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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107782 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 21, 2008, 05:01:20 pm »

Massimo Riva

Il paradosso Tremonti


La demagogia della Robin Hood Tax è chiara già dal suo nome. E ammesso che favorisca pescatori e agricoltori, farà pagare ancora di più la benzina a tutti gli altri consumatori  Il ministro dell'Economia Giulio TremontiL'unico aspetto apprezzabile nell'idea di un'imposta straordinaria sugli utili delle imprese petrolifere è che il suo stesso autore, il ministro Giulio Tremonti, la voglia chiamare Robin Hood Tax. Così almeno il fine bassamente demagogico della trovata risalta in tutta la sua ingannevole evidenza. Ciò che lascia più sconcertati di questa vicenda, tuttavia, è il sentimento di fiduciosa attesa che si vorrebbe alimentare nell'opinione pubblica con l'annuncio di una punizione fiscale per i petrolieri.

Che questi ultimi stiano da tempo rimpinguando i loro portafogli sull'onda dei continui aumenti del prezzo del barile è un fatto. Come è un altro fatto incontestabile che l'escalation dei rincari dei carburanti, oltre che dell'energia elettrica, stia mettendo in gravi difficoltà soprattutto i settori economici più esposti: trasporti innanzi tutto, ma anche pesca e agricoltura. Quel che non si capisce è a che cosa possa servire in questo scenario, che ha radici speculative in una bolla di dimensioni planetarie, il ricorso a un'imposizione nazionale straordinaria sui profitti da petrolio.

Secondo lo schema Robin Hood, il proposito dovrebbe essere quello di scremare un po' di grasso dai pingui bilanci dei petrolieri per trasferirlo a sollievo di coloro che sono i più colpiti dal caro-greggio. A parte le difficoltà tecniche di realizzare una simile manovra, chi l'ha concepita forse non ha ben presente quel capitolo delle nozioni elementari di scienza delle finanze che si intitola: traslazione delle imposte. Nel quale si illustra un meccanismo tipico delle economie di mercato in forza del quale ogni nuova o maggiore imposta tende ad essere trasferita, in tutto o in parte e talora perfino in eccesso, sul prezzo finale del bene in questione.

In altre parole, magari Tremonti troverà pure il modo di spostare un po' di soldi dalle casse dei petrolieri alle tasche dei camionisti o dei pescatori, ma
il risultato finale è che il prezzo di benzina e gasolio rischia seriamente di diventare ancora più elevato per tutti gli altri consumatori. A meno che, s'intende, il provvedimento sull'imposta straordinaria non sia accompagnato in parallelo da misure di intervento d'autorità sui prezzi, insomma da una militarizzazione economica del mercato dei carburanti. Esito francamente pessimo, comunque paradossale per chi non si stanca di celebrare le virtù del libero mercato.

Un altro punto critico riguarda l'impatto di una simile sovrimposta sull'assetto del sistema tributario. Già con la detassazione dei redditi da lavoro straordinario il governo Berlusconi ha dato un fiero colpo al principio generale secondo cui tutti i contribuenti, in proporzione alla loro capacità reddituale, devono essere uguali di fronte all'Erario. Questa ulteriore segmentazione dell'imponibile, seppure sul versante delle aziende, introdurrebbe nuovi elementi di disparità, per giunta creando un pericoloso precedente tale da aprire la strada a un utilizzo occasionale o, peggio ancora, arbitrario dell'arma fiscale da parte di chi governa. Non sarebbe gradevole scoprire che, dietro i panni del sedicente Robin Hood, si nasconde in realtà lo sceriffo di Nottingham.

(13 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:50:08 am »

Massimo Riva


Petrolio a orologeria


La politica dei bassi tassi d'interesse perseguita dalla Federal Reserve ha dato man forte a quanti si sono messi a speculare sul barile  La borsa di Wall StreetFinalmente l'attenzione internazionale comincia a concentrarsi sulla bolla finanziaria che si sta sempre più gonfiando sul mercato del petrolio: il tema ha tenuto banco al vertice dei ministri economici del G8 in Giappone. Non se n'è cavato nulla di utile, ma almeno i termini della questione ora sono sul tappeto. Il nodo attorno al quale si discute è il clamoroso scollamento quantitativo tra petrolio reale e greggio virtuale. Il rapporto numerico fra le due grandezze è impressionante: ogni giorno la produzione media è di circa 85 milioni di barili, mentre sul mercato dei contratti a termine se ne movimentano per oltre un miliardo.

Le principali piazze sulle quali avvengono questi scambi di carta petrolifera sono Londra e, soprattutto, New York: collocazioni geografiche che rischiano di avere un peso non trascurabile sull'evoluzione della vicenda. Infatti, al richiamato summit giapponese del G8, sono stati proprio i rappresentanti del Regno Unito e degli Usa a contrastare le pressioni dei colleghi degli altri paesi affinché si concordassero misure atte a frenare almeno le eccessive facilitazioni con le quali si può speculare sui prezzi del greggio virtuale. Per esempio, imponendo maggiori margini di garanzia (il contante che va versato da chi firma un contratto a tempo, oggi a livelli irrisori) in modo da tener fuori dal gioco gli speculatori più avventurosi.

Attenzione, è stata la tesi opposta dalla coppia anglo-americana, interventi del genere rischiano di avere una controindicazione seria: la destabilizzazione del mercato. Un discorso non tanto dissimile da quelli che si facevano qualche anno fa negli Stati Uniti contro chi metteva in guardia sui pericoli della bolla speculativa che la politica del credito facile stava facendo ingigantire sul mercato dei mutui immobiliari. Dunque, un discorso che oggi suona ancor più miope e allarmante: soprattutto perché avvalora
la pessima sensazione che i governi di Londra e di Washington siano di fatto ostaggio dei mercati, perfino nei loro aspetti più deteriori, e non vogliano guardare oltre la realtà quotidiana anche per non dover ammettere gli errori delle proprie politiche economiche.

Il principale dei quali consiste nella strategia del denaro facile seguita dalla Federal Reserve prima e dopo la crisi dei mutui subprime. La miscela delle forti iniezioni di liquidità e dei bassi tassi d'interesse avrà magari salvato qualche banca dal collasso, ma in misura importante ha anche fornito munizioni ai tanti che si sono gettati a corpo morto nelle speculazioni sui mercati delle materie prime, petrolio in testa a tutte. Proseguire su questa strada sarebbe una follia, anche perché la bolla petrolifera può provocare sconquassi ben più devastanti di quella dei mutui immobiliari. Anzi, ne ha già provocati facendo emergere un po' dappertutto scenari di bassa crescita e alta inflazione. È davvero sconsolante che in proposito il G8 se la sia cavata con la banale richiesta al Fmi di fare uno studio per capire quanto vi sia di ordinario e quanto di patologico nelle speculazioni sui barili di carta. Un espediente che non promette nulla di buono.


