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« Risposta #195 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:00:07 am » |
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Opinione
Letta non batterà mai la crisi
di Massimo Riva
Per uscire dalla recessione bisogna ridurre le disuguaglianze: solo così, infatti, ripartono i consumi. Ma questo governo non vuole o non può farlo, anche perché è in ostaggio dei berlusconidi
(18 giugno 2013)
Crescita degli indigenti, impoverimento delle classi medie e ulteriore concentrazione di ricchezze in mani sempre meno numerose: questi i mutamenti più vistosi del quadro socio-economico indotti dalla dura crisi degli ultimi anni. E non solo in Italia, dove l'ascensore sociale si è forse più bloccato che altrove. Poiché si tratta di un dato di fatto convengono su questa fotografia della disuguaglianza perfino i liberisti più incalliti, anche se a loro giudizio a questa situazione si potrà porre rimedio solo lasciando che la mano invisibile dei mercati svolga fino in fondo il suo ruolo salvifico di creazione di maggiori risorse da distribuire (poi) fra tutti.
Contro questa ideologia dominante da decenni in Occidente a poco o nulla sono valse le critiche di economisti di pur rinomata reputazione. Da ultimo il premio Nobel, Joseph Stiglitz, ha colto però un vero e proprio tallone d'Achille della costruzione liberista. Il suo teorema si può sintetizzare così: la crescente disuguaglianza nella ripartizione delle risorse non è soltanto effetto della crisi ma ormai ne è divenuta anche causa di aggravamento. La spiegazione dell'assunto parte da uno dei fattori più critici del momento: la caduta della domanda per consumi su cui si è innestata la frenata degli investimenti in una spirale negativa che toglie spazio vitale anche agli spiriti animali del mercato nella loro spinta alla creazione di maggiore ricchezza. Tutto ciò per la semplice ragione che gli "happy few", pur carichi di soldi, alimentano solo parzialmente i consumi, la cui tenuta o crescita dipende in via prevalente dalla quantità di reddito a disposizione della grande massa di chi ha poco e deve spendere tutto per sopravvivere.
Per questo teorema Stiglitz non riceverà un altro Nobel: le sue tesi, infatti, non sono poi così originali. Ottant'anni fa aveva imboccato la stessa strada J. M. Keynes nei suoi studi su T. R. Malthus che, ai primi dell'Ottocento, aveva offerto al mondo un'interpretazione lungimirante sul rapporto fra distribuzione della ricchezza e vitalità del circuito consumi-investimenti. Una lezione che calza a pennello per i guai in cui ci si dibatte oggi. Per esempio, a fronte di una crisi esplosa a causa di un'abnorme finanziarizzazione dell'economia, ci si continua a chiedere come sia stata possibile la formazione di bolle speculative sconsiderate sui cosiddetti titoli tossici. La risposta è già in Malthus: quando continua ad accumularsi in poche mani, il denaro si allontana dai consumi produttivi e viene inesorabilmente attratto da impieghi in avventure puramente cartacee. Quindi la disuguaglianza crescente nella ripartizione delle ricchezze è doppiamente responsabile. Dapprima di aver creato i presupposti dei terremoti finanziari che hanno inaridito i flussi verso l'economia reale. Poi - cioè ora - di essere diventata il maggiore ostacolo a una ripresa dei consumi che, trascinando gli investimenti, rimetta in moto il volano della crescita economica. Passaggio sempre più indispensabile sia per aggredire il malessere sociale da mancanza di lavoro sia per rendere più agevole il risanamento delle finanze pubbliche indebitate.
In questi giorni nel Paese si moltiplicano i segnali d'allarme - da parte politica e anche imprenditoriale - sui rischi che il disagio dei ceti indigenti e di spezzoni di espulsi dalla classe media si possa saldare ingenerando diffusi sentimenti di rivolta. Pur senza la pretesa che le nostre classi dirigenti si rileggano Malthus, Keynes e Stiglitz, viene spontaneo suggerire che esse impieghino più utilmente il loro potere. Anziché ricorrere ad avventurosi esercizi dilatori sull'impianto della Costituzione o a baloccarsi con l'Imu e consimile bigiotteria fiscale, prendano coscienza che una più equilibrata distribuzione della ricchezza non sarebbe un atto di solidarietà sociale, ma soprattutto un affare economico per il Paese. Quindi, la prima e più urgente delle riforme istituzionali: resta da chiedersi quanto essa sia praticabile da un governo ostaggio dei berlusconidi.
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« Risposta #196 inserito:: Luglio 15, 2013, 06:14:15 pm » |
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Economia Lavoro, perché Letta è bocciato di Massimo Riva La disoccupazione è una malattia di massa da aggredire con forza. Il premier dice che ora le aziende non hanno più alibi per non assumere. In realtà tutto dipende dal crollo della domanda e bisogna chiedere all'Europa nuovi investimenti (04 luglio 2013) Ora «le imprese non hanno più alibi per non assumere». C'è uno sconcertante eccesso di sicumera nelle parole con le quali Enrico Letta ha voluto sintetizzare il senso delle mosse del governo in tema di lotta alla disoccupazione giovanile. Né il quasi miliardo e mezzo di fondi strappati in sede europea né il recente decreto sul lavoro, infatti, autorizzano a ritenere che stia per schiudersi chissà quale campagna acquisti da parte delle aziende. Magari gli imprenditori che già avevano esigenze di nuovo personale diventeranno un po' più generosi nelle loro chiamate alla luce della fiscalizzazione degli oneri sociali prevista dalle nuove norme. Anche perché la maggiore entità del contributo europeo ottenuto dal premier all'ultimo vertice Ue fa ritenere che i benefici concessi potranno durare un po' più a lungo nel tempo. Ma non sarà con questo genere di aspirine che si riuscirà ad aggredire una malattia di massa così profonda e diffusa come la mancanza di lavoro per oltre tre milioni di italiani, di cui quasi la metà sotto i trent'anni. Fa presto, dunque, Enrico Letta a prendersela con gli "alibi" delle imprese ma, così parlando e operando, mette in luce un approccio politico alla materia al tempo stesso riduttivo e fuorviante. Il cui limite principale consiste nel voler affrontare il problema dalla coda e non dalla testa. Ci sono oggi in Italia migliaia e migliaia di imprese che si vedono costrette a chiudere gli impianti o comunque a ridimensionare robustamente la loro produzione, in entrambi i casi con pesanti effetti sull'occupazione. Questi drammi possono avere anche motivazioni intrinseche all'azienda come l'obsolescenza dei prodotti o dei macchinari piuttosto che l'incapacità gestionale del proprietario o del management. Ma c'è comunque una causa generale che tutte accomuna, le buone come le cattive imprese. Ed è la caduta verticale della domanda interna che prosegue ormai da almeno quattro anni e trova il suo riflesso statistico inesorabile nel dato sempre negativo della crescita del Pil. Che il mercato del lavoro in Italia abbia bisogno di riforme ordinamentali è senz'altro innegabile. Ma, dopo tanti anni di pasticci in materia con risultati insignificanti, sembrerebbe giunta l'ora per convincersi che il nodo della disoccupazione non può essere sciolto soltanto con un po' di bricolage giuridico della legislazione e dei contratti o con qualche sgravio d'occasione. Al fondo di tutto c'è una questione maledettamente reale: la frenata recessiva dell'economia innescata dall'abbraccio letale fra caduta dei consumi e blocco degli investimenti. Se non si arresta (e poi si inverte) il moto di questa spirale c'è poco da sperare in un riassorbimento, seppure graduale, della disoccupazione di massa. Il governo Letta può anche decidere di impiegare il miliardo e mezzo dei fondi europei per regalare a costo zero un po' di lavoratori alle imprese ma se quest'ultime non trovano mercato per i loro prodotti data la regressione dei consumi l'esito dell'operazione sarà un buco nell'acqua. Capisco che, a fini di teatro mediatico, la via più facile sia quella di andare in Europa alzando la bandiera della disoccupazione giovanile per poi tornare a casa con un poco di selvaggina in bocca. Ma ciò significa anche avallare la miopia di quel pensiero oggi dominante nell'Unione secondo cui il rigore dei conti va esteso anche alle spese per investimenti e tanto più nel caso dei paesi che abbiano difficoltà di bilancio. Vuol dire, insomma, rinunciare a condurre a viso aperto una battaglia seria per una svolta politica nelle scelte di Bruxelles e accontentarsi di elemosinare una mancia, ancorché più robusta, lasciando di fatto immutato il quadro complessivo di un'Unione immobile dinanzi alla recessione generale. Sorge così l'increscioso dubbio che, quando denuncia gli alibi altrui, non sia magari Enrico Letta a volersi precostituire un alibi per mascherare i limiti oggettivi e la precarietà temporale dell'attuale approccio governativo al dramma della disoccupazione. © Riproduzione riservata da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lavoro-perche-letta-e-bocciato/2210551/18
