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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 101377 volte)
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« inserito:: Giugno 25, 2007, 06:56:53 pm »

OPINIONI

AVVISO AI NAVIGANTI

Chi paga la rivolta fiscale
di Massimo Riva
 

Torbidi venti di rivolta fiscale tornano a soffiare in ampie zone del paese: segnatamente nelle regioni del Nord-est, ricche di lavoro autonomo sparso in una miriade di piccole imprese artigiane, commerciali, industriali. Stavolta la protesta risulta più minacciosa del solito perché sta raccogliendo consensi e solidarietà sia sul terreno tecnico sia su quello politico.

A fianco dei ribelli sono scesi in campo perfino i consulenti che curano gli affari tributari di questi particolari clienti. L'ordine professionale dei commercialisti si è spinto ad acquistare spazi pubblicitari sulla stampa per lanciare un appello a disattendere le nuove regole dei cosiddetti 'studi di settore' che costituiscono la base di riferimento per la tassazione dei redditi da lavoro autonomo. Un'iniziativa davvero clamorosa e sul filo della legalità. Ma non meno importanti e pericolosi sono gli appoggi venuti dal mondo politico, d'opposizione e addirittura di maggioranza.

Silvio Berlusconi ha di nuovo lanciato il sasso, incitando allo sciopero contro il Fisco. Salvo poi ritirare la mano protestando, come al suo solito, di essere stato frainteso o male interpretato. Ma va registrato che anche un vice-premier, come Francesco Rutelli, sta dando il suo prezioso (si spera, involontario) contributo ai potenziali rivoltosi predicando, un giorno sì e un altro pure, che le tasse sono troppo alte e il (suo) governo deve provvedere d'urgenza a ridurre la pressione fiscale. Tesi che viene argomentata anche con il fine politico di riconquistare i consensi elettorali perduti dal centro-sinistra nel recente voto amministrativo.

Sotto assedio, in tale scenario, è il ministero delle Finanze che incontra crescenti difficoltà a reggere l'urto della protesta. Una prima concessione è già stata fatta rinviando di 20 giorni la scadenza dei versamenti da parte di queste categorie di contribuenti. Una seconda è in gestazione in termini di semplificazione degli adempimenti relativi ai contestati studi di settore: mossa probabilmente utile per addolcire qualche eccesso di complicazione tecnica delle nuove regole. Quel che quasi tutti trascurano, però, è un particolare essenziale: alla revisione degli studi di settore è appeso un incasso di 2,7 miliardi conteggiato nel bilancio 2007. In mancanza del quale, tanto per fare un esempio, il famoso tesoretto di cui si parla (a vanvera) da mesi risulterebbe in pratica svuotato.

Cosicché, alla fine, uno scambio politico che rischia di profilarsi potrebbe essere il seguente: niente aumenti di prelievo sugli autonomi, ma anche nessun incremento per quei poveri derelitti che sopravvivono con una pensione da 500 o neppure euro il mese. Un autentico capolavoro di giustizia sociale in un paese nel quale si stima che l'evasione fiscale si collochi attorno al 20 per cento del prodotto interno, con radicamenti particolarmente accentuati proprio nell'ambito del lavoro autonomo.

Ma di che stupirsi? L'accumulo di un mostruoso debito pubblico che altro è se non il prodotto di governanti pavidi che, anziché esercitare la forza del diritto, hanno sempre ceduto alla prepotenza e all'arroganza di chi protesta e ricatta a voce più alta di altri?

da espressonline.it
« Ultima modifica: Gennaio 05, 2011, 04:58:47 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 22, 2007, 02:49:51 pm »

AVVISO AI NAVIGANTI

La regola salva poltrone

di Massimo Riva


Le nuove regole sulla governance duale hanno finora prodotto solo il moltiplicarsi di ruoli che i dirigenti si possono spartire.

Come nella fusione tra Intesa e Sanpaolo o i doppi ruoli di Cesare Geronzi.

Il caso di Cesare Geronzi ha aperto un utile (almeno si spera) dibattito sulla cosiddetta governance duale delle società da poco introdotta anche in Italia. Il banchiere romano, non pago di essere stato nominato presidente sia del patto di sindacato sia del consiglio di sorveglianza di Mediobanca perfino a dispetto delle sue disavventure giudiziarie, avrebbe voluto partecipare pure alle sedute del consiglio di gestione della stessa azienda. Un'ambizione che deve essere sembrata esorbitante al governatore di Bankitalia tanto che, nella sua qualità di vigilante sul sistema creditizio, ha precluso tale possibilità al fine di scongiurare una preoccupante commistione di ruoli e di responsabilità fra i due collegi di guida dell'istituto.

A stretto giro di posta con l'iniziativa di Mario Draghi è sceso in campo anche il presidente della Consob, Lamberto Cardia. Il quale ha posto al centro della sua relazione annuale proprio l'esigenza di correttivi all'attuale disciplina del sistema dualistico, sottolineando che nelle prime applicazioni pratiche di tale regime "la distinzione tra funzioni di gestione e di controllo e tra le rispettive responsabilità non è sempre chiara". Giudizi ai quali Cardia ha fatto seguire anche forti rilievi critici sulla moltiplicazione di poltrone (e prebende) conseguenti all'utilizzo del nuovo modello di governance.

Ce n'è abbastanza per chiedersi se sia stato davvero un bene introdurre tale riforma nel nostro ordinamento. Forse, in via teorica, può anche suonare attraente l'idea che una società sia amministrata da un vertice bicefalo: con un consiglio formato dai manager operativi che opera sotto la sorveglianza di un collegio rappresentativo degli azionisti. Ma sul piano pratico? Nelle sue (finora poche) versioni italiane questa novità ha avuto effetti positivi solo nel senso che ha reso disponibile un più elevato numero di poltrone, così aiutando a superare quello che rimane il principale ostacolo ad operazioni di concentrazione o fusione fra società:
la contesa sui posti di comando.

Sarebbero state così facili, per esempio, le nozze fra Intesa e Sanpaolo se il numeroso parentado di vertice dei due istituti non avesse potuto spartirsi ruoli e seggi in quantità fra consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione? E ancora: il riassetto di Mediobanca, conseguente al suddetto matrimonio, sarebbe andato altrettanto liscio se non ci fosse stata la medesima opportunità di moltiplicare i posti a disposizione fra così tanti contendenti? Interrogativi retorici che postulano, però, un'ulteriore domanda: è giusto e accettabile che i pesanti costi economici di un simile incentivo alle ristrutturazioni societarie siano alla fine scaricati sull'intera platea degli azionisti?