(26 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:42:29 pm »

Massimo Riva

Trappola per la Cisl


Raffaele Bonanni era stato il più prodigo di aperture verso la politica di Tremonti. Ora il ministro, che nel frattempo da Robin Hood si è trasformato in sceriffo di Nottingham, ripaga il segretario Cisl con una moneta molto svalutata  Raffaele Bonanni, segretario della CislLa favola breve è finita. Dismessi i panni di Robin Hood, come s'era scritto di temere due settimane fa in questa pagina, il ministro Tremonti ha già indossato quelli dello sceriffo di Nottingham. Dopo il fumo negli occhi (dei 33 euro mensili per un ristretto numero di pensionati e delle tasse sui profitti di banche e petrolieri) ecco l'arrosto. Il tasso dell'inflazione programmata, cui dovrebbero fare riferimento i rinnovi dei contratti di lavoro, è stato fissato dal sedicente arciere di Sherwood all'1,7 per cento: meno della metà dell'attuale crescita dei prezzi, che viaggia sul 3,6 per cento in media globale, ma addirittura fra il 5 e il 6 per cento quanto ai beni tipici della spesa quotidiana.

Va bene che quello dell'inflazione programmata è un obiettivo e, dunque, deve indicare un valore inferiore al tasso corrente, ma uno scarto così forte fra la realtà vissuta da gran parte degli italiani e quella immaginata dal governo Berlusconi si segnala come una scelta politica inequivocabile. Soprattutto in un paese nel quale sembrava che la questione salariale dovesse stare al centro del dibattito sul rilancio dell'economia e dei consumi.

Il messaggio è il seguente: i lavoratori dipendenti, operai o impiegati che siano, devono rinunciare a un recupero anche parziale del potere d'acquisto perduto, anzi devono pure rassegnarsi a perderne un'altra fetta non piccola nei mesi a venire. Basti dire che perfino la Banca centrale europea - dietro la quale vorrebbe nascondersi il pavido sceriffo Tremonti - dice che soltanto a fine 2009 il tasso d'inflazione di Eurolandia potrà forse tornare sul 2 per cento. Sempre che si sgonfino presto le bolle dei prezzi internazionali di petrolio e beni alimentari: ipotesi che al momento non raccolgono grandi scommesse.

I sindacati, com'è logico, non l'hanno presa bene
. Il duro no da parte della Cgil era magari scontato, ma è dentro la Cisl che la mossa di Tremonti rischia di creare reazioni più pericolose per il governo. Il suo leader, Raffaele Bonanni, infatti, è stato nei giorni precedenti il più prodigo di aperture verso le scelte annunciate dal ministro dell'Economia e ora si trova ripagato con una moneta, è il caso di dirlo, abbondantemente svalutata. Sembra così ripetersi la beffa già subita da questa confederazione da parte del precedente governo Berlusconi, quando la Cisl si lasciò attrarre a rompere l'unità del fronte sindacale con la sottoscrizione del cosiddetto 'Patto per l'Italia', che presto si rivelò essere una mediocre trappola per gonzi.

La partita governo-sindacati si annuncia così di particolare interesse. Il 'battage' che ha accompagnato le misure di Tremonti, infatti, ha creato nell'opinione pubblica il classico clima corrivo da rincorsa al carro del vincitore. E si sa che, in questi casi, lo scivolamento progressivo verso l'omologazione e il conformismo tipici del pensiero unico irreggimentato dipende solo in piccola parte dall'abilità demagogica di chi governa e, invece, molto di più dalla faciloneria e dalla credulità dei tanti che non sanno resistere alle seduzioni dei gabbamondo. Almeno i sindacati sapranno far suonare la sveglia per i lavoratori e per il paese intero?

(27 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:41:53 am »

Massimo Riva

Il muro della Marcegaglia


La Marcegaglia mette in guardia dalla rincorsa fra prezzi e salari ma il pericolo, al momento, appare più teorico che reale  Emma Marcegaglia, numero uno di ConfindustriaCon toni allarmati Emma Marcegaglia mette in guardia dai pericoli legati a una rincorsa fra prezzi e salari. Come darle torto? Ai rischi di una simile spirale sono dedicati interi scaffali nelle biblioteche di economia politica. Mentre la storia del Novecento è ricca di lezioni al riguardo: dalla tragedia di Weimar ai non meno drammatici casi di alcune repubbliche sudamericane. Per non dire dei minori ma più recenti guai patiti dall'Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Dunque, niente rincorsa fra prezzi e salari.

Solo che, messa così, quella che sembra una soluzione si rivela, in realtà, essere il problema. Da un paio d'anni, infatti, i prezzi corrono e corrono da soli. Senza che i salari tengano neppure lontanamente il passo e senza che la domanda per consumi abbia segnato particolari impennate. Anzi, semmai è accaduto l'opposto: dal piccolo bottegaio al grande supermercato, tutti i commercianti lamentano un calo importante delle loro vendite. In parallelo, del resto, sta aumentando vistosamente il numero delle famiglie alle prese con la penuria di contante nell'ultima settimana del mese. E rischia di crescere ancora di più alla luce degli ultimi dati sull'inflazione che, a giugno, si è minacciosamente avvicinata al 4 per cento ovvero a quota 6 se misurata sul paniere della spesa quotidiana.

Al momento, dunque, il pericolo paventato dalla presidente di Confindustria appare più teorico che reale. Il fatto è che l'inflazione corre principalmente a causa di spinte esterne: i forti e continui rincari del petrolio, del gas e dei beni alimentari sui mercati internazionali. Dai quali i produttori interni hanno potuto difendersi scaricando l'esosità importata sui prezzi nazionali, mentre i consumatori finora se la sono presa, come s'usa dire, in saccoccia. Esercizio che, nel caso dei salariati o dei pensionati ai minori livelli, si sta rivelando ai limiti della sopravvivenza.


In questa situazione il no alla rincorsa prezzi-salari rischia di assumere un significato diverso da quello del richiamo a un elementare principio di saggezza economica. Se Marcegaglia, alzando questo muro, intende mettere le mani avanti contro il ritorno a meccanismi di indicizzazione automatica delle retribuzioni, se ne può capire il gioco negoziale. Ma se la sua Confindustria intende dire che chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, allora siamo di fronte a una vera e propria offensiva di discriminazione classista. In linea, per giunta, con quella operata dal governo Berlusconi, che ha avuto la spudoratezza di indicare un'inflazione di riferimento all'1,7 per cento proprio mentre i prezzi salgono a un tasso del 3,8.