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« Risposta #197 inserito:: Agosto 24, 2013, 04:25:23 pm » |
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Opinione Basta con la bufala dell'Imu di Massimo Riva Le tasse sulla casa esistono tutto il mondo, anche più alte delle nostre. Da noi, invece, quelle che pesano troppo sono le imposte sul lavoro: che uccidono l'occupazione e soffocano la ripresa. Perché nessuno ha il coraggio di dirlo? (20 agosto 2013) Quel che fa più impressione, ma suscita anche una certa dose di rabbia, è l'enorme spreco di tempo e di intelligenze. Enrico Letta, Fabrizio Saccomanni e Ignazio Visco sono - ciascuno a suo modo - uomini sagaci, navigati, certo non digiuni di economia politica. Vederli ancora impegnati a spremersi le meningi per trovare una via d'uscita sulla questione dell'Imu è uno spettacolo piuttosto sconfortante. Tanto più dopo che il premier e il ministro del Tesoro hanno annunciato che l'economia italiana si appresta, entro l'anno, a rialzarsi da una recessione che la tiene in ginocchio ormai da parecchi anni. DIFFICILE SOPPESARE quanto siano affidabili i segnali positivi da cui Letta e Saccomanni traggono buoni auspici per il futuro prossimo. Al 30 giugno le statistiche hanno certificato una caduta del Pil ininterrotta negli ultimi otto trimestri, mentre qualche indicazione di ripresa sta ora venendo sul doppio fronte della produzione industriale e della domanda interna. Sono piccoli indizi ma dicono che qualcosa, in effetti, si sta muovendo. Se ne può volenterosamente dedurre che forse il paese abbia toccato il fondo della crisi e possa da qui in poi cominciare una risalita. Ma se è proprio così - e conviene sperarlo caldamente - a maggior ragione oggi la missione cruciale di governo e autorità monetaria dovrebbe essere quella di concentrarsi su misure in grado di incoraggiare e irrobustire la maturazione della così tanto attesa svolta economica. Non c'è nemmeno da dubitare che a Palazzo Chigi e in Via Nazionale si ignori quali siano i nodi prioritari da sciogliere per aiutare il ritorno della crescita. Sul terreno fiscale si tratta di impegnare ogni pur minima risorsa disponibile per alleggerire il peso delle tasse sul lavoro e sulle imprese, al duplice scopo di ridare ossigeno alla domanda interna e alla ripresa degli investimenti. Sul terreno monetario si tratta di indurre le banche a un bilanciamento dei loro impieghi che, fra acquisti di titoli del Tesoro e crediti al sistema produttivo, sia un poco più favorevole a quest'ultimo. Operazioni certo non facili, ma sulle quali sarebbe giusto attendersi il massimo di impegno da parte di chi governa debito e moneta. E invece no: a più di cento giorni dalla nascita del governo Letta, ancora tutto è bloccato dalla bomba politica e contabile dell'Imu. Il buon Saccomanni ha cercato di disinnescare l'ordigno mostrando, conti alla mano, limiti e sostanziale irrazionalità di un'abolizione dell'Imu. Ma il fatto è che Silvio Berlusconi ha fatto di questa ipotesi la carta vincente della sua campagna elettorale e ora la condizione vitale del suo sostegno al "governo di necessità". Al novello Ghino di Tacco non interessa che in tutti i Paesi civili sia in vigore un prelievo fiscale sulle case, non importa che questo tributo tenda a riequilibrare in senso patrimoniale un sistema fin troppo sbilanciato a danno dei redditi da lavoro, tanto meno si cura della perdita di gettito e del conseguente buco nei conti. Ancorché certificato ora come delinquente fiscale dalla Cassazione, Berlusconi esige che questa tassa sia tolta di mezzo perché lui così ha promesso. E dunque, come minacciano i suoi bravi: o via l'Imu o via il governo. DINANZI A SIMILI RICATTI, che impongono di compiere una scelta economica sbagliata pur di tutelare un puntiglio politico di parte, ce n'è abbastanza perché a Palazzo Chigi si ritrovi il coraggio di recuperare una gerarchia più seria delle cose da fare. Il dossier Saccomanni con i suoi conti accurati ha spianato la strada. Per esempio: già oggi è prevista una franchigia di 200 euro, la si porti a 400 e non se ne parli più. Almeno fino a quando - opera di equità questa sì indispensabile - saranno stati aggiornati i valori catastali. Chi guida il Paese avrà così più tempo e più risorse per aiutare imprese e lavoratori ad agganciare la sperata ripresa. I berlusconiani faranno saltare il banco? Data la posta in gioco, val la pena di vedere se lo faranno. © Riproduzione riservata da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/basta-con-la-bufala-dellimu/2213259/18
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« Risposta #198 inserito:: Agosto 31, 2013, 08:21:59 am » |
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Opinioni Un sospetto sulle privatizzazioni di Massimo Riva (26 luglio 2013) Dice il ministro Zanonato che sicuramente sarà abolita l'Imu sulla prima casa e anche cancellato l'aumento dello scaglione Iva dal 21 al 22 per cento. Nessuno sa con quali risorse alternative sarà coperto il conseguente buco nei conti pubblici, ma l'impegno del governo su queste richieste della sua ala berlusconiana risulta così categorico. Nel frattempo sia il premier Letta sia il ministro Saccomanni hanno riaperto l'antica partita della cessione sul mercato dei residui pacchetti azionari (il 30 per cento circa) di Enel, Eni e Finmeccanica. Fra le due questioni, a prima vista, non c'è alcun collegamento di logica contabile, ma la concomitanza temporale fra i due annunci suggerisce di stare in guardia. Il rischio è che sotto traccia stia maturando la tentazione di un corto circuito fra dossier dismissioni e le promesse su Imu e Iva. Di una fuoriuscita dello Stato dal capitale delle tre maggiori aziende pubbliche si parla da tempo. Al fine - si assicura - di usare il ricavato per ridurre la montagna oppressiva del debito pubblico secondo una visione ragionieristica impeccabile: meno patrimonio contro meno debito. Finora non si è proceduto su questa strada a causa di non trascurabili perplessità politiche. In Eni ed Enel sta la chiave dei rifornimenti energetici del paese, in Finmeccanica - al netto dei malaffari recenti e passati - c'è una parte importante della presenza italiana sia su mercati ad alta tecnologia sia su comparti strategici come quello degli armamenti. Su terreni così delicati può lo Stato accontentarsi di esercitare il suo controllo senza detenere azioni, ma ricorrendo a quel controverso strumento giuridico che va sotto il nome di "golden share"? Il quesito è sensato, ma oggi appare aperto più in astratto che in concreto. E ciò per la semplicissima ragione che la vendita di Enel, Eni e Finmeccanica a fini di riduzione del debito sarebbe un'opzione poco conveniente in termini contabili. Agli attuali corsi di Borsa il ricavato supererebbe di poco la ventina di miliardi, tirandosi dietro anche la perdita di oltre 600 milioni annui di mancati dividendi. Cosicché si finirebbe col perdere il controllo di importanti cespiti industriali per tagliare il debito di un magro 1 per cento: somma insignificante sia agli occhi dei mercati sia quanto a minori costi del servizio del debito. E, infatti, dentro il governo si sta guardando a ipotesi alternative di leva finanziaria sui pacchetti delle tre grandi aziende. Una di queste sarebbe quella di usare il valore delle azioni detenute dallo Stato come collaterale di nuovi prestiti che, poggiando su simili garanzie, potrebbero spuntare tassi d'interesse ben più bassi di quelli attuali sul debito. Ma anche qui sorge un bel problema: che accadrebbe sui mercati di fronte all'emissione di questi titoli privilegiati? Il rischio serio è che il risparmio ottenuto da un lato verrebbe