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Autore Discussione: Concita DE GREGORIO  (Letto 77558 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Gennaio 15, 2013, 12:16:15 am »


14
gen
2013

Andreotti e noi

Concita De Gregorio

Nel giorno in cui Giulio Andreotti compie XCIV anni il pensiero corre, si fa per dire, a quella notte del 1948 in cui fu mandato da De Gasperi a fare la spola tra il villino dei Parioli di Carlo Sforza e l’appartamento sulla Tuscolana di Luigi Einaudi. Doveva dire al primo, ministro degli Esteri in carica, che non sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica e di seguito riferire al secondo che sarebbe toccato a lui, invece. Era il 10 maggio, un martedì. Andreotti aveva 29 anni. Arrivò da Sforza nel villino di Via Linneo che era quasi mezzanotte, lo trovò che rileggeva il discorso che avrebbe pronunciato l’indomani, all’insedamento. “Come non detto”, lo ascoltò Sforza ripiegando i fogli del discorso. Poi il giovane Giulio aspettò l’alba, e pochi minuti prima delle sei si presentò in largo Volumnia, da Einaudi. Il Professore obiettò che aveva un difetto di deambulazione, pensava non gli conferisse “la prestanza necessaria a passare in rivista i militari”. Andreotti gli rispose che le rassegne militari si passavano ormai in automobile, fece di seguito una discreta elegantissima allusione di incoraggiamento alla poliomelite di Franklin D. Roosevelt. Einaudi fu il primo presidente eletto dalle Camere (essendo stato De Nicola nominato dalla Costituente, di cui del resto Andreotti faceva parte).

Ne restano tre, di Costituenti. Andreotti (’19) e Colombo (’20) siedono tuttora al Senato, a vita. Teresa Mattei (’21) si è ritirata da tempo dalla politica, circostanza che – di passaggio – conferma la diversa natura del rapporto femminile col potere.

Alla vigilia dell’elezione del prossimo Capo dello Stato Andreotti è dunque l’uomo che ne ha eletti e fatti eleggere undici, tutti, e si accinge a mettersi all’opera per il dodicesimo. Tecnicamente: un’ombra del secolo scorso che si allunga in questo.

Sono del resto, le politiche di febbraio e le presidenziali di primavera, le ultime elezioni del Novecento sconfinate negli anni Duemila. Di formazione politica Novecentesca sono tutti i leader ‘classici’ sulla scena, da Casini a Fini, da Bersani a Monti, da Berlusconi a Pannella, a Napolitano. Non potrebbe essere altrimenti per ragioni anagrafiche, certo. Ma un conto è aver scambiato missive e stilato dispacci per Harry Truman ed Eisenhower, un altro è essere cresciuti in un mondo già dotato di aeromobili di linea, per esempio, essere coetanei della posta elettronica, avere un’idea di rivoluzione che non rimandi sempre e solo a quella bolscevica. Senza nulla togliere alla saggezza dei padri, per carità. Solo che il mondo cambia più veloce di prima, non gli si sta affianco in carrozza. Ci arriva, dal Novecento, anche un’eredità del cabarettismo ciarlatano dell’ultimo ventennio, figlio dell’imbonimento eletto a regola, della truffa come sistema di governo. Nemmeno Totò, per restare al Novecento, avrebbe trovato parole per commentare le doppie pagine dei giornali di stamani che illustrano i 215 simboli di altrettanti partiti e movimenti in gara per le elezioni di febbraio. Una tragedia del buon senso e della logica, un numero da avanspettacolo. Per ragioni che hanno a che vedere con la geometria (quantità di centimetri quadrati sulla scheda elettorale) e con l’opportunismo (i pochi voti di ogni lista minore giovano comunque in questo sistema elettorale ai partiti principali della coalizione) dunque sempre per ragioni che contano sulla presunta dabbenaggine degli elettori siamo in presenza, a centrodestra,  delle liste “Dimezziamo lo stipendio ai politici”, “No alla chiusura degli ospedali”, “Basta tasse”, “Potere ai cittadini”, “Moderati in rivoluzione” che è come dire pianisti monchi, zoppi con Bolt. Poi naturalmente “Liberi da Equitalia”, come se il mezzo fosse la causa, lista capitanata dal ‘minisindaco’ di Scampia Angelo Pisani, il presidente della municipalità che ha organizzato l’assemblea con lo striscione “Scampiamoci da Saviano” e negato le riprese per la serie Gomorra, questi i suoi meriti. Poi “Pensioni minime a 1000 euro” e naturalmente “Forza Roma” e “Forza Lazio”, seguiti da “5 stelle” tanto per confondere le idee a pensionati e tifosi eventualmente sedotti da Grillo. Chiude la “Lista del merito” che si distingue evidentemente dal demerito di tutte le altre.

A sinistra va meglio, quanto a simboli. I caduti in battaglia si registrano qui sul fronte dello scontro fra ‘nominati’ ed eletti alle primarie, anche questa una guerra fra la logica vecchia e la proposta nuova. L’antico sistema ha scalzato dalle prime posizioni in lista molti dei nomi scelti dagli elettori con esiti a volte di incerta presa. Non si capisce bene per esempio in che modo il ravennate Sergio Zavoli, classe 1923, possa contribuire alla causa della vittoria in una regione molto a rischio per il Pd come la Campania, dove per giunta Ingroia sta lavorando alacremente. Sempre col massimo rispetto per un maestro, evidentemente. Un poco di malinconia la suscita anche la notizia che, avendo chiesto Zingaretti che i consiglieri laziali uscenti non fossero ricandidati, si siano trovati per moltissimi di loro posti alla Camera e al Senato (per Esterino Montino, il capogruppo, una candidatura a sindaco di Fiumicino) ma non per Rossodivita e Berardo, i due consiglieri radicali che con la loro denuncia hanno messo a nudo il caso Fiorito e l’andazzo in Regione. Il messaggio che passa è desolante. A destra resta escluso Pisanu, entra Cosentino. Non passa Santo Versace, una caduta di stile, resta Dell’Utri che “è persona perbene, ha quattro figli” ha detto Berlusconi da Santoro. Infine. Da “Amici miei” è quello che i giornali chiamano “il mistero del logo del Pdl”. C’è scritto “Berlusconi presidente”, infatti. Cosa avrà inteso dire? Davvero, ragioniamoci a fondo. Che significato potrebbero avere quel nome e quell’attributo accostati? Mah, è proprio un mistero, dannazione. Chissà se almeno Andreotti ha capito.

da - http://de-gregorio.blogautore.repubblica.it/2013/01/14/andreotti-e-noi/?ref=HREC1-1
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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 24, 2013, 05:55:37 pm »

Cronache dall'Italia in crisi: "Così siamo diventati poveri"

Otto milioni di italiani vivono con meno di mille euro al mese. L’ascensore sociale è tornato indietro di 27 anni.

La crisi economica ha massacrato la classe media che si ritrova così a fare i conti con le bollette ammucchiate sul frigo, l’assillo
dell’affitto da pagare, la retta dei bambini a scuola. Ecco alcune semplici storie di chi per farcela  compra il pane del giorno prima o divide la casa con altre famiglie. Vite di laureati che fanno i baristi e di mariti mandati sul lastrico dal divorzio

di CONCITA DE GREGORIO


I NUMERI non rendono l’idea. Siamo assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario perché si traducano in un pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre di mezza età, la madre.

Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da una campagna elettorale che discute di pensioni e di tasse, di esodati e di aliquote: un mondo politico che parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al nero, ha redditi sotto i mille euro. La media delle famiglie  italiane guadagna meno di ventimila euro l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo.

C’è differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che genera, in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione. Siamo tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà  relativa.

Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché ormai sono anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi, che il ceto medio è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono in macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, come queste sei semplicissime storie raccontano, è che nell’indifferenza diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa al super di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per trovare un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub, al nero, è diventato assolutamente normale.

Tutto intorno è così. L’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno. Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un destino peggiore dei padri, il giovane laureato in Legge, figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che non sa che farsene del suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui parlare, la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere.

LA CASSIERA
"Vedo tanti pensionati a caccia di super-sconti tra i prodotti in scadenza"
"Può scrivere solo il mio nome? Non vorrei passare un guaio, mi manca solo quello. Giovanna. Faccio la cassiera qui da otto anni, delle prime sono rimasta l'ultima. Ora arrivano tutte ragazze che stanno tre mesi meno un giorno, poi cambiano. Contratti di formazione, li chiamano: ti danno due euro, ti "formano", poi ti mandano a casa e avanti un'altra. Così se ne va la giovinezza e poi dopo a quarant'anni dove lo trovi un impiego? Sì, qui nel nostro "super" facciamo gli sconti last minute. Non li ha visti? Sono quelli con il prezzo in giallo. Se il formaggio, o il latte, o la carne sono a 24 ore dalla scadenza costano fino all'80 per cento in meno. Roba da mangiare subito, la sera stessa, prima che vada a male. Ma ancora buona, eh. Guardi, si fermi a guardare: la comprano tutti. Vede, qui a San Giovanni in Laterano, ci vivono moltissimi pensionati. Vengono col borsellino con la cerniera e dieci euro dentro, la busta di plastica da casa. Che poi uno dice pensionati e pensa agli anziani, ma i pensionati che vedo io hanno anche meno di sessant'anni. A 58 anni non sei vecchio, ma se da un giorno all'altro i duemila euro di stipendio diventano 900 di pensione e se hai ancora i figli a casa... Sapesse quante ne sento. Allora per forza devi comprare la carne che scade. Guardi, guardi. Perché non si direbbe, no? Li vedi ben vestiti, poi arrivano alla cassa e fanno passare tre oggetti. Ormai pagano più in monete che in banconote. Abbiamo anche un accordo con le scuole: i punti della spesa si possono devolvere all'istituto di quartiere per il materiale scolastico. Sì, alla scuola pubblica, perché?"

L'OPERATRICE DI CALL CENTER
"Tre donne, quattro figli: con una casa in comune arriviamo a fine mese"
"Mi chiamo Antonia L. Ho 57 anni, una figlia di 18 che vive con me. Ho cominciato a lavorare al call center quando mi sono separata, tre anni fa. Il mio ex marito non è in condizione di darci niente. Prendo, come tutti, 80 centesimi lordi a chiamata. Il mensile dipende da quanto lavoro. Se sono in salute, se ci metto gli straordinari posso arrivare a 800 euro. Ne pagavo 400 di affitto, più un centinaio di bollette varie. Con i 300 euro che restavano a vivere in due non ce la facevamo. Come me le altre, che al call center siamo soprattutto donne, e tante sole con figli. Con due di loro siamo andate a vivere insieme, un paio di anni fa: un appartamento a Cinecittà. In casa siamo tre donne, una ragazza, la mia, e tre bambini. Ciascuna dorme in camera coi figli. Facciamo la spesa a turno, una volta alla settimana, al discount. A turno laviamo, cuciniamo e assistiamo quelli che si ammalano così se una ha il figlio con la febbre può andare lo stesso al lavoro. Ci prendiamo anche una serata libera, a rotazione. Abbiamo una macchina sola, una tv, un computer. Dividiamo tutto, per orari e per giorni. È una specie di comune anni Settanta: solo che allora lo facevamo per scelta, ora per necessità. Mio padre era impiegato, mia madre maestra. Hanno laureato tre figli, avevamo una casetta al mare. Io la mia laurea ho dovuto nasconderla, sennò ero troppo qualificata per ottenere il lavoro. Mia figlia dice che l'università non serve, non so più cosa risponderle. Da ragazza facevo politica, sono stata anche iscritta a un partito. Ora no, a votare non ci vado più".

IL PANETTIERE
"Vendo a metà prezzo il pane del giorno prima: c'è la fila per comprarlo"
"Abbiamo fatto mettere un cartello fuori: "Il pane di ieri a metà prezzo". Ho raccomandato ai dipendenti discrezione per non urtare le suscettibilità di nessuno. Sa com'è: siamo tutti benestanti fino a prova contraria, il paese è piccolo, la gente parla, la dignità non ha prezzo. Però vedo che lo chiedono in tanti, il pane di ieri. Mi chiamo Luigi Di Ianni, ho 64 anni. Facevo il commerciante, qui a Sulmona. Quando sono andato in pensione ho rilevato il forno "Profumo di pane", che è anche una pasticceria. Un'attività di medie dimensioni: tre punti vendita, mia moglie e mio figlio piccolo che mi aiutano e nove dipendenti. Questo Natale è stato un disastro. I dolci prima si vendevano tutti i giorni, ora a stento per le feste e la domenica. Il pane da noi siamo abituati a comprarlo in forme grandi, e si butta. Uno spreco che non ci possiamo più permettere. Mia madre faceva il pane con le patate che durava venti giorni. Allora ho pensato: ma perché abbiamo smesso di fare così? Se avessimo fatto attenzione, in passato, se fossimo stati più sobri... Io le vedo le persone a negozio, la conosco Sulmona. Sta morendo. Siamo in provincia dell'Aquila, abbiamo passato tristi giorni. Molti sono in cassa integrazione, molti hanno i figli che sono tornati a casa, e tocca mantenerli. Io stesso, se guardassi solo i conti, farei meglio a chiudere. È un impegno verso gli altri, l'impresa. È buono ancora, sa, il nostro pane di ieri? E poi il pane è sacro. Non si butta. Vedo che lo chiedono, infatti. E magari dicono per giustificarsi: sa, ci devo fare le polpette, i ripieni. Che importa se non è vero".

L'IMPRENDITRICE FALLITA
"Noi strozzati dai debiti, mio padre si è ammazzato e l'azienda non c'è più"
"Ho scritto a Monti, a Napolitano. Volevo solo che sospendessero le ingiunzioni di pagamento. Mio padre si è ammazzato per quello. Per rimetterci in piedi ci voleva un po' di tempo, un po' di liquidità, soprattutto avevamo bisogno di non essere in mora coi pagamenti. C'è una legge per i casi come il nostro, ho controllato. Ma non è successo niente. Passavano i mesi e le ingiunzioni continuavano ad arrivare. 200 mila. 180 mila euro a volta. Ma creditori di chi? Papà si è sparato. L'azienda non c'è più. E lo sa poi cos'è che lo ha rovinato? L'amministrazione pubblica. I lavori fatti e non pagati. Fatti, consegnati, con la mano d'opera e i materiali pagati: e i pagamenti delle municipalizzate, delle Asl che non arrivavano mai. A nove mesi, a dodici mesi. E se protesti è peggio, perché poi non lavori più. Ma come fai ad aspettare e intanto pagare i contributi ai dipendenti? Da dove li prendi i soldi? E se ritardi la stessa amministrazione pubblica che non ti paga i lavori ti nega la patente di legalità, non ti dà le carte che ti servono per accedere ai crediti bancari. E così muori, perché poi ci sarebbe da parlare dell'usura bancaria, l'usura legale che ti strozza e ti mette in ginocchio ma io non ne voglio parlare perché sono stanca e non ne posso più. Ho un figlio piccolo devo pensare a lui. Avevo pensato di andare via dal mio paese, dalla mia regione che è il Veneto, certo, il polmone produttivo d'Italia, come no. Ma poi dove vado. Mi chiamo Flavia, lasci stare il cognome. Sono stanca, gliel'ho detto. Tanto qui da noi lo sanno tutti chi sono e sono stanca anche di questo. Vorrei solo sparire".

IL SEPARATO
"Lo stipendio da grafico se ne va per mio figlio: adesso vivo di carità"
"Cosa vuole sapere che non abbia già raccontato? Ora vengono tutti a intervistarci come se fossimo bestie nello zoo: "Le case dei padri separati", scrivono nei titoli, e poi sotto sempre le stesse storie, tutte uguali. Cosa c'è di interessante? Non è normale? E poi perché tutti ora? Sono anni che va così e nessuno si è mai occupato di come vive un uomo che guadagna 1200 euro e si separa, deve pagare gli alimenti e mantenere i figli piccoli. Come vuole che viva? Con 300 euro al mese, vive. Oppure va per strada. Dorme in macchina. Sì, va bene, scriva. Mi chiamo Umberto, ho 52 anni, da otto mesi sto in una stanza dei Padri oblati di Rho. Mio figlio ne ha 11 e sta con me una settimana ogni due. La casa l'ho lasciata alla madre. Quando viene qui dormiamo nello stesso letto, anche se ormai è grandino. Ma non protesta. Prima, quando giravo per i divani letto degli altri, era peggio. Sono diplomato: grafico. Lavoro in una ditta, faccio il materiale pubblicitario. Ho provato a cercare un secondo lavoro, ma è un miracolo se sono riuscito a tenermi il primo. Per un periodo sono andato in depressione. Dopo l'apatia mi è venuta su una rabbia pazzesca. Ma come è possibile, dico, che si debba campare di carità? Ho smesso di guardare la tv, a sentire i talk show politici mi montava la furia, il resto è schifezza per addormentarsi. La macchina l'ho venduta, mio figlio a scuola lo accompagno coi mezzi. Lui si vergogna, vuole che scendiamo alla fermata prima della scuola. Non bisognerebbe separarsi mai. Resistere, ingoiare ma restare. Io non ce l'ho fatta, e ora pago".