Di sicuro giocano a favore di questa arroganza di Confindustria e governo le gravi incertezze della congiuntura attuale, che allungano sul mondo del lavoro l'ombra intimidatoria della perdita dei posti di lavoro. Ma chi crede che la pressante questione salariale possa essere esorcizzata con banali richiami ai manuali della triste scienza lavora, magari senza pensarci, per mettere a repentaglio uno dei pochi dati positivi del presente: la pace sociale. Quosque tandem Marcegaglia.

(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 11, 2008, 10:35:14 pm »

Massimo Riva

Una tegola per Passera


Il piano di Intesa Sanpaolo per Alitalia rispetterà le norme europee. Un'assicurazione superflua, perché altrimenti l'Italia finirebbe nel tritacarne delle procedure d'infrazione da parte di Bruxelles.

Ha detto Corrado Passera che il piano di Intesa Sanpaolo per Alitalia rispetterà le regole dell'Unione europea. È un'assicurazione superflua. Se il salvataggio della compagnia dovesse essere concepito in contrasto con le norme del mercato unico, l'Italia finirebbe nel tritacarne delle procedure d'infrazione da parte di Bruxelles: col duplice rischio di dover fare un'ignominiosa marcia indietro e di pagare anche qualche salatissima multa. Del resto, in materia, è già aperta una temibile inchiesta europea sui 300 milioni di ossigeno finanziario temerariamente concessi all'azienda per scongiurarne il collasso. Versare altra benzina su questo fuoco sarebbe un atto di autolesionismo economico e politico.

Altro è il tipo di rassicurazioni che non sarebbe, viceversa, superfluo reclamare sui prossimi esiti della penosa vicenda. Una più di tutte: quella che il già fin troppo abusato contribuente italiano non finisca di nuovo vittima di ulteriori salassi, stavolta magari per vie oblique o indirette, in una vertigine di accanimento terapeutico ormai lontano da ogni logica economica. Rendono urgente un chiarimento in proposito le indiscrezioni sempre più insistenti sul progetto in corso di definizione da parte della banca di Passera.

A quanto si sa, infatti, l'atteso piano di salvataggio sarebbe di una semplicità elementare. Quel poco di attivo che ancora si trova nel bilancio Alitalia verrebbe concentrato in una nuova società che, liberata da vincoli e oneri del passato, tornerebbe a volare sebbene su rotte minori. Il preponderante passivo verrebbe, invece, addossato a una cosiddetta 'cattiva compagnia' (nomen omen) che dovrebbe destreggiarsi con procedure parafallimentari a fronteggiare debiti insoluti ed esuberi di manodopera. La compagnia buona uscirebbe dalla mano pubblica con l'ingresso di azionisti privati e, in particolare, del socio concorrente Air One. Mentre la cattiva resterebbe, con tutti i suoi oneri micidiali, a carico di società dello Stato, ovvero sempre delle tasche dei cittadini.


Certo, quella caduta sulla testa di Passera è una brutta tegola. Lo è soprattutto politicamente perché nella partita, oltre al destino di Alitalia, è ormai in gioco la credibilità di Silvio Berlusconi che, avendo affossato l'alternativa Air France, deve comunque far uscire un coniglio dal suo cilindro, se non vuol perdere la faccia davanti al mondo intero. In questa stretta, forse, gli esperti di Intesa-Sanpaolo non sono in grado di escogitare ipotesi migliori di quella di cui si parla. Né li si potrebbe incolpare di avanzare ora soluzioni ben peggiori di quelle a suo tempo proposte dai francesi: mica sono loro che hanno fatto saltare il banco con Parigi.

Il punto cruciale è che quel che è consentito a Passera non lo è altrettanto per l'inquilino di Palazzo Chigi. Una nuova Alitalia unita ad Air One creerebbe un monopolio totale sulla rotta nazionale più importante (Milano-Roma) a danno del consumatore. Mentre la compagnia delle perdite accollata allo Stato sarebbe una rapina dei contribuenti. Per Berlusconi aggrapparsi a un simile esito sarebbe soltanto un modo diverso di perdere comunque la faccia.

(11 luglio 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:22:04 am »

Massimo Riva


La beffa di Scaroni


Nella visione del centrodestra, la privatizzazione dell'Eni è stata una beffa per il mercato e che il peggio delle partecipazioni statali è tutto men che sepolto  Paolo Scaroni, amministratore delegato di EniSe Sergio Marchionne avesse annunciato l'intenzione di spostare 200 milioni dalle casse della Fiat a quelle della famiglia Agnelli, ancorché vincolandone l'impiego in opere di beneficienza, si può star certi che sarebbe successo un finimondo. Dal 'parterre' di Piazza degli Affari su su fino alla Consob si sarebbero levate alte grida di denuncia e di riprovazione. Il suo omologo all'Eni, Paolo Scaroni, ha dichiarato la medesima volontà a favore del suo maggiore azionista, lo Stato, e non è successo praticamente nulla: qualche sparuto rilievo critico su parte della stampa, senza che le autorità di vigilanza alzassero almeno un sopracciglio.

Va bene che si vive in un paese nel quale il tema del conflitto d'interessi è stato rimosso dall'agenda politica e finanziaria per non disturbare il manovratore di Palazzo Chigi. Ma la specifica insensibilità generale di fronte a simile iniziativa dell'amministratore delegato dell'Eni è un ulteriore campanello d'allarme. Con tale mossa, infatti, il cerchio di potere attorno al governo Berlusconi fa capire che, nella visione del centrodestra, la privatizzazione dell'Eni è stata una beffa per il mercato e che il peggio delle partecipazioni statali è tutto men che sepolto. Tanto che lo Stato (o, meglio, chi oggi lo occupa) e i suoi novelli boiardi possono infischiarsene di gestire un'azienda che è quotata in Borsa con ampio ricorso a capitali privati italiani ed esteri: sopra tutto e tutti, fuori di ogni elementare regola mercantile, conta l'arbitrio dell'azionista pubblico e dei suoi scherani.