ampiamente superato dall'altro a causa della richiesta di rendimenti assai più elevati sulla parte rimanente del debito. Insomma, l'ingegneria finanziaria è un campo ricco di controindicazioni che non possono essere aggirate con meri esercizi di fantasia. Resta perciò da capire dove voglia andare a parare davvero il governo Letta riaprendo il dossier dismissioni. Che vi siano impellenti necessità di cassa è fuor di dubbio. Non si vorrebbe però che il ricorso a cessioni o ipoteche di cespiti patrimoniali obbedisse non all'esigenza di ridurre volume e oneri del debito pubblico, ma all'inconfessabile fine di trovare finanziamenti temporanei per scelte politiche di parte corrente: tanto peggio se assai opinabili come quelle, appunto, su Imu e Iva. Avvalora simile dubbio increscioso il fatto che lo stop su queste due imposte sia appena stato riconfermato in termini ultimativi dal ministro Zanonato senza che sia stato ancora sciolto il nodo delle risorse compensative. Ecco perché appare necessario richiamare un'elementare regola di buona condotta contabile: ogni intervento sul patrimonio non può avere fine diverso dal taglio dell'indebitamento. © Riproduzione riservata da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/un-sospetto-sulle-privatizzazioni/2211880/18
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« Risposta #199 inserito:: Settembre 20, 2013, 05:05:29 pm » |
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Opinione Psicosi tedesca sull'inflazione di Massimo Riva (06 settembre 2013) E se invece di continuare a chiedersi che cosa farà la Germania con l'Europa provassimo, parafrasando il celebre motto di John Kennedy, a rovesciare i termini della questione? Ovvero: che cosa può o, meglio, dovrebbe fare l'Europa con la Germania? Ha un bel dire, infatti, il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schauble, che «noi tedeschi non vogliamo un'Europa tedesca» asseverando che «noi non stiamo chiedendo agli altri di essere come noi». In realtà, tutte le scelte compiute dall'Unione europea, dalla crisi greca in poi, portano nel bene e nel male un indelebile marchio tedesco. In particolare, dominante "über alles" è stata l'ossessione tutta tedesca della stabilità monetaria intesa come un dogma impermeabile a qualunque ipotesi di flessibilità contingente. Ne ha appena dato ulteriore prova la Bundesbank con una sortita ufficiale contro la strategia dei bassi tassi d'interesse che la Banca centrale europea vorrebbe perseguire nel lungo periodo per non accrescere le difficoltà dei paesi più esposti. Al contrario di Herr Schauble, gli ex custodi del marco non hanno reticenze nel far intendere che gli altri dovrebbero essere come loro. Né importa che al momento non sia alle viste alcun focolaio di inflazione, essi ritengono che l'intera eurozona debba compiere nuovi sacrifici sull'altare del feticcio tedesco della moneta forte a qualunque costo. Ecco perché oggi, dopo aver così a lungo subito gli effetti di questa autentica paranoia economica, diventa necessario porsi il problema di che fare con una così preponderante "weltanschauung" tedesca dalle radici storiche profonde. Circa novant'anni fa la Germania è precipitata in una tempesta inflazionistica che ne ha devastato economia e società con i ben noti sbocchi politici mostruosi. Keynes ci ha insegnato che le responsabilità di quella tragedia non furono soltanto tedesche: il crollo della Repubblica di Weimar ebbe come innesco principale l'esosità inconsulta delle condizioni economiche imposte alla Germania con la pace di Versailles. Ma è un fatto che non altri se non i tedeschi hanno cercato e trovato la via d'uscita dai loro guai d'allora affidando ogni potere a Hitler, così trascinando l'Europa e il mondo intero nella guerra più sanguinosa d'ogni tempo e precipitando la Germania stessa nella più grave rovina della sua storia. Con queste vicende sullo sfondo non è arduo spiegarsi perché la psicosi della moneta forte assilli le classi dirigenti della Germania. Ma il fatto che questa paura di ricadere negli errori del passato continui ancora oggi a orientarne il cammino in Europa, mette a nudo anche una malcelata sfiducia tedesca nelle proprie capacità di gestire politiche economiche più elastiche e flessibili e quindi più utili o addirittura indispensabili (gli Usa docent) quando si tratti di uscire da una congiuntura recessiva come quella che insidia da tempo molte economie di eurolandia. Per l'Europa si tratta, quindi, di porre senza indugi chi uscirà vincente dalle elezioni ormai imminenti - probabilmente ancora Frau Merkel - dinanzi all'esigenza di una svolta nell'amministrazione del condominio monetario dell'euro. Proprio alla luce della storia dell'ultimo secolo si tratta di mettere la Germania in guardia dalla minaccia che la sua linea rigorista possa - questa sì oggi - replicare gli errori degli ottusi vincitori di Versailles ricreando in Europa nuove Weimar seppure fuori dai confini tedeschi. Cosicché il cuore del problema, a questo punto, è quello di trovare chi abbia in Europa la forza politica per costringere Berlino a fare i conti fino in fondo con i fantasmi del suo passato. La fragilità dei governi di Roma e Madrid e le titubanze della presidenza francese non offrono grandi speranze. Perciò la conclusione diventa particolarmente amara: il fatto stesso che tutti si chiedano che cosa farà la Germania con l'Europa è il triste segno che non sembra esistere un'Europa in grado di decidere che cosa fare con la Germania. Una drammatica replica delle pavide impotenze europee degli anni Trenta. © Riproduzione riservata da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/psicosi-tedesca-sullinflazione/2214425/18
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« Risposta #200 inserito:: Ottobre 28, 2013, 10:30:27 am » |
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Massimo Riva Avviso ai naviganti Alitalia si salva a spese nostre Prima i Patrioti di Berlusconi e Passera. Ora le Poste. La compagnia di bandiera tira avanti sempre grazie ai Quousque tandem Alitalia abutere pecunia nostra? Ecco la principale domanda da porre ai tanti Catilina che si alternano al capezzale della comunque morente compagnia aerea. Come fa, per esempio, il ministro Maurizio Lupi a vantarsi di aver “salvato Alitalia”? E le tasche degli italiani chi le salva? Si fa presto a gettare fumo negli occhi sostenendo - è il caso dell’amministratore di Poste italiane - che il denaro impegnato in questo ennesimo pasticcio non viene dai conti dei correntisti delle medesime Poste ma dagli utili ricavati dall’ordinaria attività di recapito della corrispondenza. E allora? Mica quei soldi sono del signor Sarmi, essi sono in tutto e per tutto dei contribuenti. Ai quali, quindi, andrebbe spiegata con motivazioni convincenti la logica di un’operazione che al momento appare priva del suo presupposto fondamentale: un realistico piano industriale di risanamento e di rilancio dell’impresa. Né si racconti la frottola delle sinergie tra i quattro aerei delle Poste e la flottiglia Alitalia: come già con AirOne questo sarebbe il classico pasticcio di un’allodola con un cavallo, secondo la celebre battuta di Cesare Merzagora. Forse l'unico a sollevare almeno uno dei tanti veli che nascondono le incresciose verità di questo malaffare è stato il presidente del Consiglio dicendo che la soluzione abborracciata in questi giorni ha come fine occasionale quello di negoziare lo scontato accordo con Air France-Klm senza più l’acqua alla gola del fallimento incombente. Sarà, ma per quanto tempo l’iniezione di liquidità per mezzo miliardo riuscirà a tenere a galla l’azienda? Intanto 200 di quei 500 milioni sono finanziamenti bancari destinati comunque ad aggravare il versante debitorio dell’operazione. Poi altri 100 dovrebbero essere girati al creditore Eni per scongiurare il blocco delle forniture di carburante. Ne restano così a disposizione 200 per un’azienda che però ne perde uno e mezzo al giorno. Insomma, se il governo Letta voleva acquistare tempo ne ha comprato davvero troppo poco e a un prezzo molto elevato. Anche perché non si può sperare che i francesi siano così ingenui dal precipitarsi a chiudere domani un accordo con una controparte italiana che soltanto dopodomani potrebbe trovarsi nuovamente a negoziare con il cappello in mano. È vano girare ancora intorno ai problemi con espedienti dalle gambe corte