IL LAUREATO
"Avvocato sulla carta faccio il cameriere per 400 euro al mese"
"Mi chiamo Giuseppe Minafro, ho 24 anni, la mia famiglia è di Sala Consilina, una frazione. Siamo di origine contadina, i miei genitori operai. Ho due fratelli, un maschio e una femmina. Non ci è mai mancato niente. Ho visto i miei lavorare sempre, tanto, ma la domenica a tavola c'era la torta e il vino dolce, d'estate si andava in vacanza al mare, stavamo bene, noi figli abbiamo studiato tutti. Certo che i miei hanno fatto i sacrifici, per noi, specialmente per me che mi hanno mandato a Roma e mi hanno pagato i libri, l'affitto della stanza, i biglietti del treno per andare e tornare. Io mi sono laureato, ora: Giurisprudenza, con una tesi in diritto penale. Abbiamo fatto una festa a casa. Una festa bellissima, con mezzo paese. Tutti a dire che orgoglio, che bellezza Peppino, ora che sei avvocato ci devi rendere giustizia. Ma io non lo faccio l'avvocato e non lo farò mai. Non sono parente a nessuno, come si dice da me. Concorsi in magistratura non ce ne sono. Io quello che faccio è lavorare in un pub dietro Campo dè Fiori. Cameriere la notte: entro alle sette e stacco alle tre del mattino, e prendo 400 euro al mese. Senza contratto, macché. Se rinuncio io entra un altro. Ho una ragazza, dividiamo il fitto della stanza. Dovrei essere contento, ho avuto bei voti alla tesi e tanti complimenti. Però ho un'angoscia dentro che mi porta via. Io l'avvocato non lo faccio ma al paese mio non lo sanno, e ai miei genitori gli dico ancora un po', non salite, aspettate che mi sistemo. Perché come faccio a spiegarglielo a loro, che hanno la terza media, che la mia laurea non mi serve a lavorare?"

(24 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/01/24/news/cronache_dall_italia_in_crisi_cos_siamo_diventati_poveri-51171453/?ref=HRER2-1
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« Risposta #77 inserito:: Marzo 16, 2013, 05:24:10 pm »


15
mar
2013

Per la prima volta

Concita de Gregorio


E’ la prima volta, oggi, che alle Camere non si capisce a colpo d’occhio chi ha vinto e chi ha perso. E’ la prima volta che nel Transatlantico di Montecitorio gli umori non scolorano dal sorriso radioso alla malinconia correndo con lo sguardo dal lato corto della buvette – l’area della destra politica  – alla sala di lettura dalla parte opposta – area della sinistra -  o viceversa, dipendendo l’umore dall’esito del voto. Del resto è la prima volta che non si distinguono destra e sinistra, nel senso che nessuno è tornato ad occupare la sua metà campo e i relativi divani. In effetti, a ben guardare, non sono molti quelli che sono “tornati”: per lo più sono nuovi, i parlamentari, e i ‘pentastellati’ – come li chiama compunto un anziano commesso – hanno occupato lo spazio come l’acqua quando entra in cunicolo. Indistinguibili dagli altri neoeletti i parlamentari cinque stelle si sono mimetizzati perfettamente. Delusissimo chi si aspettava ragazze in abito da sera e giovanotti scamiciati con capigliature punkabbestia. Sono tutti in giacca e cravatta, quasi tutti – anche le donne – in abito semplice e scuro. Sorridono, arrivano in bici, rispondono con foto alle foto. Un vecchio deputato ex democristiano ne parla come uno zoologo: “Se non li aggredisci non ti aggrediscono. Se poi per caso ti aggrediscono non devi guardarli negli occhi, non devi reagire”. Fa tenerezza, tanto è evidente la paura. Predatori sconosciuti, una razza ignota. Hanno indossato gli abiti del nemico, oltretutto, come certi incursori: la battaglia sarà più sottile e infida, persino potrebbe essere più efficace.

Per la prima volta, inoltre, non ci sono né D’Alema né Veltroni. Non c’è un partito cattolico democratico, nessun erede dell’antica Dc. Cirino Pomicino incede come un oracolo, continuamente intervistato da spaesati cronisti della sua stessa era politica. Vagheggia un monocolore Bersani appoggiato dal Pdl per due anni, D’Alema al Quirinale o in  subordine  Amato, “se non fosse che questi ragazzini Amato non sanno neanche chi sia”. Poi sorride, si rende conto, manifesta simpatia per i pentastellati che “sono bravi figli”, sospira che della vecchia politica “s’è perso lo stampo” e chissà se è un bene o un male.

Per la prima volta c’è la fila al bagno delle donne, che era stato pensato per quando le signore erano una rarità (quattro o cinque bagni appena, niente al cospetto del servizio reso agli uomini) e oggi dunque decine di parlamentari ragazze stanno in coda fin fuori dalla porta portatrici di una certa urgenza. Per la prima volta i neoeletti bevono alla fontanella come i bambini in piazza, direttamente dall’acqua, perché i bicchieri di plastica – spiega la cittadina Lombardi – non si devono usare, inquinano.

I giornalisti di una certa età stanno per lo più tra di loro, al massimo con Franceschini e Brunetta. Sembrano tutti più vecchi e più stanchi di dieci anni. Ai colleghi giovani venuti a vedere come sono i grillini spiegano che bisogna fare in fretta, bisogna cogliere l’attimo perché questo – il Transatlantico – è un posto che ti ammala. Senti subito mal di testa, mal di stomaco, il tempo corre con un altro ritmo: invecchia. Il rumore del voto, dentro, quel bzzz costante, sembra quello di una tac. Una liturgia ipnotica, vagamente ospedaliera. “Si abitueranno subito, i nuovi. A star qui ti accasci, vai dal parrucchiere, al massimo se ti va bene ti innamori e ti fidanzi. Appena Grillo se ne accorge li ritira”, profetizza una cronista di lungo corso assai ascoltata. In aula intanto procede il rito a vuoto.

Non c’è accordo politico, i presidenti oggi non si fanno. Per il Senato si avanza la candidatura di un esponente del Cinque stelle di origine venezuelana, Orellana, anche il Parlamento potrebbe avere il suo Bergoglio ma non si farà. Nonostante gli auspici di Nichi Vendola (“Vedo solo pugili suonati”) che vorrebbe che alla Camera almeno si votasse un grillino, non si farà. Franceschini non rinuncia, c’è chi dice che sarebbe pronto a ritirare la candidatura a Roma di Sassoli in cambio dell’agognata presidenza della Camera. Logiche che oggi appaiono lunari. Nessuno ha ancora capito davvero, sembra, che l’arrivo dei “bravi ragazzi” a cinque stelle non è l’invasione di una razza aliena, è semplicemente l’irruzione della razza umana nell’acquario termoregolato: cambia tutto e per sempre. “Ma no non per sempre, per qualche mese”, si consola Brunetta in giulivo procinto di diventare capogruppo pdl. Per sempre, invece, e non importa quando si tornerà a votare. Se Napolitano si dimetterà dopo l’elezione dei capigruppo, come dice qualcuno, per favorire l’anticipo dell’elezione del nuovo capo di Stato in costanza di governo tecnico. Se sarà Prodi coi soli voti di centrosinistra e Monti, se saranno D’Alema o Amato come piacerebbe a Berlusconi che ha bisogno di essere nominato senatore a vita per non dover fuggire all’estero come Craxi. Di questo si parla, ignorando del tutto la falange mimetica che ha occupato ogni spazio. Come se non esistessero, come se fossero ospiti. Peccato, perché alcune cose buone si sarebbero potute fare, in effetti, a mettersi in contatto con la realtà declinata dal voto e a farci i conti al netto dei propri destini individuali. Non andrà così, come dimostra con solare evidenza il caso Roma: il prossimo banco di prova che tutti, a sinistra, danno per perso. Giorgia Meloni ragiona se presentare una candidatura alternativa a quella di Alemanno all’ultimo minuto. E’ un’idea. A sinistra invece sono occupati, hanno da fare, Roma è preda di battaglie di corrente e nessuno se ne occupa. Il rumore della Tac, in aula, procede. Il voto è a vuoto. I pentastellati si riuniscono in una sala al piano di sopra, il candidato presidente Fico porta due caraffe d’acqua per tutti. “Sono gentili, sembrano la Terza C”, dice il commesso del piano. Poi aggiunge, sottovoce: “se Bersani accetta i voti di Berlusconi, che sia per il governo o per il Quirinale, la prossima volta fanno il pieno e meno male”. Ha detto ‘meno male’? “No, non ho detto niente. Poi io faccio il commesso, quello che dico io non conta”.

da - http://de-gregorio.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1
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« Risposta #78 inserito:: Marzo 30, 2013, 11:18:15 pm »

Governo, la Via crucis di Napolitano: lasciare ore ultima carta contro la deriva

Il presidente e la scelta più difficile del settennato.

L'indisponibilità del capo dello Stato verso un reincarico sembra più frutto della stanchezza che di una schermaglia

di CONCITA DE GREGORIO


Almeno la Via Crucis di Papa Francesco, in diretta mondiale tv, si sa come va a finire. Quella di Giorgio Napolitano no. Quattordici stazioni, colloqui interminabili col solito Berlusconi tracotante e con i due neofiti dell'integralismo a cinque stelle che dondolano da una gamba all'altra mentre ripetono i loro no, con Maroni annoiato e vagamente canzonatorio dietro gli occhiali a colori.

Con Vendola invano appassionato di politica e non di calcoli, con Letta statista, stasera, chè Bersani non è venuto e tocca a Enrico Letta ammainare in conto terzi la bandiera del pre-incarico. Poi le telefonate, intanto, e le consultazioni con gli esperti di cavilli e le agenzie di stampa portate sul vassoio dai commessi, le dichiarazioni e le voci che prendono corpo su carta, nero su bianco, prego Presidente legga questo: Napolitano ha deciso di dimettersi anticipatamente, Napolitano ha richiamato dall'estero Giuliano Amato, Napolitano sarà rieletto giusto per il tempo necessario a sciogliere le Camere, ha in tasca il nome che piace ai cinquestelle. È Rodotà, no c'è Renzi che si scalda a bordo campo, no il Presidente ha in mente il ministro Cancellieri perché l'unica cosa che c'è da fare subito è la riforma della legge elettorale. Non c'è chi non veda, infatti, che andare a votare con questa legge sarebbe un disastro inammissibile, lo dice anche Letta uscendo dalle consultazioni, e poi c'è il mondo che guarda, non si può abbandonare la nave che affonda, non ci si può dimettere nel momento della difficoltà suprema, il fantasma di Terzi quello di Schettino, ma invece è la mossa politica vincente, si vede che non capite la politica, invece dal Pd c'è qualcuno che preme perché il presidente lasci, così si esce dallo stallo e le Camere dovranno trovare un'intesa sul nuovo inquilino del Colle, che poi l'intesa è già trovata, in fondo, ecco, la soluzione è questa, prima il Quirinale poi il governo così si inverte l'ordine dei fattori e si esce dall'impasse in cui Berlusconi ha chiuso il Pd.

Questo, per tutto il giorno. Un impazzimento di voci e di ipotesi ma niente di certo, nessuno che sappia davvero di cosa sta parlando, nessuno che tenga conto del fatto che Napolitano davvero è stanco, che non sembra affatto una schermaglia di diplomazia istituzionale l'indisponibilità a un reincarico, basta ascoltarlo durante l'ultimo dei colloqui del giorno, l'ultima stazione del venerdì di passione.

Stanco, dolente, preoccupatissimo ed esausto, afflitto da dolori non solo metaforici. Così l'hanno trovato gli ultimi a colloquio con lui subito prima che le porte del corridoio alla vetrata si richiudessero, che i corazzieri se ne andassero e che il portavoce dicesse sulla soglia "servirà ancora qualche momento di riflessione". Due giorni, ha sentito dire qualcuno. Una notte, ha sentito qualcun altro. La decisione lunedì di Pasqua, no, no, già domattina, di sabato.

A ciascuno la sua croce. Mentre il nuovo papa porta quella millenaria il capo dello Stato, unica autorità istituzionale in questo momento in grado di guidare in porto la barca allo sbando, porta la sua. Comincia di buon mattino, al telefono e in colloqui informali. Poi con la prima delegazione, alle 11: Brunetta e Alfano, Berlusconi e Schifani. Il compito che Napolitano si è dato è quello di ripercorrere e verificare l'assenza di maggioranza numerica e politica di cui Bersani gli ha riferito il giorno prima. Il segretario del Pd non ha rinunciato, il presidente non ha revocato l'incarico: lo affiancherà, in quello che somiglia a un commissariamento per il buon fine dell'opera.

L'unica cosa certa, a sera, è questa: il supplemento di indagine di Napolitano liquida il tentativo di Bersani, che esce di scena. Materialmente, fisicamente: il segretario Pd non è a Roma, non sale al Colle: è tornato a casa a Piacenza, dicono. Lo cercano, le telecamere piazzate sotto casa, nessuno lo vede. La smaterializzazione di Bersani corrisponde all'avvio di quello che da settimane i cronisti parlamentari chiamano il Piano B.

La situazione però è più complessa del previsto e si tinge di nuove preclusioni, nuovi impedimenti. In sintesi: Berlusconi vorrebbe allearsi col Pd e con Monti per fare un governo insieme, così che poi al momento della scelta del nuovo presidente della Repubblica anche quello si debba scegliere insieme. Il Pd però non vuole allearsi con Berlusconi. Meno di tutti lo vuole Sel giacché, dice Vendola, Berlusconi è tra l'altro protagonista della "cospirazione vigliacca che ha portato alle dimissioni di Terzi". Tra l'altro, e da ultimo. Il Pd e Sel sarebbero forse pronti ad allearsi coi cinquestelle, ma i cinquestelle non vogliono allearsi col Pd. Dicono cose come "legiferare senza governo", Grillo chiama al telefono Napolitano, poi sul suo canale La Cosa insulta tutto e tutti, i suoi capigruppo ondeggiano sulle gambe davanti ai microfoni ripetendo che l'unico governo possibile è il loro ma un nome non lo fanno. L'incarico, come si sa, va dato però a una persona, non a un gruppo politico.

Siamo daccapo a zero, con l'unica interessante novità di giornata: il Pdl non vuole nessun tipo di governo tecnico, piuttosto si vada alle urne. No a un governo del presidente, insomma. Saccomanni, Onida, Cancellieri. No. E' da qui - da quello che Vendola chiama "il pantano" - che si leva la voce delle dimissioni anticipate di Napolitano. Una parte della sinistra sarebbe anche d'accordo, si mormora. Il presidente è molto indispettito, dice per contro la fonte simmetricamente opposta sebbene nella stessa metà campo. Le ore passano, la croce pesa. Si cade, ci si rialza. Entrano per ultimi Letta nipote e i due neocapogruppo Zanda e Speranza. Lungo colloquio, estenuante ma chiaro. Enrico Letta esce diritto come un fuso e dice due cose: primo, con questa legge elettorale non si può tornare a votare. Secondo, esprimiamo profonda gratitudine e fiducia piena nelle decisioni che il presidente prenderà nelle prossime ore, che "non mancheremo di sostenere responsabilmente". La profonda gratitudine sana i dissidi interni degli ultimi giorni. Il sostegno responsabile, qualunque sia la decisione, è una professione di fiducia in bianco.

Sciogliere le camere adesso è impossibile, per ragioni istituzionali (Napolitano in scadenza non può) e di opportunità politica: non con questa legge al voto. Dunque, sarà un governo del presidente. Senza i voti del Pdl ma con quelli del Pd e forse di Monti, forse di una parte dei cinquestelle ma forse persino con una parte di pidiellini, anche: dipenderà dal nome che nella notte di passione Napolitano deciderà di proporre. In alternativa, davvero, restano solo le dimissioni del capo dello Stato. Chi conosce bene Napolitano sa che questa, ora che la barca senza timoniere è alla deriva, è per lui la scelta davvero più difficile da prendere. Lo farebbe solo se fosse l'unica via d'uscita per il Paese, se fosse convinto - dati alla mano, scenari certi all'orizzonte - che sia questa l'unica manovra possibile, per quanto rischiosa e dolorosissima, per condurre in porto la nave. Per chiudere con Pasqua la via Crucis e pensare che una resurrezione, da questo calvario, per la politica italiana - per l'Italia - è possibile.

(30 marzo 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #79 inserito:: Aprile 04, 2013, 11:59:51 pm »

Per l'elezione del presidente ora lo scontro è tra poteri deboli

Partiti, Vaticano e diplomazie: la fine dei kingmaker del Colle.