Tanta arroganza è pessima avvisaglia di una pericolosa marcia indietro nel processo, appena avviato, di liberazione delle aziende già di Stato dalla manomorta del potere politico. Un segnale sconfortante che si aggiunge ad altri non meno significativi. Uno per tutti: Alessandro Ortis, presidente dell'Authority per l'energia, è tornato a denunciare il ruolo preponderante che l'Eni detiene nella rete distributiva del gas, sollecitandone lo scorporo dal gruppo per avviare un minimo di reale concorrenza su quel mercato. Ebbene, con l'aria di chi può permettersi di ostentare assoluta noncuranza per la voce dell'Autorità di settore, il 'vigilato' Scaroni ha replicato definendosi annoiato dalla riproposizione della questione.


Guarda caso: subito dopo questo istruttivo scambio di vedute, la maggioranza di governo, con inedita e irrituale iniziativa, ha minacciato di azzerare l'attuale vertice dell'Autorità per l'energia ben prima della sua naturale scadenza. Un avvertimento a Ortis affinché ammorbidisca i suoi fervori antimonopolistici verso l'Eni? O addirittura la premessa di un suo siluramento per rendere un favore all'annoiato Scaroni? Non ci vorrà molto tempo per capirne di più.

Certo è che la concomitanza di questo scontro con la trista vicenda dei 200 milioni elargiti dall'Eni all'azionista Tesoro getta una luce obliqua sul tutto. Anche se non esistono elementi sicuri per collegare in una sorta di patto di scambio l'attacco all'Authority con i soldi promessi a Tremonti, il solo fatto che un simile dubbio possa restare appeso nell'aria denuncia il ritorno a un clima da Repubblica bananiera.

(18 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 27, 2008, 12:28:56 am »

Massimo Riva

Il paradosso Telecom


Dopo tre anni arrivano le prime conclusioni sulle investigazioni illegali realizzate dall'interno dell'allora gruppo Pirelli-Telecom. I magistrati hanno escluso ogni addebito nei confronti dei vertici del gruppo  Marco Tronchetti ProveraL'inchiesta giudiziaria sulle investigazioni illegali realizzate dall'interno dell'allora gruppo Pirelli-Telecom è giunta, dopo ben tre anni, alle sue prime conclusioni: alcune delle quali appaiono davvero paradossali. Le due aziende risultano ora indagate in base alla legge sulla responsabilità amministrativa delle imprese per non aver vigilato sui metodi usati dai propri servizi di sicurezza nel raccogliere informazioni su una quantità di imprese e di persone: qualche migliaio di parti lese. E però, anche se i reati fossero stati commessi nell'interesse delle due società, sia Pirelli sia Telecom potrebbero costituirsi in giudizio contro i dirigenti della Security (Giuliano Tavaroli e soci) per recuperare quanto speso da costoro nell'attività di dossieraggio: una quarantina di milioni di euro, che i magistrati qualificano come frutto del reato di appropriazione indebita.

Già questa doppia parte in commedia lascia perplessi sulla solidità del filo logico che tiene insieme le conclusioni degli inquirenti. Fatto sta che questa sovrapposizione di ruoli ha portato gli stessi magistrati a escludere ogni addebito nei confronti dei vertici del gruppo: il presidente, Marco Tronchetti Provera, e il suo braccio destro, Carlo Buora. Un'ottima notizia sul piano soggettivo, ma anche molto meno buona su quello societario.

Dalla scelta degli inquirenti, infatti, si deve dedurre la mancanza di prove certe che ai vertici massimi del gruppo Pirelli-Telecom si conoscessero o comunque si avallassero le investigazioni illecite contestate agli uomini della struttura interna guidata da Tavaroli. Si vedrà al processo se quest'ultimo potrà smontare simile teorema con le brucianti rivelazioni che ora promette. Già allo stato degli atti, tuttavia, le conclusioni dei magistrati portano a un'ulteriore considerazione: l'organizzazione aziendale era strutturata in termini tali per cui alcuni dipendenti potevano permettersi di spendere denaro della società fino alla rilevante cifra di una quarantina di milioni senza che ai piani superiori qualcuno si accorgesse di quel che stava accadendo. Ne è conferma, del resto, il fatto che sia Pirelli sia Telecom sono chiamate a rispondere di quella che può benevolmente chiamarsi incuria amministrativa.


In questo quadro si può anche capire che Tronchetti Provera e Buora festeggino lo scampato pericolo da imputazioni penali. Ma non è che sia particolarmente brillante essersela cavata per una sorta di riconosciuta seminfermità manageriale. Il giubilo dei due amministratori dell'allora gruppo Pirelli-Telecom non può, infatti, cancellare la contropartita del prezzo assai elevato che essi si trovano a pagare in termini di credibilità gestionale. Che un funzionario infedele scappi un venerdì sera in Sud America con la cassa rientra fra gli incidenti che possono capitare anche al migliore dei vigilanti. Ma che una struttura aziendale spenda così tanti milioni nel corso di anni senza che al vertice suoni l'allarme è segno di una fragilità organizzativa sorprendente. Forse gli altri azionisti di Pirelli e Telecom potrebbero avere buoni motivi per chiedere la restituzione del maltolto non solo a Tavaroli&C.

(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 02, 2008, 09:10:49 am »

Massimo Riva.


A cosa punta Geronzi


La battaglia per il riassetto dei poteri di comando ai vertici di Mediobanca rientra nel patologico scadimento dei comportamenti pubblici.

In un paese nel quale il presidente del Consiglio usa il Parlamento come una sartoria legislativa personale, nella quale farsi cucire addosso abiti normativi su misura dei propri bisogni, non c'è troppo da stupirsi se un così clamoroso cattivo esempio fa scuola anche fuori dal ristretto mondo della politica. Il pesce, dice un antico proverbio, comincia sempre a puzzare dalla testa. Quando dall'alto si manda il pessimo segnale secondo cui alle regole del gioco si può tranquillamente sostituire il gioco delle regole, il processo di degenerazione scende per i rami dell'albero istituzionale e si diffonde all'intero sistema.

Sembra proprio rientrare in questo patologico scadimento dei comportamenti pubblici la battaglia che si è aperta in Mediobanca per il riassetto dei poteri di comando ai vertici del grande istituto di credito. Appena un anno fa gli azionisti maggiori della banca illustrarono alla platea dei soci e all'intero mercato le meravigliose opportunità offerte dalla scelta organizzativa del cosiddetto sistema duale, basato su una netta distinzione di ruoli fra chi gestisce l'azienda e chi ne controlla l'operato. Ma ora - contrordine signori azionisti - il presidente del consiglio di sorveglianza (Cesare Geronzi) e alcuni importanti soci vorrebbero compiere una spudorata marcia indietro per tornare al precedente modello del consiglio d'amministrazione unico, affiancato dal collegio sindacale.