e con affermazioni maleodoranti di ipocrisia. La situazione era già disperata cinque anni fa quando il Fregoli di Arcore, sotto braccio con l’ad di Intesa Corrado Passera, mise in campo la rinomata cordata di pseudo patrioti che fece saltare un’intesa con Air France: quella sì che avrebbe salvato il salvabile della compagnia facendo risparmiare una montagna di denaro ai contribuenti. E ora di nuovo si vorrebbe raccontarci la favola di aver trovato l’ennesima pozione magica con la quale trasformare in oro il piombo di Alitalia. Ma sempre evitando di dire qualcosa di serio sulle scelte di gestione indispensabili per aggiustare la contabilità aziendale. O, peggio ancora, presentando piani industriali ricchi di impegni impossibili perché scritti sull’acqua con intenti di inganno che ormai è arduo non considerare callidamente dolosi. A questo punto diventa doveroso dire: basta! L’intelligenza e il portafoglio degli italiani meriterebbero un po’ più di rispetto da parte di chi governa il Paese. Finora gli interventi pubblici non hanno fatto che peggiorare lo stato di salute della compagnia aerea, violare le più elementari regole mercantili, strapazzare utenti e contribuenti. Né l’accanimento su questa strada può essere più mascherato con il demagogico richiamo a chissà quali indefiniti interessi strategici nazionali che sarebbero legati a un’azienda ormai ridotta al rango di compagnia aerea regionale nel senso sempre più ristretto del termine. Si lasci stare, per la decenza, di chiamare in causa a sproposito la nobile nozione di patria e si risponda piuttosto alla domanda iniziale: quousque tandem Alitalia abutere pecunia nostra? 17 ottobre 2013 © Riproduzione riservata Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/10/16/news/alitalia-si-salva-a-spese-nostre-1.137834
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« Risposta #201 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:37:19 pm » |
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L’ONDATA EUROPEA DEL POPULISMO La malapianta del rancore A pochi mesi dalle elezioni europee, il populismo è il solo movimento che raccoglie consenso. Nei ricchi Paesi del Nord come nel Sud impoverito, crescono formazioni con storie e anime diverse (estremismo di vario colore, localismo, nazionalismo, xenofobia) e un unico denominatore: rigetto dell’Europa, delle classi dirigenti, dei partiti tradizionali, del faticoso e talvolta incomprensibile funzionamento della democrazia. Nessun Paese ne è immune: Norvegia, Olanda, Austria, Finlandia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, Italia, fino alla Francia (in cui il Fronte Nazionale potrebbe diventare il primo partito) e, a ben vedere, anche la Germania. Il movimento antieuropeo Adf ha mancato l’ingresso al Bundestag, ma la sua ascesa ha condizionato la politica europea della Cancelliera Merkel. La Germania è però un’eccezione di altro genere sui cui dovrebbero riflettere tanti «rottamatori » e profeti di novità: largo consenso a un vecchio partito cristiano e a una sessantenne senza appeal alla terza legislatura. La destabilizzazione globale della finanza, la moltiplicazione dei conflitti, le tensioni religiose hanno come effetto la disperazione dei più deboli, l’impoverimento delle classi medie, l’aumento dei flussi migratori, la crisi identitaria dei popoli, il ripiegamento su un’idea di nazione e di frontiere invalicabili, mentre circolano liberamente uomini, merci e capitali e declinano gli Stati nazionali. Dei movimenti populisti conosciamo ormai cause e conseguenze, oltre alla capacità — spesso cinicamente intelligente—di cavalcare bisogni anche condivisibili, di fare come quei galli che cantano per un sole che non sorge mai. Ma stentiamo a individuare gli antidoti e a costruire politiche che potrebbero arginare il fenomeno, anziché nutrirlo. Tucidide considerava la demagogia la malattia mortale della democrazia, ma demagogia e populismo non sono sinonimi. Problematiche che investono drammaticamente vasti strati di popolazione non dovrebbero rientrare in una definizione talvolta sprezzante, intellettualmente elitaria. Non è populismo la domanda di sicurezza, di partecipazione alle scelte nazionali ed europee, di giustizia fiscale, di controllo dei flussi migratori, di rispetto delle tradizioni e della cultura nazionale. Non è populismo la difesa dei propri interessi di cittadini rispetto a un modello europeo che ha tradito le attese. Si rischia invece di alimentare il populismo se i governi scambiano il dialogo con il potere di blocco delle minoranze, se si ingannano i cittadini abolendo una tassa per riproporla con un altro nome, se si confondono i livelli di responsabilità, se si danno all’Europa colpe nazionali, se l’ordine pubblico diventa la sola bussola di una società per forza di cose multietnica. Quasi mai il confine fra le due opzioni è subito visibile, come dimostra la vicenda che in questi giorni scuote la Francia. Ma è urgente stabilirlo. Espellere un’adolescente clandestina, facendola prelevare dalla polizia durante una gita scolastica, non è stata una dimostrazione di umanità. La decisione divide la sinistra. Il presidente Hollande dice che la ragazza può tornare, ma senza famiglia, con uno strappo allo Stato di diritto e al buon senso, mentre il ministro degli Interni socialista difende la linea della fermezza e i francesi l’approvano. Come ha detto il politologo Offe, il populismo ha consenso, ma non saprebbe governare; le classi dirigenti e la tecnocrazia spesso governano senza consenso e senza coraggio. Il che non produce buona politica. Come ha detto il politologo 23 ottobre 2013 (modifica il 23 ottobre 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA Massimo Nava http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_21/malapianta-rancore-597f1f8e-3a0f-11e3-970f-65b4fa45538a.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Novembre 22, 2013, 07:55:01 pm » |
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La farsa delle tasse di MASSIMO RIVA 22 novembre 2013 Fa cadere le braccia lo spettacolo di un governo che, a sei mesi dall'annuncio dinanzi alle Camere e a uno dalla scadenza, non riesce ancora a sciogliere quel nodo dell'Imu che si è stretto attorno al collo. Ma il tutto suscita anche parecchia rabbia e non soltanto per lo stato di continua incertezza nel quale si tengono così milioni di contribuenti. Quel che più infastidisce è che proprio il passare del tempo sta provando, aldilà di ogni ragionevole dubbio, quanto sia stata nociva e insensata la scelta di far nascere il governo Letta con l'handicap particolarmente oneroso di dover rinunciare a un gettito di quattro miliardi e mezzo nel quadro di un bilancio già di suo inficiato da tanti buchi emersi e sommersi. Sarà anche che una simile tara genetica era un pedaggio inevitabile - visti gli ukase berlusconiani in materia - per poter dar vita al cosiddetto gabinetto delle larghe intese. Ma ciò non toglie che la decisione di cancellare l'Imu 2013 sulle prime case - tutte le prime case, anche quelle di contribuenti facoltosi - non ha soltanto creato quelle serie difficoltà di copertura che sono ancora sotto gli occhi di tutti. Il peggio è che questa scelta ha rovesciato la scala delle priorità economiche e fiscali ponendo in prima fila la tutela tributaria della rendita immobiliare. Il tutto in una fase congiunturale nella quale l'universo mondo - dal Fondo monetario all'Unione europea, da reputati economisti a persone di normale buon senso - raccomandava l'esigenza primaria di dare una spinta alla crescita agendo semmai sull'eccesso di carico fiscale che grava sui redditi da lavoro e da impresa. La controprova dell'errore commesso l'ha appena offerta del resto la presentazione della Legge di stabilità, nella quale è pur prevista una sforbiciata al famigerato cuneo fiscale su salari e stipendi ma in una misura che suona socialmente e finanziariamente risibile. Tanto da assumere per occhi abbastanza disincantati l'aspetto di una foglia di fico politica nel tentativo, comunque malriuscito, di nascondere quanto ben più efficacemente si sarebbe potuto fare in materia non dovendosi arrampicare sugli specchi per trovare i quattro miliardi e mezzo da destinare alla follia del taglio Imu sulla prima casa. Come non bastasse la vicenda ha assunto e sta ancora assumendo aspetti tragicomici per quanto riguarda le fonti di copertura immaginate