E per la prima volta Andreotti non voterà.

Secondo l'anziano leader Dc per arrivare al Quirinale "non c'è nessun metodo che garantisca la vittoria, solo errori da non commettere"

di CONCITA DE GREGORIO


ROMA - Dei vecchi non è rimasto più nessuno. È un bene, diranno in molti. Non del tutto, però, se si son portati via insieme all'indecenza dell'antico malaffare anche le chiavi della più misteriosa delle alchimie politiche lasciando i nuovi  -  i barbari, gli ignari  -  davanti a una gigantesca porta chiusa. Tutto può cambiare, nella geografia e nella grammatica della politica passata attraverso mutazioni d'epoca ciclopiche e arrivata fin qui al tempo nuovo, il tempo in cui tutto è diverso. Ma c'è una cosa - una sola - che non cambia. Come si fa un Presidente. Cosa governa il gioco, quali sono le regole che portano alla nomina più ambita: quella che dura sette anni, un'eternità quando l'unità di misura del potere sono i giorni. Il segreto, quello, è intatto. Non c'è tsunami che possa violarlo. Il varco per entrare nella porta si trova all'incrocio fra il calcolo e il caso, fra l'esperienza e l'ignavia.

Lo conosce Giulio Andreotti, venti volte ministro e sette presidente del consiglio, che aveva 29 anni quando all'alba dell'11 maggio 48 bussò alla porta di Luigi Einaudi, una villetta sulla Tuscolana, per convincerlo che il suo essere zoppo non gli avrebbe impedito di fare il presidente: "Del resto anche Roosevelt", gli rammentò con discrezione... Ma per la prima volta, questa volta, Andreotti non ci sarà. Se avesse potuto votare, fra qualche settimana, avrebbe eletto il suo dodicesimo presidente. L'unico politico vivente insieme ad Emilio Colombo ad essere arrivato sin qui dalla Assemblea Costituente: Teresa Mattei se n'è andata pochi giorni fa ed era da molto fuori dalla politica, delusa e lontana. Ma Andreotti sta molto male, la sua famiglia non lascia che nessuno lo avvicini.

E' ancora alle sue ultime parole, tuttavia, che bisogna ricorrere per decifrare il primo degli enigmi che portano al Colle. "Non c'è nessun metodo che garantisca la vittoria: ci sono solo errori da non commettere". Sorride, a riascoltare queste parole, Paolo Cirino Pomicino: l'ultimo dei democristiani attivi della vecchia scuola, Forlani essendosi da tempo, dopo il pegno pagato ai lavori socialmente utili cui la giustizia l'aveva destinato, chiuso in un riserbo inviolabile. Dice Cirino: "Com'è noto il vuoto in politica non esiste. Nel tempo in cui gli uomini contano più dei partiti le carte le dà il Quirinale, e Napolitano è lì a dimostrarlo. Il nostro tempo, il tempo in cui i partiti scrivevano la storia, è finito. Non esiste più. Alla supremazia della politica si è sostituito il leaderismo proprietario di cui Berlusconi ha il copyright e che tutti, purtroppo, hanno imitato".

Nel tempo dei leader la selezione della classe dirigente avviene in senso cortigiano: ne deriva la mediocrità della classe dirigente. Nessuno ha più la stoffa né la possibilità di indicare il nome di un presidente come fecero millenni fa Fanfani e Dossetti seduti su una panchina dei giardinetti: ah, poi ci sarebbe da decidere il Presidente.
Nessuno dei nuovi - i giovani neoeletti nel Parlamento che scriverà la prossima pagina di storia - ha memoria e a volte neppure nozione dei lunghi e tortuosi processi le cui minute sono custodite dagli anziani funzionari del Colle. Uno di loro, da tempo fuori dai giochi, sorride alla domanda impertinente - il segreto, per favore, il segreto - e dice così: "I presidenti che ho visto eleggere nelle mia lunga vita sono arrivati al Colle per caso, per obbligo, per sbaglio o per dispetto".

E' così, è una corsa al buio. E' come uno slalom di cui non sia indicato il tracciato. Non ci si candida, al Quirinale. Oggi si dice che Romano Prodi sia il nome che Berlusconi teme, che il centrosinistra cova. Ma non si candida, non può farlo e non deve, sarebbe un errore fatale. La via del Colle è lastricata di cadaveri eccellenti e nobilissimi. "E' una presa in giro molto ben organizzata", diceva Merzagora che ne fu vittima. Emma Bonino, che il 13 maggio '99 quando fu eletto Ciampi prese 15 voti, dice sarcastica che "ci si ritrova eletti per una forma di telepatia collettiva: nessuno pronuncia mai nessun nome ad alta voce a meno che non voglia bruciarlo, poi nella notte - una certa notte - tutti vengono raggiunti nel sonno dall'informazione decisiva e, in trance, votano la stessa persona".
Non è così, naturalmente, ma è anche così. Molti, moltissimi anni fa al nome giusto si arrivava per accordi tra i grandi blocchi di potere: i partiti, che allora c'erano. La Dc, il Pci. "Il metodo del Pci - dice Achille Occhetto ricordando gli anni in cui di quel partito era dirigente, poi segretario - era quello di lasciare che i candidati democristiani si elidessero a vicenda, poi individuavamo l'uomo che rompeva il sistema e all'improvviso convergevamo su quello. Così andò con Gronchi, con Saragat, con Scalfaro per quanto sull'elezione di Scalfaro abbia giocato l'imprevisto, che sempre è in agguato. Lì ci fu la strage di Capaci".

Che si elidessero a vicenda. I verbi che portano al Quirinale sono tutti indicatori di sottrazione: si diventa capo dello Stato per reciproco abbattimento, per evitare l'elezione d'altri, per togliere, per non urtare, per evitare. Nel segreto dell'alta politica spiegato ai profani questo è l'arcano: bisogna lavorare molto, sì, serve un kingmaker ma non è detto che l'ambizione vinca sull'ingenuità, il calcolo sull'errore. Anzi. L'astuzia non paga. Sono stati eletti sempre, quasi sempre presidenti candidati all'ultimo da chi li aveva bocciati prima, accettati in estrema battuta da chi aveva finto al principio di proporli.

Dice Gennaro Acquaviva, che ai tempi di Craxi è stato l'uomo di collegamento col Vaticano, che "oggi gli interessi hanno preso il posto dei partiti".

Vediamoli dunque questi "interessi". Quelli che tradizionalmente hanno orientato la scelta sono la Chiesa, l'America, una volta la Russia, i grandi poteri economici internazionali, le banche. Per questo, dice Cirino Pomicino, "Amato e Prodi sono oggi sulla carta e ai nastri di partenza i candidati forti". Perché a questo bisogna non dispiacere, e in quest'ordine: le grandi banche d'affari e poi l'America ivi compresa la postazione mediterranea d'Israele, infine la Chiesa. "Quando vedo l'interesse dell'ambasciata americana per i Cinquestelle, quando vedo che vanno a rapporto e rispondono penso: quando mamma chiama picciotto risponde".

L'euro debole, il dollaro forte: questo l'interesse Usa oggi, dice il vecchio notabile dc, già consigliere di Berlusconi. E tuttavia non basta questo. Il quadro è mutato e l'imprevisto in agguato. La figura del Presidente della Repubblica, dal principio degli anni Novanta in poi, ha cambiato profilo. Non basta che garantisca le "agenzie esterne", non basta che sia gradito ai santi protettori d'oltreoceano e d'Oltretevere. Deve anche rispondere a una formula - oggi si potrebbe dire laico, condiviso, centrista, di garanzia - che parli allo scenario interno. Deve essere nuovo, dice qualcuno con buoni argomenti, perché nuova è la stagione. Dovrebbe essere donna, dice qualcun altro, è maturo il tempo: ad Amato, che per primo auspicò una donna alla vigilia dell'elezione di Ciampi, toccò precisare, viste le reazioni: "Ho detto una donna, non un coleottero".

Chissà se il nuovo papa Francesco potrebbe essere per Emma Bonino, eterna candidata, meno ostile di quanto non lo siano stati i suoi predecessori. "Certo se mi chiamassero non direi che ho da coltivare tulipani - dice lei stessa - ma credo che non accadrà: tra i mille elettori tende a prevalere lo spirito di conservazione". Sì, tende a prevalere. Disse Giorgio Amendola, poco prima dell'elezione di Pertini, che i candidati - Nenni, La Malfa, Pertini stesso - "parevano una riedizione del Cln, il comitato di liberazione nazionale".

I candidati di oggi - Prodi, Amato, Marini, D'Alema e numerose altre declinazioni di una stagione politica estinta - sembrano una riedizione del mondo di allora. Ma dei vecchi non è rimasto più nessuno, tra i kingmaker sono al lavoro in questi giorni di Pasqua Letta Gianni per il centrodestra, Letta Enrico suo nipote per il centrosinistra: insieme agli auguri si saranno scambiati certo qualche opinione. Il nuovo ambasciatore americano ha ricevuto i Cinque stelle e papa Francesco viene dalla fine del mondo, ha molto altro a cui pensare. Mai come questa volta la posta più alta è stata così incerta. Mai le forze in campo così deboli e variabili, mai il segreto così ben custodito.

(1-continua)
 

(03 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #80 inserito:: Aprile 08, 2013, 10:51:50 am »



Il rogo che brucia i candidati per il Quirinale

Peones, illusioni e piccole grandi vendette.

E' il più indecifrabile  dei giochi, una palude  di sabbie mobili da cui compaiono mostri. Le ragioni di una caduta o di un'ascesa non sono mai quelle che sembrano

di CONCITA DE GREGORIO

ROMA - VELENO, pugnale o franchi tiratori. È così che si uccide un candidato sicuro. Lo spiegò Donat Cattin ai suoi il giorno in cui decisero di far fuori Leone in favore di Saragat, era il 1964 e moltissimi dei parlamentari oggi eletti alla Camera non erano ancora nati. "Moro mi ha detto di usare mezzi tecnici. Io di mezzi tecnici conosco solo questi tre". Sono passati cinquant'anni e siccome nessun candidato è mai stato eliminato col veleno e col pugnale si può star sicuri di quale sia l'arma letale, ancora oggi: i cecchini dell'aula. Lo sanno bene tutti quanti, chi non lo sa  -  chi ancora pensa che sarebbe bellissimo eleggere al Colle un'alta e nobile personalità libera, una donna o persino un uomo di cultura e di pensiero  -  sarà bene che si affretti al ripasso.
LA PRIMA PARTE DELL'INCHIESTA

C'è una ragione semplice per cui il candidato ufficiale, concordato, condiviso alla vigilia non è stato mai eletto, con due sole eccezioni, al Quirinale: quella ragione si chiama voto segreto.

Dal decalogo delle non-regole di Giulio Andreotti ("Non ci sono regole, ci sono solo errori da non fare"): "Il candidato ufficiale non viene eletto mai o quasi mai perché nel voto segreto c'è la reazione dei peones contro le segreterie di partito". Contro
le segreterie quando c'erano i partiti, contro gli interessi ora che ci sono questi, contro un leader prepotente, contro uno sgarbo ricevuto anni prima, contro un processo subito in conto d'altri, contro un collega che ti ha rubato il seggio o la fidanzata quando avevate vent'anni e ora che ne avete sessanta il rancore è ancora tutto lì, armato di truppe di devoti reclutate nei decenni. D'Alema, Amato, Marini e tutti i reduci delle antiche stagioni facciano i loro conti, ripensino alle loro biografie.

"Temo che possano incontrare più dissenso a casa loro che altrove", osserva Cirino Pomicino. "Avvantaggiato, in questo caso, è chi una 'casa proprià non l'ha più". Intende Amato, certo. E' un'opinione avveduta. Sa bene, il vecchio Cirino, che si possono mettere in campo tutte le strategie più raffinate, lavorare alle intese giorno e notte. Si può stabilire, poniamo oggi, che il lavorìo sotterraneo fra Pdl e Pd per raggiungere una candidatura condivisa converga infine sui nomi che fin dal principio Silvio Berlusconi ha messo in campo per evitare che si ripeta ciò che accadde per la prima volta con Napolitano, cioè che sia il centrosinistra da solo a votare il suo candidato. Potrebbe, anche questa volta dopo il terzo scrutinio - quando basteranno i 504 voti della maggioranza semplice - il centrosinistra potrebbe. Tuttavia la partita è delicatissima, c'è un governo da fare, una fiducia da trovare: l'intesa sul Quirinale è la posta grande, il resto ne deriva. Amato o D'Alema, ha detto Berlusconi al Pd. In subordine si scaldi Marini. Ma non basta, quand'anche si stringesse l'accordo: non basterebbe.

Come mai, ci si deve chiedere, nessuna altissima personalità della cultura è stata mai eletta al Quirinale? Perché rinunciò Benedetto Croce, scrivendo a Nenni no grazie, perché non fu mai Toscanini? Perché nessun leader di partito, nessun potente, nessun padre della Patria? Non sono stati eletti Nenni, De Gasperi, Moro, Andreotti, Fanfani, Spadolini, La Malfa, neppure Forlani né De Mita. Non-regola andreottiana numero tre: "Al Quirinale non può andare un leader di partito, né tanto meno di corrente". E perché mai?

Perché in un altro tempo, un tempo diverso da questo, la politica dei partiti era più importante del Colle e lo manovrava. Perché servivano uomini in fondo grati. Il Quirinale non aveva tanto peso quando a decidere la politica erano le segreterie. De Gasperi non volle andarci mai: "Al Quirinale mi sentirei già morto". E però le cose sono cambiate almeno due volte: la prima con Scalfaro, eletto all'alba di Tangentopoli. Una mutazione genetica, quella del '92-'94. La scomparsa delle culture di riferimento dei grandi partiti della tradizione europea (socialisti, cattolici, liberali, verdi) sostituita dal programmismo e dal leaderismo. Un leader, un programma. È così che inizia il trasformismo parlamentare, sconosciuto o quasi nei primi 40 anni di vita della Repubblica. La seconda rivoluzione oggi: ora che la politica si scrive (anche) sul web e che il leaderismo si trasforma in settarismo dal sapore, in qualche caso, autoritario. Ora che c'è nebbia e nessuno vede più l'orizzonte, ora che il Quirinale rischia di diventare l'ultima trincea su cui si arroccano i vecchi poteri. Se ci riescono ancora, se possono. Se il tempo nuovo si distrae e non fa in tempo a decifrare i geroglifici delle vecchie regole. O non-regole, peggio.

E' il più indecifrabile dei giochi, questo. E' una palude di sabbie mobili da cui compaiono mostri mai visti prima. Le ragioni di una caduta o di un'ascesa non sono mai quelle che sembrano. Raccontano che Fanfani, per esempio, non arrivò mai al Colle "anche perché si temeva molto la moglie, donna quanto mai energica e paladina di buone cause, dispensatrice di premi". Una concausa, certo, ma ci fu anche questa: troppi premi da dare, troppo protagonismo difficile da disinnescare.

Racconta anche Gaetano Gifuni, per molti anni segretario generale del Senato e poi del Quirinale con Scalfaro e con Ciampi, che chi chiuse la partita su Saragat fu Moro e lo fece ad una condizione mai sin qui censita: che richiamasse in servizio alla segreteria generale il barone Picella, detto 'baron glacèe', uomo freddissimo e di grande sapienza istituzionale in cui Moro riponeva la massima fiducia, cerniera essenziale nel caso di ascesa di un socialdemocratico al Colle.

Poi certo, hanno pesato le faide, i risentimenti, i calcoli, le ingenuità. Andreotti: "Merzagora pensava di essere eletto perché pranzava spesso col comunista Scoccimarro. Aveva confuso la cortesia con i voti". Merzagora, bruciato in tre giorni: "Mi fecero giocare a mosca cieca. Vennero in delegazione alle dieci di sera a garantirmi voti che non avevano. La notte mi affondarono". E' sempre la notte, che affonda.

Morì di notte la candidatura di Sforza, "cacciatore di gonnelle in attività". Per Pertini Giancarlo Pajetta telefonò di notte a Zaccagnini: "Ricorda che mi hai dato la tua parola di partigiano". Ricordo, rispose lui. Morì tre volte quella di Fanfani e fu lì che si perfezionò il controllo dei franchi tiratori, l'arma letale: si controllavano i cecchini facendo scrivere loro il nome a penna rossa o a matita, a qualcuno si chiese di anteporre un titolo, certi dovevano scrivere professore, altri senatore, altri ancora presidente. Si potevano contare, così.

Quarta e quinta non-regola: giocare d'anticipo, disinnescare gli avversari. Di Pertini dicevano che era vecchio, aveva 82 anni. Lui chiamò i cronisti e dettò alle agenzie: "Mio fratello è morto a 94, mio padre ha superato i novanta e anche mia madre, a 90, è morta perché è caduta dalla sedia".

