture verso un governo guidato da Silvio Berlusconi. È già successo durante la precedente esperienza ministeriale del Cavaliere, quando l'allora segretario, Savino Pezzotta, ruppe il fronte unitario dei sindacati, sottoscrivendo quel 'Patto per l'Italia' che avrebbe dovuto spalancare le porte a un prepotente rilancio dell'economia, accompagnato da consistenti benefici per i lavoratori. Non ci vollero molti mesi per accorgersi che si trattava di una delle tante operazioni di imbonimento mediatico, nelle quali Berlusconi è maestro. Il celebrato Patto, infatti, rimase lettera morta e la
Cisl si trovò così con un pugno di mosche in mano.

Ora la farsa rischia di essere replicata per quanto riguarda in particolare il tema delle riduzioni fiscali. Nel corso dell'esame della Finanziaria 2010 alcuni parlamentari della maggioranza hanno preso un'iniziativa in proposito, ma tutta concentrata soltanto su tagli dell'Irap e quindi a esclusivo beneficio delle imprese. Ora già simile ipotesi sta incontrando la nota e ribadita contrarietà del ministro Tremonti a ogni riduzione di gettito in questa delicata fase di finanza pubblica. Figuriamoci, quindi, quali aperture potranno venire dal governo per un taglio anche alle tasse sui redditi più bassi dei lavoratori: sgravio, infatti, che nessuno propone né a Palazzo Chigi né in Parlamento.

In queste condizioni è comprensibile che Bonanni fiuti il pericolo di fare la stessa fine del suo predecessore Pezzotta con il 'Patto per l'Italia'. Ma la sua minaccia di uno sciopero generale, se i lavoratori resteranno a bocca asciutta, rischia di diventare un'arma a doppio taglio. Che, da un lato, blocca ogni riduzione fiscale (tanto per le imprese che per i dipendenti) e, dall'altro, rilancia nel mondo del lavoro la linea più intransigente seguita dalla Cgil.

(06 novembre 2009)
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 13, 2009, 12:03:47 pm »

L'inganno banda larga

di Massimo Riva

Il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola dice di volersi battere per superare il blocco al piano di 800 milioni per finanziare la diffusione della banda larga. Ma forse a Palazzo Chigi c'è chi medita di destinare una parte di quei fondi ad altri per ora inconfessati obiettivi
 
C'erano una volta tre 'i' che campeggiavano su enormi manifesti elettorali fatti affiggere da Silvio Berlusconi nelle strade di ogni città o paesino d'Italia. Quelle tre 'i' dovevano testimoniare il fermo impegno del Cavaliere a dare una scossa di modernizzazione all'economia nazionale.

La prima - 'i' come impresa - non è stata di sicuro favorita dalla sorte, perché la crisi innescata dallo tsunami finanziario globale ha mutato radicalmente i termini del problema: più che impegnati a spingere l'apertura di nuove imprese, oggi ci si trova semmai assillati dalla prospettiva che se ne chiudano (e non poche) di vecchie. Un rovesciamento di posizioni che sarebbe forse ingeneroso imputare soltanto al vuoto di politica industriale dell'attuale governo.Dove, viceversa, la responsabilità di aver fatto false promesse sta ormai emergendo con tutta evidenza è negli altri due casi.
A svuotare il secondo impegno - 'i' come inglese - ha provveduto in prima persona il ministro Mariastella Gelmini che, nei nuovi programmi didattici, ha significativamente ridimensionato gli insegnamenti dedicati alla lingua straniera. Cosicché, per l'apprendimento di quello che è diventato ormai l'idioma della comunicazione universale, anche le più giovani generazioni di italiani dovranno in pratica arrangiarsi da sole come hanno fatto i loro padri e i loro nonni.