per il mancato gettito. Già la prima rata di giugno (per un valore di circa due miliardi) è stata - si fa per dire - spesata con incassi così poco probabili da rendere indispensabile il ricorso a una cosiddetta "clausola di salvaguardia" ovvero a un decreto ministeriale che al bisogno provvederà ad alzare di un paio di punti le accise sui carburanti e gli anticipi d'imposta delle imprese. Altro bel colpo da assestare al settore produttivo del Paese in una fase tuttora di recessione. Ora siamo punto e daccapo con la rata di dicembre. Anche in questo caso si intende provvedere al grosso del mancato gettito con un aumento degli anticipi d'imposta stavolta però sul versante finanziario di banche e assicurazioni. Mancherebbero però all'appello circa 500 milioni. La prima trovata è stata quella di far rientrare nel rango dei pagatori anche quei fabbricati rurali e terreni agricoli che - in un sussulto di raziocinio fiscale almeno verso il settore economico tradizionalmente più fragile - erano stati esclusi dalla rata di giugno. Ora pare che sia in atto un ripensamento su questa logica perversa del colpire sempre e comunque il sistema produttivo. Afferma il ministro dell'Agricoltura Di Girolamo che i fabbricati rurali resteranno comunque esclusi, mentre per i terreni agricoli si vedrà al Consiglio dei ministri del prossimo martedì. Nel frattempo - a completezza dello stato confusionale del quadro - va soggiunto che il relatore della Legge di stabilità in Senato sponsorizza un emendamento che porterebbe di fatto alla rinascita della famigerata Federconsorzi con una dotazione - guarda un po' - di ben 400 milioni. Continua così fino alla prossima puntata la farsa che, grazie alla prepotenza di Berlusconi e alla remissività di Letta, ha trasformato l'affare Imu in un'incurabile tara genetica del governo cosiddetto di necessità. Farsa, tuttavia, che non fa più ridere nessuno. © Riproduzione riservata 22 Novembre 2013 Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/22/news/la_farsa_delle_tasse-71594577/?ref=HREA-1
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« Risposta #203 inserito:: Novembre 23, 2013, 04:07:25 pm » |
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Massimo Riva Avviso ai naviganti A chi fa comodo il Supereuro La forza della valuta europea è conseguenza di politiche esterne o addirittura contrarie ai nostri interessi. Perché al gran ballo delle monete sono le banche centrali americana e giapponese a dare il ritmo Derisa e sbeffeggiata da fitte schiere di economisti la moneta unica europea continua a volare alto. Si può, naturalmente, argomentare che l’euro si apprezza non tanto per forza propria quanto per debolezza altrui, segnatamente di dollaro e yen. E, in effetti, i suoi rialzi sui mercati dei cambi sono in larga misura conseguenza delle politiche monetarie espansive adottate prima dalla Federal Reserve e poi dalla Bank of Japan. Fatto sta che le montagne di carta moneta stampate da Washington e Tokyo spingono molti investitori a cercare in Europa un’alternativa ai propri impieghi per metterli al riparo dalla svalutazione delle proprie valute che è e rimane per ora l’obiettivo deliberato delle strategie americana e giapponese. È una vecchia storia degli scambi economici questa. Quando sui mercati si mettono in moto movimenti come quelli sopra accennati, le scommesse tendono ad avverarsi. Se si vendono dollari e si comprano euro nella presunzione che la valuta americana sia pilotata al ribasso, altro non si fa che rendere ancora più probabile l’affermarsi di ciò che si prevedeva. Il punto di rottura di questo schema interviene quando i governi che perseguono il deprezzamento della propria moneta a fini di rilancio delle rispettive economie o raggiungono l’obiettivo o si trovano dinanzi a fiammate inflazionistiche di proporzioni allarmanti. In tal caso le politiche monetarie possono avere cambiamenti graduali o anche repentini. Allo stato non sembra che qualcosa del genere stia per accadere vuoi negli Usa vuoi in Giappone. Ne è significativa conferma il duro e inusitato attacco ufficiale che Washington ha mosso contro il governo tedesco imputandogli di destabilizzare l’economia mondiale attraverso l’accumulo di surplus commerciali spropositati (la Germania oggi è leader planetario nelle esportazioni) senza bilanciarli con una politica di rilancio della domanda interna tale da riassorbire almeno in parte i disavanzi crescenti nei paesi che comprano prodotti tedeschi. È un’accusa che rende palese lo scorno americano per i magri frutti della propria strategia di indebolimento del dollaro e però coglie anche nel segno denunciando l’ottusità più che l’egoismo della posizione di Berlino. I cui effetti peggiori si manifestano all’interno dell’area dell’euro perché costringono a convivere con un cambio forte anche economie che avrebbero bisogno di una moneta indebolita sia per esportare sia per finanziare i propri debiti. Ci si può inoltrare in ulteriori cronache dei movimenti in corso sui mercati dei cambi. Ma si rischia di contare le foglie degli alberi perdendo di vista la dimensione e la natura del bosco. Se, invece, ci si sforza di guardare la situazione con un grandangolo, ci si accorge subito come oggi più che mai sia in atto quella guerra delle monete di cui, però, tutte le fonti ufficiali negano l’esistenza. Un atteggiamento spiegabile da parte di chi ha aperto le ostilità (gli Usa) e di chi vi si è presto adeguato (il Giappone), ma che suona ipocrita e pusillanime in Europa. Dove si sta facendo finta di non vedere il conflitto monetario per non dover affrontare il nodo cruciale degli armamenti a disposizione della Banca centrale europea per tenere il campo con qualche speranza di successo. Come i suoi colleghi della Fed e della Bank of Japan, Mario Draghi può manovrare - e ogni tanto lo fa - lo strumento dei tassi d’interesse ma, al contrario di costoro, non dispone di un’arma fondamentale, quella della creazione di carta moneta, perché non solo la Germania ma anche altri paesi di Eurolandia resistono all’idea di affidare alla Bce il ruolo e i poteri connaturati all’effettivo esercizio della sovranità monetaria. Il risultato è che il malcapitato Draghi si trova a muoversi in battaglia come un generale che abbia a disposizione la fanteria leggera ma sia del tutto privo di artiglieria pesante. Un compito impossibile che spiega fin troppo bene come mai oggi il supereuro sia figlio di scelte contrarie o comunque esterne agli interessi europei. 11 novembre 2013 © Riproduzione riservata Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/11/07/news/a-chi-fa-comodo-il-supereuro-1.140331
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« Risposta #204 inserito:: Novembre 30, 2013, 05:26:07 pm » |
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Massimo Riva Avviso ai naviganti Solo l’asse latino potrà salvarci Senza un’iniziativa politica di Francia, Italia e Spagna il futuro governo tedesco non cambierà la sua linea di rigore, criticata anche dalla Commissione Ue. Ed è essenziale agire ora. Perché non sia troppo tardi La Commissione europea si è finalmente decisa a mettere sotto accusa la Germania per il suo accumulo di surplus commerciali esorbitanti. Purtroppo, non è un bel vedere che l’iniziativa arrivi seconda nel tempo dopo un’analoga denuncia da parte del governo americano che ha apertamente imputato a quello di Berlino di perseguire una strategia economica destabilizzante per i mercati internazionali. Il fatto che a Bruxelles abbiano scelto di muoversi soltanto a rimorchio dell’attacco partito da Washington ridimensiona alquanto le speranze che la Commissione trovi anche il coraggio di emanciparsi dalla latente sudditanza politica di cui soffre nei confronti della Germania e porti fino in fondo la conseguente procedura d’infrazione contro Berlino. Tanto più perché le prime repliche del governo tedesco a queste accuse mostrano una pervicace volontà di proseguire sulla strada intrapresa. Vero è che al momento sono in corso serrate trattative fra Cdu/Csu e Spd per la formazione di un nuovo gabinetto Merkel che i socialdemocratici vorrebbero più orientato a una strategia economica di espansione della domanda interna ed europea, ma le posizioni del partito della Cancelliera uscente ed entrante non paiono granché discostarsi dalle rigidità del recente passato. Ai rilievi sugli effetti negativi