Purtroppo le ragioni di un simile voltafaccia, dopo tanto breve collaudo della nuova esperienza organizzativa, non sono poi così ardue da decifrare. Il fatto è che nei mesi scorsi la Banca d'Italia, quale autorità di vigilanza sul sistema creditizio, ha dettato regole stringenti in materia di duale per rendere davvero netta la distinzione dei poteri fra chi gestisce e chi sorveglia. Alcuni di questi vincoli hanno tarpato le ali alle non celate mire di Geronzi: da un lato, impedendogli di partecipare alle riunioni del consiglio di gestione e, dall'altro lato, bloccando le sue ambizioni di salire ai vertici del colosso Generali oltre che di esercitare un ruolo più attivo nel gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Ostacoli che verrebbero a cadere d'un colpo con il ritorno della governance di Mediobanca al modello tradizionale.

Insomma, la battaglia in corso non nasce da un confronto fra differenti scuole di pensiero su quale sia il modello organizzativo più conveniente per il grande istituto di credito, ma da uno scontro di potere innescato da tornaconti in parte personali e in altra parte di gruppo. Non è pensabile, infatti, che Geronzi stia muovendo le sue pedine soltanto in funzione delle sue bramosie soggettive: l'uomo è troppo navigato per ingaggiare guerra in solitario. Forse non si è lontani dal vero se si pensa che egli stia seguendo il presidente del Consiglio non solo quanto a disinvolto gioco delle regole, ma anche quanto a concordanza di vedute sulla sostanza dell'operazione. È dai tempi del 'niet' oppostogli da Merzagora che l'affarista Berlusconi punta ad avere un ruolo in Generali, almeno per interposta persona. Figuriamoci poi il politico Berlusconi quanto al 'Corriere della Sera'.

(01 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:40:19 pm »

Massimo Riva


Un regalo agli evasori


Se il gettito Iva nell'ultimo mese è calato del 7% non è solo colpa della congiuntura economica sfavorevole. Tremonti, cancellando le restrizioni normative di Visco, ha alimentato il ritorno all'evasione fiscale  Il ministro delle Finanze Giulio TremontiCon toni allarmati e sorpresi, come se avesse trascorso l'ultimo anno in chissà quale lontana galassia, il presidente del Consiglio annuncia ora che la situazione economica si è fatta pesante e che la coperta dei conti pubblici è corta, anzi cortissima. Il segnale che lo avrebbe risvegliato dal suo prolungato sonno in materia è soprattutto il brusco calo (7 per cento in meno) nel gettito Iva dell'ultimo mese rispetto ai precedenti.

Dato che, oltre a incidere negativamente sulle disponibilità del bilancio statale, è letto da Silvio Berlusconi come sintomo di una preoccupante contrazione dei consumi e degli affari. Una scoperta dell'acqua calda davvero degna di nota.

Che il volume degli incassi per l'Iva sia un indicatore della vitalità del ciclo economico è innegabile, salvo che le sue oscillazioni possono dipendere anche da altri fattori. Lo prova, per esempio, il fatto che la riduzione dei consumi è in atto ormai da più di un anno e, nonostante ciò, nel 2007 e nei primi mesi del 2008 il gettito dell'imposta è stato superiore alle più rosee previsioni. C'è un solo modo per spiegare questa apparente contraddizione: la base imponibile si stava allargando non tanto per incremento delle attività, quanto per riduzione costante dell'evasione fiscale.

Come confermato anche da un altro dato: gli incassi da Iva crescevano a tassi nettamente superiori a quelli di incremento del Pil. Insomma, vuoi per le strette normative operate da Vincenzo Visco, vuoi per l'immagine di maggior rigore impersonata da quest'ultimo, la tentazione di fare i furbi con le fatture Iva era in significativo declino.

Ebbene, una delle prime mosse del governo Berlusconi è stata quella di spazzare via proprio quelle misure che erano state concepite allo specifico fine di prosciugare il terreno più fertile per l'evasione fiscale in materia, che è quello dei pagamenti in contanti. In un sol colpo, infatti, sono stati abrogati i limiti sia al saldo delle parcelle dei professionisti in denaro liquido, sia all'emissione di assegni al portatore.


Fiscalista di lungo corso, il ministro Giulio Tremonti non poteva non sapere che questa sua mossa poteva essere letta in un solo senso dalla vasta platea delle partite Iva: dal più eminente degli avvocati come dall'ultimo degli idraulici. Ovvero nel senso di un ritorno alla tolleranza delle cattive abitudini del passato: invito subito raccolto con entusiasmo, stando ai dati forniti dal medesimo Berlusconi.

Insomma, se la coperta dei conti pubblici è diventata più corta, ciò dipenderà pure dalle difficoltà della congiuntura economica generale, ma in misura rilevante anche da alcuni atti specifici del governo in carica. Che vanno dalla rinnovata benevolenza verso gli evasori fiscali alla distribuzione di benefici tributari che, come l'abolizione totale dell'Ici e la detassazione degli straordinari, hanno favorito chi una casa comunque ce l'ha ovvero le imprese che già meglio reggono sul mercato. E adesso il presidente del Consiglio ha anche la spudoratezza di dirsi allarmato perché gli incassi dell'Iva hanno avuto un crollo e i consumi non marciano? Un po' più di rispetto per l'intelligenza degli italiani non guasterebbe.

(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:24:20 pm »

Massimo Riva


Il maldestro Tremonti


La decisione di anticipare i contenuti della Finanziaria nel decreto di metà anno rischia di essere sfortunata, perché tarata su previsioni di crescita sbagliata  Giulio TremontiGiulio Tremonti non si porta fortuna. Con un ponderoso decreto di metà anno, spacciato mediaticamente per manovra triennale, ha tentato di anticipare buona parte dei contenuti della Finanziaria per il 2009. Ma si è mosso troppo presto, tarando i suoi conti su una previsione di crescita del Pil di mezzo punto percentuale, come era accaduto nel primo trimestre di quest'anno.

Ora, però, l'Istat ha certificato che nel secondo trimestre vi è stata una pesante caduta in negativo nella misura dello 0,3 per cento. In queste condizioni sarà un lusso se l'anno potrà chiudersi con un segno positivo fra lo 0,1 e lo 0,2 per cento. Ciò significa che il castello di carta delle cifre di Tremonti sta franando: i conti dovranno essere rifatti daccapo sia per il bilancio 2008 sia per quello del 2009.

Il primo appuntamento di verifica è fissato per la fine di settembre, quando il ministro, che voleva svuotare la normale sessione di bilancio, si troverà costretto a sfruttarla come un'opportunità per mettere una pezza sugli errori delle sue stime frettolose.

