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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 101920 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Maggio 10, 2012, 11:33:04 pm »

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Opinione

Se la cura ci sta uccidendo

di Massimo Riva

Il famoso 'rigore' e il mitico 'pareggio di bilancio' sono come quelle medicine che forse debellano qualche batterio, ma in dosi troppo massicce debilitano l'organismo fino ad abbatterlo. Che anche Draghi e Monti se ne stiano finalmente accorgendo?

(10 maggio 2012)

Udite, udite... La parola "crescita" è riapparsa all'improvviso sulle bocche di alcuni fra i maggiori custodi di quelle politiche di austerità che non hanno ancora consolidato i conti pubblici dei paesi più esposti, ma già minacciano di trascinare l'intera zona euro in una recessione di lunga durata. A suonare la sveglia per primo è stato niente meno che il presidente della Bce, Mario Draghi, davanti al Parlamento di Strasburgo. Il supremo guardiano della stabilità monetaria di Eurolandia non solo ha riconosciuto che le pur necessarie strategie del rigore sono un serio ostacolo alla ripresa delle attività produttive, ma ha anche esplicitamente raccomandato di porre in cima all'agenda dell'Europa proprio il tema della crescita dell'economia reale ovvero di quella produzione di beni e servizi dalla quale soltanto ci si può attendere nuova e maggiore occupazione.

Sotto questa autorevole copertura anche il governo italiano ha trovato di colpo il coraggio di far uscire alla luce del sole l'intenso lavorio diplomatico in corso per spianare la via a un'intesa europea mirata al rilancio dell'economia continentale. Perfino la finora implacabile sacerdotessa del rigore, Angela Merkel, ha lanciato segnali di apertura sul nodo della crescita lasciando intravedere che l'occasione per compiere i primi passi in avanti potrebbe essere il vertice dei capi di Stato e di governo dell'Unione in programma a fine giugno prossimo.

Che si tratti di segnali importanti è fuor di dubbio. La speranza è che finalmente ci si stia accorgendo che le potenti cure di austerità fiscale, pur inevitabili per combattere le diffuse infezioni nei conti pubblici, agiscono come gli antibiotici: eliminano di sicuro alcuni batteri, ma debilitando l'organismo fino al punto di esporlo ad altri attacchi nocivi. Ovvero, fuor di metafora, che se il fatidico pareggio di bilancio viene raggiunto al prezzo di deprimere troppo consumi e investimenti, l'agognata sostenibilità dei debiti pubblici diventa un obiettivo irraggiungibile per contrazione progressiva delle basi imponibili. Con il rischio di innescare così un avvitamento a spirale verso quella caduta in " default" che si vorrebbe scongiurare con le terapie del rigore.

Purtroppo, però, è ancora presto per interpretare questi indizi di svolta come avvisaglie di un cambiamento di rotta effettivamente in corso. Quanto alla Bce, per esempio, va ricordato che, quando si è trattato di spingere il governo italiano a rimettere urgentemente ordine nei suoi conti, da Francoforte è partita una lettera di messa in mora ricca di richieste specifiche e ultimative alle quali mancava solo l'indicazione dell'orario di sveglia mattutina degli italiani. Mentre ora sul nodo della crescita, Draghi s'è limitato a evocarne la utilità, ma nel vuoto di qualunque proposta o anche solo suggerimento concreti.

Quanto alle sperate novità nell'atteggiamento di Berlino, occorre essere quanto mai cauti. I prossimi passi della Germania appaiono fortemente condizionati dalla fitta agenda elettorale europea dei prossimi giorni e settimane. Intanto dall'esito delle presidenziali francesi, ma soprattutto dai risultati del voto in due länder tedeschi di qui a metà maggio. Non illudiamoci. Angela Merkel non è Helmut Kohl: confermerà o smentirà le sue aperture sulla politica europea in funzione dei suoi problemi interni.

 
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« Risposta #181 inserito:: Maggio 19, 2012, 10:47:20 am »

Polemica

L'intoccabile casta dei boiardi

di Massimo Riva

In Italia esiste un grumo di potere fortissimo: i super dirigenti delle aziende a partecipazione statale.

Che non solo hanno stipendi da favola, ma grazie ai capitali che muovono spesso tengono sotto ricatto la politica.

Qualcuno se ne vuole occupare?

(16 maggio 2012)

Eugenio Cefis Eugenio CefisE' passata giusto una ventina d'anni da quando, con un felice colpo di mano legislativo, Giuliano Amato intonò il "requiem" per le Partecipazioni Statali. La sua fu una mossa al tempo stesso semplice e però rivoluzionaria. Fu sufficiente, infatti, imporre alle imprese pubbliche di trasformarsi in società per azioni e un intero sistema di potere crollò su se stesso per impossibilità di sopravvivere secondo le normali regole del codice civile.

Che speranze e che cori di tripudio si sollevarono allora nel paese nella convinzione che la ramazza di Amato avrebbe così spazzato via una volta per tutte quella perniciosa genìa di tracotanti boiardi di Stato che dai vertici delle loro aziende si erano ormai trasformati da controllati in controllori di quello stesso potere politico da cui derivavano la propria investitura. Una metamorfosi il più delle volte compiuta a suon di quattrini pubblici di volta in volta elargiti o negati a questo o quel partito ovvero a questa o quella fazione al fine neanche troppo nascosto di determinare il corso degli eventi politici al punto da poter condizionare nascita, vita e morte dei governi nazionali. Una degenerazione istituzionale che raggiunse forse l'abisso più profondo con le trame di potere tessute dall'autentico principe dei boiardi: Eugenio Cefis. Personaggio che, dapprima dal vertice dell'Eni e poi da quello della Montedison, poteva permettersi di esercitare il ruolo di "king's maker" nella scelta di segretari di partito, ministri, presidenti del Consiglio e perfino della Repubblica.

Da quei lontani anni oscuri ne è passata d'acqua sotto i ponti. La riforma Amato ha davvero cambiato la mappa della presenza statale in economia: non c'è più l'Iri con le sue tre grandi banche d'interesse nazionale, il gigante Telecom è uscito dalla mano pubblica, di enti rovinosi come Efim o Egam non v'è più traccia. Cosicché molti boiardi o boiardini non hanno più le numerose poltrone di un tempo su cui sedersi, ma non c'è spazio per illusioni: la loro specie è tutt'altro che estinta. Magari ha addolcito qualche eccesso di prevaricazione, si è adattata darwinianamente ai mutamenti dell'ambiente politico, ha scoperto nuove terre più defilate di conquista. In ogni caso quel che conta - l'osso del potere autoreferenziale - non l'ha mollato sempre sfruttando con abilità i peggiori istinti di una classe politica per lo più insensibile alla distinzione fra interesse di parte e senso dello Stato.

Di questo neoboiardismo trionfante costituiscono un primo e preclaro esempio le recenti vicende di Finmeccanica, dentro le quali è facile ritrovare un po' tutti i vizi del passato: dalla sponsorizzazione partitica degli incarichi fino all'impotenza della politica nel gestire la crisi dell'azienda a causa dei ricatti sotterranei minacciati dai manager in disgrazia. Un altro, ancorché meglio dissimulato, caso di vigorosa sopravvivenza della classe boiarda è oggi quello offerto dalla variopinta galassia delle Fondazioni cosiddette ex-bancarie i cui esponenti hanno saputo strappare a parlamento e governi una signoria così autoreferenziale da trasformarsi in una casta inattaccabile dall'esterno addirittura sotto l'egida di una legge dello Stato.

Peggio i vecchi o i nuovi boiardi? La migliore risposta sta in un vecchio aforisma francese: "Plus ça change et plus c'est la même chose".