Ancora più sconcertante, tuttavia, è lo stato dell'arte per quanto riguarda la terza sbandierata promessa: 'i' come Internet. Che l'utilizzo diffuso della Rete informatica sia un passaggio vitale per accrescere la competitività e l'efficienza dell'intero sistema economico, nonché della Pubblica Amministrazione, è ormai una verità ampiamente suffragata dai risultati conseguiti in tutti quei paesi che per primi si sono lanciati su questa strada. E che oggi stanno realizzando ingenti piani di investimenti per rendere operativo quel salto tecnologico fondamentale che è il passaggio alla cosiddetta banda larga, ovvero a un Internet superveloce, in grado di rivoluzionare l'intero sistema delle comunicazioni. Ebbene, dopo il nulla o quasi nulla di fatto in materia durante la precedente esperienza ministeriale, ecco che ora si arriva a bloccare anche il piano da 800 milioni progettato per finanziare la diffusione della banda larga in modo almeno da non far diventare incolmabile il ritardo verso quei paesi che stanno forzando il passo dell'innovazione, così offrendo condizioni più allettanti per nuovi insediamenti imprenditoriali.

Il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, dice di volersi battere come un leone per superare questo blocco, sostenendo che si tratta di fondi già stanziati e non di nuove spese che aggraverebbero i saldi di bilancio. E soggiunge che, con l'apertura dei cantieri relativi, si potrebbero avere circa 60 mila nuovi posti di lavoro. Tutti argomenti apprezzabili che finora, tuttavia, non hanno fatto breccia nel muro opposto dal Tesoro e da Palazzo Chigi. Dove forse c'è chi medita di destinare almeno parte di quegli 800 milioni ad altri per ora inconfessati obiettivi. Evidentemente sui vecchi manifesti elettorali per una svista mancava la quarta 'i': quella di inganno.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 26, 2009, 04:02:02 pm »

Quelle bugie sul debito

di Massimo Riva


Il boom del debito 2009 può avere una sola logica spiegazione: alla faccia della pretesa messa in sicurezza dei conti, in realtà Tremonti ha perso il controllo del bilancio o comunque ha rinunciato a esercitarlo  Ministero dell'Economia"I conti pubblici sono in sicurezza". È da almeno un anno che Giulio Tremonti - con il pieno avallo del presidente del Consiglio - insiste nel ripetere questa penosa bugia a dispetto delle cifre che, mese dopo mese, certificano un aggravamento assai serio della situazione. Da ultimo e in particolare sul fronte dove la finanza pubblica è più vulnerabile: il debito. A fine settembre 2009, infatti, esso ha raggiunto il picco dei 1.787 miliardi di euro, quasi 140 in più rispetto alla stessa data dell'anno precedente. Con un incremento percentuale dell'8,42 in dodici mesi.

In altre fasi congiunturali difficili una simile esplosione poteva magari essere spiegata con l'andamento avverso di un fattore fuori dal controllo del patrio governo: la spesa per interessi sul debito medesimo che è condizionata dai movimenti dei tassi d'interesse a livello europeo e mondiale. Si ricorderà, del resto, che lo stesso Tremonti continua a giustificare la sua asserita politica di rigore con il pericolo di improvvise difficoltà a collocare i titoli del Tesoro se non a tassi d'interesse sempre più alti. Fatto sta, però, che nell'ultimo anno il costo del denaro ha subito variazioni soltanto al ribasso, tanto che alcune partite di Bot sono state piazzate sul mercato a rendimenti prossimi allo zero.

Esclusa, quindi, la pressione dal lato degli interessi, il 'boom' del debito 2009 può avere una sola logica spiegazione: alla faccia della pretesa messa in sicurezza dei conti, in realtà Tremonti ha perso il controllo del bilancio o comunque ha rinunciato ad esercitarlo. Come testimonia da mesi anche il progressivo svuotamento di quell'avanzo primario (saldo fra entrate e uscite al netto degli interessi) che è il principale termometro di sostenibilità del debito. Constatazione questa che rende del tutto grottesca la sceneggiata che si cerca oggi di recitare davanti agli italiani di un Tremonti severo custode della cassa assediato dall'accattonaggio molesto dei suoi colleghi di governo.


Può anche darsi, per carità, che almeno ora il ministro dell'Economia si sia finalmente reso conto di quali buchi abbiano provocato l'abrogazione dell'Ici e il suo 'benign neglect' sulla spesa dell'ultimo anno. Ma, se vuole recuperare qualche credibilità in materia, dovrebbe smettere di raccontare favole accomodanti ovvero di nascondersi dietro alibi inconsistenti. Basta, per esempio, con la miserevole scappatoia del confronto con la più veloce impennata dei debiti francesi e tedeschi: in rapporto ai rispettivi Pil, i maggiori stock di Parigi e Berlino risultano comunque lontani anni luce da quello italiano. E poi basta anche con la meschina trovata di spiegare che si sta correndo verso il 120 per cento del debito sul Pil perché quest'ultimo sta scendendo: quest'anno il Pil calerà meno del 5 per cento, mentre il debito sta salendo dell'otto.