Peggio ancora gli sta andando per quanto riguarda le sue fragorose sortite sulla scena internazionale in tema di lotta contro la speculazione finanziaria sulle materie prime, definita dal medesimo con toni apocalittici come la nuova pestilenza del Terzo millennio.

Ora che sul mercato del petrolio, per esempio, si scambi ogni giorno una quantità di contratti su barili di carta enormemente superiore a quella dei barili effettivamente prodotti è e rimane una realtà: dalla quale affaristi temerari possono trarre lauti profitti forzando le quotazioni anche al di là del punto d'incontro più ragionevole fra domanda e offerta. Ma da qualche settimana, mentre ancora alto è nell'aria il grido tremontiano del 'dagli all'untore', il prezzo del greggio ha invertito la sua marcia, scendendo rapidamente da quota 150 fino a meno di 120 dollari a barile.


L'onda recessiva che sta investendo le maggiori economie - perfino le grandi tigri asiatiche (Cina e India) stanno frenando i loro pur robusti tassi di crescita - ha mutato le aspettative sul mercato dei prodotti energetici. Cosicché, nel caso specifico del petrolio, è probabile che da una fase di continue scommesse al rialzo si stia semmai passando a un'altra di speculazione al ribasso, con punizione severa per chi si era troppo esposto nel ciclo precedente.

In ogni caso, che farsene a questo punto delle invettive tremontiane contro la peste del nuovo secolo? Se queste avevano già incontrato un'udienza cortese ma scettica nei consessi internazionali, ora rischiano di apparire come qualcosa di peggio di un errore di valutazione: ovvero come frutto di una callida mistificazione della realtà al fine di indicare un facile bersaglio sul quale scaricare ogni colpa dei guai economici che impedirebbero al governo di realizzare il tanto promesso Bengodi fiscale.

Il Paese non è nuovo a simili espedienti: in altri tempi, invece che di peste speculativa, si parlava di complotti demoplutocratici internazionali. È sconfortante dover constatare che oggi le maldestre trovate di Giulio Tremonti inducano a ricordare simili sventurati precedenti.

(14 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:48:54 pm »

Massimo Riva


Banche nella giungla


Meglio il modello europeo socialmente responsabile o quello americano del profitto ad ogni costo? In Italia è ancora presto per porsi interrogativi su un'etica del sistema bancario  La Banca Intesa San Paolo a TorinoI banchieri devono o non devono farsi carico della responsabilità sociale che grava sulla loro impresa? Devono o non devono orientare la loro azione al perseguimento anche dell'interesse generale? Insomma, è da preferire il modello europeo della cosiddetta economia sociale di mercato oppure quello americano del profitto innanzi a tutto? Si fa dura fatica a prendere sul serio il dibattito apertosi dopo la pubblicazione su 'Il Sole 24 ore' di un ponderoso intervento in materia da parte di Giovanni Bazoli. Nel quale il presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo fa una netta scelta di campo in favore della nozione di banca come soggetto carico di responsabilità collettive e generali.

La difficoltà ad appassionarsi alla disputa nasce dalla constatazione che essa rischia di alzare una cortina di fumo attorno ad altri nodi istituzionali irrisolti del sistema creditizio. Uno su tutti: quello dei conflitti d'interesse, presenti nel nostro mondo bancario in misura massiccia e abbondantemente sregolata.

Qualche esempio: ci sono i grandi azionisti di banca che sono anche grandi debitori della medesima e in parallelo gli istituti che finanziano le imprese di cui detengono parte del capitale, poi c'è il controllo delle banche sui fondi d'investimento le cui quote vengono pacificamente vendute alla clientela dagli sportelli dello stesso soggetto nel vuoto torricelliano di qualunque filtro credibile fra le banche e le società di gestione del risparmio. Nello specifico, c'è addirittura il caso di un prestigioso istituto, quale Mediobanca, che per storia e struttura si può definire come un monumento vivente al conflitto d'interesse.

A fine luglio c'è stata in materia un'importante riunione del Comitato per il credito, nella quale la già gracile disciplina degli intrecci fra banca e industria è stata ulteriormente indebolita. Era un atto dovuto per adeguarsi alle norme europee: ma in Italia il sicuro effetto sarà di moltiplicare le opportunità di incesto finanziario. Si poteva, quindi, sperare che il quadro delle novità fosse inserito in una cornice di regole stringenti contro la proliferazione delle metastasi del cancro principale.


Ne è uscita, invece, soltanto una bozza di identikit delle cosiddette 'parti correlate', tartufesco eufemismo dietro il quale mascherare la più acconcia nozione di conflitto d'interesse. A fissare paletti più rigorosi provvederà, non si sa quando, la Banca d'Italia. Quella stessa - guarda caso - che lamenta di non avere poteri adeguati per disboscare la foresta degli abusi presenti nell'attività creditizia, sollecitando interventi legislativi a un governo e a un parlamento del tutto sordi in proposito.

In simile scenario più che di dispute dottrinarie si avverte la priorità di risposte concrete a questioni concrete. Per esempio, nella logica del professor Bazoli, sarebbe stato più utile sapere quale interesse generale ritiene di perseguire la sua banca con un piano per il 'salvataggio' di Alitalia concepito secondo il risaputo schema di privatizzazione dei profitti e di socializzazione delle perdite. Modello tornato oggi in gran voga tanto in Europa che in America proprio per le crisi bancarie.


(22 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 29, 2008, 11:28:06 pm »


Massimo Riva


Fondi a sovranità limitata

Dai tempi delle crociate sono cambiati gli atteggiamenti degli interlocutori dell'Occidente. Adesso si presentano sul mercato in forme organizzate, hanno sagacia finanziaria e potere contrattuale  Angela MerkelGli storici delle crociate, o almeno quelli meno conformisti fra loro, ritengono che una concretissima motivazione economica sia stata ben dissimulata dietro le giaculatorie religiose sulla riconquista della cosiddetta Terra Santa finita in mano agli infedeli. Essi partono dalla constatazione che in quei secoli, bui ma di intensi traffici commerciali, le economie dell'Europa avevano subito un pesante impoverimento della loro base monetaria (allora principalmente in argento) con parallela concentrazione di ricchezze nei forzieri dei califfati mediorientali. Se per la bandiera, insomma, il fine era di liberare il sepolcro di Cristo, per la cassa si trattava più prosaicamente di riprendersi il malloppo.