 
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« Risposta #182 inserito:: Giugno 05, 2012, 07:07:52 pm »

Opinione

Dai salari tedeschi benzina per l'Europa

di Massimo Riva

(24 maggio 2012)

 Qualcosa sembra si stia muovendo in Germania. Appena prima che il rigorismo contabile di Angela Merkel uscisse malconcio dal summit del G8, industriali e sindacati tedeschi hanno firmato un accordo che concede ai lavoratori metalmeccanici aumenti salariali del 4,3 per cento. Un incremento che è il più alto da vent'anni a questa parte e che si segnala soprattutto per un valore più che doppio dell'inflazione corrente, contenuta al 2,1 per cento secondo l'ultima rilevazione. Al di là delle cifre, comunque, il dato più sorprendente viene dal clima generale che ha fatto da cornice a questa intesa.
 
Intanto, il potente sindacato Ig Metall non ha avuto nemmeno bisogno di ricorrere alla classica arma dello sciopero generale, gli è bastato minacciarlo. L'industria del settore, soprattutto quella automobilistica, sta coltivando con sagacia il mercato delle esportazioni e nelle fabbriche si lavora a pieno ritmo per cui il rischio di veder fermare la produzione è stato giudicato dalle imprese come un lusso che non si potevano concedere. Meglio aumentare le buste-paga e continuare a sfornare prodotti sui mercati.
 
Ancora più stupefacente è stata, però, la sostanziale indifferenza con la quale dal tempio del massimo rigore teutonico - la Bundesbank - si è seguita la vicenda. Sì, qualche richiamo alla misura non è mancato, ma in termini così cauti e smorzati rispetto al passato che tutte le parti in causa si sono sentite di fatto autorizzate a concludere l'accordo. Un atteggiamento davvero singolare. Basti ricordare che nei giorni scorsi il presidente della banca centrale tedesca si era arrogato perfino il diritto di mandare a dire piuttosto sgarbatamente al neo-presidente francese François Hollande di non permettersi neppure di mettere in discussione i vincoli d'austerità fissati nel "fiscal compact" europeo. Viene da chiedersi: quel che vale per gli altri non vale per la Germania? La domanda richiede una risposta articolata.

Primo punto: gli aumenti salariali dei metalmeccanici fanno in genere da apripista ai rinnovi contrattuali degli altri settori. Ciò fa presagire un significativo incremento della domanda interna tedesca che non dovrebbe esaurire i suoi effetti soltanto sul mercato domestico. Sotto questo aspetto, quindi, i maggiori consumi tedeschi potranno in parte tradursi in un beneficio anche per gli altri paesi europei raddrizzando almeno un poco gli squilibri commerciali presenti nella zona Euro.
 
Punto secondo: si conferma così, tuttavia, anche il senso più profondo della strategia economica seguita dal governo di Berlino. Non è che la Germania voglia rinunciare al ruolo di locomotiva del convoglio europeo, solo che intende esercitare questo potere in tempi e modi che siano funzionali ai propri specifici interessi nazionali. Lo si era già visto con la crisi greca la cui gestione è stata subordinata essenzialmente alla protezione delle banche tedesche esposte in quel paese. E la storia si ripete oggi con il contratto dei metalmeccanici la cui conclusione potrà anche avere l'effetto collaterale di qualche vantaggio per il resto d'Europa ma appare ispirata in via prioritaria all'esigenza di una redistribuzione del reddito interno più funzionale al mantenimento del primato del "made in Germany". Insomma, quel che si sta muovendo a Berlino è ancora lungi dall'assunzione di una responsabilità europea. Germania

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« Risposta #183 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:28:32 pm »

 
Opinione

Politica debole, di chi è la colpa

di Massimo Riva

E' vero che oggi troppe decisioni vengono prese dalla finanza e quindi la democrazia è zoppa. Ma sono i governanti eletti che devono ribaltare questa situazione. Che non è ineluttabile

(13 settembre 2012)

Decide il voto e non i banchieri, proclama Pier Luigi Bersani. Impeccabile: in qualunque democrazia, degna di questo nome, è il popolo sovrano a scegliere governi e programmi di governo. Ma il fatto che il segretario del Pd senta il bisogno di fare un'affermazione così ovvia è rivelatore di qualche non piccolo problema emerso sul terreno della normale dialettica fra i due maggiori poteri: quello della politica e quello dell'economia. Leggere un simile conflitto in un'ottica strettamente italiana sarebbe però riduttivo e fuorviante come lo è l'attuale dibattito sul sì o sul no a un Monti-bis dopo le elezioni della prossima primavera.

A ben vedere il caso Italia altro non è che la manifestazione periferica di un ben più ampio processo di traslazione di potere dalla politica all'economia in corso da anni a livello planetario. E non solo perché lo tsunami finanziario del 2007/2008 ha messo in luce fin dal principio quella debolezza o addirittura gregarietà dell'azione politica rispetto ai poteri finanziari che è poi il succo della micidiale formuletta "too big to fail". Si veda il caso degli Stati Uniti. Il fatto che la Casa Bianca sia stata costretta a impegnare risorse pubbliche gigantesche per tamponare i disastri provocati dalla finanza corsara può essere letto soltanto a prima vista come un recupero di ruolo e di peso da parte della politica. In realtà si è trattato di operazioni eseguite in forza di uno stato di necessità (per evitare guai peggiori) subito dall'istituzione democraticamente eletta e, in termini pratici, gestito da un potere tecnocratico collaterale alla filiera elettiva: quello della Federal Reserve. Il cui capo, Ben Bernanke, assomma così oggi nelle sue mani il duplice potere di decidere sia tempi e modi della razione di viveri che viene concessa al sistema finanziario sia la quantità di risorse da immettere nei circuiti dell'economia reale. Tanto da far ritenere che perfino l'esito delle prossime presidenziali dipenda più dalle sue mosse che dai confronti elettorali fra i contendenti.

Una situazione simile è quella che si è creata in Europa attorno al ruolo della Banca centrale di Francoforte. Priva di un principe politico come interlocutore istituzionale, la Bce si è trovata a dover scegliere fra l'accettazione dell'inerzia per difetto di mandato e l'esercizio di una supplenza in mancanza della quale il sistema euro rischia tuttora di collassare. Con la sua recente decisione in tema di interventi sul mercato Mario Draghi ha imboccato la seconda strada. Atto che rimarca l'indipendenza della Bce ma che rende ancora più evidente il difetto strutturale della costruzione europea quanto a legittimazione politico-democratica dei processi decisionali. Una lacuna che dopo l'esplicita richiesta di collaborazione con un altro potere tecnocratico - quello del Fondo monetario - rischia di accrescere l'esautorazione della politica nella gestione della crisi europea. Anche nella più morbida versione di Christine Lagarde, infatti, il Fmi conserva nei suoi interventi una consolidata inclinazione commissariale verso chi ne richiede l'aiuto: come ben si sa oggi in Grecia.

Per tornare all'Italia, resta cosa buona e giusta che Bersani rivendichi un ritorno all'ordinaria legittimazione democratica di chi esercita il potere politico. Ma non basta dire che a decidere non devono essere i banchieri: l'alterazione degli equilibri istituzionali in atto dipende soprattutto dall'abdicazione della politica stessa all'esercizio efficace del suo ruolo. Sintomo questo di un morbo ben più serio e diffuso che stravolge in tutto l'Occidente il rapporto fra potere politico e mercato economico. La libertà di quest'ultimo è stata finora il miglior brodo di coltura per l'affermarsi di democrazie politiche, ma non va dimenticato che il capitalismo ha convissuto anche con regimi autoritari. Tocca alla politica e non ai banchieri impedire un simile arretramento. Ma dov'è questa politica?

