LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTRICI e OPINIONISTE. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 15, 2008, 11:59:47 am



Titolo: Concita DE GREGORIO
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2008, 11:59:47 am
CRONACA

IL RACCONTO.

Prime proiezioni per "Biùtiful cauntri" documentario shock sull'ecomafia in Campania

Le campagne di camorra e diossina dove i bimbi giocano tra le carcasse

Tonnellate di veleni scaricate nei terreni e nelle falde idriche da industriali senza scrupoli, soprattutto del Nord

di CONCITA DE GREGORIO

 
C'E' una scena, in "Biùtiful cauntri", in cui due bambini giocano con le carcasse degli agnelli. Non è proprio chiaro se stiano giocando o se li stiano trascinando per buttarli via con una familiarità tale, tuttavia, che sembra giochino: li agitano tenendoli per le zampe come fossero bambole di stracci, li fanno volare, ridono. Gli agnellini sono candidi e minuscoli. Sono morti per eccesso di diossina nel sangue. Un camion passa la sera e raccoglie di casa in casa, di baracca in baracca questo particolare tipo di rifiuti: gli animali morti.

Il camion che ritira i sacchi con gli agnelli di Patrizia e Mario è già carico: ha due bufale, dentro. Morte per diossina, appena raccolte lungo la strada. In una scena di poco successiva la madre prepara ai figli dei panini bellissimi a vedersi: pane, prosciutto crudo e mozzarella. Il prosciutto sembra di velluto, la mozzarella a tagliarla rilascia il suo latte. La telecamera indugia con lo zoom. I bambini sono felici. Che bei panini. Saranno di certo buonissimi. La famosa mozzarella di bufala campana: "Femos in de uord".

Se l'Italia non fosse l'Italia ma un paese minimamente reattivo, se gli italiani andassero a vedere i documentari anche quando non sono di Michael Moore, se la televisione comprasse i diritti e mandasse in onda lavori come questo al posto delle gare di pacchi e se poi col satellite "Biutiful cauntri" arrivasse in Europa e nel mondo anche un qualunque spettatore tedesco, inglese, anche un giapponese pronto a partire per le vacanze a Pompei rinuncerebbe e penserebbe quello che pensiamo noi in questo preciso istante: che la mozzarella campana non solo non bisogna pagarla più delle altre ma non bisogna proprio mangiarla più e speriamo che non faccia troppo male quella mangiata finora.

Vediamo, poi, se il crollo del mercato alimentare e del turismo potranno quel che vent'anni di politica non hanno potuto. Di ricotta e mozzarelle si muore dicono le immagini limpide e asciutte del film, perché questo è un posto dove la camorra con la complicità dei politici locali e degli imprenditori di tutto il paese (hanno accento del Nord tutte le voci intercettate nelle telefonate) ha scaricato per anni sul terreno, nei fiumi, nei tombini aperti col piede di porco e quindi nelle fogne, nei fiumi e nei campi tonnellate di amianto. cobalto, alluminio, arsenico, milioni di quintali di sostanze tossiche e proibite che le stesse voci del Nord (ridendo, quasi sempre, al telefono) annunciano di aver appena spedito perché siano seppellite "alla cifra convenuta" e senza dare nell'occhio con le popolazioni che poi "rompono le palle".

Che seccatura tutti questi che prima di essere avvelenati "rompono le palle" invece di morire in silenzio come le pecore. Ecco: tonnellate di metri cubi di percolato nerastro e velenoso che hanno infiltrato la falda acquifera (i contadini lo sanno; infatti nel film annaffiano le piante con l'acqua minerale) e i campi dove si coltiva la patata doc di Acerra, i pomodini che al mercato di Torino si vendono più cari perché vengono dalla terra del sole, i finocchi e l'insalata.

Allora: le mucche, le bufale e i vitelli che pascolano accanto alle discariche muoiono per la diossina. Le discariche sono ovunque, prevalentemente abusive. Le persone che mangiano quelle mozzarelle, per esempio i bambini del film così contenti del panino, hanno una fibra più forte degli agnellini e non si accasciano sulle zampe, non restano accucciati agonizzanti per giorni ma non è che non si avvelenino: si avvelenano anche i bimbi. Per le persone non c'è un camion che passi a prenderle la notte: gli ospedali, però, sono pieni. Il puzzo nell'aria non è solo puzzo: è veleno, qui si muore di tumore.