Un processo finanziario non troppo dissimile è quello che Europa e Stati Uniti stanno vivendo ora a seguito del colossale trasferimento di risorse da Occidente a Oriente in forza di due fattori sovrapposti: la brutale escalation dei prezzi petroliferi e il rapido accumulo di riserve in eccesso in paesi a forte crescita economica, la Cina avanti a tutti. Una recente stima dice che non meno di 3 mila miliardi di dollari sarebbe la dote nelle mani dei cosiddetti 'fondi sovrani' ovvero di quei soggetti finanziari che fanno capo al governo di un determinato Stato: da Abu Dhabi a Singapore, dal Kuwait alla Cina, dalla Arabia Saudita alla Russia e così via.

Anche una trentina d'anni fa, al tempo dei due primi shock petroliferi, l'Occidente si trovò ad affrontare un'analoga requisizione di liquidità. Preclusa la via di nuove crociate, si fece ricorso a un intenso riciclaggio dei petrodollari sia con maggiori forniture di prodotti ai paesi esportatori di greggio sia con investimenti diretti di questi ultimi in imprese europee: tipico il caso della Libia con la Fiat. La differenza rispetto a oggi è che gli interlocutori dell'Occidente erano meno avvezzi agli usi e costumi della finanza internazionale
, mentre ora hanno imparato la lezione e si presentano sul mercato in forme organizzate (i fondi sovrani, appunto) che sanno ben combinare sagacia finanziaria e potere contrattuale.

Questa novità sta allarmando non pochi paesi occidentali. Al punto che perfino in Germania il governo di Angela Merkel ha messo in campo un disegno di legge per impedire a soggetti esterni all'Unione europea di acquisire partecipazioni rilevanti in imprese tedesche qualora ricorrano non meglio precisate ragioni "di ordine pubblico o di sicurezza nazionale". Un preoccupante segnale di paura dato che viene da un paese che è primo al mondo per esportazioni e dunque dovrebbe essere il più aperto sul piano degli scambi. Diventa perciò serio il rischio che la deriva protezionistica trovi altri seguaci in Europa, innescando una corsa alle barriere nazionali tale da trasformare il continente in una fortezza assediata con grave pericolo per la sopravvivenza del mercato unico. L'iniziativa tedesca è ora al vaglio di Bruxelles: c'è da sperare che al vertice dell'Unione non si sia smarrita la nozione dei vantaggi che la liberalizzazione degli scambi può ancora portare all'economia di tutti i paesi associati. La fruttuosa esperienza degli anni Settanta non va dimenticata.

(29 agosto 2008)


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« Risposta #27 inserito:: Settembre 05, 2008, 11:05:28 pm »

Massimo Riva


I conflitti del salotto buono


Mediobianca è un monumento vivente del conflitto d'interessi. Oltre a esercitare il credito, l'istituto è anche una holding che detiene partecipazioni rilevanti in molte imprese.

Antonio Maccanico, che della vita di Mediobanca conosce anche gli aspetti più reconditi, ha scritto che la scelta di una governance duale per l'istituto fu assunta per la "urgenza di porre rimedio all'accresciuto conflitto d'interessi", conseguente alla fusione Unicredit-Capitalia, "che vedeva il suo maggiore azionista diventare temibile concorrente.". Oh! Finalmente qualcuno che in questa torbida vicenda ha messo nero su bianco quel paio di paroline in cui sta la vera chiave del problema Mediobanca, ma che nessuno dei protagonisti vuole pronunciare: 'conflitto d'interessi'.

Solo che Antonio Maccanico, sollevato questo primo velo, fa finta pure lui di credere che si tratti di una questione tranquillamente accomodabile con un compromesso fra azionisti e management della banca, come fosse un affare di famiglia. Eh no! Troppo comodo e anche un po' tartufesco. Il punto di sostanza è che Mediobanca, per storia e per struttura, è un monumento vivente al conflitto d'interessi e non solo per la presenza nel suo azionariato di Unicredit. Oltre a esercitare il credito, l'istituto di Piazzetta Cuccia è anche una holding che detiene partecipazioni rilevanti in molte primarie imprese: Generali, Rizzoli-Corriere della Sera, Telecom e così via. Ciò comporta che in parecchi casi Mediobanca sia presente nel capitale di soggetti che sono anche suoi azionisti o suoi debitori in un intreccio di interessi confliggenti senza uguali nel panorama italiano e forse neppure internazionale.

Ai tempi di Enrico Cuccia, questo imbrogliato viluppo di affari era definito con enfatica condiscendenza come il 'salotto buono' della finanza italiana, nel senso più prosaico di stanza di compensazione degli scontri interni e riservati del capitalismo domestico. Cosicché il confine fra la nozione di salotto buono e quella di cupola di potere era e rimane assai sottile. Perciò oggi suona ancor più insolente per il comune buon senso che qualcuno - per giunta oberato da sgradevoli guai giudiziari - possa pensare di proseguire sul sentiero tracciato dal grande vecchio come se il mercato fosse rimasto quello di cinquant'anni fa. Ma proprio questa sembra essere l'intenzione che anima l'attuale presidente,
Cesare Geronzi, all'opera per gettare alle ortiche financo la foglia di fico della governance duale in modo da tornare alla tradizionale catena di comando.

E la montagna dei conflitti d'interessi? In materia Geronzi ha già detto la sua in una recente intervista: "Noi abbiamo circa 1.200 parti correlate (eufemismo per conflitti d'interessi, ndr). E tutte le operazioni che le riguarderebbero dovrebbero essere alla fine decise da amministratori indipendenti? Andiamo!". Un po' come dire che, se hai un milione di debiti, ti devi preoccupare, ma se ne hai un miliardo il problema è degli altri. In effetti, vaste e autorevoli sono le responsabilità di chi ha lasciato che Mediobanca diventasse negli anni un tale mostro finanziario. E ora è tempo di domarlo: magari cominciando, come suggerisce anche Alessandro Profumo, col separare in due soggetti con azionariato distinto e autonomo l'impresa che fa banca dalla holding di partecipazioni. Già così quante parti correlate in meno e quanta trasparenza in più!

(05 settembre 2008)


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« Risposta #28 inserito:: Settembre 13, 2008, 12:34:16 am »

Massimo Riva


Fantozzi allo sbaraglio


Il commissario della vecchia Alitalia ha accettato un compito difficile e molti rischi. Alla fine potrebbe trovarsi a combattere proprio con chi gli ha affidato l'incarico  Augusto FantozziAugusto Fantozzi ha accettato la nomina a commissario dell'insolvente Alitalia con il sorriso sulle labbra di chi ritiene così riconosciuta la sua capacità professionale nel gestire anche le situazioni più critiche. Non si vorrebbe spegnere l'ottimismo della sua volontà di riuscita ma, se c'è qualcuno in questa brutta vicenda che dovrebbe sentirsi a disagio, a forte disagio, questi è proprio lui. Perché il mandato che gli è stato conferito carica sulle sue spalle - più che su quelle di ogni altro soggetto coinvolto - responsabilità gravide di rischi. Soprattutto sotto il profilo delle conseguenze giuridiche dei suoi atti, che sono esposti a possibili e sgradevoli contraccolpi anche di ordine penale.