Bisogna poi saper organizzare una fronda, come ha spiegato bene Ciriaco De Mita ripercorrendo l'elezione di Cossiga, unico insieme a Ciampi a passare al primo scrutinio. Fu una resa dei conti in casa Dc appoggiata dall'opposizione, ma in segreto e proprio all'ultimo minuto. Serve qualcuno che lavori per te facendo finta di lavorare contro. Serve qualcuno che ti avvisi quando è il momento di sfilarsi: Andreotti aveva avvisato Fanfani, "non farti buggerare". Fanfani, con le stesse parole, aveva avvisato Nenni. Contro Fanfani e per Gronchi si era schierato Pertini, complice l'eterno Andreotti. Fanfani però ci aveva sperato fino all'ultimo, fino a quanto gli toccò leggere su una scheda "nano maledetto non sarai mai eletto". Era lì, in piedi, accanto al presidente della Camera.

I suoi lo avevano avvertito: lascia perdere, è una trappola. Era vero, ma vai a sapere di chi ti puoi fidare. Certo non degli amici, questo è sicuro.

(2 - continua)
 

(04 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #81 inserito:: Aprile 08, 2013, 10:53:39 am »

Il Colle del potere proibito alle donne

L'inchiesta /3.

Dalla baronessa alla Iotti, l'elezione alla presidenza della Repubblica è sempre stato un gioco da uomini.. La distanza tra i reduci della politica di un tempo e lo tsunami che monta sul web è insieme millimetrica e abissale: è come un mostro fuori dalla porta chiusa a chiave. I grandi elettori uomini che fra dodici giorni voteranno il prossimo capo dello Stato non ci credono. Le donne fanno gesti come a dire "sarebbe bello, ma tanto è impossibile" 

di CONCITA DE GREGORIO

RIDONO, sbuffano, fanno l'aria di quelli che gli stai facendo perdere tempo. Poi tornano seri e fanno finta, perché lo capiscono  -  da qualche parte, nel corpo o nella testa  -  che non possono mostrarsi insofferenti, non sta bene, e allora dicono cose come: "In fondo le donne non sono adatte al potere. Sono pratiche, invece il potere è un gioco tutto astratto. È obliquo, le donne sono dirette".

Cioè: si mettono nei loro panni, per così dire, e le liquidano da lì. Parlare oggi, aprile 2013, coi grandi elettori che fra dodici giorni voteranno il prossimo Presidente della Repubblica dell'eventualità che possa essere una donna è un'esperienza di interesse antropologico. Non ci credono: le donne fanno gesti come a dire "sarebbe bello, ma tanto è impossibile", i vecchi non capiscono la domanda, ti parlano delle mogli e ti raccontano con sguardo sognante di quella volta che donna Vittoria Leone, che tempra, che capelli. I leader e i kingmaker, per altre ragioni in notevole affanno, ti dedicano cinque minuti giusto perché hanno l'occhio ai social network e vedono l'onda che monta in rete. La distanza tra i reduci della
politica di un tempo e lo tsunami è insieme millimetrica e abissale: è come un mostro fuori dalla porta chiusa a chiave.

Nel mondo reale, là fuori, gli elettori dicono Emma Bonino, Cancellieri o Severino, Finocchiaro se non fosse che talmente tante volte, troppe volte Anna Finocchiaro ha di buon grado, "come un soldato" - dice sempre - accettato candidature al massacro. Emma Bonino, che sì è una donna pratica come concreto deve essere chi vuol cambiare le cose, dice che "se il posto non te lo prendi da sola finisce che ti cooptano nei consigli di amministrazione, magari, e poi ti chiedono di portare il caffè". Margherita Boniver, sua sponsor nel '99: "Quando Giuliano Amato propose Bonino i capoclasse della politica dissero che era provocatorio, ma si guardarono bene dallo spiegare in cosa consistesse la provocazione. Non potevano". Nel mondo dietro la porta chiusa - quello dei grandi giochi cifrati e coperti - siamo fermi al '46, quasi a settant'anni fa. Non è un'esagerazione, state a sentire.

Nel mese di giugno del '46 Guglielmo Giannini propose per il Quirinale una donna come "condanna di un mondo politico incancrenito". La cancrena, oggi si usa dire il cancro. Lei era Ottavia Penna da Caltagirone, nata baronessina Buscemi. Antifascista, eletta alla Costituente nella città culla della Dc: Mario Scelba se ne lamentò per lettera con Luigi Sturzo. C'erano 21 donne, 556 uomini in quell'Assemblea. La baronessa da ragazza si aggirava con un coltello, di notte, a tagliare i sacchi di grano che i baroni della sua terra destinavano illegalmente al mercato nero anziché all'ammasso. Altre notti prendeva le carni macellate dalle sue fattorie e le portava agli indigenti. Aveva studiato al Poggio Imperiale, poi a Trinità dei Monti.

Anticomunista, monarchica. Giannini la candidò contro De Nicola, che ebbe l'80 per cento dei voti: gli mancarono quelli del partito repubblicano e i 32 andati ad Ottavia Penna. Dal Giornale di Sicilia del 29 giugno 1946: "Molto commentati i voti che escono dall'urna in favore della deputata qualunquista siciliana. Guglielmo Giannini, con la sigaretta spenta tra le labbra, rientra nell'aula e salito al banco dove siede la candidata del gruppo s'inchina a baciare la mano della signora, per una singolare affermazione di qualunquismo designata alla presidenza". Una 'singolare affermazionè che il leader dell'Uomo qualunque spiegava così: "Una donna colta, intelligente, una sposa, una madre. L'abbiamo scelta per opporla alla tirannia dei tre arbitri della cosiddetta democrazia: costituisce per noi la condanna di un mondo politico incancrenito".

Superfluo sottolineare i rimandi con la cronaca. Ottavia Penna lasciò la politica delusa "dai compromessi", sul finire dei suoi anni esprimeva la contrarietà a "questa repubblica" incollando sulle lettere i francobolli a testa in giù. Si devono aspettare 32 anni perché un'altra donna, la dc Ines Boffardi, prenda un voto per il Quirinale: uno di numero, battute beffarde in aula. E' il 29 giugno del 1978, non proprio il Medioevo. Primo scrutinio dell'elezione che dopo dieci giorni porterà all'elezione di Pertini. Battute sarcastiche in aula, di nuovo. Pertini: "C'è poco da ridere, onorevoli colleghi. Anche una donna può diventare presidente, lo sapete?". Già, lo sapete? Pajetta aveva battezzato Boffardi la 'pasionaria bianca': decima di undici figli, famiglia operaia, presidente dell'Azione cattolica, due volte sottosegretario con Andreotti con delega alla 'questione femminile', ferrea antiabortista e presidente dei consultori di ispirazione cristiana voluti dalla Cei. Voleva la pensione per le casalinghe, la parità di retribuzione, più donne nelle liste europee. "Incontrai una evidente opposizione", dice, ancora vigile. Una evidente opposizione.

In quell'elezione - Pertini, luglio '78 - quattro voti per il Quirinale vanno a Camilla Cederna, la giornalista che aveva appena dato alle stampe "La carriera di un presidente", libro inchiesta che aveva avuto grande parte nelle dimissioni recentissime di Giovanni Leone. Tre voti a Eleonora Moro, la "dolcissima Noretta" delle lettere dalla prigionia, a un mese e venti giorni dall'assassinio del marito. Camilla Cederna, Eleonora Moro: messaggi in bottiglia, a chi doveva intendere. Punture di spillo. Nel 1985 passa al primo scrutinio Francesco Cossiga. Nell'urna di vimini ci sono ancora otto voti per Cederna, tre per Tina Anselmi. Classe 1927, staffetta partigiana nella brigata Cesare Battisti, veneta. Prima donna ministro in Italia, nell'Andreotti terzo. Dall'81 all'86 presidente della commissione P2. Anche quei tre voti per la presidente della P2 sono un messaggio: ai massoni, ai golpisti. Un buffetto, un pizzicotto.

Il maggio '92, elezione di Scalfaro, è il momento del fuoco breve di Nilde Iotti. 183 voti al primo scrutinio, 245 al terzo. Passa in testa al quarto: 256. Fra il quinto e il senso combatte con Forlani. Scalfaro, che risulterà poi eletto, è a 6 voti. Iotti è di nuovo in testa al settimo scrutinio, 233 voti, e all'ottavo. Poteva sembrare vero. Sparisce al nono, 3 voti e 200 bianche. È eletto Scalfaro due giorni dopo la strage di Capaci. In quell'elezione presidenziale, nel '92, ebbe un voto Sophia Loren ma erano tempi in cui lo star system era considerato inessenziale: quel voto non risulta agli atti, fu conteggiato come nullo.
Nel 1999, il 13 maggio, Ciampi passa al primo scrutinio. Rosa Russo Jervolino ha 16 voti: un modo per dire non ci avete convinti, non siete voi i depositari del nuovo. Emma Bonino, sostenuta dal comitato Emma for president con lo slogan "l'uomo giusto al Quirinale", ne prende 15.

Nel 2006 nasce il comitato "Tina Anselmi al Quirinale": l'8 maggio iniziano le votazioni, in tre giorni e quattro scrutini è eletto Napolitano. Prendono 24 voti Franca Rame, 2 Lidia Menapace, partigiana femminista e cattolica, fondatrice del 'manifesto'. Al secondo scrutinio 3 voti vanno a Maria Gabriella di Savoia figlia di Umberto, per gli addetti ai livori e per i goliardi 'un'altra figlia del Re', 3 voti vanno a Giuva nel senso di Linda, moglie di D'Alema. Tre, per equilibrio sapiente, alla giornalista Barbara Palombelli. Tutti messaggi cifrati, e chi ha orecchie per intendere intenda. Tutti pizzini di un linguaggio da iniziati.
Poi se chiedi oggi, di una donna al Quirinale, i vecchi ti rispondono di quella volta che JFK disse a Vittoria Leone, vedendola per la prima volta e facendole un leggero inchino: "Ora capisco il successo di suo marito". Un po' l'equivalente, fatte le debite proporzioni, delle gote gonfie e della mano rotante di Silvio Berlusconi al cospetto di Michelle Obama. Belle, sì. Però non è questo il tema. Nemmeno la storiella che Peppa Cossiga toglieva il piatto da tavola se il marito non arrivava a cena alle otto, che Carla Voltolina non si trasferì mai a Roma da Genova e che Marianna Scalfaro era la più ascoltata del padre. No, quando si dice una donna al Quirinale non si parla di questo. Ma ridono, sbuffano. Non capiscono, o imbarazzati fanno finta.

(3 - continua)
 

(06 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #82 inserito:: Aprile 08, 2013, 11:49:28 pm »


Quirinale, un gioco di burattini e burattinai: quando le forze oscure guidano l'elezione

L'inchiesta / 4.

I segretari generali e la lotta di potere che condiziona i candidati. Come diceva Francesco Cossiga: "Il potere ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regala sintonia. E' più importante chi manovra l'audio di chi parla" di CONCITA DE GREGORIO


I BURATTINAI, le salamandre, gli spioni. C'è un mondo sopra, ombre semivisibili nella nebbia che sempre prelude al conclave del Quirinale, e un mondo sotto, un mondo dietro. Ancora più impalpabile, ineffabile, innominabile.
 
Nomi che non si leggono mai, quasi mai sui giornali. Una battaglia silenziosa di manovre felpate, coi buoni e i cattivi che somigliano  -  per dirlo a chi ha meno di trent'anni  -  a certi eserciti delle saghe fantasy. Sono tutti tessitori di trame ma alcuni difendono l'Impero, altri lo insidiano. Portano maschere, cambiano aspetto. Chi ha vinto lo si capisce sempre dopo, a guerra finita. "Perché il potere è fatto così  -  disse Francesco Cossiga durante un viaggio in cui era molto di buon umore, andava nei Paesi Baschi ad incontrare di nascosto alcuni fiancheggiatori dell'Eta, una sua passione  -  il potere ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regola la sintonia della radio. Io ora faccio tutt'e due le cose, ma se dovessi scegliere direi che è certo più importante quello che manovra l'audio di quello che parla. Chi parla è un burattino, chi manovra è il burattinaio".

Cossiga, eletto presidente al primo scrutinio per uno dei rari patti efficaci fra Pci e Dc, aveva altre passioni, oltre alla consuetudine con terroristi ed ex terroristi di varie latitudini - li chiamava "resistenti". Era pazzo per la massoneria, per i servizi segreti, per i militari. Appena eletto, Pertini ancora in carica, si era presentato al ministero della Marina ed aveva aperto la porta del Capo di stato maggiore Marulli, incredulo: "Capitano di fregata Francesco Cossiga ai suoi ordini", gli aveva detto mettendosi sull'attenti. Riceveva generali e semplici spalloni dei Servizi al Quirinale, l'ammiraglio Fulvio Martini presenza costante, costoro gli portavano in dono soldatini per la sua collezione. Una volta  -  c'era una cronista, di fronte a lui  -  telefonò chiamandolo "carissimo" al colonnello Tejero, golpista di Spagna, da anni irreperibile per chiunque. Un'altra volta ricevette un giornalista seduto a terra fra i suoi "baracchini": passava le giornate così. Parlava alla radio in frequenze speciali, il suo nome in codice era Andy Capp. Stava in maniche di camicia seduto sul tappeto e smanettava i grandi apparecchi assistito dall'elettricista di palazzo, l'amico Pascucci. In stanza aveva quattro telefoni, tre tv e sempre una scatola di cioccolatini Baratti. Francesco d'Onofrio andava spesso a riferirgli le cose della politica. Di più gli piacevano però i retroscena dei massoni, di cui il Parlamento  -  diceva  -  era colmo. Sarebbe stato entusiasta, oggi, di manovrare e decifrare le primarie per l'elezione del prossimo Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Raffi scade nel 2014 e i giochi sono aperti. Avere un massone al Quirinale è sempre stata l'ambizione suprema, per i fratelli. Cossiga aveva in materia una biblioteca e un'agenda sterminata.

Fu con il Picconatore presidente che si vide l'ultima volta Licio Gelli passeggiare sotto i portici del Cortile d'onore. Aveva conservato, da tempi remoti, qualche buon amico. Gelli, sia detto sempre per chi ha meno di trent'anni, è stato a capo (o al microfono, per meglio dire. Altri alla sintonia delle frequenze) della loggia massonica deviata chiamata P2 che ha innervato di sé per decenni il destino del Paese arrivando in più di un'occasione a un passo dal prenderlo, ammesso che si possa dire che non lo abbia preso. Una sorta di Gollum della saga fantasy. Golpista, era entrato al Quirinale con Saragat complice la passione del Presidente per la caccia. Gelli lavorava per Giovanni Pofferi, padrone della Lebole di Arezzo che aveva anche un'azienda di materassi. Questo Pofferi desiderava molto essere nominato Cavaliere: mandò a Roma Gelli, che in poche settimane riuscì ad agganciare un paio di funzionari del Quirinale, il ministro plenipotenziario Raffaele Marras e il colonnello dell'aeronautica Otello Montorsi, attraverso di loro fece giungere al segretario particolare del presidente Costantino Belluscio un invito per il Presidente nella tenuta di caccia in toscana di Pofferi. Invito accettato. Nel corso della presidenza Saragat Licio Gelli partecipò come ospite  -  risulta agli atti  -  a sedici ricevimenti al Quirinale anche in occasione di visite di capi di Stato. Era registrato alla voce: "altri ospiti". Il giorno dell'elezione di Giovanni Leone, era il dicembre del '71, mandò un telegramma a doppia firma col gran Maestro Lino Salvini: il messaggio era per il presidente, rivendicava il merito di aver concorso alla sua elezione con le decine di parlamentari che diceva di controllare. Chiedeva udienza, perciò, al nuovo capo di Stato.

In quel periodo Licio Gelli alloggiava all'Excelsior di via Veneto. Vedeva per consuetudine una volta alla settimana Andreotti, faceva spesso colazione con Forlani, due volte al mese era invitato a cena dal presidente del Senato Fanfani, la moglie Maria Pia gli serviva sformatini di verdure che  -  annota nei suoi diari  -  gli provocano costanti attacchi di stomaco. L'incontro con Leone gli fu accordato qualche tempo dopo la richiesta dal Segretario generale Nicola Picella, che aveva ricoperto quel ruolo anche con Saragat. Più avanti Gelli provò a far ricevere al Quirinale il generale argentino Massera, questa volta per buona sorte senza successo. Il 15 giugno '78, all'alba, lo chiamò uno dei suoi informatori dal Colle: il Presidente sta per dimettersi, gli disse. Informazione corretta. Leone se ne andò alle dieci di sera, sotto il diluvio. La mattina dopo Gelli disse a Franco Picchiotti, ex capo di stato maggiore dei Carabinieri: "Troppo presto e a sorpresa. Si vota fra 15 giorni. Se avessi avuto un mese il prossimo presidente lo avrei fatto eleggere io". Millantava spesso, ma non sempre e non del tutto.