Basta, insomma, con l'insultare l'intelligenza degli italiani sostenendo che il governo farebbe faville se non avesse l'eredità di un debito 'non creato da noi', come ama dire il premier. Almeno gli ultimi 140 miliardi di debito in più sono opera esclusiva del formidabile duo Berlusconi-Tremonti.

(20 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #74 inserito:: Novembre 28, 2009, 03:54:28 pm »

Come evitare la bolla-bis

di Massimo Riva


La crisi, nata in banca, si è presto trasferita all'economia reale e ora offre il suo volto peggiore traducendosi in paralisi della politica  Paul VolckerA oltre due anni dai primi lampi della tempesta finanziaria che ha sconvolto l'economia mondiale, nulla di sostanziale è cambiato nelle regole che guidano la vita dei mercati, quello creditizio innanzi tutto. Chi più, chi meno, chi moltissimo come quello americano, tutti i governi hanno messo grandi quantità di denaro a disposizione delle banche in difficoltà. Un'imponente mobilitazione di risorse pubbliche che è stata spiegata con una ragione di tenore economico, ma accompagnata da un preciso impegno d'ordine politico.

La ragione economica è che si trattava di impedire un collasso generale del sistema creditizio, i cui effetti sarebbero stati esiziali per il benessere collettivo. Mentre l'impegno politico, contratto in parallelo agli esborsi, assicurava ai cittadini che, superata l'emergenza, nuove e più stringenti regole sarebbero state calate sui mercati finanziari per impedire il ripetersi degli abusi e delle malversazioni che avevano prodotto il disastro.

L'inadempienza dei governi su questo punto è oggi sotto gli occhi di tutti, tanto in Europa quanto negli Usa, epicentro della crisi. Né vale a nasconderla il miserevole tentativo di gettare fumo negli occhi della pubblica opinione con efferate dichiarazioni o anche con qualche misura contenitiva contro gli scandalosi premi in denaro o azioni che i boss del mondo bancario si sono assegnati e in parte continuano ad assegnarsi con scandalosa protervia. Che il tema dei bonus sia di sicura presa demagogica è un fatto. Ma è altrettanto un fatto che si tratta di una questione di dettaglio che neppure sfiora quei problemi di sostanza di fronte ai quali governi, parlamenti e banche centrali per ora balbettano senza costrutto. E balbettano soltanto perché non trovano il coraggio di riconoscere che il primo e fondamentale passo da compiere riguarda anche un più severo esercizio della vigilanza sul mercato, ma soprattutto una revisione dell'impianto strutturale del sistema bancario. Riforma che si può condensare con l'abbandono del modello della cosiddetta banca tuttofare e con un ritorno al regime creditizio, nato dopo il '
big crash' del 1929, nel quale vigeva la separazione rigida fra banche di credito ordinario e banche d'investimento.

Al riguardo va reso merito a un vecchio saggio come Paul Volcker (a capo della Fed dal 1979 al 1987) e all'attuale governatore della Bank of England, Mervyn King, di aver indicato con fermezza questa soluzione come la vera strada maestra per scongiurare nuovi guai come quelli recenti. Il punto è che l'obiettivo indicato da Volcker e King, non difficile da tradurre in legge - in Usa c'è il precedente del Glass-Steagall Act negli anni Trenta - comporta in concreto una rivoluzione nella geografia del potere bancario a livello mondiale, Italia compresa. E, dunque, postula la volontà dei governi di sfidare le reazioni dell'arrogante establishment finanziario dominante sui mercati. Volontà che non è dato cogliere né di qua né di là dell'Atlantico. A conferma di un singolare paradosso per cui la crisi, nata in banca, si è presto trasferita all'economia reale e ora offre il suo volto peggiore traducendosi in paralisi della politica.

(27 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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