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« Risposta #184 inserito:: Ottobre 12, 2012, 10:18:31 pm »

Casta

Ma loro non si tagliano mai

di Massimo Riva

A furor di popolo il Parlamento riduce i consiglieri regionali. Invece la norma che doveva diminuire le poltrone di Camera e Senato è stata infilata nelle 'riforme costituzionali'. In modo da non approvarla (e farla decadere)

(04 ottobre 2012)

Camera: durante il voto sulla spending review, Iole Santelli scatta una foto a Maria Rosaria Rossi Camera: durante il voto sulla spending review, Iole Santelli scatta una foto a Maria Rosaria RossiAnche sui letamai talvolta nascono fiori. Dalla vicenda delle scandalose spese delle Regioni, per esempio, sta spuntando un sussulto di ravvedimento che dovrebbe dare tagli significativi ai costi smodati della politica domestica. Sono stati gli stessi presidenti degli enti locali, infatti, a chiedere che si riduca di qualche centinaio di poltrone l'esorbitante numero dei circa 1.100 consiglieri regionali attuali. I cosiddetti governatori avrebbero fatto miglior figura se si fossero dati una mossa prima che montasse la furiosa ondata di sdegno popolare. Resta il fatto positivo che a breve – dato che s'intende procedere per decreto-legge – una discreta sforbiciata dovrebbe cadere su almeno un versante della inutilmente pletorica rappresentanza politica a livello locale.

IL PAESE RISCHIA, però, di assistere a uno spettacolo davvero paradossale. Quello di deputati e senatori pronti a convertire in legge il provvedimento che taglia il numero delle poltrone regionali senza aver fatto nulla per quanto riguarda la riduzione delle rispettive e non meno sovrabbondanti assemblee. Impegno che da anni viene proclamato da ogni parte politica come passo indispensabile sia per rendere più funzionale il lavoro di Camera e Senato sia per offrire un responsabile contributo al contenimento della spesa pubblica. Ma anche impegno che poi risulta sistematicamente disatteso in un turbinio di astuzie tattiche e di alibi procedurali il cui fine inconfessato è di tenere la questione su un binario morto.

La prova di queste cattive intenzioni è data da quanto accaduto nel corso dell'ultimo tentativo di far pronunciare il Parlamento in materia. Vero è che, prima della pausa estiva, il Senato ha votato una modesta riduzione dei membri della Camera dagli attuali 630 a 500. Ma è altrettanto vero che questa ipotesi è inserita in un disegno di legge di riforma costituzionale che prospetta addirittura il passaggio a una repubblica semi-presidenziale. Cosicché proponendo un tanto radicale stravolgimento dell'attuale sistema politico mai si potrà raggiungere in questo Parlamento la maggioranza qualificata di voti necessaria per rendere esecutiva la modifica. A inventarsi la furbata di porre il taglio dei parlamentari sotto il cappello impraticabile del semipresidenzialismo sono stati i senatori della vecchia maggioranza Pdl-Lega. E non si racconti la balla che si sia trattato di un errore in buona fede. In materia leghisti e berlusconiani sono recidivi avendo già messo in scena in passato un'identica farsa con un'altra analoga riforma che, unendo la riduzione dei parlamentari a indigeribili modifiche radicali del sistema politico, ha subìto un inevitabile rigetto nel referendum popolare.

DATI SIMILI PRECEDENTI, oggi sarebbe indecoroso agli occhi del paese che il Parlamento votasse la sforbiciata dei consigli regionali, ma non quella delle proprie assemblee. Anche perché questa riduzione darebbe un contributo importante alla "spending review" del bilancio pubblico in quanto un numero minore di parlamentari produrrebbe a cascata anche importanti risparmi in termini di spesa per assistenti, personale strapagato delle Camere nonché per affitti di immobili non più necessari. In breve arco di anni: miliardi, non milioni. Certo ora siamo al mese di ottobre e il tempo stringe perché, essendo materia costituzionale, il taglio dei parlamentari richiede un doppio voto di entrambe le Camere a distanza di 90 giorni l'uno dall'altro. Ma sol che lo si voglia la soluzione del problema è praticabile prima della fine della legislatura. Si tratta di stralciare il tema da altre e del tutto pretestuose ambizioni di riforma del sistema costituzionale per operare un primo voto a Montecitorio e Palazzo Madama entro ottobre in modo da chiudere la partita a gennaio. La riduzione dei parlamentari è la prima e più utile delle riforme elettorali anche al fine di scongiurare la temuta ingovernabilità da frammentazione della rappresentanza politica. Una parola autorevole del Quirinale non guasterebbe.

 
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« Risposta #185 inserito:: Novembre 02, 2012, 05:03:57 pm »

Opinioni

Di falso in bilancio non si parla più

di Massimo Riva

(25 ottobre 2012)

Il ministro della Giustizia Paola Severino Il ministro della Giustizia Paola SeverinoDice il presidente del Consiglio che in tema di legge contro la corruzione il suo governo avrebbe voluto spingersi più avanti. Ma, a mo' di consolazione, soggiunge che neppure gli esecutivi che hanno preceduto il suo - quelli di destra come quelli di sinistra - hanno saputo fare di più. Insomma, Mario Monti riconosce che il testo votato per ora dal solo Senato è debole o addirittura carente sotto aspetti importanti, ma segnerebbe comunque un passo avanti in nome dell'antico detto secondo cui il meglio è nemico del bene. Ci si può accontentare di una giustificazione che regge soltanto sul realismo comparativo con le inerzie del passato?

LA MIA OPINIONE è che no, non ci si può proprio accontentare. Anche perché il disegno di legge ora all'esame della Camera dovrebbe essere una seria ed esaustiva risposta alle forti sollecitazioni europee affinché l'Italia si allinei su questo delicato terreno agli standard legislativi in vigore nei principali paesi dell'Unione. Ha un bel dire il ministro della Giustizia, Paola Severino, che ad alcune fra le più vistose lacune del provvedimento intende porre rimedio con successive iniziative di legge. Coi tempi stretti di qui alla fine della legislatura il suo appare un impegno ad altissimo rischio. Soprattutto per quanto riguarda un nodo fondamentale della legislazione in tema di corruzione. Quello della prevenzione e della sanzione di uno dei reati più gravi in materia: il falso in bilancio, che una riforma voluta dal governo Berlusconi ha largamente depenalizzato allargando a dismisura le maglie attraverso le quali i manipolatori dei conti possono accumulare impunemente il denaro utile a distribuire mazzette di contanti per comprarsi favori pubblici e privati.

Ha detto testualmente al riguardo la presidente della Commissione Giustizia della Camera: «Tutte queste corruzioni spesso trovano il denaro con cui fare affari nei bilanci delle società. Se un paese non fa una buona legge che tuteli questi conti è chiaro che è come se lasciassimo un'enorme cassaforte aperta, dove tutti possono prendere del denaro e usarlo nel peggiore dei modi». Giulia Bongiorno ha colto nel segno. Fa specie, infatti, vivere in un paese nel quale i gendarmi dell'Agenzia delle Entrate vanno giustamente in caccia degli idraulici che si fanno pagare in nero, ma al tempo stesso gli amministratori di azienda possono imbrogliare bilanci anche miliardari al riparo di una legislazione che è davvero eufemistico definire lassista e tollerante.

A un europeista di solida convinzione quale Mario Monti forse è il caso di ricordare la pesante censura espressa dalla Corte di giustizia europea contro la banalizzazione del falso in bilancio operata dal governo Berlusconi. Al punto che l'avvocato generale di quella Corte si spinse nel 2004 a invitare i giudici italiani a disattendere le norme berlusconiane nelle parti in contrasto con le più rigorose direttive dell'Unione sulla materia. Non penso che esporsi a nuove e reiterate reprimende del genere sia opportuno per il paese e neppure per l'immagine internazionale del presidente del Consiglio.