Sono passati quasi quarant'anni e sono cambiati i nomi, i volti, la natura e la ragione delle pressioni. Non è cambiato però il ruolo di chi quelle pressioni può favorirle o respingerle, di chi può servire le istituzioni o tradirle. Sergio Piscitello, antico funzionario del Colle, racconta che grande è il potere delle "salamandre", coloro che riescono a cambiare colore restando al loro posto, così come immenso è il potere delle "vestali", i devoti del servizio, custodi della Presidenza addetti a respingere gli attacchi.

La figura del Segretario generale del Quirinale è strategica nella battaglia. Può aprire o chiudere la porta. Per dirne solo una: tutti gli atti alla firma del Presidente  -  tutti - passano dalla sua scrivania. In molti casi le forze politiche che hanno determinato l'elezione del Capo dello Stato hanno posto al candidato come condizione la scelta del segretario generale. Moro andò da Saragat a dirgli: ti votiamo, ma devi richiamare in servizio Nicola Picella. Saragat eseguì. Il barone Picella, nobiluomo di origini liberali, era stato segretario generale sul finire della presidenza Einaudi. Entrambi zoppi  -  Einaudi a destra per un incidente giovanile, Picella a sinistra per la poliomelite  -  avanzavano nei corridoi del Colle affiancati, le due gambe sane al centro, tirando uno da un lato l'altro dall'altro. Li chiamavano, per questo, gli sciatori. Di Picella si ricordano le telefonate laconiche: "Hai avuto quella carta? Perfetto. Mettila via". Dopo Gronchi e Segni Moro volle che Saragat, di cui non si fidava fino in fondo, fosse sotto la tutela del gelido Picella, il "Baron Glacèe". Allo stesso modo molti anni dopo la permanenza di Antonio Maccanico al Colle fu una delle condizioni che De Mita, Chiaromonte e Andreotti misero all'elezione di Cossiga a suggello del patto Pci-Dc. Come De Mita, Maccanico  -  che aveva assistito da Segretario generale l'esuberante settennato di Pertini  -  era irpino. La geografia in politica ha il suo peso. Difatti Cossiga accettò la condizione fino a che la "brigata Sassari" non fece prevalere la pretesa che nel posto chiave andasse il sardo Sergio Berlinguer, cugino del presidente. In una catena di scale mobili fuori sincrono  -  i presidenti passano, i segretari generali restano  -  Cossiga provò a sua volta a vincolare l'elezione di Spadolini, indicato come probabile suo successore, alla permanenza di Berlinguer al Colle. Il patto fu stretto ma la strage di Capaci cambiò la rotta della storia e fu eletto, all'indomani dell'assassinio, Scalfaro.

Con Oscar Luigi Scalfaro, presidente imprevisto, le "forze oscure" subiscono un colpo mortale. Con la stessa intransigenza con cui in gioventù schiaffeggiava le signore scollate dal momento esatto della sua elezione l'uomo del "No, io non ci sto" smette di aprire le buste con lo stemma cardinalizio, cessa di rispondere al telefono. Siamo nel pieno di Tangentopoli, '92-'94. Agli antipodi da Silvio Berlusconi ("Mi dava, coi suoi modi, fastidio persino fisico", diceva l'ex presidente solo pochi mesi prima di morire) chiama accanto a sè dal Senato Gaetano Gifuni, che era stato con lui ministro nel breve governo Fanfani. Le porte del Quirinale restano impermeabili, in quegli anni, agli spioni ai generali e ai burattinai. A molti leader politici, persino, che difatti iniziano a considerare Scalfaro un problema. Pochissimi i consiglieri, sempre filtrati dall'annuire della figlia Marianna. Solo il capo della Polizia Parisi è ammesso, tra gli esperti di pericoli, a riferirgli cosa accada nel Paese ivi comprese le minacce di stragismo mafioso. Se in questo senso Scalfaro ha preso decisioni, come qualcuno ha sussurrato a proposito della "trattativa" fra Stato e mafia, si può star certi  -  assicura oggi chi gli è stato vicino  -  che anche in quel caso ha deciso da solo. D'ora in avanti  -  da Ciampi in poi - saranno la grande finanza, il mondo degli affari, gli "agenti sovranazionali" e insieme i piccoli corrotti e le camorrìe degli appalti che muovono ogni cosa a pretendere di fare da burattinai. Non ci sono più i materassai: il mondo cambia, comincia un'altra storia.
 

(08 aprile 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/08/news/quirinale_un_gioco_di_burattini_e_burattinai_quando_le_forze_oscure_guidano_l_elezione-56165798/?ref=HREA-1
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« Risposta #83 inserito:: Aprile 12, 2013, 11:50:54 pm »

Quando l'America vota per il Quirinale

L'INCHIESTA / 5.

Da Lockheed a Bilderberg: senza le credenziali degli americani e in specie delle grandi banche d'affari oggi nessuno può pensare di aspirare seriamente al Quirinale. L'ambasciatore Usa negli anni di Scalfaro: "I dc erano tristissimi per Mani Pulite, sembrava di essere a un funerale".

di CONCITA DE GREGORIO

L'ombra dell'America è verde come il colore dei dollari. Tuona come le armi che varcano l'oceano in perpetuo e spesso illecito commercio. Parla la lingua dei banchieri, la sola lingua degli affari. Si affaccia sull'Italia dalla postazione mediterranea di Israele, si ammanta del velluto della diplomazia quando riunisce a convegno i potenti del mondo, a centinaia e a porte chiuse, in esclusive dimore in cui confortati da coppe d'argento colme di praline si discute di come "favorire le relazioni economiche fra blocchi".

Di soldi, in pratica. Di soldi e di chi li gestisce. C'è un momento esatto della storia in cui tutto questo, di solito materia per complottisti appassionati della letteratura di genere, diventa chiaro e inconfutabile. È un discorso pubblico. Quello che il senatore Frank Church fa al Senato degli Stati Uniti mentre esibisce le prove  -  trascrive il New York Magazine, siamo nel 1976 - che "la Lockheed corporation ha pagato tangenti in almeno 15 paesi e in almeno sei ha provocato crisi di governo". Uno di quei Paesi è l'Italia. Il presidente in carica è Giovanni Leone. La Lockheed, colosso dell'industria aeronautica usa, paga uomini di stato e di governo per piazzare i suoi aerei. Il loro delegato in Italia si chiama Antonio Lefebvre. Compare tra le carte uno scambio di assegni per 140 milioni fra Lefebvre e la signora Leone. Il nome in codice del destinatario di quel denaro è  -  si dice a voce alta nelle aule del Senato Usa  -  Antelope Cobbler. Ma forse c'è un errore di trascrizione, è gobbler non cobbler. In questo caso sarebbe: chi mangia l'antilope. Una disdetta chiamarsi proprio in quel momento Leone. I giornali deducono, è un massacro.

Più o meno negli stessi anni, a partire da un decennio prima, i soldi della Lockheed avevano cominciato ad arrivare copiosissimi al principe consorte dei Paesi Bassi, Bernardo, in cambio dell'acquisto di forniture di Starflighter e altre cortesie. Il Principe Bernardo è stato  -  per coincidenza - il primo presidente della Bilderberg, associazione di finanzieri, banchieri, politici e uomini di Stato fondata nel '54 allo scopo di "favorire la cooperazione economica fra Stati Uniti ed Europa". I membri del gruppo, circa 130, si riuniscono ogni anno in un conclave a porte chiuse. Sempre in un paese diverso, ogni 5 anni in America, sempre in primavera inoltrata. La prossima riunione sarà forse vicino a Londra, forse la prima settimana di giugno. E' un segreto. Pochissimi gli italiani ammessi. Tra gli ultimi John Elkann, Gianni Letta, Franco Bernabè. Negli anni e nei decenni precedenti Tremonti, Monti, Draghi, Padoa Schioppa, Siniscalco, Prodi, finché erano in vita naturalmente gli Agnelli, l'ex ministro Ruggiero, prima ancora Giorgio La Malfa Claudio Martelli Virginio Rognoni. Ogni tanto qualche giornalista, una volta Veltroni, una Emma Bonino. Ai grandi gruppi economico-politici internazionali, alla finanza e dunque alla politica nordamericana interessa molto e moltissimo chi governa, chi comanda, chi ha influenza in Europa, e in subordine in Italia. Gli ambasciatori sono per loro missione di questo curiosi, prediligono le anticipazioni. Ricevono politici in ascesa, annusano l'aria che tira. L'attuale ambasciatore Thorne ha per esempio grandissimo interesse per Beppe Grillo e per il suo movimento, interesse decuplicato dalla prospettiva eventuale di un referendum anti-euro che, come si capisce, non arrecherebbe alcun danno alla supremazia del dollaro come moneta di riserva. Reginald Bartholomev, ambasciatore dal '93 al '97, gli anni di Scalfaro, ha raccontato poco prima di morire a Maurizio Molinari, era l'agosto del 2012, delle relazioni del consolato di Milano con il pool di Mani pulite e delle sue con i leader politici: "Venne una delegazione dc, erano tristissimi, sembrava un funerale". Prodi voleva essere ricevuto subito da Clinton, ma non si poteva. Con Massimo D'Alema si sviluppò "un rapporto che sarebbe durato nel tempo".

Gli ambasciatori sondano, fanno ricevimenti, conoscono i nuovi, coltivano l'interesse del loro Paese. Sono in stretta relazione coi gruppi di affari e di discussione politica dove nascono intese. Uno è il gruppo Bilderberg, un altro è l'entourage della banca d'affari Goldman Sachs che si è avvalsa nel tempo dei consigli di Prodi, Draghi, Monti, Gianni Letta. Uno è l'Aspen, che in Italia conta su Amato Prodi e D'Alema, un altro ancora è la Trilaterale fondata da Rockefeller nel giugno del '73 con lo scopo di "favorire le relazioni fra Europa, Usa e Giappone". Monti l'ha presieduta fino al 2011. La frequentano la consulente per la politica estera di D'Alema Marta Dassù, il giovane Elkann, Enrico Letta, Carlo Pesenti, Guarguaglini, Sella di banca Sella, Sala di Intesa San Paolo, vari esponenti di Confindustria. Molti anni fa Kissinger e Agnelli, oggi i loro eredi.

"Giulio Andreotti era amico personale di Rockefeller, il fondatore della Trilaterale. Moltissime volte il banchiere lo ha pregato di fargli l'onore di partecipare ai loro incontri, posso testimoniarlo  -  racconta Paolo Cirino Pomicino, vecchio dc  -  Andreotti non ha mai accettato perché, diceva, la politica e i banchieri fanno mestieri diversi, è bene che non si mescolino". Non è vero, non è questa la ragione. Questo era quel che Andreotti diceva, certo, ma ciò che gli ebrei d'America non gli perdonavano era in realtà la sua attenzione alla causa palestinese  -  tra le altre il suo essere filoarabo in nome di una ricerca del dialogo fra i popoli che nella tradizione dc ha avuto un campione in La Pira. Il suo sguardo a un'altra parte di mondo, ad altri interessi e, in Europa, ad altro tipo di famiglie che in quanto a potere e liquidità potevano competere con i banchieri americani. Altre banche, in un certo senso, che gli consentivano di dire agli Usa: no, grazie. Non è del resto un caso che Andreotti non sia mai stato eletto al Quirinale. Dice ancora Pomicino, in procinto di presiedere al Parco dei Principi di Roma, il 12, un convegno su "politica ed economia nel nuovo quadro politico": "Senza le credenziali degli americani e in specie delle grandi banche d'affari oggi nessuno può pensare di aspirare seriamente al Quirinale. Del resto nessuno dei presidenti italiani è stato mai davvero sgradito all'America. Anzi. Tutt'al più, quando era irrilevante, è stato ignorato".

Nessuno può farcela senza le credenziali giuste. E' sempre stato così. Il primo pensiero di Einaudi, appena insediato nel maggio '48, fu di mandare un telegramma amichevolissimo a Truman. Quello di Gronchi di farsi perdonare dell'essere stato eletto coi voti del Pci, e pazienza se la visita ad Eisenhower fu funestata da un'improvvida intervista preventiva in cui Gronchi diceva che sarebbe stato utile riconoscere la Cina popolare e ammetterla all'Onu. Henry Luce, proprietario del Time, ne riferì sul suo giornale. Sua moglie Claire Booth, ambasciatrice in Italia, se ne lagnò con parole vivaci. Fu il Washington Post a liquidare la questione: il presidente italiano non conta nulla, è solo decorativo. Con Segni comincia la stagione del golpismo, sul fondo sempre sfuggente e viva l'ombra della rete atlantica. Prima il tintinnar di sciabole del "Piano Solo", ordito per la "tutela dell'ordine pubblico" allo scopo di incarcerare "esponenti politici pericolosi". Poi Saragat, tanto amato dal presidente Johnson, compagno di battute di caccia di Licio Gelli e capo dello Stato al tempo del tentato golpe del principe nero Junio Valerio Borghese. E' nel settennato di Leone, s'è visto, che le reti di intelligence iniziano a lasciare spazio alla più moderna legge degli affari. Scoppia lo scandalo Lockheed, armi e tangenti. Le Br in Italia rapiscono Moro, Cossiga è ministro dell'Interno. Quando sarà eletto presidente, dopo il settennato di Pertini, si ricomincerà a parlare di reti misteriose e di oscuri finanziatori: il piano Stay Behind, conosciuto come Gladio, doveva armare una rete di incursori pronti a respingere un eventuale tentativo di invasione sovietica. Siamo alla fine degli anni Ottanta. Alla fine di quel decennio arrivano Gorbaciov e la sua Perestroijka, la Russia non è più quella di prima, nessuno sbarco in armi sembra più possibile. C'è Scalfaro, ora, al Quirinale. C'è il ciclone di Mani Pulite che spazza via una stagione di politica corrotta per lasciare spazio ad una generazione nuova. Più avvezza all'uso di mondo, alle relazioni internazionali, alla lingua degli uomini d'affari. E' dal denaro adesso, dalla finanza che passano gli interessi politici. Cresce l'influenza delle agenzie di brain storming, i conclave a porte chiuse, avanzano i tecnocrati. E' ai banchieri che si ricorre quando la politica tace o sobbolle di sue interne diatribe. Ciampi, una traiettoria politicamente specchiatissima culminata in Bankitalia, è eletto all'unanimità e al primo scrutinio, salutato nel '99 come salvatore della patria. Napolitano è a Monti che pensa quando deve tenere ferma la rotta del Paese in un momento di crisi economica gravissima. Per la successione più d'uno dice Draghi. Ma poi anche i banchieri finiscono, o hanno altro di più importante da fare. Ed è sempre alla politica, alla fine, che bisogna tornare.
(5-continua)

© Riproduzione riservata (09 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/09/news/america_quirinale-56461322/?ref=search
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« Risposta #84 inserito:: Aprile 12, 2013, 11:52:25 pm »

Quirinale, veti incrociati e contropartite: quando l'elezione arriva al primo colpo

Così il metodo De Mita portò ai voti record di Cossiga.

Natta andò da solo a casa di Agnes per trattare col leader democristiano.

Tra gli altri propose i nomi dei cattolici Elia e Lazzati

di CONCITA DE GREGORIO


Riducendo la questione all'osso: quando si chiede qualcosa bisogna avere qualcos'altro da dare in cambio. Il potere negoziale che serve a trovare un accordo politico per il Quirinale non è molto diverso dal criterio che adottano i bimbi di sei anni quando si scambiano le carte Pokemon a ricreazione: io ti do questo se tu mi dai quello, oppure me ne dai due piccoli che valgono uno intero.

Se non ce li hai oggi me li porti domattina. Se non me li porti, mi riprendo il mio e intanto per sicurezza tengo la tua penna. Funziona così, dall'asilo in poi.

L'accordo sui Presidenti si è trovato, nella storia, dando qualcosa indietro a chi aveva i voti che servivano. Tu mi dai i voti per il Quirinale e io ti assicuro la presidenza del Senato e il prossimo governo. Poi quando il mio candidato sarà eletto nominerà senatori a vita almeno tre dei tuoi che valgono quanto uno dei miei. In garanzia, intanto, teniamo le commissioni di controllo e manteniamo in carica tutti i funzionari di massimo livello: se non va come deciso non ve li restituiamo. Con Cossiga, l'esempio più fulgido di accordo politico perfetto, è andata esattamente così (diamo il Senato a Fanfani, il governo ad Andreotti, il neo eletto nominerà per le minoranze tre senatori a vita) ed è stato infatti eletto il primo giorno al primo scrutinio con una maggioranza impressionante, 752 voti. 45 in più di Ciampi che molti anni dopo - in tutta un'altra epoca - è stato per ragioni molto diverse il secondo ed ultimo capo di Stato deciso al primo tentativo dai due terzi delle Camere.