generali provocati dai propri surplus commerciali l’attuale ministro dell’Economia ha replicato, in sostanza, invitando gli altri paesi a fare come la Germania in materia di esportazioni senza nemmeno rendersi conto di cadere in una trappola dialettica clamorosa. Perché come gli ha fatto sarcasticamente notare uno dei più autorevoli critici della politica tedesca, il premio Nobel Paul Krugman, «l’idea di un mondo in cui tutti sono in forte attivo della bilancia commerciale presenta qualche falla logica». Il problema cruciale, a questo punto, non è più tanto quello di trovare argomenti per denunciare l’ottusità della linea economica che Berlino impone all’Europa: ce ne sono ormai a iosa e il citato Krugman, per esempio, ne offre di nuovi ogni settimana. Ciò che oggi occorre è un’azione politica forte e congiunta delle altre tre maggiori economie dell’eurozona (Francia, Italia e Spagna) mirata ad aprire un contenzioso politico formale con la Germania, così incoraggiando anche la Commissione di Bruxelles a uscire dal complesso d’inferiorità che segna ogni sua iniziativa quando si tratti di contrastare gli interessi di Berlino. Certo, non è impresa facile far muovere all’unisono Parigi con Roma e Madrid: la tentazione soprattutto francese di ricavare qualche regalia in più in un rapporto bilaterale con i tedeschi è ancora radicata. Resta, però, il dato di fatto che soltanto una pressione a tre - via Bruxelles - può avere qualche probabilità di successo nel far cambiare rotta alla Germania. In proposito, almeno a prima vista, si può riconoscere che il nostro presidente del Consiglio qualcosa fa o, meglio, dice. Enrico Letta è andato al congresso della Spd a Lipsia per proclamare che «di austerità si può anche morire», soggiungendo che sulla strada attuale del rigore “über alles” le prossime elezioni del parlamento europeo potrebbero portare a Strasburgo compatti manipoli di partiti ferocemente contrari all’Unione europea. Giusto, giustissimo, ma si tratta soltanto di belle parole. Quanto alle iniziative politiche concrete per una svolta economica in Europa il nostro premier rinvia al momento in cui l’Italia avrà la presidenza del consiglio europeo nel secondo semestre dell’anno prossimo. E questo è sbagliato, sbagliatissimo: si tratta di agire “hic et nunc” come si diceva una volta. Sopratutto perché - posto pure che la guida italiana dell’Europa produca i cambiamenti attesi - gli effetti economici delle novità comincerebbero a manifestarsi non prima del 2015 e si dispiegherebbero in termini di vita sociale soltanto nel 2016. Troppo tardi sia per rispondere al malessere di decine di milioni di europei sia per arginare la montante marea populista contro l’euro e l’Unione. 26 novembre 2013 © Riproduzione riservata Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/11/21/news/solo-l-asse-latino-potra-salvarci-1.142090
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« Risposta #205 inserito:: Dicembre 28, 2013, 11:55:16 pm » |
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Massimo Riva Avviso ai naviganti Quanti abbagli per i tolemaici della lira Berlusconi, Grillo e la Lega vogliono ripudiare l’euro. Convinti che il ritorno a una moneta debole ridarebbe fiato all’economia. Ma non è così: è stata proprio la droga delle svalutazioni in serie a produrre i guasti peggiori Lo spaccio di una nuova bestia trionfante minaccia di imbrogliare, ogni giorno di più, il dibattito politico sul destino dell’Italia in Europa. Da più parti, infatti, giungono chiari segnali di imbarbarimento del confronto. Quasi che le dure ristrettezze economiche del Paese abbiano già prodotto un effetto pericolosamente restrittivo anche delle capacità intellettive di non pochi attori della scena politica. Accade così che si affaccino insistenti proposte - tanto più disinvolte quanto di più facile smercio demagogico - per risolvere tutti i problemi del Paese con un colpo di magia: l’abbandono dell’euro per un ritorno alla lira. Se ne fanno alfieri da tempo i leghisti, ora la stessa palla è lanciata ancora più in alto da Beppe Grillo che rievoca con focosa nostalgia l’antico partito della svalutazione. Quanto alla nuova/vecchia Forza Italia, Silvio Berlusconi ha già fatto intendere che la polemica contro la moneta unica sarà al centro della sua prossima campagna elettorale per il parlamento di Strasburgo e, se la situazione interna dovesse precipitare, anche per quello di Roma. È poco chiaro quanto questo variopinto gruppo di, chiamiamoli così, “tolemaici della lira” creda davvero in quello che propone e quanto, invece, dei loro propositi sia soltanto frutto di un’estemporanea deriva propagandistica. Fatto sta che il tema dell’euro sì o no - anche se non proponibile come referendum a termini di Costituzione vigente - dominerà i prossimi mesi sull’onda del voto per il Parlamento europeo. I fautori della fuoriuscita dall’euro sorvolano con grande vaghezza sulle non poche controindicazioni implicite in una simile scelta. Nulla dicono, per esempio, sulle conseguenze per la gestione di un debito pubblico che andrebbe comunque rimborsato in euro. E se qualcosa dicono, com’è il caso di Grillo, si improvvisano rivoluzionari (da cortile paesano) suggerendo la moratoria dei debiti verso l’estero. Così dimenticando la storica lezione di un rivoluzionario vero, Leone Trotskij, che fu rapidamente rimosso dal primo governo bolscevico proprio per aver inaridito le fonti di finanziamento della nascente Unione sovietica con una scelta consimile. Ancor più allarmante, tuttavia, è che i “tolemaici della lira” considerino un argomento di forza a loro favore proprio quello che rappresenta il punto più debole e pericoloso della loro proposta. Ovvero la possibilità di offrire in pasto a un sistema produttivo fiaccato dalla crisi una robusta svalutazione (20 o 30 per cento) del cambio lira/euro: al fine di restituire alle imprese domestiche in termini di prezzi quella competitività che le medesime non sono riuscite a guadagnarsi per altre vie. Ipotesi che prefigura per il futuro del Paese niente di meglio se non il ritorno al peggiore cancro del passato. Quello delle ricorrenti svalutazioni competitive responsabili di aver drogato con crescenti dosi di morfina monetaria il sistema produttivo. Al costo - ma su questo si tace - di debilitare in ampi settori la capacità di tener testa alla concorrenza internazionale in termini di innovazione, di investimenti, insomma di ricerca di maggior valore aggiunto. Proprio le difficoltà incontrate dall’apparato industriale italiano nel convivere con una moneta più stabile quale l’euro sono oggi la prova provata di quali e quanti guasti siano stati prodotti con la prolungata somministrazione dell’oppio delle svalutazioni facili. Era ed è evidente che la disintossicazione del nostro sistema imprenditoriale non poteva essere opera rapida e facile, tanto più in anni di crisi economica generalizzata. Ma il fatto che la nostra bilancia commerciale sia oggi in pur modesto attivo, anche con un euro ben tonico sul mercato dei cambi, indica comunque l’esistenza di imprese - che non saranno magari l’Alitalia o la Fiat - in grado di cavarsela egregiamente senza “pere” valutarie. Dunque, chi vaneggia di ritorno alla lira non compie soltanto un crimine di bassa demagogia politica ma suggerisce un errore economico esiziale per il futuro del Paese. 16 dicembre 2013 © Riproduzione riservata Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/12/11/news/quanti-abbagli-per-i-tolemaici-della-lira-1.145601
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« Risposta #206 inserito:: Gennaio 24, 2014, 05:47:45 pm » |