È antica e irrisolta questione quella dei robusti compensi che i vertici delle società per azioni si assegnano sovente fuori di ogni reale possibilità di controllo da parte degli azionisti minori. Il ricorso alla governance duale rischia di esasperare i termini di un problema non marginale per la credibilità del sistema. Iniziative in materia da parte di Draghi e di Cardia appaiono tanto necessarie quanto urgenti.

(20 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Aprile 08, 2009, 10:05:02 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 20, 2007, 12:14:51 am »

AVVISO AI NAVIGANTI

Tutti zitti su Geronzi

di Massimo Riva


La posizione giudiziaria di Geronzi si aggrava nell'indifferenza della business community. Un silenzio che non getta una buona luce su gran parte del capitalismo nazionale  Il 'pedigree' giudiziario del presidente di Mediobanca si allunga e si aggrava. Già condannato in primo grado per il crack del cosiddetto Bagaglino e poi rinviato a giudizio per il caso Parmalat, ora Cesare Geronzi è mandato di nuovo davanti ai giudici anche per la vicenda Cirio: per giunta, in una compagnia non delle più raccomandabili come quella di Gianpiero Fiorani, il rinomato boss della Popolare di Lodi. Le imputazioni a carico dell'ex patron della Banca di Roma riguardano sempre il medesimo reato di bancarotta in tutte le sue declinazioni: fraudolenta, preferenziale, distrattiva. Quanto di peggio si possa prevedere per l'immagine di chi fa di professione il banchiere.

Orbene, Mediobanca non sarà più quella dei tempi di Enrico Cuccia, ma resta pur sempre un crocevia fondamentale per gli assetti del capitalismo domestico. Dunque, era lecito pensare che questa ennesima disavventura giudiziaria suscitasse opportune reazioni almeno da parte di qualcuno dei tanto autorevoli azionisti dell'istituto. Non s'è mossa una foglia: come per i casi precedenti, un velo di silenzio, forse più connivente che indifferente, ha accompagnato la notizia. Anzi, è accaduto di peggio: uno dei principali protagonisti della partita, il francese Vincent Bolloré, ha dato l'annuncio che presto Geronzi sarà nominato vice-presidente delle Generali, il colosso assicurativo di cui Mediobanca è il maggiore azionista.

Questa solidarietà di tanta parte della business community con il banchiere incriminato ha qualcosa di inspiegabile, almeno alla luce del sole. Possibile che nessuno si renda conto degli inevitabili contraccolpi sulla credibilità dell'intero sistema finanziario? A questo punto i casi possono essere soltanto due. O fa cinicamente comodo un po' a tutti che al vertice di un centro di grande potere economico, quale l'asse Mediobanca-Generali, sieda una sorta di anatra zoppa ovvero Cesare Geronzi dispone di argomenti, chiamiamoli così, fortemente persuasivi per tenere sull'attenti perfino i nomi più altisonanti del capitalismo nazionale.

Ipotesi che gettano entrambe una pessima luce sull'etica oggi prevalente nel mondo degli affari.


A completare il quadro va ricordata anche la brutta gaffe commessa dallo stesso Geronzi, che ha cercato di riaccreditarsi affermando di essere stato a suo tempo sollecitato per la presidenza di Mediobanca dal defunto Vincenzo Maranghi, già pupillo e successore di Enrico Cuccia poi estromesso (lui sì!) senza tanti complimenti dall'istituto.

Asserzione che ha provocato una netta smentita da parte della famiglia Maranghi, giustamente infastidita da questo tentativo di ripararsi dietro una persona non più in grado di replicare. Una così maldestra sortita è probabilmente il segnale che Cesare Geronzi deve essere consapevole della sua imbarazzante posizione, ma essa suona anche come l'implicita confessione di uno stile umano e professionale non precisamente esemplare. In ogni caso, quali che siano le spiegazioni di tutta questa incresciosa vicenda, un punto è chiaro: coloro che fanno finta di nulla dinanzi al caso Geronzi rendono un pessimo servizio a se stessi e al buon nome del capitalismo italiano.

(18 ottobre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 03, 2007, 08:10:55 am »

AVVISO AI NAVIGANTI

Smemorato Montezemolo

di Massimo Riva


Il presidente di Confindustria dice che l'Italia non è governata da dodici anni. Ma dimentica lo sforzo del tandem Ciampi-Prodi per agganciare l'Italia all'Europa  Luca Cordero di MontezemoloOgni volta che il presidente di Confindustria lancia frecciate polemiche al mondo politico - evento che si ripete con una certa assiduità - riprende slancio un tormentone che agita da tempo i palazzi romani: ma Luca di Montezemolo sta forse preparando il terreno a un suo personale impegno diretto in politica? Interrogativo che la sua più recente sortita in quel di Caserta ha reso ancora più battente a causa di un giudizio particolarmente duro e liquidatorio pronunciato nell'occasione: "Questo paese non è governato da dodici anni".

Si può lasciare ad altri il gusto di strologare sulle reali intenzioni del personaggio verso la politica, anche perché oggi un simile esercizio rischia comunque di risultare di scarsa utilità. Mentre vale la pena di concentrarsi sul merito specifico delle parole dette dal presidente degli industriali. Che senso ha aver detto che l'Italia non è governata da dodici anni? Già il riferimento temporale suona piuttosto stravagante: forse che nella dozzina d'anni precedenti il 1995, si stava davvero tanto meglio? In realtà, non pare che si possa ricordare con nostalgia quel convulso periodo di crescita del debito pubblico e di allegra spesa che portò il paese sull'orlo della bancarotta nel drammatico settembre nero del 1992. Ma questo sarebbe ancora il meno.

Il fatto più stupefacente è che, mettendo in un unico fascio tutte le erbe governative dal primo gabinetto Prodi all'attuale passando per il quinquennio berlusconiano, Montezemolo avrà forse voluto darsi una patente di equidistanza dai due grandi blocchi politici in competizione, ma di sicuro è caduto in una svista a dir poco clamorosa. Si dà il caso, infatti, che dentro quel dodicennio da lui così disprezzato si collochi una non breve né insignificante battaglia politica nella quale il tandem governativo Ciampi-Prodi tanto bene riuscì nell'opera di governo del Paese che ottenne - anche contro le scettiche (e talora interessate) previsioni del mondo imprenditoriale - di agganciare l'Italia al treno dell'euro fin dalla partenza. Perfino ricorrendo allo strumento di una tassazione straordinaria e in parte temporanea che i cittadini accettarono senza colpo ferire, lasciando ammirata l'Europa intera.