Tutto nasce dalla 'boiata pazzesca' - come la chiamerebbe l'altro Fantozzi per bocca di Paolo Villaggio - del decreto governativo che fa strame a 360 gradi di una quantità di buone regole di vita mercantile. Ma, quale che sia il tenore del provvedimento dal quale il commissario trae i suoi poteri di gestione, resta fondamentale e non eludibile un punto: compito primario di Fantozzi deve essere quello di valorizzare al massimo i beni che gli sono stati affidati in modo da minimizzare le perdite a carico di risparmiatori, azionisti, creditori vari, nonché della massa dei contribuenti ai quali, nella logica della sventurata operazione berlusconiana, tocca l'increscioso ruolo di pagatori di ultima istanza. Insomma, il commissario dovrà vedersela con una nutrita schiera di interessati che potrebbe aver molto da ridire su ciascuna delle sue mosse fino a impugnarla in sede giudiziaria.

Innanzi tutto, toccherà a Fantozzi accettare la proposta di rilevare la polpa del gruppo Alitalia concordata dai sedicenti patrioti dell'operazione Fenice. In questo attivo ci sono, per esempio, gli slot di cospicuo valore che la compagnia possiede in numerosi scali europei, da Londra a Parigi, da Francoforte a Madrid e così via.
Si tratta di beni commerciali molto ambiti dagli operatori del settore che potrebbero essere valorizzati al massimo solo attraverso una procedura di vendita al miglior offerente. In assenza della quale qualunque creditore potrebbe eccepire che la cessione diretta alla cordata Colaninno & C. rischia di essere pregiudizievole per il suo diritto al rimborso del dovuto. Non c'è barba di perizia da parte di pur autorevoli advisor, indicati dal governo o scelti dallo stesso Fantozzi, che possa mettere quest'ultimo al sicuro da contestazioni molto imbarazzanti.

Un altro caso spinoso riguarda il destino della flotta cargo e della manutenzione pesante di Alitalia. Il club dei compratori 'patriottici' vorrebbe lasciare questi due onerosi fardelli sulle spalle del commissario, ma questi s'è accorto - e lo ha già detto - che una simile soluzione gli creerebbe guai a non finire in sede contabile e poi giudiziaria. Su questo fronte, per salvare la credibilità del suo mandato, l'ottimo Fantozzi rischia perciò - colmo dei colmi - di trovarsi in rotta di collisione perfino con chi gli ha affidato l'incarico, cioè il governo. La natura diabolica del decreto per Alitalia non lascia scampo: fatte le pentole, mancano i coperchi.

(12 settembre 2008)

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« Risposta #29 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:34:33 am »

Massimo Riva


Telecom a doppio taglio


I rapporti fra Spagna e Italia potrebbero guastarsi con conseguenze spiacevoli. Il fronte più critico è quello della telefonia  Ottimi dopo l'ingresso di Enel in Endesa e di Telefonica in Telecom, i rapporti economici fra Italia e Spagna corrono ora il rischio di guastarsi con conseguenze anche incresciose. Il fronte più critico è quello della telefonia, dove gli iberici non possono certo sentirsi soddisfatti del loro investimento tanto dal punto di vista finanziario che da quello industriale. Nel primo caso per i rovesci subiti dalla quotazione del titolo in Borsa, nel secondo caso perché a Madrid ci si è accorti che avere il 42 per cento della Telco, società che controlla il 24 per cento di Telecom, equivale in pratica ad aver speso un mucchio di soldi per non contare quasi nulla nella gestione dell'azienda.

A questo punto gli spagnoli si trovano dinanzi a un bivio: o aspettare il momento borsistico più favorevole per ritirarsi dalla partita limitando i danni oppure andare avanti tentando a tempo debito di mettere le mani sul controllo di Telecom. Per cercare di chiarirsi le idee in proposito il presidente di Telefonica, Cesar Alierta, ha appena fatto un viaggio in Italia dai risultati per lui poco incoraggianti. Soprattutto sul piano politico perché, in un incontro a Palazzo Chigi, si è sentito dire dal presidente del Consiglio in persona che il governo di Roma non intende rinunciare all'italianità di Telecom. Ovvero che, qualora quest'ultima fosse messa in pericolo, Berlusconi sarebbe pronto a promuovere un'altra brillante operazione 'patriottica' sul modello Alitalia per arginare la penetrazione dello straniero.

Ora a Madrid stanno ragionando sul da farsi, ma è del tutto ovvio che, a questo punto, lo stop annunciato da Berlusconi non chiama in causa soltanto i vertici di Telefonica, ma anche il governo spagnolo in prima persona. Ed è qui che la posizione assunta dall'Italia rischia di subire un contrappasso sul dossier Enel-Endesa. Il nostro ente elettrico, al contrario di Telefonica con Telecom, non ha alcun motivo di dirsi insoddisfatto del suo investimento. Tanto che il suo amministratore delegato si è appena dichiarato pronto a salire nel controllo del gigante elettrico iberico qualora fosse messo in vendita il 25 per cento di Endesa in mano al socio spagnolo Acciona. Operazione importante perché porterebbe alla nascita sotto guida italiana del secondo gruppo energetico europeo ma che, per implicazioni strategiche evidenti, non potrà certo perfezionarsi senza un preventivo placet del governo di Madrid.

Forse a Palazzo Chigi, nell'esaltazione del riscoperto patriottismo economico, non ci hanno pensato, ma il tricolore che hanno voluto piantare su Telecom offre su un piatto d'argento a Luis Zapatero l'opportunità di restituire pan per focaccia a Silvio Berlusconi sul tavolo di Enel-Endesa, bloccando le ambizioni italiane senza troppi riguardi. Ovvero, in alternativa, condizionando l'esito della vicenda a una marcia indietro del governo di Roma sul caso Telefonica-Telecom in modo da riaprire la partita a condizioni più favorevoli per gli spagnoli. Il nazionalismo economico è sempre stato un'arma a doppio taglio e la storia insegna che chi di protezionismo ferisce, di protezionismo perisce.

(19 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it
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