Esmeralda Calabria (debutto alla regia, ha lavorato al montaggio con Moretti, Placido, Piccioni, Archibugi), Andrea D'Ambrosio (suo il documentario "Pesci combattenti" sui maestri di strada) e Peppe Ruggiero (curatore del rapporto Ecomafie di Legambiente Campania) sono gli autori del documentario che ha avuto al Festival di Torino la menzione speciale della giuria e che si proietta stasera al cinema Modernissimo di Napoli, domani al Nuovo Sacher di Roma, serate solo a inviti.

Nelle sale dovrebbe uscire entro febbraio, ma non bisogna dare niente per scontato: in fondo si parla pur sempre di politica corrotta e di camorra, ci sono voci e volti di tutti, il sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, l'Impregilo di Cesare Romiti raccontata per filo e per segno, l'incredibile appalto che ha avuto e chi glielo ha dato, ci sono le voci delle vittime e dei carnefici e non tutti parlano con lingua del posto, c'è l'elenco dei sette commissari straordinari in tredici anni e c'è anche Bassolino.

Ci sono le immagini, principalmente. Ci sono quelle nuvole nere quei sacchi che figliano liquame a terra: le immagini quando le vedi non te le dimentichi più. Come i bambini che giocano tirandosi addosso le carcasse degli agnelli morti. Poi hai voglia ad ingaggiare pubblicitari all'ente del turismo, hai voglia a spruzzare tre volte al giorno deodorante con gli elicotteri. Se se ne accorgono all'estero addio export di mozzarella. Bisognerà mangiarla noi o magari mandarla in Africa con una missione umanitaria. Scriverci sopra made in Italy, però: e biutiful cauntri.

(14 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Concita DE GREGORIO
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2008, 09:44:25 am
POLITICA IL RACCONTO

Il giorno più lungo degli amici-nemici

di CONCITA DE GREGORIO


E' la giornata dei risentimenti. Personali prima che politici o tutte e due le cose insieme che ormai è lo stesso in una crisi di governo originata da una questione di famiglia.

Mastella, sua moglie incriminata, la vita politica che salta per aria per "amor coniugale", per così dire. Risentimenti antichi e recenti, fra amici e fra nemici: il più vistoso di tutti oggi è quello fra Prodi e Veltroni, seguono quello di Dini verso gli alleati ingrati, quello di Diliberto inascoltato, Fisichella sottovalutato, Casini troppo a lungo isolato. Il più risentito di tutti è Mastella, ovviamente: Mastella devoto al Papa a Bagnasco, ora che pareva che il signore di Ceppaloni tornasse nella casa a centrodestra Berlusconi e Casini se lo rimpallano come un invitato inatteso: prendilo tu, no grazie tu. C'è da innervosirsi, effettivamente.

Se stentate a seguire, se non riuscite a capire quel che sta succedendo nelle nebbie dei Palazzi state sereni, per una volta: siete in numerosa se non buona compagnia. Alle nove di sera, ieri sera, nemmeno i ministri lo sapevano. Mussi, Fioroni, Bindi, il vice di Padoa Schioppa Vincenzo Visco interrogati dai cronisti sul senso della giornata e sulle intenzioni di Prodi allargavano le braccia dando ciascuno una risposta diversa: Prodi agirà secondo coscienza, no secondo convenienza, no secondo le indicazioni di Napolitano il Presidente. Santagata, il più prodiano dei ministri, si domandava "che convenienza avrebbe il presidente a dimettersi dopo aver incassato 51 voti di maggioranza alla Camera: per dare soddisfazione a chi?". A Veltroni, forse? A chi vuole sostituirlo? Ecco: a chi conviene?