Per chi oggi sta al vertice di Confindustria e di Fiat un simile lapsus di memoria non è un buon segno, indipendentemente dalle reali o soltanto supposte ambizioni politiche. A lui e a chi lo applaude va richiamato il valore storico incontestabile di un successo dell'opera di governo, in mancanza del quale oggi la vita degli italiani (produttori e consumatori) sarebbe un film dell'orrore in termini di potere d'acquisto, di tassi di interesse, di bolletta energetica e via bancarottando nel pubblico come nel privato. Tutte cose, del resto, che Luca di Montezemolo non ignora di sicuro. Tanto più perché oggi egli rappresenta anche una grande industria quale Fiat che, già usa a non lievi aiuti di Stato nei suoi anni peggiori, si è risollevata da una crisi profonda e ha ritrovato capacità competitiva pure in una stagione di moneta forte. Davvero non si capisce perché proprio al presidente della Ferrari sia scivolata così maldestralmente la frizione.

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 09, 2007, 05:45:55 pm »

AVVISO AI NAVIGANTI

I privilegi di Bernheim

di Massimo Riva


Il fondo Algebris ha sferrato un attacco a viso aperto contro l'attuale vertice delle Assicurazioni Generali  Palazzo della Borsa a MilanoNon sarebbe da ingenui ma da stupidi scambiare gli amministratori degli hedge fund per dei cavalieri senza macchia e senza paura che volteggiano sui mercati finanziari in nome e per conto del bene comune. Il fatto che almeno quattro di questi fondi su cinque siano domiciliati nell'accogliente tepore fiscale delle isole Cayman già la dice lunga sulla scarsa propensione dei loro gestori a lavorare nel solco di mercati trasparenti, ben regolati e disciplinati. Ciò non toglie, però, che l'attivismo di costoro possa produrre talvolta effetti benefici e positivi, mettendo a nudo abusive posizioni di rendita azionaria ovvero ingiustificabili situazioni di potere societario.

In questa ottica lascia francamente sconcertati il tipo di reazioni seguite all'attacco a viso aperto che il fondo Algebris ha promosso contro l'attuale vertice delle Assicurazioni Generali. Sia chiaro: se la Consob dovesse accertare che gli eccessi borsistici verificatisi sull'onda di questa iniziativa configurano manovre di aggiotaggio, sarà bene che i responsabili siano colpiti con la severità necessaria. Ma, oltre a mettere sotto la lente i comportamenti di chi ha lanciato la sfida, come è stato richiesto a gran voce perfino da qualche associazione di consumatori, sarebbe almeno altrettanto giusto e doveroso prendere in seria considerazione il merito delle accuse sollevate da Algebris.

Esse riguardano essenzialmente due punti. Primo, le retribuzioni che gli amministratori di Generali si sono graziosamente concesse, a cominciare da quella esorbitante del presidente Bernheim. Secondo, il controverso modello di 'governance' dell'azienda che appare come il riflesso passivo delle complicate trame di potere connesse agli incroci azionari al centro dei quali si trova il gigante assicurativo. Al riguardo ci si può anche chiedere se l'attacco di Algebris sia una sortita solitaria destinata a magro successo ovvero rientri in un gioco più ambizioso, con potenti alleati coperti, per mettere alle corde il sistema di potere che orbita attorno alle Generali. Ma il fatto che da più parti ci si stia già riparando dietro il tricolore a difesa di un'italianità in pericolo suona sgradevole e sospetto.


Certo, quello di Generali è una sorta di campo di battaglia sul quale si esercitano da tempo in guerre non dichiarate gli interessi di una rilevate porzione del potere economico nazionale: da Mediobanca a Unicredit, da Intesa-Sanpaolo a Telecom e così via fino al Corriere della Sera. Qualcuno ora vuole mettere in discussione le fragili e compromissorie basi su cui si fonda questa chiusa e complessa cupola di potere? Ebbene, dove sta lo scandalo? Dove, poi, la minaccia per la patria? Ma quando mai i protagonisti di queste partite, nei loro giochi riservatissimi, hanno operato in nome di un altro bene che non fosse il loro personale o, nel migliore dei casi, aziendale?

Del tutto grottesca, in questo panorama, risulta infine la messa in guardia che viene fatta contro gli sfidanti: attenzione, si dice agli italiani, perché gli uomini degli hedge fund puntano soltanto a fare soldi e in fretta! Ma guarda un po': perché gli altri a quali più nobili e lungimiranti fini si dedicano?

(09 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 12, 2008, 03:37:26 pm »

Masimo Riva

Avvoltoi sopra l'Alitalia


La vicenda Alitalia si trascina ancora di mese in mese ad oltre un anno dal lancio della gara d'asta. La crisi del governo Prodi ha riacceso le speranze di chi non vuole la soluzione francese  Un aereo AirOneAl non modico prezzo di quasi un milione di perdite al giorno, la vicenda Alitalia si trascina ancora di mese in mese ad oltre un anno dal lancio della gara d'asta finita in una bolla di sapone. Sul tavolo c'è la trattativa con AirFrance che dovrebbe arrivare alla stretta finale nel giro di qualche settimana. Il termine ultimo è stato fissato per il 14 marzo. Sia i vertici della compagnia sia l'azionista di controllo (il ministero dell'Economia) si dicono convinti che non vi sia ormai altra strada da percorrere per scongiurare il formale fallimento dell'azienda.

La crisi del governo Prodi ha, però, riacceso le speranze di chi non vuole la soluzione francese. Si tratta al momento di un'informe brigata d'interessi che si muove in ordine sparso, ma con un comune (non facile) obiettivo: salvare insieme all'Alitalia anche quell'aeroporto di Malpensa che ha dato il colpo di grazia ai già fragili conti della compagnia. In campo c'è, innanzitutto, la società AirOne che, spalleggiata da Banca Intesa, si è sentita scavalcata dall'offerta AirFrance ed ora ha fatto ricorso al Tar per congelare il negoziato con Parigi. Un'altra iniziativa giudiziaria è stata annunciata dalla Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi, per reclamare il risarcimento dei danni (oltre un miliardo) che ricadrebbero su Malpensa per gli slot abbandonati da Alitalia.

Ma fra i soci pubblici della medesima Sea non c'è accordo sul ricorso alle carte bollate. E' favorevole il sindaco di Milano, Letizia Moratti, per la quota del Comune. Non lo sono, per la loro parte, il presidente della Regione e quello della Provincia, che preferirebbero una linea trattativista con il governo. Attorno a costoro si agita un variegato fronte politico, economico e sindacale che preme anch'esso per una soluzione in grado di salvare la capra di Alitalia e i cavoli di Malpensa. L'ultima novità su questo versante è che il tentativo di AirOne potrebbe essere fiancheggiato da una cordata di nomi, anche altisonanti, dell'imprenditoria lombarda.