IL FALSO IN BILANCIO è uno dei reati più odiosi contro la fede pubblica che è, a sua volta, il sale di una sana economia di mercato basata sulla lealtà della competizione fra imprese. Lascia interdetti in proposito la sostanziale negligenza con la quale, per esempio, la Confindustria ha seguito l'iter della sedicente legge anti-corruzione. Un sostegno aperto del sindacato delle imprese a norme più incisive avrebbe potuto e potrebbe ancora aiutare Monti e Severino a superare le resistenze dei parlamentari berlusconiani contro ogni revisione della loro deregolamentazione del falso in bilancio. Ciò non toglie, tuttavia, che le maggiori responsabilità per questo buco nero della legislazione cadano in capo all'esecutivo. Così coraggioso sul riordino dei bilanci pubblici il governo dei tecnici si mostra ora pavido sulla correttezza di quelli privati. Non voglio pensar male, ma i conti non tornano.

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« Risposta #186 inserito:: Novembre 27, 2012, 05:40:46 pm »

Ecco: la Merkel ha fatto autogol

di Massimo Riva

Imponendo agli altri paesi europei un rigore esagerato, il governo tedesco ha finito per danneggiare anche l'economia della Germania. Il guaio è che, nonostante i pessimi risultati, la Cancelliera insiste

(15 novembre 2012)

Fa discutere che Mario Monti abbia detto di intravvedere una luce in fondo a quel tunnel che, in verità, alla gran parte degli italiani appare ogni giorno più lungo e oscuro. Certo, nel suo ruolo, il premier ha anche il dovere di lanciare messaggi di speranza. Ma ormai è un fatto che l'orizzonte italiano ed europeo risulta ancora più plumbeo di quanto fosse anche pochi mesi fa. Da ultimo il commissario Ue all'economia, Olli Rehn, ha aggiornato al peggio le previsioni sulla crescita nei paesi dell'Unione. In Italia non ci sarà alcun segno di ripresa nel 2013 e anche per il 2014 le stime sono ben poco confortevoli. Di rincalzo il presidente della Bce, Mario Draghi, ha avvertito che segnali di difficoltà si stanno manifestando perfino nella portentosa Germania, dove le avvisaglie di frenata si moltiplicano di mese in mese. Al punto da far scrivere a un autorevole giornale tedesco che «la locomotiva d'Europa non ce la fa più a trainare il convoglio».

PAROLE SU CUI CONVIENE meditare perché esse mettono a nudo un punto cruciale ovvero quale enorme equivoco continui a falsare i termini del dibattito europeo. Ma quando mai, in questi ultimi anni, la Germania ha fatto da locomotiva per i paesi dell'eurozona? Al contrario: gli ingenti surplus accumulati da Berlino con le proprie esportazioni – verso la Cina ma anche verso il resto d'Europa – hanno requisito a proprio vantaggio quote crescenti della domanda interna altrui rendendo così più arduo quell'aggiustamento fiscale che la stessa Germania intima perentoria ai soci più deboli dell'eurozona. Tanto che oggi la frenata dell'export tedesco ha tra le sue cause principali proprio la caduta dei consumi interni nei paesi che – come l'Italia, fra gli altri – hanno dovuto sottoporsi a una disciplina contabile di sicuro necessaria ma che per volontà tedesca è stata resa troppo rapida nei tempi e troppo squilibrata sul versante dei tagli diretti o indiretti alla domanda.

Che gli exploit tedeschi nel conquistare maggiori quote sui mercati ?€“ si pensi all'industria dell'auto ?€“ si debbano spiegare anche con una superiore capacità delle aziende germaniche nell'innovare e nell'ottimizzare i fattori della produzione è fuori discussione. Ma altrettanto innegabile è che, a fronte della vista lunga delle proprie aziende, il governo di Berlino non ha avuto pari lungimiranza nel capire che il peso economico dominante acquisito per via industriale andava politicamente declinato in modi meno miopi di quanto fatto con la predicazione di un'austerità "uber alles". Cosicché si sta ora verificando un corto circuito fra le esigenze di espansione del "made in Germany" e gli effetti della politica fiscale restrittiva che il governo di Berlino insiste nel pretendere senza una ragionevole gradualità dall'Europa intera.

DUNQUE, HA UN BEL DIRE Angela Merkel quando afferma che i paesi dell'euro devono muoversi «insieme contro la crisi». Poiché gli ammirati surplus della bilancia tedesca sono in buona misura il riflesso speculare dei deficit altrui, un modo saggio di operare "insieme" sarebbe stato, per esempio, quello di espandere la domanda interna della Germania in modo da aiutare le economie dei soci più deboli dell'euro a compensare gli effetti recessivi delle politiche di risanamento dei bilanci pubblici. Ma la Kanzlerin si rifiuta di farlo pur in presenza di un tasso d'inflazione che la Bce mantiene tuttora vicino al 2 per cento. Anzi, l'ultima trovata di Berlino è di accentuare i termini del cosiddetto "fiscal compact" con la nomina di un supercommissario europeo con diritto di veto sulle scelte di bilancio dei vari paesi. La classica soluzione sbagliata per un'esigenza magari giusta. Con una tale delega a un potere monocratico si può soltanto perseverare sulla linea fin qui seguita senza fare i conti con i gravi danni collaterali che la strategia del rigore a tutti i costi sta facendo emergere ogni giorno di più. Devono essere davvero prodigiosi gli occhiali che consentono a Mario Monti di intravvedere una luce in fondo a un simile tunnel.

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« Risposta #187 inserito:: Dicembre 15, 2012, 04:46:12 pm »

Opinioni

Londra dica se vuole o no l'Europa

di Massimo Riva

(06 dicembre 2012)

E se la fuoriuscita della Gran Bretagna fosse condizione necessaria (sebbene da sola insufficiente) per accelerare l'integrazione politica dell'Unione europea? Non si tratta di un interrogativo banalmente provocatorio. Esso nasce dalla constatazione che in questi decenni Londra ha sistematicamente operato per rallentare, indebolire, talora sabotare, il già faticoso processo federativo del Vecchio continente (vedi l'articolo a pagina 84). Fin dal principio, il Regno Unito ha mostrato di considerare il suo ingresso nella Comunità europea come una sorta di atto di degnazione verso gli altri soci compiuto al fine principale di trarne benefici economici occasionali senza alcuna intenzione di contribuire allo spirito unionista. Né va dimenticato che la svolta britannica avviene solo dopo il fallimento del tentativo di costruire con i paesi del Nord Europa un'area di libero scambio (Efta) concepita in chiaro antagonismo al progetto continentale.

FINORA, PURTROPPO, il pur supponente atteggiamento di Londra è stato subìto piuttosto passivamente dagli altri maggiori paesi della Comunità nella malriposta speranza di aiutare così una definitiva conversione del regno di Elisabetta all'ideale europeo. Al punto che, già all'atto dell'adesione, la Gran Bretagna poté facilmente spuntare condizioni di assoluto privilegio - in termini di "do ut des" comunitario - che tuttora ne fanno uno dei paesi più favoriti su più versanti: soprattutto su quello finanziario. Vantaggi che i governi di Sua Maestà - senza grandi differenze fra premier laburisti o conservatori - hanno saputo consolidare nel tempo giocando con cinismo sul ricatto di dover altrimenti abbandonare il tavolo sotto la pressione di un'opinione pubblica interna in larga misura ostile al progetto europeo.
Non si discosta da questa linea, anzi ne rafforza con una certa veemenza gli aspetti antieuropei, anche l'attuale governo Cameron. La cui pretesa di robusti tagli al bilancio dell'Unione ha la furbizia - in Italia si direbbe "grillina" - di mascherarsi dietro le intemerate contro gli eccessi di costo delle burocrazie comunitarie, ma non riesce comunque a nascondere l'obiettivo strategico di sostanza: togliere risorse all'Unione per impedire che essa possa svolgere un ruolo cruciale nel rilancio delle economie europee. In altre parole, ciò a cui si mira è ostacolare quel salto di qualità nella politica europea che possa portare le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo a pilotare la svolta verso la crescita economica come una sorta di governo europeo in fieri.