Bisogna allora ripartire dalla cronaca di una giornata infinita che comincia con Napolitano e con Napolitano finisce. Isolare qualche fotogramma: vediamo. La mattina il capo dello Stato celebra a Montecitorio i 60 anni della Costituzione. Seduta solenne, aula imbandierata. Ci sono tutti: Giulio Andreotti ed Emilio Colombo col bastone, Scalfaro Ciampi e Cossiga, Rita Levi Montalcini accolta in aula da un applauso. Le mogli dei presidenti Napolitano Marini e Bertinotti nel palco sopra i mariti. Veltroni in quello di fronte, fra le autorità ospiti. Il discorso è solenne come si conviene all'occasione. La settima parola è "crisi", la sesta "acuta". Il paese vive un momento di "acuta crisi" e "incertezza politica". Berlusconi sui banchi invia un messaggio col telefonino, Giuliano Amato candidato (con Marini) a guidare il governo istituzionale eventualmente prossimo venturo lo guarda in viso, unico dei ministri voltato verso di lui. Napolitano dice che bisogna fare le riforme, farle con un "concorso di volontà" fuori "dallo spirito di parte". I governi e le alleanze passano, la Costituzione resta. Applausi, compostezza e condivisione come a Montecitorio non si vede mai. Scena seconda: al Quirinale, all'ora di pranzo, sale Prodi. Napolitano invita il presidente del Consiglio a dimettersi prima di essere sfiduciato al Senato, riferisce chi è informato del colloquio. Prodi risponde che vuole prima vedere cosa succede alla Camera. Scena terza, la Camera. Finirà con 51 voti a favore del governo, inizia con le dichiarazioni di voto.

Per l'Udeur di Mastella parla Antonio Satta.

Contrariamente all'annuncio della vigilia non chiede la sfiducia né annuncia voto contrario: i deputati assenteranno, annuncia. E' molto diverso: non è un no. Il discorso di Satta è pieno di omaggi al Papa e al Vaticano, dice che "la linea moderata dell'Udeur è stata mortificata dagli alleati", fa lui per primo riferimento a Veltroni e all'ormai celebre discorso di Orvieto in cui il leader Pd ha annunciato che alle prossime elezioni correrà da solo, senza i "piccoli". Prodi prende appunti. Seguono, in diretta tv così che gli italiani sappiano, altri cinque interventi che indicano in Veltroni il responsabile della decisione di Mastella di uscire dal governo: Diliberto, esplicito. Maroni: i suoi inalberano ad uso dei fotografi la Padania che dice "Elezioni". Casini ("il segno del fallimento del suo governo l'ha dato Veltroni"), Fini. Il clima è tale che Soru capogruppo dell'Unione è costretto a dire che "non ci sono agenzie di stampa" che confermino che il Pd sia contrario all'alleanza di governo. Ilarità fra i banchi di centrodestra.

Quando parte il voto per chiamata nominale in Transatlantico è già in fase avanzata la conta (il mercato) dei voti per l'indomani al Senato. Bordon voterà sì, Pallaro l'argentino non viene. Fisichella vota no ("Forse memore del suo passato", commenta Fini). La Svp sì ma resta "fuori dai blocchi". Andreotti dice che Prodi ce la farà (vota sì) e così pure Cossiga, che attribuisce il possibile successo a "un virus di walterveltronite" tra i banchi di Forza Italia. Dini vota no anche perché spera che un possibile incarico nel nuovo governo tocchi a lui. Il diniano D'Amico dice sì, invece. Conta e riconta i voti non è certo che ci siano, anzi. D'Alema oggi non sarà in aula col governo, va ai funerali di Boldrini a pronunciare l'orazione funebre. Gli uomini di Fassino riassumono: la maggioranza al Senato è quanto mai incerta meglio sarebbe se Prodi rinunciasse alla prova in aula e si dimettesse prima. Nessuno lo dice, tutti lo mormorano. Fioroni il ministro commenta che "con una maggioranza di 51 voti alla Camera è difficile dimettersi", Prodi che convenienza avrebbe, a questo punto meglio giocarsi il tutto per tutto. Bindi osserva che "sarebbe uno sgarbo per il Senato non sottoporsi al voto".