Non è la prima volta che un simile proposito si affaccia in questa telenovela. Peccato che, al momento di contare i soldi sul piatto, si sia sempre scoperto che il mondo industriale è tanto veemente nel protestare contro il ridimensionamento di Malpensa quanto avaro nell'aprire il portafoglio. Anche stavolta, del resto, punto di forza dei 'malpensanti' è la richiesta di una moratoria di almeno tre anni sull'abbandono degli slot da parte di Alitalia. Un modo neanche troppo nascosto di continuare a scaricare costi (600 milioni) sul bilancio della compagnia, cioè sulle tasche di Pantalone.

Siamo così al punto che il combinato disposto delle liti giudiziarie e della crisi di governo fa temere un fatale allungamento dei tempi per la soluzione del problema col rischio che "l'oggetto del contendere", come ha detto il ministro Padoa-Schioppa "venga meno prima che la contesa sia risolta". Insomma, che Alitalia si trovi obbligata a portare i libri in tribunale. Un esito inglorioso che potrebbe, però, far comodo a tanti: alle compagnie concorrenti come a chi voglia mettere le mani su quel che resta di Alitalia a prezzo fallimentare.

(11 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 15, 2008, 09:34:00 pm »

Massimo Riva

Quei ministri impotenti


I grandi sacerdoti dell'economia internazionale non sanno come fronteggiare la valanga di disastri innescata dalla crisi dei mutui immobiliari  Questa volta gli 'spiriti animali' del capitalismo l'hanno combinata davvero grossa. Tanto grossa che i grandi sacerdoti dell'economia internazionale - ministri delle Finanze e governatori centrali dei paesi più ricchi - non sanno proprio che pesci pigliare. Infatti, riuniti a Tokyo per discutere il da farsi contro la valanga di disastri innescata dalla crisi dei mutui immobiliari americani, i togati custodi della stabilità dei mercati non hanno fatto di meglio che balbettare parole ovvie e scontate e perciò del tutto inutili e inefficaci.

Il dato più grave è che questa resa incondizionata al corso degli eventi nasconde due forme di impotenza. La prima, forse in parte giustificabile, nasce dalla riconosciuta ignoranza di informazioni attendibili sulla dimensione reale delle voragini che si sono aperte nei bilanci del sistema creditizio e finanziario. In effetti, non si fa in tempo a stimare i buchi dichiarati che, da un giorno all'altro, ne emergono di nuovi e sempre maggiori in una sorta di catena di Sant'Antonio del malaffare. Al principio le banche centrali hanno creduto di poter arginare questa grandinata con iniezioni a breve di liquidità, ora ci si rende conto che i mercati covano al loro interno guasti che richiederebbero interventi ben più radicali anche di qualche vigoroso taglio al costo del denaro.

Si tratterebbe, in particolare, di fare piazza pulita dei maneggioni senza scrupoli annidati in banche e agenzie di rating, domando proprio quegli 'spiriti animali' del sistema tanto spavaldi ieri nel reclamare piena libertà d'azione quanto oggi genuflessi a chiedere grazia e aiuti alle pubbliche autorità. Ma è proprio su questo punto che la sterilità dei grandi chierici nel generare misure di controllo contro l'avventurismo finanziario lascia trasparire un'altra e più insidiosa forma di incapacità che, con metafora medica, si potrebbe chiamare 'impotentia coeundi'. Non si prendono provvedimenti perché manca la spinta a penetrare nei meccanismi del mercato per placarne la soggezione agli istinti più licenziosi. Come dimostra il fatto che il gran consulto di Tokyo si è chiuso con un paradossale appello dei clinici affinché le banche infette si curino da sole.

È possibile che tale atteggiamento rinunciatario nasca da un diffuso pregiudizio ideologico favorevole a tollerare perfino le devianze più animalesche dello spirito mercantile. Certo è che questa abdicazione da parte di chi dovrebbe vigilare sulla correttezza degli affari può anche essere letta come una fuga dalle responsabilità e così rendere più alta e devastante quell'onda di sfiducia crescente che già sta mettendo in ginocchio i mercati finanziari. Come s'è visto anche nel cortile di casa nostra, dove l'esodo di massa dai fondi d'investimento trae nuove ragioni proprio dal fatto che il governatore Draghi, anziché intervenire per liberare la piazza dai troppi conflitti d'interessi che la soffocano, si limita a fare appelli al ravvedimento operoso dei colpevoli. Un messaggio che serve solo ad alimentare l'allarme, senza scalfirne le cause. Qualcuno dovrebbe spiegare agli augusti ministri e governatori che il confine fra impotenza e connivenza è talora sottile.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 08, 2008, 05:00:35 pm »

Massimo Riva

La demagogia non paga le tasse

La pressione fiscale è giustamente al centro del dibattito elettorale. È quindi il momento giusto per sgomberare il campo da alcune mistificazioni della realtà  Che la campagna elettorale abbia al suo centro il tema delle tasse è logico. Sia per ragioni storiche: i parlamenti sono nati proprio al fine di controllare le decisioni fiscali del Principe; sia oggi anche e soprattutto per ragioni contingenti, dato che in Italia il prelievo tributario risulta elevato in quantità oltre che squilibrato in qualità, soprattutto nei confronti del lavoro dipendente. Alcuni degli argomenti trattati nei comizi di questi giorni fanno, tuttavia, temere che la situazione possa piuttosto peggiorare che migliorare.

Intanto il campo andrebbe sgomberato da una prima e fuorviante mistificazione della realtà relativa alla crescita della pressione fiscale. È vero, infatti, che nel 2007 il gettito tributario è salito, ma è altrettanto vero che parte non trascurabile di questo aumento deve essere attribuita a un significativo recupero di evasione o elusione dell'obbligo tributario: quindi, almeno per quelli onesti fra i contribuenti, la situazione è rimasta sostanzialmente invariata rispetto al 2006. In altre parole: non si sono pagate più tasse, ma si sono pagate di più le tasse normalmente dovute. Il che prova che - solo perseverando nella lotta all'evasione - si potranno incassare maggiori risorse per far pagare meno tasse in particolare a coloro che non hanno mai avuto l'opportunità di fare i furbi, come appunto i lavoratori dipendenti.

Peccato che, proprio su questo nodo cruciale, stiano avanzando proposte che obbediscono platealmente a finalità di bassa e ingannevole demagogia. La più pericolosa, anche istituzionalmente, di queste è quella sostenuta dal fronte berlusconiano che mira alla detassazione degli straordinari o addirittura della tredicesima. Tralasciamo pure il piccolo particolare che una simile ipotesi costituirebbe un premio occulto a chi sta dentro il mercato del lavoro e un'ulteriore e solenne fregatura per chi ha la disgrazia di non riuscire a entrarci e avrà così sempre meno possibilità di farlo. Ma
è soprattutto sul piano dei fondamenti della giustizia tributaria che questa proposta suona stravolgente.