ANCHE IL NOSTRO PRESIDENTE del Consiglio ha giudicato irritanti queste posizioni britanniche. Ed ha suggerito che Londra si decida una volta per tutte: anziché sollevare in continuazione obiezioni specifiche su singole questioni, affronti con un bel referendum popolare il nodo fondamentale della sua partecipazione all'Unione europea. Anche perché Mario Monti si dice convinto che, posti di fronte al dilemma cruciale se stare o non stare in Europa, sia il governo sia l'elettorato di quel paese - fatto un rapido conto costi-benefici - finirebbero senz'altro per scegliere il "manebimus optime". In effetti, sono un po' troppi anni che Londra fa riverberare sull'Europa intera il nodo dell'ostilità della sua opinione pubblica, mentre le ipotesi di un conseguente referendum popolare sul tema appaiono e scompaiono dall'agenda politica britannica con un moto pendolare sospetto perché registrato su tempi e modi delle decisioni in calendario a Bruxelles.

Dico subito che il suggerimento di Monti a me pare altamente opportuno, mentre non altrettanto condivisibile è la sua speranza sull'esito del referendum. Certo, un sì popolare toglierebbe dalle mani dell'inquilino di Downing Street un'arma di ricatto nei confronti dei suoi interlocutori europei, ma non per questo lo distoglierebbe dal perseguire la consolidata strategia frenante sul cammino verso l'integrazione federale dell'Unione. Per questo storico obiettivo una vittoria dei "no" sarebbe di sicuro più utile, temo necessaria.

 
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« Risposta #188 inserito:: Febbraio 09, 2013, 10:55:01 am »

Opinioni

Più furbetti che patrioti

di Massimo Riva

(17 gennaio 2013)

Il patriottismo non sarà soltanto l'ultimo rifugio dei farabutti, come diceva Samuel Johnson, è però un fatto che in Italia nel nome di questo altrimenti nobile sentimento sono state commesse grandi canagliate economiche. Un esempio più remoto è la scelta di bandiera dietro cui si è ammantata la decisione di cedere alla Fiat il controllo dell'Alfa Romeo: con il bel risultato di promuovere una sorta di cannibalismo nell'industria nazionale dell'auto i cui frutti velenosi sono sotto gli occhi di tutti. Un altro e stavolta recentissimo esempio è dato dalla vicenda Alitalia nella quale una pattuglia di affaristi con interessi esposti in tutt'altri campi rispetto al trasporto aereo si è prestata a far finta di credere che si potesse salvare un'impresa decotta al solo e non confessabile fine di ingraziarsi i favori dell'allora premier Silvio Berlusconi sceso in crociata nazionalistica contro l'ipotesi di una cessione ad Air France. Il tutto con un altro duplice e straordinario risultato. Primo, quello di scaricare sulle spalle dei contribuenti perdite per oltre 3 miliardi di euro che l'accordo coi francesi avrebbe viceversa contenuto in maniera consistente. Secondo, quello di doversi ora ripresentare col cappello in mano alla stessa Air France o altro miglior offerente nell'unica speranza di poter limitare i danni di un'avventura sciagurata.

MERITA RAMMENTARE questi precedenti perché oggi appare di nuovo alto il rischio che nel nome di un malinteso patriottismo economico si possano compiere altri e non meno gravi misfatti. Da tempo ci sono parecchie e importanti partite aperte sul tappeto come la sorte della rete Telecom e quella dell'Ansaldo o di altri spezzoni della stessa Finmeccanica. Per sciogliere tali nodi i sedicenti custodi dell'amor patrio guardano insistentemente alla Cassa Depositi e Prestiti che è ormai diventata il raffazzonato rifugio azionario di uno Stato incapace di dotarsi di più validi strumenti di indirizzo della politica industriale. Ad appesantire un clima di confusione, che è il miglior brodo di coltura per i mestatori del patriottismo, è giunto in questi giorni un rapporto dei servizi segreti che lancia un preoccupato allarme sui disegni di penetrazione in Italia da parte di capitali cinesi.

IN PARTICOLARE , si segnala che uomini di Pechino sarebbero interessati a realizzare un investimento ingente per la riconversione dell'area ex Falck di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano: quella, per intenderci, che è al centro dei guai giudiziari di Filippo Penati. Premesso che è ottimo servizio da parte dei nostri 007 quello di monitorare gli appetiti economici esteri verso beni italiani, non si vorrebbe che anche il caso specifico di Sesto diventasse motivo per un'altra e insensata crociata patriottica. Magari piovessero soldi dalla Cina per una grande operazione urbanistica che risollevasse dall'abisso la seria crisi edilizia in atto. Anche perché, se c'è un ambito nel quale la potestà di controllo dei poteri pubblici è massima e pervasiva, questo è proprio quello del settore immobiliare: in termini di cubature concesse, di destinazioni d'uso, di vincoli ambientali sugli spazi verdi e così via. Di allarmante ci può essere solo il rischio che i cinesi si mettano a fare concorrenza agli italiani anche sul piano di buste e bustarelle. Ecco che cosa dovrebbe semmai impensierire gli alfieri del tricolore.

C'è, quindi, un salto di qualità da compiere nella politica di difesa degli interessi strategici del paese. Si tratta di superare l'idea secondo cui lo Stato può farsi valere soltanto esercitando il diritto di proprietà come un qualunque privato per approdare a una visione in cui l'autorità pubblica afferma il suo primato attraverso una disciplina ben temperata degli affari e del mercato. Solo il passaggio dallo Stato padrone allo Stato regolatore è la chiave per distinguere i veri patrioti dai farabutti. La dottrina dei campioni nazionali, infatti, ha il non lieve difetto di tradursi sempre in una tassa occulta a carico del contribuente/consumatore.

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« Risposta #189 inserito:: Febbraio 20, 2013, 11:15:20 pm »

Gli altri sparano la Ue dorme

di Massimo Riva

(07 febbraio 2013)


Il calabrone dell'euro - che appena un anno fa anche autorevoli premi Nobel giudicavano uno scherzo di natura dalla vita cortissima - ha ripreso a volare. Negli ultimi sei mesi si è rivalutato di oltre il 10 per cento sul dollaro e addirittura - complici le manovre di liquidità espansiva del nuovo governo giapponese - di circa il 30 per cento rispetto allo yen. Ha guadagnato perfino un modesto ma significativo 2 per cento sulla valuta che costituisce il bene monetario rifugio per eccellenza, il franco svizzero. E ciò nonostante che Berna abbia cercato di calmierare la propria moneta.

UNA QUOTA di questo spettacolare recupero può essere senz'altro conseguenza delle politiche di aggiustamento che, sebbene malcerte, hanno allontanato lo spettro di "default" conclamati in paesi come Grecia, Portogallo, Spagna, nonché Italia. Ma ciò spiega solo una piccola parte del fenomeno. Per il resto, la ragione preponderante va cercata sul fronte delle monete concorrenti. A Washington Federal Reserve e Casa Bianca stanno deliberatamente perseguendo una politica mirata a spingere verso il basso il dollaro sia con tassi d'interesse prossimi allo zero sia con robuste e reiterate immissioni di liquidità nel sistema. Quanto allo yen si è già accennato al fatto che il governo Abe ha imperiosamente costretto la propria banca centrale a massicci interventi monetari espansivi al fine esplicito di deprimere il corso della valuta nazionale.
Insomma, il rafforzamento dell'euro sui mercati dei cambi è frutto principalmente di scelte, chiamiamole così, di "dumping valutario" compiute da Usa e Giappone per difendere - se possibile allargare - le rispettive quote di esportazioni in una fase di debolezza delle proprie domande interne e di frenata complessiva dell'economia mondiale. Di qui la pertinente definizione di "guerra delle monete" che è stata avanzata per interpretare quanto sta accadendo. Una guerra, tuttavia, che al momento non ha ancora mostrato tutto il suo potenziale distruttivo perché gli strateghi che la conducono stanno ancora studiando gli effetti reciproci delle loro prime mosse e nessuno forse ha deciso se e quando fare l'attacco frontale. Una situazione che ricorda la "drôle de guerre" sul confine franco-tedesco fra l'autunno del 1939 e la primavera del 1940.