I prodiani vogliono andare fino in fondo. Bossi dice che Prodi "ha chiesto il voto a Maroni e Calderoli", non è credibile, tutt'al più l'ha chiesto, e ad alta voce, a Bruno Tabacci che allargando le braccia gli ha risposto di no. Casini aspetta di capire quale legge elettorale sia eventualmente proposta: se una che conviene all'Udc o meno. Gianni Letta, come sempre, si incarica delle trattative riservate: un governo Prodi per fare le riforme e voto a giugno. Il presidente del Consiglio si prende la notte per averne consiglio. Sarà stamattina da Napolitano, di nuovo: un passaggio al Colle prima di andare in aula coi conti aggiornati al minuto. Berlusconi gongola. Se non fosse per la madre così malata (domani il compleanno, 97) sarebbe davvero un giorno di gloria.

(24 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Concita DE GREGORIO
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 06:37:47 pm
Il nostro posto

Concita De Gregorio


Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all’estero a studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta e l’assistenza identica per tutti. Sono stata una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana, nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.

Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all’articolo 2, proprio all’inizio: l’esistenza (e il rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo. Il “dovere inderogabile di solidarietà” che non è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo – investito in educazione e in conoscenza – ed è stato così. È stato facile, relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.

Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio, insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent’anni. Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino.

Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica che ha trovato. Quello che ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione di questa vergogna come fosse “normale”, anzi auspicabile: un modello vincente. È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici.

Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l’ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più. Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in patria. Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli per Natale la playstation non è l’alternativa a una speranza. “Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”, diceva l’uomo che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate, imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci provato.

Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande lavoro collettivo. L’Unità è un pezzo della storia di questo Paese in cui tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro forza e la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone. Ricevo in eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro – il senso di un impegno e di un’impresa. Quando immagino quale potrebbe essere il prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in sintonia con l’avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti noi, a tutti voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l’università, la ricerca che genera sapere, l’impresa che genera lavoro. Il lavoro, il diritto ad averlo e a non morirne. La cura dell’ambiente e del mondo in cui viviamo, il modo in cui decidiamo di procurarci l’acqua e la luce nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il governo del territorio, le città e i paesi, lo sguardo oltreconfine sull’Europa e sul mondo, la solidarietà che vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra genti, fra uguali ma diversi. La garanzia della salute, del reddito, della prospettiva di una vita migliore. Credo che per raccontare la politica serva la cronaca e che la cronaca della nostra vita sia politica. Credo che abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a raccontare, meglio e più onestamente possibile, la scena. Credo che la sinistra, tutta la sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno di ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al suo progetto. Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una direzione comune fondata su principi condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la sicurezza, la condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita, sulla realtà. C’è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo, metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non voltarsi di spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili. Ci vorrà tempo. Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno di noi. L’identità, è questo il tema. L’identità del giornale sarà nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo. Sarà certo, lo vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto quel che non ci piace e non ci serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in solitudine. C’è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno. Non ci si può tirare indietro adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo è il nostro posto.

Pubblicato il: 26.08.08
Modificato il: 26.08.08 alle ore 12.44   
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Titolo: Concita DE GREGORIO. La lezione di una donna
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2008, 09:14:01 pm
La lezione di una donna

Concita De Gregorio


Si può perdere vincendo. Guardate, si fa così: si sale sul palco, si saluta e si sorride, si dimenticano diciotto mesi in sette passi, si arriva al microfono e si nomina per venti volte in venti minuti l´avversario, si chiede che neanche un voto vada perso e si ricevono in cambio 39 applausi della sala in piedi. Sembra una semplice equazione matematica eppure nessuno al mondo ancora aveva trovato la formula. Hillary Clinton in venti minuti ha portato la politica dieci anni avanti. Cento, se pensiamo a noi. "Barak Obama è il mio candidato e deve essere presidente. Voglio che vi chiediate: avete votato per me o per chi deve vivere col salario minimo, per chi è ammalato e non ha soldi per curarsi, per gli invisibili di questo Paese?". Per chi avete votato: per una persona o per un progetto? Certo: Hillary è stata sconfitta. Certo: avrebbe preferito vincere. È vero: la convention è solo uno spettacolo retorico. Però c´è una ragione se l´America e il mondo si lasciano incantare da una donna talmente forte da potersi permettere di piangere, una che cade e si rialza senza un lamento. È una lezione difficile da imparare e così semplice da capire: "È ora di riprenderci il Paese che amiamo", c´è un solo modo per farlo. Un solo modo per vincere.