Principio basilare dell'equità fiscale è che ciascuno paghi in proporzione al proprio reddito. Che senso avrebbe al riguardo segmentare la busta paga del lavoratore-contribuente con l'inserimento di una zona franca dalle imposte? Quale se non quello di voler concedere un piccolo privilegio atto soprattutto ad agire da paravento per quei ben maggiori vantaggi che sono concessi ad altre categorie reddituali? La via maestra in materia non può essere quella di rinfoltire la giungla legislativa nel rapporto fra i cittadini e l'Erario. Si tratta piuttosto di agire su alcuni istituti fiscali esistenti che già offrono eccellenti opzioni di intervento. La prima, fondamentale, sarebbe una riduzione della prima aliquota Irpef, quella sui redditi più bassi. La seconda è quella di riconoscere anche ai dipendenti spazi di detrazione forfettaria per spese relative alla propria attività come, per esempio, quelle necessarie a raggiungere il posto di lavoro.

Chi trascura simili soluzioni e promette mirabolanti franchigie lavora per accrescere l'arbitrarietà e non l'equità del regime fiscale.

(07 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 21, 2008, 07:46:42 pm »

Massimo Riva


Una donna eletta alla vertice di Confindustria è un bel segnale da parte dell'imprenditoria italiana.

Entusiasma meno la maggioranza bulgara ottenuta dalla giovane presidente  Emma MarcegagliaUna donna quarantenne che sale alla presidenza di Confindustria è già un bel segnale da parte della classe imprenditoriale. Perché vi si può leggere un'indicazione anche a livello istituzionale di quella capacità di cambiamento e di innovazione che dovrebbe costituire la caratteristica saliente del mondo industriale. Soprattutto oggi, in un panorama economico mondiale in rapida trasformazione. Meno entusiasmante forse è la maggioranza bulgara ottenuta da Emma Marcegaglia. L'esperienza confindustriale insegna che le votazioni plebiscitarie sovente non assorbono ma nascondono il dissenso, sempre latente in un'organizzazione sindacale nella quale si giustappongono interessi economici e inclinazioni politiche conflittuali.

Sarà, dunque, sull'agenda dei problemi concreti che la giovane presidente dovrà dimostrare forza e tenuta della sua leadership. Il predecessore le lascia al riguardo un'eredità preziosa e al tempo stesso non facile. Innanzi tutto, sul terreno dei rapporti con il potere politico, dove Luca di Montezemolo - prima con Berlusconi e poi con Prodi - ha saputo sganciare Confindustria dalla tara del collateralismo filogovernativo per farne un interlocutore autonomo da scelte aprioristiche di schieramento. Linea che Marcegaglia non potrà non continuare, ma in un contesto generale il quale si annuncia assai più impervio. Perché dopo le prossime elezioni è inevitabile che qualunque nuovo governo sarà spinto dalla difficile congiuntura economica interna e internazionale a reiterare tentativi di arruolamento - vuoi per soggetti singoli vuoi per blocchi d'interesse - nei confronti del variegato mondo imprenditoriale.

Quello di fisco-retribuzioni-contratti sarà il principale terreno di confronto. Che la questione salariale sia diventata una minaccia alla pace e alla coesione sociale del paese è un fatto riconosciuto anche da molti imprenditori. Ma al riguardo si possono battere strade parallele e complementari ovvero intrecciate e sovrapposte. Al governo spetta trovare, attraverso tagli di spesa pubblica e lotta all'evasione fiscale, spazi per significativi sgravi di imposta. A sindacati e Confindustria di promuovere una riforma dei contratti che dia spazio ad aumenti salariali in parallelo a recuperi di produttività. Forte, in entrambe le parti sociali, è la tentazione di sciogliere il nodo di loro specifica competenza facendo leva sul contributo dell'erario. Marcegaglia si accomoderà su questa linea ovvero farà fino in fondo la parte sua? Ecco per lei un primo e cruciale banco di prova.


In caso poi di vittoria del centro-destra un altro test insidioso per la nuova presidenza sarà quello dei mercati. Giulio Tremonti non perde occasione per predicare un protezionismo anche daziario contro le insidie del commercio internazionale. Marcegaglia si trova a guidare una Confindustria divisa. Da una parte, aziende che hanno saputo reggere la sfida della moneta forte e navigare nel mare aperto della competizione mondiale; dall'altra, imprese che arrancano ed invocano protezioni.

Che cosa sceglierà la nuova presidenza: il lungo o il corto respiro? In ogni caso, sarà messa a dura prova la maggioranza bulgara del suo insediamento.

(21 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 05, 2008, 11:16:07 am »

Massimo Riva

Chi paga la tassa Alitalia

Nelle vicenda Alitalia è stato trascurato un protagonista fondamentale, il contribuente. Gli italiani stanno pagando di tasca loro le disavventure finanziarie della compagnia di bandiera  E i contribuenti? Finora nella vicenda Alitalia tutti gli interessi coinvolti hanno trovato un portavoce politico o sindacale fuorché uno. Quello della generalità dei cittadini comuni - viaggiatori e non - i quali sono stati obbligati a ripagare a piè di lista le prolungate disavventure finanziarie della compagnia attraverso le tasse versate all'Erario. Il tutto per un valore monetario complessivo che, stando a calcoli prudenti, si aggira su circa 15 miliardi di euro soltanto negli ultimi 15 anni.

Una cifra che grida vendetta al cielo anche perché, ogni volta che lo Stato ha rimpinguato le casse esauste dell'azienda, l'amara pillola veniva addolcita con la promessa che si sarebbe trattato della svolta decisiva per uscire definitivamente dai guai. Per fortuna - ahinoi tardiva - è poi intervenuta l'Unione europea che ha sbarrato la strada alle sovvenzioni pubbliche alle imprese. Ma non è che lo stop di Bruxelles sia servito granché: tutti i maggiori responsabili di questo colossale disastro continuano a ragionare e a comportarsi nell'assoluta indifferenza verso i finanziatori di ultima istanza della compagnia, che sono sempre i malcapitati contribuenti.

Di costoro se ne infischiano i piloti dell'Anpac, i quali hanno proclamato che preferiscono azzerare il valore della società con il fallimento pur di non accettare le condizioni per loro poco vantaggiose offerte da Air France. Pari considerazione per le tasche di Pantalone mostrano anche i maggiori sindacati, a partire dalla Uil che insiste a chiedere di protrarre nel tempo ogni decisione, impassibile davanti al fatto che così un milione di euro dei contribuenti se ne va in fumo a ogni calar del sole. Per carità, nessuno contesta che il mestiere del sindacato sia quello di difendere i lavoratori coinvolti in questa crisi direttamente (Alitalia) o indirettamente (Malpensa). E però esiste un limite di pubblica decenza nel volere, senza avere neppure il coraggio di dirlo, che la tassa occulta di Alitalia continui a pesare su tutti i cittadini.