QUESTE ESITAZIONI dipendono soprattutto dall'incertezza sulle mosse di una potenza che finora è stata alla finestra, la Cina. La precipitosa caduta dello yen è un evidente guanto di sfida lanciato dal Giappone per la riconquista dei ricchi e comunque popolosi mercati asiatici. E' possibile che Pechino continui, come nulla fosse, a lasciar rivalutare lo yuan o è più probabile che risponda incamminandosi sul medesimo terreno delle svalutazioni competitive altrui? In questa seconda ipotesi, data la forza economica acquisita nel bene e nel male dal made in China, un'eventuale "Strafexpedition" cinese spingerebbe la guerra delle monete verso un bagno di sangue commerciale di dimensioni planetarie. E dall'Asia, in un baleno, l'onda d'urto arriverebbe anche in Europa.

In un simile scenario gravido di minacce per il non più solido benessere del Vecchio continente, lascia esterrefatti la sostanziale inerzia con la quale da Bruxelles e dalle principali capitali dell'Unione europea si seguono gli sviluppi di questa guerra delle monete. Sembra quasi che la rivalutazione dell'euro sia letta soltanto come una medaglia al valore per l'azione di aggiustamento contabile in corso. Nella totale noncuranza del rovescio della medesima medaglia: la crescente perdita di competitività di prezzo del made in Ue. Né ci si può accontentare che a cavare qualche castagna dal fuoco provveda da sola la Bce portando i tassi d'interesse più vicini allo zero come negli Usa. Mossa comunque utile ma che, in mancanza di una politica di rilancio degli investimenti, rischia di rianimare la domanda interna a maggior beneficio altrui. E' urgente che i governi dell'Unione escano dal loro imbelle pacifismo monetario: la guerra c'è e gli altri sparano.

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« Risposta #190 inserito:: Marzo 29, 2013, 12:05:39 pm »

Opinione

Chi non vuole regole sui derivati

di Massimo Riva

Lo sapevate che i contratti derivati in circolazione valgono nove volte il Pil mondiale? E che sono un'arma di distruzione di massa pronta a scoppiare in ogni momento? E che la politica è timidissima a metterci delle regole?

(28 marzo 2013)

Per qualche mese sui mercati ha dominato una discreta calma. Ora è bastata la crisi di Cipro per diffondere nuovamente un panico che dalla piccola isola dell'Egeo si è rapidamente esteso ai ben più corposi circuiti finanziari del resto d'Europa, a cominciare da quelli già più esposti come Spagna e Italia. E' possibile che anche questo difficile passaggio sia superato senza danni collaterali eccessivi, ma quanto sta accadendo è la controprova della grande fragilità che caratterizza l'andamento dei mercati. Sui quali continuano a incombere, ancorché seminascoste, minacce dirompenti tali da poter riaprire una nuova e più tragica stagione di dissesti bancari.

Basta guardare ai dati censiti dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) sulle enormi dimensioni tuttora raggiunte dal comparto più oscuro e minaccioso dei mercati finanziari: quello dei cosiddetti derivati. Contratti che con orrore un finanziere del calibro di Warren Buffet ha definito autentiche armi di distruzione di massa a causa del loro potenziale destabilizzante per l'economia planetaria. Ebbene, contro un Pil mondiale stimato in circa 70 mila miliardi di dollari la massa complessiva dei derivati ha raggiunto nel 2012 (e forse oggi ha già superato) il ragguardevole livello di 639 mila miliardi: nove volte, insomma, la ricchezza prodotta nel mondo intero.

Come non bastasse, di questo arsenale esplosivo si sa assai poco. Nel senso che i contratti derivati si formano e vengono scambiati per lo più fuori dai mercati regolamentati. Hanno tipologie diversificate e riguardano rischi riferiti a un'ampia gamma di valori oscillanti: valute, azioni, materie prime, rischi di default e (nella stragrande maggioranza) tassi d'interesse. In breve: se si può stimarne il volume con buona approssimazione, molto più arduo diventa soppesarne il tenore di pericolosità. Si sa, fra l'altro, che il rischio risulta particolarmente concentrato in alcuni istituti di credito statunitensi come Jp Morgan o Bank of America. Ma il fatto che da sole queste due banche abbiano in corpo circa un sesto dell'intero ammontare dei derivati, mentre in Italia il peso di questi contratti sta sul 10 per cento del Pil nazionale, non suona affatto tranquillizzante. La lezione di Lehman Brothers insegna che l'onda d'urto dei dissesti finanziari non conosce confini e può produrre anzi guai maggiori nei paesi che, magari estranei nello specifico, sono tuttavia in una condizione di strutturale debolezza.

Ora pare che su entrambe le sponde dell'Atlantico ?€“ dopo anni di latitanza e interminabili quanto vani conciliaboli ?€“ le autorità politiche e monetarie abbiano deciso di fare qualcosa per rendere almeno un po' più trasparente e regolato un mercato che finora ha fatto della sua opacità la propria maggiore condizione di sopravvivenza. Negli Stati Uniti i vertici di Jp Morgan sono stati chiamati a rispondere in Congresso dell'avventurosa gestione con la quale hanno infarcito la loro banca di una quantità abnorme di titoli tossici. L'inchiesta parlamentare dovrebbe produrre un nuovo codice di regole "ad hoc" per riportare sotto controllo una situazione ormai sempre più esplosiva. Ma si arriverà mai a questo traguardo? Come si è già visto con la "Volcker rule" ?€“ il tentativo di riseparare il credito ordinario da quello d'investimento ?€“ il condizionamento delle grandi banche sulle scelte dei "congressmen" di Washington è di inusitata potenza.

In Europa si è fatto qualche passo in più. Nel senso che è appena entrata in vigore una disciplina la quale dovrebbe dare buoni frutti per quanto riguarda la trasparenza delle contrattazioni ma assai meno per quel che attiene alla rischiosità insita nei derivati. Così alimentando l'impressione che anche le autorità europee si muovano con estrema cautela nel timore che regole più cogenti possano anticipare un'esplosione devastante. A conferma che, a dispetto della relativa calma sui mercati, la miccia della bomba derivati è già accesa. Si tratta di capire soltanto quanto sia lunga.

   
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« Risposta #191 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:19:41 pm »

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I contratti Gazprom li paghiamo noi

di Massimo Riva

(11 aprile 2013)

Buoni e, purtroppo, anche cattivi segnali si accavallano sul mercato del gas, diventato ormai una fonte energetica primaria per il nostro paese. Dopo un ciclo di rialzi di circa tre anni, per decisione della competente Authority, i prezzi sono scesi del 4 per cento a partire dal primo aprile. Un sollievo per le bollette a carico dei consumatori – ma anche per il tasso d'inflazione – che potrebbe essere seguito da ulteriori ribassi nel prossimo trimestre. E ciò perché l'Autorità per l'energia sta progressivamente modificando i criteri delle sue scelte tariffarie in materia. Finora i principali valori di riferimento erano quelli relativi ai prezzi dei contratti a lungo termine, resi sovente più onerosi da una specifica clausola imposta dai grandi venditori. Quella definita nella formula del "take or pay". In forza della quale l'azienda acquirente – in Italia sostanzialmente l'Eni – si impegna a prelevare una determinata quantità di gas o comunque a pagare il corrispettivo anche in caso di mancato o parziale ritiro della materia prima.