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Massimo Riva Avviso ai naviganti Toh, è tornata la lotta di classe Il vero scontro politico, più che sul taglio alle imposte sul lavoro, riguarda la tassazione degli immobili. Perché se si vogliono trovare le risorse per sostenere la crescita è da lì che bisogna attingere. E invece il governo Letta fin dall’inizio... Davvero pessimo il finale di partita 2013 del governo Letta. Pasticciato e convulso nelle procedure quanto contraddittorio e carente nelle scelte di sostanza. L‘entrata in porto della madre di tutte le leggi – ovvero quella detta di stabilità – è stata gestita in un clima caotico di passi prima in avanti e poi all’indietro che ha reso nebbiosa e indecifrabile la supposta strategia economica del governo. Mai, per esempio, s’era visto il ricorso a decreti d’urgenza per modificare nel giro di poche ore norme fatte appena approvare con voto di fiducia. Eppure proprio così è accaduto per quanto riguarda i cosiddetti “affitti d’oro” delle Camere ovvero la doverosa cancellazione di tagli finanziari punitivi per i Comuni esemplarmente nemici delle “slot machine”. Ma insomma, visto che si era scelta la strada di ricorrere al voto di fiducia, non si poteva avere almeno la buona volontà di sottoporre al Parlamento un testo ripulito da così tante incongruenze? Almeno si sarebbe evitato di offrire al paese l’immagine di un esecutivo incapace di destreggiarsi perfino nei percorsi legislativi. Quanto alla sostanza della Legge di stabilità, le note sono ancora più dolenti perché i suoi effetti si dispiegheranno nel corso dell’anno appena iniziato. Il nodo principale riguarda quello che tutti indicano come il maggior freno alla ripresa di una crescita di cui forse si può cominciare a scorgere qualche primo e timido germoglio: l’eccessiva tassazione sul lavoro. Non che manchi un’iniziativa di taglio al cosiddetto cuneo fiscale, ma con una penuria di risorse tale da far seriamente temere l’inefficacia a consuntivo del provvedimento. Anche perché ha francamente il sapore di una presa in giro l’impegno a fare di più in corso d’anno coi fondi che saranno recuperati dai tagli di spesa o dal contrasto all’evasione fiscale: tutti questi eventuali risparmi o maggiori incassi sono stati vincolati in via privilegiata ad altre assai probabili esigenze di bilancio corrente. Si fa presto a dire che i limiti evidenti di questa manovra sono figli di un ostacolo oggettivo: la coperta corta dei conti pubblici. Il dato è inconfutabile ma riparandosi dietro questo schermo si rischia di nascondere agli italiani un’altra parte essenziale di verità. C’è, infatti, nella nascita del governo Letta una sorta di peccato originale che ne ha condizionato pesantemente l’agilità di manovra: quella abolizione dell’Imu sulla prima casa che è stato il pedaggio imposto da Silvio Berlusconi per dare il via alla formazione del governo di larghe intese. Da una coperta già corta di suo si è così passati a una cortissima: con oltre 4 miliardi in meno da spesare in alternativa proprio alle risorse che si sarebbero potute ben più utilmente impegnare sul fronte della tassazione di lavoro e imprese. Cosicchè, in un paese in serie difficoltà per una congiuntura economica avversa da oltre cinque anni, è toccato di assistere allo spettacolo demenziale di un dibattito politico concentrato in via ossessiva per mesi sul tema dell’Imu. Senza che nessuna o quasi nessuna voce della classe dirigente – neppure la Confindustria che oggi leva alti e tardivi lai – trovasse il coraggio tempestivo e senza remore di denunciare tutta la strumentalità demagogica dell’operazione offrendo così al pur pavido e remissivo Enrico Letta una sponda per non arrendersi al nefasto diktat berlusconiano. La cui coda velenosa, purtroppo, minaccia di intossicare il confronto politico nel corso dell’anno corrente anche a cavaliere dimezzato. Dicono tutti, infatti, che oggi la priorità è più che mai quella di spingere la crescita economica ma poi - com’è, come non è - a tenere sempre banco è il tema della tassazione dei beni immobili. A parole in cima all’agenda c’è il taglio alle imposte sul lavoro, nei fatti a prevalere è lo scontro sulle rendite fondiarie. Una contraddizione politica dietro la quale, alla fine, si riaffaccia un’antica conoscenza della storia: la lotta di classe. Nel cui segno, piaccia o no, si è chiuso il 2013 e si apre anche il 2014. 06 gennaio 2014 © Riproduzione riservata Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/01/03/news/ttoh-e-tornatala-lotta-di-classe-1.147544
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« Risposta #207 inserito:: Gennaio 29, 2014, 04:59:05 pm » |
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Mastrapasqua, il boiardo multiplo: un'intollerabile degenerazione organizzativa di MASSIMO RIVA Fa bene Letta a chiedere la "massima chiarezza" sul caso Mastrapasqua soggiungendo nel "rispetto dei cittadini". Infatti, al di là degli aspetti penali la vicenda richiama l'attenzione degli italiani su un'inconcepibile degenerazione organizzativa dei pubblici uffici.Basti dire che un incarico così importante e delicato quale la presidenza dell'Inps - il gigante della previdenza sociale - dovrebbe essere ragionevolmente ricoperto da una persona che vi si possa dedicare in via esclusiva. Sta, viceversa, venendo alla luce che l'indagato Antonio Mastrapasqua oltre alla poltrona di vertice dell'istituto previdenziale ne occupa, a vario titolo, almeno un'altra ventina in enti di diritto sia pubblico sia privato. Una simile situazione lascia esterrefatti. Ma non tanto per quanto riguarda l'evidente bramosia di potere (e connesse prebende) della singola persona. Ciò che allarma ben di più è che la struttura amministrativa dello Stato sia oggi siffatta da aver tollerato la costruzione passo a passo di un tale cumulo di incarichi senza che nessuno abbia alzato almeno un sopracciglio. Non chi ha governato nel frattempo e pure non perde occasione per squadernare promesse di moralizzazione della vita pubblica. E neppure chi dal versante dei sindacati aveva e avrebbe titolo e poteri da esercitare in tema di gestione dell'Inps. Come dire che, nel caso specifico, casta politica e società civile si sono trovate d'amore e d'accordo nel non voler vedere ciò che, ai rispettivi livelli di conoscenza, non poteva non essere visto. Viene perciò da porsi un interrogativo increscioso ma inevitabile: quanti altri casi Mastrapasqua si nascondono, al riparo di occhi conniventi, negli uffici pubblici e quindi nei capitoli di spesa del bilancio dello Stato? Quesito che porta a porne altri e anche peggiori. Il potere politico sa esercitare il doveroso controllo sulle strutture della pubblica amministrazione? Ovvero nei pubblici uffici si è ormai consolidata una corporazione di alti burocrati che, sulle orme dei boiardi delle aziende di Stato, è in grado di perseguire propri e autonomi interessi in barba perfino ai mutamenti delle stagioni politico-parlamentari? Sono dubbi pesanti perché attengono all'identità stessa della funzione statale e fanno temere che, attraverso scivolamenti progressivi nel corso degli anni, il supposto primato della politica sia diventato un fragile simulacro dietro il quale operano in realtà persone e consorterie del tutto prive di investitura elettorale ma ben corazzate da occulte pattuizioni di potere. Bene, allora, che Enrico Letta chieda la massima chiarezza sul caso Mastrapasqua. Ma perché questa richiesta suoni credibile per il paese occorre che la verità sollecitata dal presidente del Consiglio si spinga ben più in là del vertice Inps. C'è una "spending review" da fare che vada oltre l'esame puntuale dei singoli capitoli di spesa o i risparmi da realizzare unificando i costi d'acquisto delle siringhe del servizio sanitario. Si tratta di compiere una revisione radicale delle strutture stesse in cui è articolata la pubblica amministrazione perché è qui che si annidano le fonti spesso occulte di ingovernabilità del bilancio. Se così avverrà, anche della vicenda Inps potrà dirsi oportet ut scandala eveniant. Altrimenti anche le parole del presidente del Consiglio resterebbero chiacchiere al vento. Stampa © Riproduzione riservata 27 gennaio 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/27/news/boiardo_multiplo-77010057/
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« Risposta #208 inserito:: Gennaio 30, 2014, 11:56:55 pm » |