Rilievi ancora più gravi si devono poi fare alla classe politica. Non paghi di aver posto le premesse del dissesto con i ritardi nelle infrastrutture di Malpensa e con la feroce concorrenza attraverso gli scali di Linate e di Orio al Serio, il presidente della regione Lombardia e il sindaco di Milano insistono su posizioni il cui succo è far sopravvivere l'aeroporto varesino a spese del bilancio Alitalia, cioè del solito sventurato contribuente. Da ultimo su questa linea si è assestato anche colui che pure gira le piazze d'Italia proclamando il ferreo impegno a non mettere le mani nelle tasche dei cittadini. Che cosa indica, infatti, il 'niet' di Silvio Berlusconi ad Air France accompagnato dalla richiesta di un prestito del Tesoro per dare spazio alla creazione di una tuttora fantomatica cordata tricolore? Che cosa se non la volontà dissimulata di continuare a spremere proprio le suddette tasche degli italiani? Alitalia ha già tosato allegramente i suoi passeggeri, per esempio sulla rotta Milano-Roma. Ma per quanto riguarda i contribuenti è ora e tempo di dire una sola parola: basta! Basta soprattutto con chi si traveste da patriota coi soldi altrui!

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:22:27 am »

Massimo Riva

Pagella Montezemolo


Nei gioni in cui il Paese cambia governo, si allontana dal palcoscenico istituzionale un protagonista di questi ultimi tempi: Luca di Montezemolo. La migliore eredità sarebbe evitare il colpo di teatro di una discesa diretta in campo politico. 

Mentre il Paese sta per affidarsi a un nuovo governo, si allontana dal palcoscenico istituzionale un protagonista di spicco del teatro politico-economico di questi ultimi tempi: il presidente uscente di Confindustria, Luca di Montezemolo. Al quale è toccato di vivere un'esperienza davvero singolare, avendo svolto il suo primo mandato nel biennio finale del passato gabinetto Berlusconi ed il secondo nei primi e due soli anni dell'ormai concluso ministero Prodi. Una convivenza di opposto segno politico nella quale il leader degli industriali ha saputo destreggiarsi con abilità e intelligenza, rendendo in più di un'occasione un eccellente servizio all'immagine pubblica del suo sindacato.

"Grazie della strepitosa eredità che lasci al sistema.". In queste parole, rivolte di recente a Montezemolo dal presidente dei piccoli industriali Giuseppe Morandini, c'è probabilmente un eccesso di retorica. Tuttavia, esse sono anche il segnale di un primo (non scontato) successo della gestione confindustriale da parte del presidente di Fiat. Un forte antagonismo fra grandi e piccole aziende, sovente ben dissimulato, caratterizza da sempre la dialettica interna a quel sindacato. I termini dell'omaggio reso da Morandini indicano che su questo terreno il presidente uscente ha saputo lavorare bene e mediare utilmente fra interessi spesso contrastanti.

Una spiegazione pratica di questa ricomposizione unitaria del fronte confindustriale va individuata nel buon esito della battaglia ingaggiata da Montezemolo per l'alleggerimento degli oneri fiscali e previdenziali sulle imprese. Certo, non è stato merito suo il fatto che il governo Prodi abbia deciso un cospicuo taglio al cuneo fiscale sulle buste paga: questo era un impegno che i partiti dell'Unione avevano già messo ai primi posti del loro programma elettorale. Ma è altrettanto un fatto che è stata l'opera del vertice di Confindustria a manovrare per raggiungere un duplice obiettivo. Da un lato, che la parte più sostanziosa degli sgravi fosse destinata alle casse delle imprese. Dall'altro lato, che la platea delle aziende beneficiarie fosse la più estesa possibile in direzione delle piccole.


Questo specifico capitolo dei robusti vantaggi economici ottenuti, soprattutto nell'ultimo biennio, è una chiave importante per capire la popolarità raggiunta nel mondo imprenditoriale dalla presidenza Montezemolo. Ma non bisogna trascurare anche un altro genere di successo che quest'ultima ha conquistato su terreni meno concretamente pecuniari e però di grande importanza per la credibilità esterna di Confindustria. Al riguardo vanno segnalati in particolare la svolta impressa all'associazione in Sicilia sul fronte della lotta alle infiltrazioni mafiose e, in sede centrale, la chiusura ad ogni tentazione di collateralismo politico.

Nel quadriennio della precedente gestione D'Amato, l'organizzazione degli industriali si era appiattita anima e corpo sull'allora governo Berlusconi. Con il brillante risultato di dover incassare qualche danno, come la sconfitta nell'inutile guerra sulla riforma dei licenziamenti, e non poche beffe, prima fra tutte la defatigante trattativa per firmare quell'enfatico 'Patto per l'Italia' che si è poi rivelato la più grande bufala economica dell'ultimo decennio. La reazione di Montezemolo a questo disastro è stata lungimirante, collocando Confindustria su una posizione di autonomia critica verso tutto il mondo della politica. Dapprima con Berlusconi e poi con Prodi egli si è posto nel ruolo proprio di controparte sociale in dialettica aperta e talora vivace con i governi, senza più badare al loro colore politico.

Questa terzietà di Confindustria ha portato talora Montezemolo a qualche inattesa sbavatura polemica, come quando ha misconosciuto - salvo poi correggersi in tutta fretta - perfino lo storico aggancio all'euro del duo Ciampi-Prodi all'interno di un pesante giudizio liquidatorio sui governi degli ultimi 12 anni. Simili eccessi hanno così alzato sul finale della sua presidenza il sospetto increscioso che egli stesse preparando il colpo di teatro di una sua diretta discesa in campo politico. La migliore eredità che Montezemolo lascia a Confindustria sta nella negazione di una tale eventualità. In caso opposto, infatti, la conquistata autonomia dell'associazione avrebbe assunto lo sgradevole sapore di un passaggio strumentale a fini di potere personale.

(17 aprile 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 03, 2008, 04:02:07 pm »

Massimo Riva

Miracoli del super euro


A dispetto dell'euro sopravvalutato e della recessione in atto negli Stati Uniti, le esportazioni italiane corrono da mesi su buoni livelli di crescita  Le polemiche di parte industriale contro l'euro forte sono destinate a durare ancora, ma sempre invano. Ci sono non poche e serie ragioni per considerarle, tutto sommato, imbelli. Una per tutte: con un'inflazione media europea che corre ben sopra il 3 per cento, la Banca centrale di Francoforte non opererà presto alcun taglio dei tassi d'interesse sulla moneta unica, anzi ora c'è semmai il rischio che si trovi costretta a deciderne un seppur minimo aumento. Su questo punto il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, è stato fermo e chiaro nelle sue ultime uscite pubbliche.