Ma da qualche tempo, anche a seguito del calo dei consumi indotto da una diffusa recessione, il mercato mondiale del gas si sta rapidamente modificando. Tanto che con gli acquisti cosiddetti "spot" ovvero fatti alla borsa quotidiana si possono spuntare prezzi ben più convenienti di quelli dei contratti a lungo termine. Giustamente la nostra Autorità per l'energia ha perciò deciso di fare le sue valutazioni tariffarie non solo sui contratti più onerosi ma prendendo in considerazione anche i valori più bassi espressi dai mercati "spot". Anzi, ha annunciato che d'ora in poi questi ultimi avranno un peso crescente nelle sue decisioni. Poiché il compito fondamentale di questa Autorità è quello di proteggere i consumatori dal consolidarsi di posizioni di rendita da parte delle aziende distributrici o produttrici, una simile svolta va salutata come benvenuta.

Anche perché altre novità calmieratrici sono alle viste. In particolare a seguito della imminente offerta anche sul mercato europeo di "shale gas" ovvero di metano estratto dalle rocce secondo una tecnologia Usa che promette miracoli in quantità e in prezzi. Prospettiva che sta fortemente allarmando i tradizionali fornitori dell'Europa e del nostro paese: dai russi di Gazprom agli algerini di Sonatrach, dai norvegesi ai libici di Noc. Allarme, tuttavia, condiviso anche dall'Eni per il semplice fatto di essere legato ai suddetti giganti del gas da una serie di contratti "take or pay" che rischiano di disastrare i conti dell'azienda mettendoli in controtendenza con l'andamento ribassista del mercato.

Il numero uno operativo dell'Eni, Paolo Scaroni, ha annunciato di voler rinegoziare i più pesanti contratti in essere ma ha messo le mani avanti precisando che queste trattative saranno laboriose e soggiungendo che «i problemi di sicurezza di approvvigionamento devono essere presi in carica direttamente dai governi». Parole quanto mai sibilline. Se Scaroni chiede che la politica dia una mano a facilitare la riscrittura dei contratti dato che le controparti sono tutte o quasi aziende statali, nulla di male. Viceversa, se il boss dell'Eni sottintendesse, per ipotesi, che il governo deve fare la sua parte magari accettando di scaricare sui consumatori una parte dei prezzi fuori mercato che l'Eni dovesse essere costretta a pagare in futuro, allora è bene dire subito che saremmo fuori da ogni logica istituzionale ed economica. Non si tratta di fare processi alle intenzioni ma di ribadire che l'età dei profitti privati e delle perdite pubbliche è finita per sempre.

L'Eni è stato colto in contropiede da una rivoluzione del mercato del gas che i suoi dirigenti non hanno saputo vedere in anticipo? Bene, questo è un classico problema di pertinenza degli azionisti dell'Eni medesimo. Fra i quali c'è certamente lo Stato per una quota del 30 per cento. Che al restante 70 vada un regalo a spese dei consumatori è ipotesi semplicemente indecente.


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« Risposta #192 inserito:: Maggio 05, 2013, 04:17:38 pm »

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Si chiama Enrico ma pare Silvio

di Massimo Riva

Finora l'unica decisione del nuovo governo è stata quella di non far pagare l'Imu a giugno. Scelta popolare, se non populista, voluta da Berlusconi. Intanto però si aumenta l'Iva. E le tasse sul lavoro restano altissime, così i disoccupati crescono

(03 maggio 2013)

A giugno gli italiani non saranno chiamati a versare la prevista rata dell'Imu. Del lungo, a tratti ovvio, elenco di priorità programmatiche esposte dal neo-presidente del Consiglio questo è l'unico punto che è stato concretamente annunciato con precisa scadenza temporale.

Su tutto il resto dei problemi incombenti - dal rifinanziamento della cassa integrazione al dramma dei cosiddetti esodati - Enrico Letta si è limitato a dire che provvederà ma senza assumere impegni puntuali. La ragion politica di questo annuncio è ben nota: della cancellazione dell'Imu Silvio Berlusconi aveva fatto il suo principale cavallo di battaglia elettorale e la condizione indispensabile per dare l'appoggio del Pdl al nuovo governo.

Se ci si vogliono tingere gli occhiali di rosa si può anche argomentare che in fondo Letta ha escogitato per ora una sorta di scappatoia dalla stretta berlusconiana. In particolare, non si è spinto fino ad annunciare anche il rimborso dell'imposta pagata nel 2012 come spericolatamente propagandato dal Cavaliere: promessa che, insieme all'abrogazione della tassa, avrebbe raddoppiato il buco nelle entrate dell'anno corrente. Resta comunque il fatto che, nel volgere delle poche prossime settimane, il governo dovrà trovare cespiti alternativi al mancato incasso dell'Imu per scongiurare vuoi un incremento del debito pubblico vuoi la paralisi finanziaria dei bilanci comunali.

Ne consegue che il ricorso ai suddetti cespiti alternativi finirà per sottrarre risorse utili alla soluzione di altre esigenze fiscali definite prioritarie dallo stesso presidente del Consiglio: dal taglio delle tasse su lavoro e impresa alla rinuncia all'incremento dello scaglione Iva dal 21 al 22 per cento che dovrebbe scattare il primo luglio. In tempi di coperta corta i margini di movimento sul bilancio restano esigui: non solo si tratta di dare corretta copertura a ogni euro che esce dalla cassa ma di trovarne una altrettanto valida per ogni euro che non entra.

Si può immaginare che Enrico Letta conti di sottrarsi a queste forche caudine negoziando un allentamento degli impegni assunti in sede europea dove, in effetti, comincia a farsi strada l'idea che il rigore contabile assoluto non è più un totem intoccabile. Ma per intuibili ragioni non sarà facile su questo punto ottenere soddisfazioni significative prima delle fatidiche elezioni tedesche di settembre: quando ormai i conti del bilancio 2013 saranno in sostanza compromessi. E di sicuro sarà ancora meno facile presentandosi all'Europa con il biglietto da visita di uno stop agli incassi dell'Imu, ovvero di un'imposta sugli immobili che, magari meglio formulata della nostra, esiste comunque in tutti gli altri grandi paesi europei.

Insomma, sarà stato indispensabile per Letta cominciare lisciando il pelo a Berlusconi sull'Imu, fatto sta che questo messaggio rischia di avvalorare una convinzione diffusa (non solo in Germania) secondo cui quello italiano è un convento povero ma dove i frati sono ricchi e aborrono le tasse. Piaccia o no, la battaglia politica sull'Imu impostata dalla destra ha evidenti connotati di lotta ideologica e classista. Non si tratta soltanto di rimediare alle non poche incongruenze tecniche dell'imposta vigente. Lo scopo, per altro dichiarato, è di contrastare ogni forma di prelievo fiscale sui patrimoni tenendo le relative rendite al riparo dalla necessità di contribuire al funzionamento del bilancio pubblico. C'è solo da sperare che questo "incipit" berlusconiano non diventi la chiave di lettura dominante del governo Letta.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/si-chiama-enrico-ma-pare-silvio/2206240/18
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« Risposta #193 inserito:: Maggio 16, 2013, 11:23:40 pm »


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Si chiama Enrico ma pare Silvio

di Massimo Riva

Finora l'unica decisione del nuovo governo è stata quella di non far pagare l'Imu a giugno. Scelta popolare, se non populista, voluta da Berlusconi. Intanto però si aumenta l'Iva. E le tasse sul lavoro restano altissime, così i disoccupati crescono

(03 maggio 2013)

A giugno gli italiani non saranno chiamati a versare la prevista rata dell'Imu. Del lungo, a tratti ovvio, elenco di priorità programmatiche esposte dal neo-presidente del Consiglio questo è l'unico punto che è stato concretamente annunciato con precisa scadenza temporale.