Pubblicato il: 28.08.08
Modificato il: 28.08.08 alle ore 10.50   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Una mossa a sorpresa
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2008, 11:38:43 pm
Una mossa a sorpresa

Concita De Gregorio


Il contropiede di McCain, in fondo prevedibile, è stato andarsi a prendere quello a cui Obama aveva appena rinunciato: una donna capace di far dimenticare Hillary. Questa Gelmini d’Alaska di nome Sarah Palin si nutre di hamburger d’alce e guida l’idrovolante, la chiamano “Sarah Barracuda”: è stata reginetta di bellezza, coi soldi del premio ha studiato e preso due lauree, ha giocato a basket da capitano con una caviglia fratturata (ha vinto, ingessata), ha sposato un eschimese miliardario campione di motoslitta, ha fatto cinque figli di cui una down (lo sapeva dall’amniocentesi), l’ultima bambina è nata ad aprile. Nel frattempo è diventata governatrice d’Alaska, la prima donna e la più giovane avendo ella 44 anni, tre meno di Obama. È contro l’aborto e a favore della pena di morte, incoraggia l’uso privato delle armi e l’allattamento al seno dei neonati. Riassumendo. La somma aritmetica delle età dei due candidati e dei loro vice torna pari: McCain (72) più Palin fa 116, Obama più Biden (65) fa 112. L’effetto-donna lo incassa McCain. C’è inoltre da supporre che Sarah Barracuda non ostacolerà il progetto di scavare più pozzi di petrolio in Alaska, la proposta repubblicana alternativa al nucleare indicato da Barack come via di fuga dalla crisi. Attenzione. I sondaggi fibrillano: un’altra lezione da proverbio della nonna potrebbe arrivare a guastarci la disputa su chi fosse meglio fra i campioni democratici. Fra i due litiganti, speriamo di no.

Pubblicato il: 30.08.08
Modificato il: 30.08.08 alle ore 8.19   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Album di famiglia
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2008, 10:38:22 pm
Album di famiglia
Concita De Gregorio


La Lettera
Leggo la risposta di Romano Prodi a Berlusconi riguardo alle intercettazioni sul caso Italtel: «Non vorrei che si creasse un caso per cambiare la legge. Le norme attuali servono ai giudici. Si pubblichino pure tutte le mie telefonate». In un´Italia sull´orlo del baratro dove imperversano tentativi di delegittimare la magistratura, di imbavagliare i giornali, di far sparire ogni opinione contraria, di uscire indenni da processi legittimi leggere queste parole mi ha davvero colpito. Ripenso ai viaggi fatti senza autista guidando la propria auto, alle leggi per le quali un capo di governo non può tenere per sé i regali ricevuti in occasione di visite ufficiali all'estero. Di quel modo di andare dritto ai problemi, senza cercare facili consensi e senza illudere nessuno. Grazie Prodi per questo ulteriore e necessario insegnamento. Personalmente ne farò tesoro. Sarebbe bello che accadesse anche a chi ci governa, che ci riflettesse chi dovrebbe fare opposizione.
Mauro Del Nero




* * *

«Si pubblichino pure tutte le mie telefonate» è una frase che qualunque uomo pubblico dovrebbe poter dire. Sappiamo fin troppo bene che non è così ed è d´altra parte anche vero che c´è una differenza fra quel che si dice (al telefono, in privato) e quel che accade poi davvero: c´è una distanza fra l´esibizione di sé e la propria reale consistenza, tra le parole e i fatti. Alcuni millantano, alcuni temono, certi altri blandiscono. Bisogna poi vedere, in concreto, le conseguenze delle minacce e delle promesse: è ovvio. Tuttavia, come scrive Maria Giorgianni da Aversa, la frase di Prodi ci riporta «a quel che ci dicevano da bambini e che ripetiamo ai nostri figli: male non fare paura non avere». I lettori hanno spesso la capacità di andare con poche frasi semplici ­ non le parole della politica, le parole della vita ­ al cuore delle cose. «Prodi ha vinto due volte le elezioni, quando ha perso si è ritirato», scrive Fulvio Sereni da Torino. Una cosa semplice, un fatto. C´è molto bisogno di questo, si vede. C´è bisogno di ritrovarsi sulle questioni elementari, imparare l´alfabeto daccapo e dare un nome ai colori. «Non è caduto nel tranello teso da Berlusconi e dai suoi giornali, non ha scelto la strada facile dell´indignazione, quella che la mia famiglia non si tocca», si chiude la stessa lettera. La difesa della famiglia: la nostra memoria tampone è ormai ridotta alla settimana in corso ma qualcuno ricorda, invece, che sulla moglie di Mastella è caduto il governo. Su quella di Berlusconi, esibita ieri in foto sotto la tenda di Gheddafi, si stringono intese per miliardi di dollari in petrolio. Belle le immagini della signora e del neonato, complimenti. Peccato per il non detto, presidente: pubblicate pure tutte le telefonate, anche le mie.