Quindi, anche in Italia, il sistema produttivo dovrà continuare a convivere per un tempo non breve con un cambio forte: esperienza dura e difficile per un mondo industriale abituato a decenni di svalutazioni competitive, ma che sta dando anche risultati positivi di rilievo per quanto riguarda la presenza del 'made in Italy' nel commercio internazionale. A dispetto dell'euro sopravvalutato e della recessione in atto negli Stati Uniti, infatti, le esportazioni italiane corrono da mesi su livelli di crescita attorno al 10 per cento.

Come conferma anche l'ultimo dato ufficiale disponibile, quello sul febbraio 2008, che indica una crescita dell'export del 10,9 per cento rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. Un incremento doppio, fra l'altro, a fronte di quello delle importazioni che, nonostante l'escalation dei prezzi del petrolio, è stato del 5,3 per cento. A questi risultati hanno contribuito settori nei quali le nostre esportazioni sono tradizionalmente robuste (come tessile-abbigliamento e mobili), ma anche altri dall'andamento più incerto: le vendite di macchinari sono cresciute del 18 per cento, quelle di prodotti dell'agricoltura addirittura del 23.

Con le nere nuvole che si addensano sulla congiuntura economica internazionale, è pacifico che queste notevoli prestazioni possano e debbano essere considerate anche reversibili. Ma, a dieci anni dalla rincorsa italiana al treno della moneta europea, esse consentono di tirare un primo e importante bilancio sugli effetti di una scelta che molti industriali e politici allora giudicavano esiziale per la sopravvivenza del nostro apparato produttivo. In realtà, invece che a un tracollo del sistema, si è assistito a una sua straordinaria metamorfosi: nel senso che una quantità d'imprese ha saputo emanciparsi dalla droga del cambio debole e ha rinnovato prodotti e processi produttivi per adeguarsi alle sfide della competizione mondiale. Quello della Fiat di Marchionne è soltanto il caso più evidente e clamoroso di una lunga serie di trasformazioni aziendali avvenute con successo anche esterno, come dimostrano appunto i dati sulle esportazioni.

Naturalmente si è verificato anche il fenomeno della scomparsa delle imprese più deboli: nel 2007 per esempio, sia in Lombardia sia in Veneto, ci sono state più chiusure che aperture di aziende. E però senza danni sociali collaterali dato che l'occupazione è comunque cresciuta. Insomma, oggi quota 1,60 sul dollaro sarà una sfida dura, ma finora l'euro forte ha fatto molto più bene che male all'economia italiana.

(02 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Maggio 25, 2008, 04:45:57 pm »

Dove taglierà Tremonti

Massimo Riva


La sfida per il nuovo ministro dell'Economia sarà reperire i fondi per le misure promesse in campagna elettorale: abrogazione dell'Ici sulla prima casa e detassazione degli straordinari. Ma la crisi economica non aiuterà il governo  Giulio TremontiQuando esordisce affermando che non c'è alcun tesoretto nei conti pubblici, il neoministro Giulio Tremonti non fa altro che ripetere ciò che da mesi andava già dicendo il suo predecessore, Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale, inascoltato dai più, ha cercato invano di far ragionare tutti coloro che assediavano le casse pubbliche sulla svolta negativa in atto nella congiuntura economica internazionale. In particolare, richiamando la banale equazione per cui una minore crescita del Pil 2008 (almeno cinque volte più debole rispetto al 2007) comporterà inevitabilmente una contrazione anche del gettito fiscale.

Vero è che le cifre sulle entrate tributarie del primo trimestre di quest'anno segnalano ancora un incremento significativo (6,8 miliardi) in confronto all'analogo periodo del 2007. Ma già il fatto che in marzo l'aumento degli incassi risulti dimezzato indica che la frenata è in corso e, con ogni probabilità, diventerà ancora più evidente nella seconda parte dell'anno, quando con i versamenti di giugno si sarà esaurito anche l'effetto dei pagamenti definitivi sui redditi maturati nel 2007. Sul fronte dell'Iva, l'imposta che meglio di altre misura la tonicità dell'andamento economico, le avvisaglie di flessione sono già visibili.

Quindi il fatto che Tremonti si allinei in materia a Padoa-Schioppa è di per sé rassicurante. Solo che così egli chiude forse un problema, ma ne apre di sicuro un altro. Nel primo caso, infatti, la negazione dell'esistenza di tesoretto cui attingere fa ritenere che egli non vorrà dare facile corso alle richieste dei tanti postulanti, siano essi i sindacati, le regioni, i comuni o anche i suoi colleghi di governo. Molto bene, soprattutto se ci riuscirà. Nel secondo caso, però, resta apertissima un'altra sostanziosa questione. Il governo Berlusconi intende assumere come sue prime decisioni - e lo stesso Tremonti lo ha confermato - l'abrogazione totale dell'Ici sulla prima casa e una detassazione almeno parziale dei redditi da lavoro straordinario e da premi di produzione.
Misure che implicano una riduzione del gettito non indifferente: in 2,5 miliardi è stimato solo il minor incasso sull'Ici, mentre per gli straordinari si ipotizza una cifra sul miliardo e mezzo.

Ecco il problema che si spalanca: come e dove, in assenza di tesoretti, l'ottimo Tremonti troverà i soldi per la copertura di questo minor gettito, per giunta in una fase di bassa crescita dell'economia? Certo non basterà spremere banche e petrolieri: buona regola vorrebbe che il necessario venisse ricavato da congrui tagli di spesa pubblica. Tagli, che per essere efficaci, dovrebbero risultare quanto meno contestuali alla riduzione delle imposte. In modo da evitare che a fine anno il disavanzo, già oggi previsto attorno al 2,3-2,4 per cento, torni ad avvicinarsi pericolosamente a quella soglia del 3 per cento oltre la quale scatta la procedura d'infrazione da parte dell'Unione europea, già comminata al precedente governo Berlusconi e poi rientrata dopo la cura Padoa-Schioppa. Visto che proprio a quest'ultimo ha voluto allinearsi, ora c'è solo da sperare che Tremonti voglia farlo fino in fondo.