Naturalmente per fare questo gioco, nel cortile di scuola come nei partiti politici, bisogna avere le carte. La ragione della paralisi oggi è tutta qui: nessuno ha abbastanza da dare per pretendere qualcosa in cambio, e delle ipoteche sul futuro - delle garanzie delle promesse - non c'è più chi si fidi. Un sistema di poteri spaventati e deboli, spaventati perché deboli, in cui nessuno ha la forza di essere altruista nè lungimirante. Un sistema in cui si è smarrito il coraggio. Gennaro Acquaviva, socialista di quando c'era il Psi, 78 anni, di presidenti ne ha fatti e visti fare parecchi: "Il problema oggi è che nessuno muove niente. Non ha la forza di spostare nulla. E' un sistema spappolato in cui l'unica forza superstite è quella di paralizzarsi a vicenda. I kingmaker che lavorano all'accordo sono fragilissimi: cos'hanno da offrire in cambio a coloro a cui chiedono? E come possono controllare parlamentari che fra un mese o forse fra tre potrebbero non avere più il posto? Perché dovrebbero, costoro, rispondere ai capi? Solo in virtù della paura di sparire?". Non basta, la paura da sola non è bastata mai. Genera, anzi, ancora più confusione e sperdimento. "D'altra parte questo penso quando vedo che le riunione di direzione, nei partiti, durano mezz'ora e nessuno fiata: sono tutti fermi e muti ad aspettare. Ma cosa aspettano?". Già, cosa aspettano. Il tema del "perdere tempo" è diventato il tormentone dei giorni.

Dei vecchi superstiti, di quelli cioè che hanno memoria del gioco grande della Politica, Paolo Cirino Pomicino è il più giovane. 74 anni, al cospetto di De Mita e di Andreotti un ragazzino. Il giorno dell'insediamento delle nuove Camere, mentre i cinquestelle chiedevano indicazione per i bagni e occupavano i divani di destra e di sinistra, stava in un corridoio con vista sul cortile interpellato come un oracolo. Parlava del '76 - Napolitano lo evoca oggi - già più di un mese fa: il governo monocolore di Solidarietà nazionale nato dal compromesso storico. "In due anni e mezzo facemmo la riforma sanitaria, ci occupammo di ospedali psichiatrici e di contabilità di Stato, scrivemmo le leggi speciali antiterrorismo. Lo facemmo perché non potevamo mandare il paese alla malora e lo facemmo perché avevamo la forza di farlo. Oggi si è smarrito il minimo comun denominatore della responsabilità nazionale. I partiti sono deboli e pensano di fortificarsi prendendo tutto. E' un grave errore. Chi è forte di un'identità, chi ha un orizzonte sa dare, seminare e aspettare. Quando Bersani dice che l'accordo col Pdl farebbe crescere il consenso dei cinquestelle dimostra di non credere lui per primo nella sua forza di governo". Moro non fece così. Ciriaco De Mita, dall'82 all'89 segretario della Dc, intanto anche presidente del Consiglio: "Nel '76 la pubblica opinione era contrarissima al governo Andreotti appoggiato dal Pci. Moro disse: 'Mi prendo la responsabilità di questo processo, se mi dovessi accorgere che non funziona sarei io ad interromperlo'. I leader veri sono quelli che hanno la testa, non quelli che hanno l'età".

De Mita di anni ne ha 85. Il 18 aprile, mentre alla Camera si inizierà a votare per il nuovo presidente, sarà a palazzo Venezia a ricordare il comunista Luciano Barca padre di Fabrizio, oggi ministro. "Con lui discutevamo del valore del mercato. Che anni". Di questi che viviamo adesso dice invece: "Per la prima volta nella vita mi fanno paura. Non vedo chi possa e sappia guidare. Tutti i protagonisti della politica sono paralizzati dal pregiudizio verso gli altri, nessuno ha il coraggio di rischiare. Hanno dimenticato che in politica vince sempre chi rischia".
C'è un solo metodo censito, dal dopoguerra, che abbia portato con successo un candidato concordato - Cossiga, appunto - al Quirinale. Si chiama "metodo De Mita".

Non è molto diverso da quello dei bimbi a ricreazione ma a sentirlo raccontare da lui sembra un romanzo a chiavi. Vediamo. "Il criterio ispiratore fu una lettura del pensiero di Togliatti che operava una distinzione: il capo del governo rappresenta la maggioranza parlamentare, il capo dello stato incarna l'unità nazionale". Cioè non è detto che debba essere un uomo espresso dall'area che ha la maggioranza in parlamento: deve anzi essere una personalità il più largamente possibile condivisa. "Non è che chi ha la maggioranza indica un nome e pretende di imporlo. Non si fa così. Si concorda. La funzione del Presidente è istituzionale, non importa chi lo esprime. Lo spiegai a Spadolini, che mi disse 'perfetto, ma non si è mai realizzato'. Risposi: nessuno lo ha mai proposto". Provarono. "Bisognava prima di tutto parlarsi. Chiaromonte e Napolitano insistevano molto perché incontrassi Natta. Non sapevano che ci eravamo già visti, ma eravamo d'accordo nel non dirlo. Ci eravamo incontrati a casa di Biagio Agnes. Natta era venuto da solo, non si fidava dei suoi: 'non capisco cosa pensano', mi disse". De Mita propose Andreotti, Natta rispose: "Non siamo in condizione di votarlo".

Il problema era la persona, non l'obiettivo. Bisognava trovare un nome condiviso. "Così usai il sistema della rosa. Ogni gruppo doveva dare i suoi nomi. Agivo mai pretendendo di convincere e mai essendo già convinto. Nella rosa di Natta c'erano Elia e Giuseppe Lazzati. Zanone e Malagodi non avevano liberali da proporre, indicavano solo democristiani. L'area laica diceva Baffi. Il nome di Cossiga emerse in modo abbastanza casuale. Era in rose diverse. Andai da Andreotti, gli dissi: i comunisti non ti votano. Lui mi rispose non importa: procediamo con Cossiga. Alla fine risultò l'unico nome, scartati gli altri. Alla vigilia del voto, all'assemblea dei gruppi, lo proposi per il Quirinale. Ci fu il gelo. Prese la parola Andreotti e disse: se fosse vivo De Gasperi sarebbe contento. Quindi andai da Cossiga a comunicargli la decisione: gli proposi, una volta eletto, di fare senatori a vita Elia Malagodi e Baffi". Il candidato del Pci, il liberale, l'uomo dei laici. Tre carte nello scambio. Cossiga non li nominò mai, si rammarica ancora De Mita 28 anni dopo. "Gli chiesi anche di confermare Maccanico come segretario generale. Ma non perché fosse irpino come me. Perché era un uomo intelligente. Del resto le due condizioni possono convivere nella stessa persona".

Sorride un sorriso breve, chè c'è subito l'ombra dell'oggi. "Dopo il risultato elettorale, da leader di partito mi sarei posto il problema di trovare il punto di svolgimento della legislatura. Non si torna a votare, no. L'errore del leader del Pd è stato mettere come condizione il suo ruolo: ha paralizzato lo svolgimento dell'azione politica. Bersani avrebbe potuto fare un monocolore sostenuto da un dissenso manifesto e da un consenso di fatto". Un dissenso manifesto, un consenso di fatto. "Non esattamente come nel '76, il quadro non è quello, ma con un accordo su alcuni provvedimenti avrebbe dovuto cercare l'accordo di tutte le forze in parlamento. Tutte. Non si può dire che un terzo delle Camere è estraneo ai processi politici in atto. Non si può dire: con Berlusconi non tratto. Tra l'altro: non è vero che chi sta a sinistra sia onesto e incorrotto, chi sta a destra disonesto e corrotto. Tutti potenzialmente sono l'uno e l'altro". Quello che conta, in questa "democrazia rappresentativa logorata e davvero a rischio", è che ci sia ancora chi sa mettere avanti l'istituzione al suo personale interesse. Le regole del gioco al suo gioco. Un esempio, legato alla figura di un Presidente che la giustizia ha assolto in ritardo e la politica riabilitato post mortem: Giovanni Leone.

Sono le sette meno dieci di sera del 6 maggio 1962, domenica. Ottavo scrutinio: a Segni mancano solo 4 voti per il quorum. Il nono scrutinio è agitato da uno scambio di schede, urla in aula, la seduta è sospesa per mezz'ora fra le accuse di brogli e camarille. Togliatti va da Leone, presidente della Camera, nel suo studiolo al piano terra di Montecitorio. Gli chiede di sospendere la seduta e rinviarla al mattino seguente. Gli dice che il nuovo candidato sarebbe stato lui, Leone: Togliatti gli garantiva il sostegno e i 330 voti fin lì andati a Saragat, i dc avrebbero dato i loro. Leone avrebbe solo dovuto usare a suo vantaggio le prerogative di presidente della Camera che gli consentivano di rinviare la seduta. Avrebbe dovuto farlo nel suo interesse. "Come potrei? Non posso", e congedò Togliatti. Non rinviò la seduta, si precluse la strada al Quirinale, fece votare di nuovo che era già notte di domenica. Fu eletto Segni con 443 voti.

Dopo Napolitano De Mita vede ancora Napolitano. "Nella storia tutti i presidenti in scadenza hanno sperato nella riconferma, Pertini più degli altri. Napolitano non vuole, e gli credo. Ma ha senso delle istituzioni, sarebbe in condizione di organizzare un percorso politico. E' l'unica strada che vedo. Se glielo chiedesse il parlamento all'unanimità non potrebbe sottrarsi. L'età poi non conta, e il settennato non è detto debba essere condotto a termine". Anche Cirino si congeda con un pensiero che risuona con questo. "E' un momento in cui gli interessi tribali e personali si devono mettere da parte. Cinquestelle è un intreccio di protesta e utopia rivoluzionaria nato dalla crisi economica. Una specie di setta, e ogni setta porta dentro di sé le ragioni della sua fine. Le persone oggi contano più dei partiti ma è dall'organizzazione della politica che si deve ripartire per rimettere in piedi il Paese. Serve tempo, e qualche intelligenza. Non ne vedo moltissime in giro. Non mi pare una grande idea fare a meno di quelle che ci sono".
(6-continua)

© Riproduzione riservata (12 aprile 2013)

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« Risposta #85 inserito:: Aprile 15, 2013, 11:53:56 am »

Le ombre vaticane sui grandi elettori

L'inchiesta/7.

Nel '64 tre alti prelati da Fanfani per dirgli di non candidarsi. E lui: "Allora io verrò a insegnarvi a dir messa".

Siri ricevette De Mita quando al Quirinale c'era Pertini. E gli confidò: "Più dei comunisti ci preoccupano i socialisti".

Ma con Papa Francesco la politica italiana è più lontana

di CONCITA DE GREGORIO

Le ombre vaticane sui grandi elettori

L'inchiesta in sette puntate di Concita De Gregorio su tutti i retroscena delle elezioni dei presidenti della Repubblica è stata raccolta in un ebook in uscita


IL BACIO dell'anello è una questione di geografia, l'Italia essendo l'unica nazione al mondo che custodisce la Città del Vaticano all'altezza dello stomaco. Di storia, che da millenni intreccia dei due governi i due destini. Di soldi, poiché da sempre e molto strettamente i bilanci dell'uno dipendono dalle decisioni dell'altro. È grosso modo per questo che non c'è paragone tra il livello di attenzione che il Vaticano dedica alla politica italiana, anche minuta e minutissima - i consigli regionali, per dire, i candidati sindaci, persino - e l'interesse che riserva alle presidenziali francesi, alle elezioni andaluse, alle lotte di potere messicane. È per le stesse ragioni - di vicinanza, di confidenza con la materia, di interesse economico diretto - che la Curia romana destina la massima attenzione alla formazione dei governi, un'ancora stretta ma meno severa vigilanza all'elezione del capo dello Stato. I governi decidono: di scuole private, di sanità, di tasse sui beni immobili, di diritti in materia di famiglia, libertà della persona. I presidenti no. Almeno, non direttamente.

Lo ha spiegato in estrema sintesi, una decina di parole, Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio: "L'attività di governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa", ha detto il 6 giugno del 2008 reduce da un lungo e cordialissimo colloquio col Pontefice, presente come sempre Gianni Letta. Non può che compiacere. Di più, sempre da presidente del Consiglio, in un telegramma per gli 80 anni del cardinale Ruini: "Auspico che continui ad essere con la sua saggezza ed esperienza fonte di riflessione e di guida per tutti noi". Il presidente della Conferenza episcopale guida del capo del governo italiano e, per estensione, di tutti noi.

Gennaro Acquaviva è stato a metà degli anni '80 l'uomo che per conto di Craxi ha portato a termine la revisione del Concordato, assiduo sherpa tra le due sponde del Tevere: "Montini, Siri, Silvestrini facevano politica direttamente con grande intelligenza. Negli ultimi trent'anni la classe dirigente della chiesa è progressivamente decaduta. Ha fatto campagne elettorali, certo, ha sostenuto i suoi interessi attraverso i suoi candidati. Ma da molto tempo non è più decisiva nell'elezione di un presidente della Repubblica: almeno dai tempi di Pio XII". Dalla fine degli anni Cinquanta, dice Acquaviva. In realtà qualcosina dev'essere successo anche dopo, di certo almeno fino al pontificato di Paolo VI se - ha raccontato il corrispondente di Le Monde dell'epoca, Jacques Nobecourt - fra il 17 e il 22 dicembre 1964, cinque giorni, andarono in tre a casa di Fanfani per tentare di dissuaderlo dalla tentazione di fare il Presidente. Nell'attico di via Platone arrivò prima Angelo Dell'Acqua, sostituto della Segreteria di stato vaticana, poi il segretario particolare del Papa monsignor Macchi, infine l'assistente generale dell'Azione cattolica Franco Costa. Esasperato, l'impulsivo Fanfani rispose: "Riferisca a chi la manda che se lui continua a pretendere di insegnare a me come regolarmi in queste faccende verrò tra breve a prendere la parola in concilio per insegnargli come si deve dire messa". In ogni caso, passato il momento di comprensibile fastidio, Fanfani rinunciò. Preferì trasformare - come si usa in questi casi - il sacrificio in un credito.

Il bacio dell'anello, o per i più atletici la genuflessione fino alla pantofola, è rimasto nei decenni successivi un gesto simbolico relegato alle personali inclinazioni e sensibilità. Oscar Luigi Scalfaro, che pure era un terziario francescano ed andava col Papa ad Assisi in visita al Sacro convento, aveva nei confronti di Giovanni Paolo II una devozione pari all'indifferenza con la quale si divertiva ad ignorare i cardinali. Consegnava chiuse ai suoi collaboratori le buste con gli stemmi dorati che arrivavano dal Vaticano - racconta il Segretario generale del tempo - in occasione dei conferimenti di incarico per i governi: "Ti do due buste, conservale. Le apriamo dopo", sorrideva.

Dice Ciriaco De Mita che la Curia romana ha sempre avuto molta miglior disposizione di quanto non si creda verso i comunisti, erano semmai i socialisti a impensierirla. "Ricordo che appena eletto segretario Dc andai a Genova, mi dissero che Siri voleva vedermi. Avanzava maestoso, pareva un principe rinascimentale. 'Hanno fatto bene a scegliere lei, che è un birbante', mi disse. Feci qualche osservazione a proposito delle dinamiche verso il Pci. 'Ma no, è la cultura socialista, piuttosto, a darmi pensiero', mi rispose". Era in carica Pertini, in quegli anni. E anche in questo caso i rapporti del presidente (socialista) con la Curia erano tanto ruvidi quanto disinvolta era la relazione con Papa Wojtila, col quale andava sull'Adamello a sciare. Quando il presidente fu ricoverato all'Umberto primo per un malore, nel 1987, Wojtyla andò in ospedale da lui e rimase mezz'ora fuori dalla porta senza poter entrare. "E' stato mio amico fin dal primo incontro - disse alla moglie - se domanderà gli dovete dire che il Papa era qui ma l'ha trovato in sonno e non l'ha voluto disturbare".

Con Ratzinger che - dice Acquaviva per raccontare della sua estraneità alle lotte di potere - "era un papa che suonava il pianoforte" la pratica della gestione degli affari correnti è passata del tutto nelle mani delle seconde linee. "Se ne occupava Bertone, salesiano molto operativo al quale dovrei anche essere grato: ha inventato l'8 per mille, il Concordato me l'ha risolto lui". L'ha risolto con una percentuale sulla dichiarazione dei redditi, tanto per essere chiari e capire di cosa si tratti davvero. "Bertone era ed è grande amico di Tremonti. Si intendono e si assistono sulle questioni di loro pertinenza. Non dico che siano tutte questioni di conti ma in prevalenza, diciamo, potrebbero". Bertone è l'uomo dello Ior, la banca vaticana nella black list del sistema di vigilanza mondiale, il grande pozzo da cui transitano denari della cui provenienza da decenni procure d'ogni dove chiedono invano di sapere. Lo Ior è al centro della vicenda - Vatileaks - che ha portato alla rinuncia di Benedetto XVI, il papa del pianoforte. De Mita: "Ratzinger aveva una dimensione molto religiosa. Ad essere presenti sulla scena politica erano altri. Ruini per esempio. Molto presente. Direi troppo presente".