Su tutto il resto dei problemi incombenti - dal rifinanziamento della cassa integrazione al dramma dei cosiddetti esodati - Enrico Letta si è limitato a dire che provvederà ma senza assumere impegni puntuali. La ragion politica di questo annuncio è ben nota: della cancellazione dell'Imu Silvio Berlusconi aveva fatto il suo principale cavallo di battaglia elettorale e la condizione indispensabile per dare l'appoggio del Pdl al nuovo governo.

Se ci si vogliono tingere gli occhiali di rosa si può anche argomentare che in fondo Letta ha escogitato per ora una sorta di scappatoia dalla stretta berlusconiana. In particolare, non si è spinto fino ad annunciare anche il rimborso dell'imposta pagata nel 2012 come spericolatamente propagandato dal Cavaliere: promessa che, insieme all'abrogazione della tassa, avrebbe raddoppiato il buco nelle entrate dell'anno corrente. Resta comunque il fatto che, nel volgere delle poche prossime settimane, il governo dovrà trovare cespiti alternativi al mancato incasso dell'Imu per scongiurare vuoi un incremento del debito pubblico vuoi la paralisi finanziaria dei bilanci comunali.

Ne consegue che il ricorso ai suddetti cespiti alternativi finirà per sottrarre risorse utili alla soluzione di altre esigenze fiscali definite prioritarie dallo stesso presidente del Consiglio: dal taglio delle tasse su lavoro e impresa alla rinuncia all'incremento dello scaglione Iva dal 21 al 22 per cento che dovrebbe scattare il primo luglio. In tempi di coperta corta i margini di movimento sul bilancio restano esigui: non solo si tratta di dare corretta copertura a ogni euro che esce dalla cassa ma di trovarne una altrettanto valida per ogni euro che non entra.

Si può immaginare che Enrico Letta conti di sottrarsi a queste forche caudine negoziando un allentamento degli impegni assunti in sede europea dove, in effetti, comincia a farsi strada l'idea che il rigore contabile assoluto non è più un totem intoccabile. Ma per intuibili ragioni non sarà facile su questo punto ottenere soddisfazioni significative prima delle fatidiche elezioni tedesche di settembre: quando ormai i conti del bilancio 2013 saranno in sostanza compromessi. E di sicuro sarà ancora meno facile presentandosi all'Europa con il biglietto da visita di uno stop agli incassi dell'Imu, ovvero di un'imposta sugli immobili che, magari meglio formulata della nostra, esiste comunque in tutti gli altri grandi paesi europei.

Insomma, sarà stato indispensabile per Letta cominciare lisciando il pelo a Berlusconi sull'Imu, fatto sta che questo messaggio rischia di avvalorare una convinzione diffusa (non solo in Germania) secondo cui quello italiano è un convento povero ma dove i frati sono ricchi e aborrono le tasse. Piaccia o no, la battaglia politica sull'Imu impostata dalla destra ha evidenti connotati di lotta ideologica e classista. Non si tratta soltanto di rimediare alle non poche incongruenze tecniche dell'imposta vigente. Lo scopo, per altro dichiarato, è di contrastare ogni forma di prelievo fiscale sui patrimoni tenendo le relative rendite al riparo dalla necessità di contribuire al funzionamento del bilancio pubblico. C'è solo da sperare che questo "incipit" berlusconiano non diventi la chiave di lettura dominante del governo Letta.


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« Risposta #194 inserito:: Giugno 07, 2013, 07:03:12 pm »

Sembra di stare a Monaco nel '38...

di Massimo Riva

(23 maggio 2013)

Un pessimo clima da anni Trenta del Novecento domina ormai da troppo tempo la scena europea. Fortunatamente non incombono minacce di guerre sanguinose ma, come allora, classi dirigenti imbelli e irresolute stanno offrendo uno spettacolo desolante di mediocrità politica. Anziché esercitare un ruolo di guida delle proprie opinioni pubbliche e di indirizzo verso obiettivi generali di bene comune, i leader di governo appaiono sempre più accodati agli umori di pancia dei rispettivi elettorati nazionali. Non mancano certo periodiche proclamazioni, anche solenni, di impegno e di fedeltà verso l'ideale dell'unità politica ed economica del continente: da ultimo vi si è cimentato con accenti alti e accorati il presidente francese François Hollande. Ma, almeno finora, si è trattato per lo più di vocalizzi senza seguito di azione politica davvero concreta e innovativa. E' come se il funesto e rinunciatario "spirito di Monaco" si fosse di nuovo impadronito delle cancellerie europee.

Alla gravità dei problemi che assillano le società e le economie del continente - una crescente disoccupazione di massa provocata dalla caduta dell'attività produttiva - non si sanno dare risposte pronte, efficaci, lungimiranti. Il confronto fra i sostenitori di una politica d'austerità e i fautori di una strategia di immediato rilancio della crescita ha assunto i toni astratti e feticisti di un incomponibile conflitto fra religioni. Con l'increscioso risultato di non riuscire a compiere alcuna scelta che riesca a discostarsi dall'interpretazione più gretta e ortodossa delle regole fissate in trattati concepiti e sottoscritti in un'epoca nella quale ci si illudeva che le sorti dell'Europa potessero essere soltanto meravigliose e progressive.

L'unione monetaria, in particolare, è scossa da contrasti di interessi fra paesi più deboli e più forti ai quali l'economia dominante - quella tedesca - insiste da tempo nel voler applicare una terapia uguale per tutti. Con un altro esito increscioso: quello di accrescere le difficoltà generali del sistema a moneta unica. Tanto che ora il crollo della domanda interna indotto da una troppo rapida e brusca strategia del rigore nei paesi coi conti in disordine comincia a riflettersi in negativo sull'intera congiuntura continentale fino al punto di provocare una caduta delle esportazioni anche nelle economie più vitali, quella della Germania per prima. Da ultimo ci sono segnali che qualcosa possa mutare nelle rigide (e ottuse) posizioni assunte dal governo di Berlino, ma in concreto non si va oltre a spostamenti millimetrici per lo più affidati ad aggiustamenti verbali nelle dichiarazioni. Cosicché il quadro complessivo resta immutato con l'area più ricca del mondo che non riesce a darsi una politica comune all'altezza dei suoi problemi.

"Toujours en retard, d'un'année, d'un'armée, d'un'idée". Il celebre giudizio di Napoleone sull'Austria dipinge fedelmente l'attuale stato dell'Europa. Dalla più lontana crisi della Grecia a quella più recente di Cipro, un penoso ritardo nei tempi dell'intervento è stato la costante di una politica comunitaria sempre indecisa a tutto fino a rendere sempre più costosa e pesante la terapia necessaria. Quanto ai ritardi negli strumenti c'è una realtà sotto gli occhi di tutti: l'euro è una moneta senza Principe perché manca non solo di un governo sovranazionale di riferimento ma perfino di una banca centrale in grado di esercitare tutti i poteri - a cominciare da quello di stabilire la quantità di carta in circolazione - di cui ovviamente dispongono vuoi l'americana Fed vuoi la Bank of Japan.

Ma il ritardo di gran lunga più grave e allarmante riguarda l'appannamento dell'ideale unitario. Uscita di scena la generazione che aveva vissuto sulla propria pelle le tragedie del Novecento, le ragioni storiche profonde della costruzione europea sembrano uscite dal cuore e dalla mente dei governanti attuali. Su tutto prevale la spinta a gestire in qualche modo il presente senza guardare alle conseguenze future. Ahinoi, proprio come a Monaco nel '38.

 
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