(16 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Maggio 25, 2008, 04:46:45 pm »

Straordinaria ingiustizia

Massimo Riva


La detassazione del lavoro straordinario rischia di causare ingiustizie fra i lavoratori e favorire alcune imprese a danno di altre che forse avrebbero più bisogno di aiuto  Il ministro dell'Economia Giulio TremontiGià fitta e intricata la giungla del fisco italiano è destinata a diventare ancora più fertile (e iniqua) con il potente concime distribuito dal governo Berlusconi attraverso la detassazione del lavoro straordinario. Tale provvedimento, infatti, è una classica arma a doppio taglio che, per offrire qualche vantaggio a una limitata platea di soggetti, finirà per accentuare pesantemente le discriminazioni fra cittadini sul piano economico e soprattutto tributario.

Un primo dato negativo è che la riduzione del prelievo fiscale sugli straordinari si tradurrà inevitabilmente in un privilegio circoscritto a quelle imprese (e relativi lavoratori) che, vuoi per ragioni di stagionalità produttiva vuoi perché operanti in settori in espansione, si trovano a ricorrere con maggiore frequenza o intensità a prestazioni oltre il normale orario. Per tutti gli altri - la gran massa delle imprese e, in particolare, quelle in congiuntura più critica - l'efficacia del provvedimento sarà pari a zero. In termini sociali ciò significa che, nel mondo del lavoro, starà un po' meglio chi già ha un posto più sicuro, mentre nulla - nella migliore delle ipotesi - riceveranno operai e impiegati delle aziende che forse avrebbero più bisogno di essere aiutate. Dunque, pecca di forte strabismo chi presenta questa novità come una misura atta a curare la ferita del basso salario dei lavoratori italiani con conseguente e sperato rilancio dei consumi.

Ma è segnatamente sul terreno tributario che questa forma di detassazione rivela i suoi aspetti più deleteri e distorcenti. Con la differenziazione nelle buste paga del prelievo su reddito da lavoro ordinario piuttosto che da straordinario si otterrà l'incredibile risultato che, a parità di imponibile, alcuni lavoratori - magari della stessa azienda - pagheranno meno imposte
di altri. Così mandando a farsi benedire una volta di più i fondamentali principi sanciti dall'art. 53 della Costituzione sia nel primo comma ("Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità") sia nel secondo ("Il sistema tributario è informato a criteri di progressività").

Certo, in Italia, ce n'è tanta di strada da fare per disboscare la giungla delle troppe diseguaglianze fiscali sui redditi. Senza evocare la piaga indecente e insoluta dell'evasione, basti ricordare, per esempio, che l'aliquota minima di prelievo dell'Irpef è al 20 per cento, mentre nel caso delle rendite finanziarie si è ancora fermi al minimo europeo del 12,50. È un fatto, però, che la differenziazione risulta particolarmente odiosa nel caso degli straordinari, perché essa opera sulla medesima fonte di reddito: il lavoro.

Purtroppo, si sa che questa detassazione è stata uno dei principali cavalli della battaglia elettorale di Silvio Berlusconi e non ci si poteva di sicuro aspettare che egli si tirasse indietro dopo il grande successo nelle urne. Resta solo da sperare che, magari con la prossima Finanziaria, la questione fisco-salari venga più saggiamente riportata sulla strada maestra della riduzione delle aliquote Irpef. Nel rispetto dei principi della Costituzione e degli interessi di tutti i lavoratori e contribuenti.

(23 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #14 inserito:: Giugno 06, 2008, 04:34:06 pm »

Massimo Riva.


Il bivio di Mandrake

In continuità con Padoa-Schioppa, Tremonti vuole il pareggio di bilancio entro il 2011. Ma le promesse fatte in campagna elettorale sembrano andare in un'altra direzione 

Pareggio di bilancio entro il 2011 con una manovra complessiva nel triennio di trenta miliardi. Questo era l'impegno che Tommaso Padoa-Schioppa aveva assunto in sede europea. Questo stesso è l'impegno che il suo successore, Giulio Tremonti, ha voluto confermare nei confronti di Bruxelles.
Un gesto davvero apprezzabile da parte del neo-ministro dell'Economia perché si offre come un segnale di stabilità e di continuità della politica economica che fa del bene all'immagine internazionale dell'Italia, paese che finora i partner europei potevano guardare con sospetto e fastidio a causa dell'andamento rapsodico e sussultorio delle sue scelte di finanza pubblica ad ogni cambio di maggioranza.

Il problema, però, è capire se quello di Tremonti non rischi di diventare, cammin facendo, soltanto un 'beau geste'. Che in tre anni si possano risparmiare una trentina di miliardi non è un'operazione facile, ma neppure impossibile se la congiuntura mondiale non farà altri brutti scherzi. Del resto, è un altro buon annuncio quello fatto dallo stesso ministro dell'Economia di voler anticipare a luglio una minimanovra - si spera fatta soltanto di tagli dal lato della spesa - per evitare che i conti di quest'anno, insidiati dalla bassa congiuntura, possano uscire dai binari utili al mantenimento degli impegni presi con l'Europa. Fin qui tutto bene.

Il fatto è, però, che accanto agli obiettivi dichiarati in sede comunitaria, sul tappeto ci sono anche le promesse impegnative lanciate durante la campagna elettorale vittoriosa da Silvio Berlusconi e dallo stesso Tremonti: segnatamente quella di ridurre al più presto di almeno tre punti, dal 43 al 40 per cento del Pil, la pressione fiscale. Impegno che il presidente del Consiglio ribadisce in ogni occasione. Questi tre punti in rapporto al Pil valgono una cifra molto prossima alla cinquantina di miliardi.

Poniamo pure che il governo di centro-destra si proponga di mantenere la parola data in materia agli elettori nell'arco dell'intera legislatura, procedendo quindi a tappe. In ogni caso, a meno che non si voglia far saltare il pareggio di bilancio il giorno dopo averlo raggiunto, una buona parte di questi 50 miliardi dovrebbe essere tagliata nel triennio 2008-2011. Facciamo almeno una trentina di miliardi che, sommati agli altri 30 di impegno al contenimento sottoscritto in Europa, portano a un totale in tre anni di 60: davvero tanti, anche per un Mandrake della finanza.

Questo, comunque, è quanto Tremonti dovrebbe riuscire a risparmiare sul bilancio per tenere assieme il fronte esterno e quello interno degli impegni presi con l'Europa e con gli italiani. Tenendo altresì presente che eventuali altre manovre sul patrimonio dello Stato (privatizzazioni o cessioni di immobili pubblici) non potranno servire ad altro che a ridurre il peso del debito: così vuole la legge, ma anche la più corretta logica economica.

In questo scenario appare quanto mai probabile che il sedicente continuatore dell'opera di Padoa-Schioppa si troverà presto a un bivio molto imbarazzante fra il disattendere gli obiettivi proclamati a Bruxelles o lo smentire la parola data agli elettori.

(06 giugno 2008)

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