Ma d'altra parte, passa in rassegna la storia Acquaviva, "non c'è mai stato nessun Ruini che abbia mosso ciò che non poteva, o che in fondo non interessava. Dossetti voleva Sforza presidente e non lo ebbe, dissero che era donnaiolo e massone, liquidarono la faccenda così. L'elezione di Gronchi fu un piccolo golpe contro la Dc ordito dai socialisti che volevano rientrare in gioco. L'ascesa di Leone una partita tutta interna alla Dc contro la sinistra. Sì, Silvestrini interveniva, consigliava. Montini avrebbe voluto Moro. Ma il peso della Chiesa è andato negli anni indebolendosi insieme alla consistenza intellettuale e in qualche caso morale degli uomini". Sono sul tavolo questioni sempre più pratiche, sempre meno ideali. Anche quando lo sembrano - quando hanno l'aria di battaglie etiche - nascondono interessi d'altro tipo. La gestione dell'immenso patrimonio immobiliare. Dell'istruzione e delle cliniche private. La sanità, la scuola, le tasse. "Oggi, poniamo, monsignor Crociata segretario generale della Cei può fare campagna elettorale per opporsi alla Bonino alla Regione Lazio, trovando magari complicità inaspettate a sinistra. Ma quanti voti sposta, in un sistema sempre più disgregato? Qual è davvero la compattezza della falange politica che risponde al mondo cattolico e soprattutto: quali sono le ragioni che la muovono?".

"Il dramma dei divorziati esclusi dalla comunione", era il titolo di un editoriale del Giornale di Berlusconi qualche anno fa: seguì fitto e pensoso dibattito tra i massimi esponenti delle gerarchie e del credo religioso. Persino in un ambito come questo, non immediatamente misurabile in termini di cassa né di primaria urgenza per le sorti del Paese, si fa tuttora qualche fatica a non rilevare una sovrapposizione di interessi: personale, pastorale, elettorale. Nei giorni del recente conclave c'era chi diceva che sarebbero bastati "sei mesi di pontificato di Carlo Maria Martini per cambiare il destino della Chiesa, molto in subordine anche quello dell'Italia". E' stato eletto Papa Francesco, che di Martini era il candidato nel 2005. "C'era un cardinale in più, in cielo, a votare per Bergoglio", sorride don Virginio Colmegna che di Martini a Milano è stato il braccio destro: "Francesco sarà un Papa capace di cambiare la storia della Chiesa e certo dell'Italia non con le parole ma coi fatti. Col tempo, e coi gesti che sono anche omissioni". Il non dire, il non fare. In questa vigilia di conclave laico, a pochi giorni dal voto per il Colle, non c'è chi senta - neppure tra i suoi uomini più fidati - la voce del Papa. Un silenzio che rovescia gli animi e svapora le intenzioni. Che molti rende inquieti, nella Roma dei Papi e dei Re, molti altri rincuora.
(7 - fine)

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« Risposta #86 inserito:: Maggio 03, 2013, 05:54:07 pm »


   
Boldrini: "Io, minacciata di morte ogni giorno. Non ho paura ma basta all'anarchia del web"

La presidente della Camera: sulla Rete campagne d'odio, è tempo di fare una legge.

In Italia le donne continuano a morire per mano degli uomini e per molti è sempre e solo una fatalità, un incidente, un raptus

di CONCITA DE GREGORIO


ROMA - Laura Boldrini, seduta alla sua scrivania di Presidente della Camera dei deputati, legge attentamente i messaggi che la sua giovane assistente Giovanna Pirrotta le porge. Sono minacce di morte, di stupro, di sodomia, di tortura. Accanto al testo spesso ci sono immagini. Fotomontaggi: il suo volto sorridente sul corpo di una donna violentata da un uomo di colore, il suo viso sul corpo di una donna sgozzata, il sangue che riempie un catino a terra. Centinaia di pagine stampate, migliaia di messaggi. A ciascuna minaccia corrisponde un nome e un cognome, un profilo Facebook, l'indirizzo di una pagina Internet. Le minacce - tutte a sfondo sessuale, promesse di morte violenta - si sono moltiplicate nel giro di due settimane con il tipico effetto valanga che la Rete produce: al principio erano una decina, qualche sito le ha riprese e rilanciate, i siti più grandi le hanno richiamate dai siti più piccoli con la tecnica consueta: dichiarare in premessa l'intenzione di denunciare l'aggressione col risultato, in effetti, di divulgarla ad un pubblico sempre più ampio. In principio, quasi all'indomani della sua nomina, aveva preso a circolare una foto che a questo punto della vicenda pare addirittura innocente: una donna nuda, in spiagga, indicata come Laura Boldrini e affiancata da commenti machisti. Poi le prime minacce, altre e altre ancora sempre più gravi fino ad arrivare alle ultime, pochi giorni fa: una donna sgozzata, uno stupro. Siti di destra, razzisti e xenofobi, pagine Facebook, di seguito l'effetto macchia d'olio, incontrollabile.
Dunque cosa fare?, è l'intatto quesito che si ripropone ogni volta che ci si trova di fronte a messaggi, comunicati, rivendicazioni di una minoranza violenta. Dar loro visibilità e amplificarli, facendo il loro gioco, o tacere, subire, reagire sul piano della denuncia individuale senza offrire un più largo palcoscenico a quelle miserevoli gesta.

"Io non ho paura", mormora la presidente della Camera mentre ascolta questa discussione, i suoi collaboratori attorno a lei. "Nel senso che certo, sì. Ho paura quando i fotografi inseguono mia figlia di 19 anni in motorino, ho paura che possa spaventarsi e avere un incidente, mi si gonfia in cuore. Ho paura quando si appostano sotto casa di mio fratello Enrico, il più piccolo dei miei fratelli, che soffre di una forma grave di autismo. Non capisco come possano farlo, e ho paura per lui. Ma non ho paura io, adesso, di aprire un fronte di battaglia, se necessario. Daremo visibilità a un gruppo di fanatici? Sì, è vero. Ma non sono pochi, sono migliaia e migliaia, crescono ogni giorno e costituiscono una porzione del Paese che non possiamo ignorare: c'è e dobbiamo combatterla. Non posso denunciarli tutti individualmente: è un'arma spuntata, la giustizia cammina lentamente al cospetto della Rete, quando arriva la minaccia è già altrove, moltiplicata per mille. E poi non è una questione che riguarda solo me. Ci sono due temi di cui dobbiamo parlare a viso aperto. Il primo è che quando una donna riveste incarichi pubblici si scatena contro di lei l'aggressione sessista: che sia apparentemente innocua, semplice gossip, o violenta, assume sempre la forma di minaccia sessuale, usa un lessico che parla di umiliazioni e di sottomissioni. E questa davvero è una questione grande, diffusa, collettiva. Non bisogna più aver paura di dire che è una cultura sotterranea in qualche forma condivisa. Io dico: un'emergenza, in Italia. Perché le donne muoiono per mano degli uomini ogni giorno, ed è in fondo considerata sempre una fatalità, un incidente, un raptus. Se questo accade è anche - non solo, ma anche - perché chi poteva farlo non ha mai sollevato con vigore il tema al livello più alto, quello istituzionale. Dunque facciamolo, finalmente".

Sul tavolo della presidente le pagine in cui uomini con nome e cognome, dati a cui corrispondono persone reali, scrivono "ti devono linciare, puttana", "abiti a 30 chilometri da casa mia, giuro che vengo a trovarti", "ti ammanetto di chiudo in una stanza buia e ti uso come orinatoio, morirai affogata", "gli immigrati mettiteli nel letto, troia". Accanto alla foto della donna sgozzata: "Per i Boldrini in rete ecco l'Islam in azione".

La seconda questione è se possibile ancora più delicata, riguarda i reati commessi via web. Ogni volta che si interviene a cancellare un messaggio, ad oscurare un sito - dice Roberto Natale, portavoce della Presidente - c'è una reazione fortissima della rete che invoca la libertà e parla di censura. Valentina Loiero, responsabile comunicazione: "Al principio abbiamo individuato un sito, di cui è titolare Antonio Mattia, che aveva diffuso la foto di una nudista spacciandola per Laura ed aveva dato il via ai commenti sessisti. Abbiamo informato la polizia postale. La reazione dell'uomo alla visita delle forze dell'ordine è stata una denuncia di violazione della privacy a cui hanno fatto seguito in rete accuse di abuso di potere, subito riprese da esponenti politici della destra".

Boldrini: "Abbiamo due agenti della polizia postale, due, che lavorano alla Camera, distaccati qui a vigilare sulle moltissime violazioni di cui un luogo istituzionale come questo può essere oggetto. C'è stato il caso della parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui è stata violata la posta personale. C'è il caso di una deputata oggi ministra che non ha più potuto accedere ai suoi social network e teme che a suo nome si possano divulgare messaggi non suoi. Poi ci sono le minacce di morte nei miei confronti. Tutte donne, lo dico come dato di cronaca. So bene che la questione del controllo del web è delicatissima. Non per questo non dobbiamo porcela. Mi domando se sia giusto che una minaccia di morte che avviene in forma diretta, o attraverso una scritta sul muro sia considerata in modo diverso dalla stessa minaccia via web. Me lo domando, chiedo che si apra una discussione serena e seria. Se il web è vita reale, e lo è, se produce effetti reali, e li produce, allora non possiamo più considerare meno rilevante quel che accade in Rete rispetto a quel che succede per strada". C'è in questi giorni la discussione sulla scorta. "Io ho chiesto di non essere scortata. Non ho paura di camminare per Roma, non ho paura di andare da casa in ufficio. Può accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, certo, ma questo vale per chiunque. Piuttosto mi pare molto più grave, molto più pericoloso che si diffonda in rete una cultura della minaccia tollerata e giudicata tutt'al più, come certi hanno scritto, una "burla". Mi sento molto più vulnerabile quando penso che chiunque, aprendo un computer, anche mia figlia, anche i suoi amici, anche i ragazzi giovanissimi che vivono connessi al computer possono vedere il mio volto sovrapposto a quello di una donna sgozzata. Mi domando che effetti profondi e di lungo periodo, fra i più giovani, un'immagine così possa avere".

La campagna contro Laura Boldrini si è impennata all'indomani della sua visita alla comunità ebraica, il 12 aprile scorso. In quell'occasione, incontrando i dirigenti della comunità, ha parlato della necessità di "ripristinare il rigore della legge Mancino" a proposito dell'incitamento al razzismo e all'odio razziale su web. È infatti dell'8 aprile la sentenza di condanna dei quattro gestori di Stormfront, sito web neonazista, condannati per antisemitismo. È la prima sentenza che riconosce un'associazione a delinquere via web: a quella si richiamava Boldrini nel suo discorso alla comunità. Da quel giorno è partita la valanga. Il sito "Tutti i crimini degli immigrati" associa il volto del presidente della Camera alle notizie di reati commessi da cittadini stranieri. "Resistenza Nazionale", "Fronte Nazionale", "MultiKulti" e altri indirizzi web diffondono. Poi i fotomontaggi, e le minacce. Dal 28 aprile, dopo la sparatoria davanti a palazzo Chigi, hanno iniziato a circolare centinaia di messaggi che dicono "Dovevano sparare a te", "la prossima sei tu", "cacati sotto, a morte i politici come te". La magistratura è avvertita, le denunce sono partite. "Ma è come svuotare il mare con un bicchiere. Credo che ci dobbiamo tutti fermare un momento e domandarci due cose: se vogliamo dare battaglia - una battaglia culturale - alle aggressioni alle donne a sfondo sessuale. Se vogliamo cominciare a pensare alla rete come ad un luogo reale, dove persone reali spendono parole reali, esattamente come altrove. Cominciare a pensarci, discuterne quanto si deve, poi prendere delle decisioni misurate, sensate, efficaci. Senza avere paura dei tabù che sono tanti, a destra come a sinistra. La paura paralizza. La politica deve essere coraggiosa, deve agire".
 

(03 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #87 inserito:: Giugno 07, 2013, 06:47:00 pm »

Lettere da Radio Maria agli ascoltatori anziani: "Fate testamento in favore dell'emittente"

Sotto forma di questionario, il testo spiega come disporre lasciti e donazioni. "Danno consulenza a domicilio: chissà quanti accettano in cambio di un po' di compagnia"

di CONCITA DE GREGORIO


MARCO arriva all'appuntamento con i fogli del questionario e la lettera in mano. Li posa sul tavolino del bar. Tre pagine, e un bollettino di conto corrente postale. Ecco, indica. Sono questi i fogli che ha sfilato con dolcezza dalle mani di sua madre, 92 anni. Adele li aveva compilati meticolosamente, chissà quanto tempo aveva impiegato a leggere tutte le domande, aveva messo la sua firma in fondo.

Aveva scritto tutti i suoi dati e indicato che sì, avrebbe parlato volentieri con un gentile operatore per capire meglio come fare quel lascito, il testamento olografo o come si chiama. Che le telefonasse pure, la persona di Radio Maria, per prendere appuntamento. Tanto lei sta sempre a casa. Doveva solo ripiegare i fogli, Adele, quando Marco ha suonato al campanello ed è salito per il saluto quotidiano. Come va, mamma? Bene devo solo mettere questi fogli in busta non serve il francobollo me la porti tu alla posta per favore? Certo, che lettera è mamma? Mi ha scritto il prete di Radio Maria, guarda c'è la sua foto accanto alla firma, che bel giovane vedi? Dice che hanno bisogno del mio aiuto per far conoscere la parola di Maria in tutto il mondo che basta solo che compili il questionario poi ci pensano loro, se voglio fare una donazione mi aiutano loro a fare quello, come si chiama, leggi un po', ah ecco sì: il testamento olografo.

La lettera ricevuta da Adele è in realtà finita nella cassetta della posta di migliaia di persone, anziani soprattutto. La gran parte della platea degli ascoltatori (oltre un milione e mezzo al giorno) dell'emittente cattolica diretta da don Livio Fanzaga, la più pervasiva radio privata italiana, quella che conta oltre 850 ripetitori.

Marco, che è l'ultimo dei tanti figli di Adele, dice con gli occhi lucidi di rabbia che lui a sua madre del testamento non aveva parlato mai fino a quel giorno. Per delicatezza, per amore, per non evocare neppure l'ombra del pensiero della sua morte, non con lei. Dice che nemmeno sua madre l'aveva mai fatto con loro, coi figli. Neppure da quando è rimasta vedova, mai. Che poi non è che ci sia chissà che cosa in ballo. Due lire, un pezzetto di terra nell'Agro, il nulla che si è fatta bastare per vivere. È che di queste cose non si parla, che sembra che uno se lo auguri. Non si dice: mamma, e il testamento? Non so come spiegarti - si ostina Marco - ma non si fa, capisci? Dunque si sono trovati a parlarne per la prima volta, lui e Adele, l'altro giorno al tavolo del tinello davanti a quella bella lettera firmata da padre Livio Fanzaga, inviata da Erba. Dice ad Adele, padre Fanzaga, che "milioni di persone come te e come me ogni giorno sperano gioiscono e si consolano ascoltando Radio Maria", vuoi che lo facciano ancora in tanti, vuoi aiutare a portare nelle case la parola di Dio? "Un lascito testamentario, anche piccolo, è un atto d'amore". Allega, il padre, un questionario in sette punti. Punto uno: condividi l'idea che Radio Maria ti informi sui lasciti testamentari? domanda mentre in effetti lo sta già facendo. Punto due, tranquillizzante: non danneggi i tuoi familiari, non temere, a loro spetterà comunque una quota. Punto tre, decisivo: sai che per fare un testamento olografo basta un foglio bianco, scritto di tuo pugno, datato e firmato? E quali dubbi potresti avere rispetto alla decisione di fare testamento in favore di Radio Maria?, si domanda al punto cinque. Segue breve elenco: pensi che costi, non hai un notaio, non hai chi ti aiuti? Allora, punto sei, possiamo inviarti una Guida ai lasciti testamentari, uno snello opuscolo. Oppure, punto sette, una persona di Radio Maria può contattarti direttamente. Dicci a che numero di telefono e a che ora. Lascia i tuoi dati anagrafici, spedisci tutto mettendo questi fogli nella busta allegata e preaffrancata, non costa nulla. Grazie della tua preziosa collaborazione, Adele. Il bollettino di conto corrente è in più, se volessi fare una donazione subito.