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Massimo Riva Avviso ai naviganti E ora Hollande corteggia la Merkel Altro che asse mediterraneo con Italia e Spagna: il presidente francese adesso punta tutto su un patto con la Germania per dettare la linea all’Unione europea. E il nostro governo rischia l’isolamento politico La curiosità frustrata per i segreti d’alcova dell’Eliseo ha finito per oscurare, nella stampa e nell’opinione pubblica, l’importanza della strategia indicata da François Hollande per il futuro prossimo dell’Europa. Un brutto abbaglio soprattutto per chi, come l’Italia in primo luogo, avrebbe interesse alla formazione di un blocco triangolare (con Francia e Spagna) da contrapporre alle persistenti rigidità del governo tedesco sulle politiche di contrasto alla crisi economica. Invece, altro che Parigi critica verso Berlino, come molti in cuor loro confidavano: è accaduto l’opposto. Con reiterata insistenza, infatti, il presidente francese ha ribadito la scelta di Parigi per un ancor più solido asse franco-tedesco a guida dell’Unione. E lo ha fatto in concreto specificando anche tre settori strategici di collaborazione rafforzata fra i due paesi. In primo luogo, quello della difesa con una maggiore integrazione sul campo fra le rispettive forze armate sulla scorta di quanto già in programma con interventi congiunti in Africa centrale. In seconda istanza, Hollande ha messo il surplus francese nella produzione di energia elettrica a disposizione di un’intesa privilegiata in materia con la Germania. Infine, Parigi intende aprire un cantiere fiscale bilaterale per l’armonizzazione dei trattamenti fiscali delle imprese di qua e di là del Reno. Tutti progetti che suonano come campane a morto per le speranze di poter costruire un fronte politico “mediterraneo” teso a contrastare quella linea dell’austerità contabile “über alles” che Berlino continua a voler stringere come un cappio al collo delle economie più fragili di Eurolandia. Tanto più alla luce di un altro annuncio di Hollande secondo cui il governo di Parigi intende mettere al più presto in campo un piano di sgravi da 30 miliardi per ridare ossigeno al proprio sistema produttivo in difficoltà. Ce n’è più che abbastanza per tirare una prima conclusione assai poco rassicurante per il nostro paese: in Europa oggi l’Italia è sola con i suoi problemi (debito crescente, domanda interna calante, occupazione latitante) e rischia l’isolamento politico se non trova al proprio interno la forza di bloccare la deriva deflazionistica verso la quale sta pericolosamente inclinando. In questo scenario, sconcertano non poco le diatribe domestiche sui decimali di punto di aumento che il Pil potrebbe avere fra quest’anno e il prossimo. Sarà più 0,7 ovvero più un punto intero? E allora? Una collaudata esperienza economica dice: 1) che tra riavvio della crescita e ripresa dell’occupazione c’è un divario temporale di uno o due anni; 2) che l’offerta di nuovi posti si consolida solo quando i tassi di crescita sono ben superiori al punto percentuale. Prospettive che lasciano ancora più sgomenti dinanzi alla pochezza delle iniziative messe finora sul tappeto da governo e forze politiche. Già la manovra sul cuneo fiscale risplende solo per insignificanza quantitativa, ma anche le più recenti proposte di riforma del mercato del lavoro, che pure contengono idee valide e propositi apprezzabili, non riescono a emanciparsi da una visione minimalista dei problemi. Ben venga, per carità, un po’ di buon “bricolage” legislativo e contrattuale. Ma non si creda che questa sia la via maestra per mandare a regime il motore della crescita. Il nodo cruciale oggi è la caduta della massa salariale (in quantità globale e in numero di persone) che sta inaridendo progressivamente la domanda interna togliendo così al sistema produttivo la sua fonte primaria di sopravvivenza. Non esistono strategie univoche per aggredire un simile macigno: riforme delle regole di mercato (del lavoro come del credito), redistribuzione dei redditi e dei pesi fiscali ma anche spesa pubblica riveduta e riorientata agli investimenti sono interventi di evidente utilità. Ma ad una condizione: che siano realizzati simultaneamente. Non sembra di poter cogliere nella classe dirigente, politica e imprenditoriale, la consapevolezza di questa urgenza. 27 gennaio 2014 © Riproduzione riservata Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/01/22/news/e-ora-hollande-corteggia-la-merkel-1.149498
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« Risposta #209 inserito:: Febbraio 20, 2014, 11:28:17 am » |
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Massimo Riva Avviso ai naviganti Se Obama sembra un bolscevico La proposta di aumento del salario minimo ai dipendenti federali è stata bollata come socialista. Ma il presidente mira a difendere il potere d’acquisto per rafforzare i consumi. E favorire le imprese Un altro “bolscevico” alla Casa Bianca? Sono passati ottant’anni da quando il “new deal” di Franklin D. Roosevelt aveva attirato sull’allora presidente questa sprezzante invettiva da parte dell’America capitalista. Ora la storia sembra ripetersi dopo l’ultima mossa economica di Barack Obama che, nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione, ha annunciato due iniziative destinate a creare non poche polemiche. La prima, quella di un decreto per aumentare il salario minimo dei dipendenti federali da 7,25 a 10,10 dollari l’ora. La seconda, quella della richiesta al Congresso per l’introduzione di una sorta di scala mobile con paga oraria indicizzata all’inflazione. L'area di Impatto della prima novità – ancorché rilevante col suo 40 per cento in più – appare al momento circoscritta a poche migliaia di lavoratori. Soltanto col tempo, attraverso i rinnovi contrattuali, finirà per estendersi a una platea di lavoratori numericamente più significativa. Ma ciò è bastato ad attirare sulla Casa Bianca i fulmini di Wall Street e dei capi delle grandi corporation. Agli occhi dei quali la mossa del presidente, pur nel suo peso economico limitato, è parsa come il segnale di una svolta scandalosamente socialista nella conduzione politica del paese. Né più né meno di quanto accadde, appunto, negli Anni Trenta quando Roosevelt salvò il capitalismo americano dai suoi catastrofici errori introducendo nel sistema dosi crescenti di regolazione del mercato e di tutele dei redditi più bassi. Si annuncia così una dura battaglia in Congresso per quanto riguarda l’altro annuncio di Obama in tema di scala mobile. Con echi perfino in Italia dove l’ipotesi è stata oggetto di commenti ferocemente critici in memoria di quella sorta di guerra di religione in materia che lacerò il Paese durante gli Anni Ottanta. Molti così dimenticando alcune differenze fondamentali fra l’Italia di allora e gli Usa di oggi. Intanto quella fra il tasso d’inflazione corrente da noi in quel tempo e quello attuale da loro. Ma poi, soprattutto, perdendo di vista l’approccio fortemente pragmatico della politica americana nelle scelte economiche: lo stesso presidente può introdurre la scala mobile quest’anno e tranquillamente revocarla fra un paio d’anni una volta raggiunto l’obiettivo prestabilito. E qui siamo al punto cruciale. Obama non si muove a caccia di facili consensi popolari: non ne ha neppure bisogno visto che non è rieleggibile. La sua è un’iniziativa squisitamente economica che mira a salvaguardare il potere d’acquisto dei salari ovvero a rafforzare la domanda interna per consumi nella convinzione che l’attuale relativa debolezza del dollaro spingerà questa stessa domanda a soddisfarsi prevalentemente con prodotti “made in Usa”. Quindi, altro che piombo nelle ali delle imprese: con una mossa apparentemente incongrua, la Casa Bianca mira a consolidare gli spazi di mercato interno per la produzione domestica. La lezione americana manda così anche all’Europa due messaggi di grande importanza. Il primo che la solidità di un sistema produttivo dipende certamente dalla sua capacità competitiva sui mercati esteri, ma non può reggere nel tempo senza avere alle spalle un mercato interno che sia robusto e vitale. Il secondo che la svalutazione progressiva del potere d’acquisto dei salari è la strada più sicura per inaridire la fonte principale di alimentazione delle imprese stesse. Insegnamenti i quali sottolineano la miope ottusità di chi considera i tagli salariali come la principale o addirittura l’unica via d’uscita dalla crisi. Abbaglio tanto più grave in un Paese come l’Italia, dove la corsa alla riduzione dei salari non appare altro che una variante di quella politica di mera sopravvivenza che si è realizzata in passato con le continue svalutazioni competitive del cambio. Cosicché cambia il nome della droga ma non si guarisce dal vecchio vizio di scaricare a valle sui lavoratori gli errori a monte di una classe imprenditoriale in troppo larga misura riluttante a investimenti e innovazioni. 17 febbraio 2014 © Riproduzione riservata Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/02/12/news/se-obama-sembra-un-bolscevico-1.152768
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