Dice Marco, che ha chiesto al suo amico Andrea Satta di raccontare questa storia sul suo blog, che magari è tutto normale. Che non c'è niente di strano e che la Chiesa vive anche di donazioni, certo, lo sa. Ma che inviare un questionario così alle persone molto anziane gli fa pensare a una specie di circonvenzione d'incapace soave. Che sua madre per esempio non ha capito benissimo cosa stesse facendo, e chissà quanti vecchi inviano la busta e poi sono raggiunti dalla persona che li aiuta a fare testamento in loro favore. Dice anche che il punto sette è il più insidioso, perché se sei da solo magari hai anche voglia che una persona gentile ti "contatti direttamente" e passi un po' di tempo con te. E chissà quanti lo fanno. E chissà se è un problema suo, che a sua madre di quando sarà morta non gli voleva parlare, o se è un problema loro, che vanno a bussare ai vecchi per chiedergli i soldi che hanno messo da parte alle Poste o nel barattolo in cucina. Se poi c'è qualcosa di più, da donare, tanto meglio. Gliene sarà resa gloria nel regno dei cieli. Un foglio bianco, una firma e tranquilli: nessuno fra i parenti se ne avrà a male se avete fatto un'opera buona, se avete fatto testamento a favore della vergine Maria.

(07 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/06/07/news/radio_maria-60545254/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_07-06-2013
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« Risposta #88 inserito:: Giugno 20, 2013, 05:25:54 pm »

Assessori, escort e coop: i segreti hard di Firenze "Non stupitevi, qui così fan tutti".

Pettegolezzi e intercettazioni, viaggio nella città investita dallo scandalo.

Una studentessa racconta: "Te lo insegnano quando arrivi da matricola, se ti servono soldi, un modo è quello. Poi una si regola come crede"

di CONCITA DE GREGORIO


FIRENZE - Non c’è chi non conosca uno che conosce uno che gli ha detto che. Fra Borgo Allegri e via delle Belle donne non c’è chi non sappia di sicuro che anche la Maria Grazia, sì quella del negozio di intimo, te l’avevo detto che l’altro giorno è entrata da Gucci e si è comprata tre borse senza nemmeno chiedere quant’è?

Me l'ha raccontato la commessa che è un’amica di mia sorella. Non c’è uno che non sia sicurissimo che da Franchino, l’orologiaio bianco di capelli pettinato da paggio attempato, non sia passata anche la Mara, che è la segretaria del consigliere comunale tale e certo che lui lo sapeva, eccome se lo sapeva, hai voglia. Lo sapeva per esperienza diretta, diciamo, che a certe ore si chiudono le porte delle stanze, in Comune, e a volte non si chiudono nemmeno e non mi far dire altro che qui si va in galera. «Io comunque non lo capisco cosa volete sapere, cosa cercate, se vi scandalizzate per davvero o fate finta», dice Cristiana T. che prepara la tesi in Lettere su Niccolò Soldanieri e vive in via Guelfa, a due passi dalla Facoltà. «Lo sappiamo benissimo tutti, te lo insegnano appena arrivi da matricola, che se c’è una difficoltà a pagare l’affitto o se ti servono i soldi per un viaggio un modo è quello, e si sa da chi andare a bussare. Poi una si regola come crede. Una mia compagna di corso l’hanno interrogata per via di questa storia.
Mi ha detto guarda Cristiana io non sono una puttana e lo sai. L’avrò fatto tre volte e quello che mi ha fatto schifo non è stato quella mezz’ora ma sentirli parlare al telefono dopo, con le mogli o con gli amici, ci credi?».

Le mogli, gli amici. Sentirli parlare. C’è una moglie offesa, al principio di questa storia che arroventa Firenze alle porte di luglio. Ma non è lei la protagonista, e non è nemmeno Adriana “la regina”, Poljna la bambina, non sono la barista l’infermiera l’avvocato e l’assessore, Franchino l’orefice che vende Rolex e mi paghi quando puoi, i fratelli tenutari dell’albergo di lusso dove alla reception ti prendono il documento ma non ti registrano, lo sa tutta la città. Protagonista è Firenze, dirlo sarebbe stucchevole se non fosse letteralmente, materialmente così.

La città intera recita la parte principale della “Bella vita”, il titolo in fondo triste che gli inquirenti hanno dato al fascicolo di quattromila pagine dopo mesi di intercettazioni e di indagini, di interrogatori, di appostamenti. La “bella vita” che si dipana dal Lungarno del Tempio all’Impruneta, che passa la mattina da Palazzo Vecchio il pomeriggio sonnecchia al bar dei Viali e si prepara, nelle botteghe del centro, per l’aperitivo a piazzale Michelangelo.

Quando le macchine dotate di permesso per la zona blu passano a prendere i clienti e li portano dalle ragazze del catalogo Escortforum, reclutate con un sms e assegnate con un messaggino di ritorno: alla tale ora, nel tal posto, Miriam ti aspetta. Nella stanza con le losanghe verdi e azzurre dell’hotel Mediterraneo, ascensore laterale, quello in fondo a sinistra, quello con la moquette macchiata d’olio che come fa un quattro stelle ad avere un ascensore così, e la donna delle pulizie che la domenica alle otto di mattina passa l’aspirapolvere in corridoio ed entra in stanza senza bussare. «Oh, scusi. Non pensavo». Qui di solito alle otto di mattina i clienti in stanza non ci sono.

Poi i comprimari, certo. Il professore universitario che ti accoglie in biblioteca e ti racconta che Nicolò Machiavelli aveva la Riccia, favorita fra le cortigiane, e che Filippo Lippi era un frate e aveva avuto Filippino da una monaca per cui “siamo nel solco della tradizione” va così da che mondo è mondo, una volta le delazioni si mettevano anonime nei “tamburi”, cassette di pizzini a tema quasi sempre sessuale, nel 500 c’erano le tamburazioni oggi la moglie tradita fa la denuncia in procura. Dov’è la differenza? Ai tempi dell’indagine sul Mostro i faldoni erano pieni di testimonianze sui centinaia di guardoni appostati ogni sera alle Cascine, e le coppie che andavano lì a fare l’amore certo che lo sapevano, andavano lì a farsi guardare — assicura il prof con grande scioltezza sul finale, di certo consuetudine accademica. E poi certo che all’Adriana gli avevano dato una casa, povera ragazza, ci mancherebbe altro che alla cortigiana di palazzo non venisse assegnato un alloggio consono. L’ospitalità è una virtù.

Ora il problema è l’insaputa, perché anche Massimo Mattei, assessore del Pd alla mobi-lità, giunta Renzi, non sapeva — garantisce — che la sua amica Adriana (“una mia amica da anni”), romena, attualmente disoccupata, in anni remoti dipendente della cooperativa il Borro di cui l’assessore è stato negli stessi anni presidente, non sapeva insomma che Adriana facesse “quel tipo di mestiere”. Lo ignorava, non era un’amicizia abbastanza solida per questo tipo di confidenze perciò le ha assegnato un alloggio a titolo gratuito come si fa con le persone in difficoltà, non tutte certo che altrimenti sai che fila ci sarebbe al Borro ma con alcune sì, e Adriana era fra queste. Poi è stato colto completamente di sorpresa — dice — quando un dipendente comunale suo collaboratore è stato trovato dalla donna delle pulizie in un ufficio pubblico proprio con Adriana, e non facevano fotocopie. Può succedere, ci si distrae. Uno può non accorgersi. Mattei si è dimesso, comunque, per motivi — reali — di salute. Più tranquille adesso sua moglie e sua figlia, leggerissimamente più tranquillo il sindaco nonostante il leggendario sarcasmo fiorentino di quelli che «a Renzi gli mancavano solo Frisullo e una decina di escort per fare Berlusconi». Non dicono escort, in effetti. A Firenze non si dice così.

«Non mi fa schifo cosa fanno ma come parlano, cosa dicono», raccontava la studentessa. Come si nominano le cose. «Quando ci si vede si fa a scambio di figurine», «a quella gli piace così tanto che ci dovrebbe pagare lei a noi», «ho la nausea delle puttane, ho l’albergo pieno». Il fidanzato dell’infermiera («fatti pagare meglio »), l’avvocato che non ha tempo («una cosa in macchina, mezz’ora, con la bimba di ieri »), la “bimba” che mezz’ora ci va perché «mi devo comprare le catene da neve». A Firenze nevica poco, sarà stato per andare a Cortina.

Come parlano al telefono i fratelli Taddei, titolari dell’hotel Mediterraneo terminale fiorentino del sito slovacco Escortforum. Cosa dice l’orologiaio Franchino, per gli amici al telefono «il capo puttaniere», alle ragazze quando le chiama. Come le tratta, come le recluta. Con quali parole e con che tono spiega alla barista, alla benzinaia, alla ragazza dell’uscio accanto cosa deve fare e come. Con una lingua dove la passera, che del resto in città dà il nome a una piazza antica sede di bordelli, è il termine più alto: pura poesia.

Dalle migliaia di pagine di intercettazioni esce l’affresco di una città sotterranea e invisibile alle fiumane di turisti che la percorrono con le bandiere del capocarovana levate, una città postribolo amorale e bacchettona insieme, scandalizzata con la mano sulla bocca a fare oh, nel fresco delle corti, e impegnata al piano di sopra a cambiare lenzuola per il prossimo avventore. In vendita, alla fine. Cinquecento euro la cena, la stanza con ragazza e la macchina per andare all’Impruneta, più o meno quanto una gita di due giorni con visita agli Uffizi. «Ma poi che c’entrano la bellezza, la città d’arte, Michelangelo — dice un procuratore di calcio anche lui sentito nell’inchiesta — tutti lì a riempirsi la bocca con Boccaccio, bravi. Fate pure filosofia. Ma io giro il mondo e una cosa la so: non è Firenze, guardatevi intorno a casa vostra. È la regola. Dove vai vai, è così».

(20 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #89 inserito:: Agosto 05, 2013, 08:28:49 am »


Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli

di CONCITA DE GREGORIO


NON sono venuti. La prima a salire sul palco per dare un’occhiata portandosi la mano alla fronte come si fa davanti ad orizzonti di folla oceanici è Daniela Santanchè, già candidata alla vicepresidenza della Camera nel governo di larghe intese e miti pretese, oggi qui impegnata a dire che la grazia dal Quirinale deve arrivare e che lei di Napolitano non ha paura, «è un uomo come noi», che lei è pronta a fare la rivoluzione a marciare sul Colle. Già questo dettaglio indice di quanto la “manifestazione spontanea” possa impensierire il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Napolitano caro come un figlio, circa le sorti di un governo di cui il pregiudicato Silvio Berlusconi è azionista di riferimento e Santanchè cupa cheerleader. Purtroppo non sono venuti. I 500 pullman attesi, tutto pagato per tutti, devono aver avuto un intoppo che non è solo, come dice Fabrizio Cicchitto col consueto senso delle istituzioni, l’ostinazione di «quel cretino di Marino», sindaco di Roma, a dire che la manifestazione non è stata autorizzata, che nessuno ha chiesto il permesso di bloccare via del Plebiscito e di deviare gli autobus dal centro dellaCapitale.

Di usare la città come se fosse il suo personale salotto e pazienza per chi da piazza Venezia doveva passare ieri per esempio per andare in ospedale, o a un appuntamento d’amore o a prendere il treno, in fondo è domenica, è agosto e chissenefrega degli altri. “Il Popolo della Libertà per la libertà di Silvio”, dice uno striscione. Il senso della mesta messa in scena è tutto qui: un partito al servizio della personale vicenda privata del suo duce.

Ed è difatti dal Balcone, che ci si aspetta che si affacci. In un gioco di specchi nei balconi di Palazzo Venezia sono invece assiepati oggi i fotografi, il dirimpettaio sul suo terrazzino ha messo su la bandiera tricolore, è un uomo di Stato intende dire, l’una volta missino Gasparri si protende dall’alto del balcone verso i militanti e li incita a cantare. “Meno male che Silvio c’è”, intona qualcuno memore del “Silvio ci manchi” su cui Francesca Pascale, fidanzata dell’ex premier, ha investito fin dai tempi di Telecafone con successo. Arrivano insieme a Palazzo Grazioli, lei col barboncino Dudù, lui impegnato a infilarsi la giacca con un gesto che le foto impietose immortalano insieme alla nudità dell’ampio ventre.
Il tempo di cambiarsi, Pascale ha scelto il tubino nero in altri contesti celebre, ed eccoli. Sulle note dell’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia. Entrambi in nero, vestiti come a lutto. Lui in maglietta girocollo che ringiovanisce, devono avergli detto. E anche di usare prudenza, devono avergli suggerito dal Colle e da Palazzo Chigi, di fare molta attenzione alle parole giacchè la “guerra civile” evocata dal fidato Bondi ha indispettito non poco il Presidente. Perciò il discorso è lento, e mesto.

Sono le sei e un quarto di pomeriggio quando, in una giornata torrida insolentita dai gesti di scherno di Alessandra Mussolini legittima nipote e dal ribollire dell’asfalto, il Nostro non dal balcone si affaccia ma dal portone, e sale sul palchetto replicato da un paio di schermi. Qualche migliaio di persone sventolano bandiere opportunamente fornite agli angoli della via dall’organizzazione, bandiere di Forza Italia giacchè è da lì, dal suo personale partito e non dal Popolo delle libertà, che il condannato B. intende ripartire. «Sono qui, resto qui, non mollo», dice, e dunque boia chi molla.

Gli autobus che hanno portato i manifestanti — molte coppie di anziani, parecchi giovanotti con occhiali scuri a goccia, una grande maggioranza di signore in età che si ripetono commenti sul suo charme — sono parcheggiati sul Lungotevere, a qualche centinaio di metri. Quelli arrivati
dall’Umbria sono alla fermata Anagnina, quelli da Reggio in piazza Venezia dove però purtroppo non possono sostare, sempre per via di “quel cretino” del sindaco, dunque gli autisti stanno in moto girano in tondo. Matteoli e Micchichè raggiungono il retropalco, Franco Carraro è già in prima fila, Anna Maria Bernini e Mara Carfagna arrancano fra i sudati annaffiati da bottigliette d’acqua fornite dal servizio d’ordine. È chiaro che chi è dentro al Palazzo ha maggior rango rispetto a chi è fuori, segnali di dispetto di alcuni esclusi che, platealmente — Carraro fra questi — se ne vanno.

Dal palco, con la maschera del volto atteggiata ad un pianto senza lacrime, Berlusconi deve dire due cose: che il governo vive, questa è la più importante e la prima, la più deludente per quelli che erano arrivati coi cartelli “Basta larghe intese”, “Ora condannateci tutti”. Vive, il governo, perché la libertà dell’ex premier per cui il suo Popolo è venuta a manifestare prevede che ci sia qualcuno che gliela garantisce, e il cinico calcolo dice che solo tenendo in vita questo governo Berlusconi può sperare. Se poi sarà il Pd a volere le elezioni faccia pure, lui per parte sua, sia chiaro, resta. Condannato in ultima istanza, ma resta. Ed è questa la seconda cosa che ha da dire, a proposito della condanna: che lui è innocente. Ovazione, boato. Innocente condannato da giudici comunisti, tristi impiegatucci dello Stato — sventolare di bandiere — che non lo fermeranno, certo che no, perché lui di quel 7 milioni e rotti che doveva allo Stato negli anni in cui di quello stesso Paese era alla guida, mica qualche migliaio di eu-ro di Imu saldati in ravvedimento come la Idem, di quei 7 milioni frodati al fisco ha già ripagato tutto, perciò cosa vogliono da lui.

Si capisce che Enrico Letta sia in apprensione, sì, in specie quando pensa a una campagna elettorale eventuale. E si capisce anche la prudenza di un discorso breve, inconcludente, che lascia perplessa la minoranza di manifestanti venuta da casa senza bus che si aspettava invece — dice la signora Gemma, romana — che “Silvio mandasse tutto a monte, perché Silvio è il numero uno e se si va a votare domani vince lui”. Questo un po’ il rischio, in effetti, visto da altre dimore politiche. In piazza gridano “libero, libero” a un uomo che con ogni evidenza è libero già: di fare della pubblica via il suo teatro e di dire che la Cassazione è comunista e antidemocratica. Tre o quattro ragazzi di passaggio intonano Bella Ciao, vengono aggrediti da una selva di voci che gridano “in Siberia” e cacciati dalla strada. Una donna dice che nessun pregiudicato dovrebbe stare al governo, le lanciano monetine.

Per chi deve tornare a Gallipoli in bus s’è fatta una cert’ora, la sparuta pattuglia in occhiali scuri comincia a defluire. Carfagna era già stata scortata via mezz’ora fa. Le finestre di palazzo Venezia si chiudono, quelle di fronte di casa Berlusconi si accostano. Era questo, solo questo. Un piccolo intermezzo agostano ad uso delle tv, con parecchi figuranti e il protagonista a difendere se stesso, come sempre. Ricordava un po’ le antiche manifestazioni dell’ultimo Msi, pochi ma molto convinti. Letta ha seguito in diretta tv. Napolitano è stato costantemente informato.
Poteva andare peggio, in fondo, dal loro punto di vista. E’ stato breve, ma triste.

(05 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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