Pubblicato il: 31.08.08
Modificato il: 31.08.08 alle ore 11.45   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Ingrid e Rita
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2008, 06:19:41 pm
Ingrid e Rita

Concita De Gregorio


Ancora vive. Rita Levi Montalcini e Ingrid Betancourt si raccontano qui, nella penombra di questo corridoio, la gioia di essere ancora vive e dunque di potersi parlare all’orecchio e di stringersi le mani, di sorridersi e di piangere, di chiedersi come si fa a resistere, di dirsi e tu come hai fatto quando c’erano i nazisti? E tu come hai fatto nella giungla? A cosa pensavi, chi pregavi, dove abita la tua forza in questo corpo gracile, e la tua in questo sguardo di luna? Come ti hanno trattata? E a te? Hai avuto paura di morire? Mille volte, anzi sempre, ma invece no alla fine, guarda: no. A pensarci bene non ho avuto paura mai. La vera prigione sono gli altri, sono gli uomini attorno. Vuoi una tazza di tè? Sì grazie. Mostrami il tuo braccialetto d’oro. E tu il tuo, quello di bottoni: è bellissimo. Che donna straordinaria. Che donna straordinaria tu. È stato difficile? Sì, lo è stato. Dimmi del Nobel. No, dimmi piuttosto del tuo.

Sono le cinque del pomeriggio, suonano alla porta. Due mesi prima di essere sequestrata dalle Farc Ingrid Betancourt aveva inviato al premio Nobel il suo libro, «Forse mi uccideranno domani», e le aveva chiesto di incontrarla nel suo imminente viaggio in Italia. Montalcini le aveva risposto che l’avrebbe vista con piacere, avevano stabilito il giorno, fissato in agenda. Poi il rapimento. È stata Ingrid, ora in visita a Roma, a chiedere di poterle fare visita: di mantenere l’impegno. Sono passati sei anni. Oggi Rita Levi è sola in casa con la governante Giovanna, novantenne, e il segretario. Lui apre la porta. Betancourt è con la madre Yolanda. Le due donne si vengono incontro, si abbracciano a metà del corridoio, in penombra. «Sono contenta di essere viva per conoscerla», dice Ingrid all’orecchio dell’ospite. Rita Levi Montalcini si discosta e le sorride, le prende in mano le mani: «Mia cara, sono io che sono contenta di essere ancora viva per conoscerla. Che regalo, non trova? Farò cento anni in aprile. Di meglio non potevo sperare».

Siedono sul divano di velluto giallo, si parlano in francese. «Non sento molto bene purtroppo, il mio udito si è consumato», dice Rita. «Non così il suo sguardo, che è magnifico», risponde Ingrid. «Mi dica, cara. Mi racconti della sua vita nella giungla». «No la prego: prima di parlare di me mi dica di lei. Di cosa si sta occupando, di cosa si occuperà in futuro?». Montalcini racconta delle sue ricerche, del «ngf factor» che le ha dato il Nobel: spiega cosa sia, quali gli sviluppi possibili ma subito torna a ciò che le unisce. Come sia successo tutto questo, come siano arrivate fin qui. «Essere considerata di una razza inferiore è stata la mia forza. Io sono ebrea, durante il nazismo non potevo andare all’università, dovevo nascondermi. Così è stato nella mia camera da letto che ho studiato e che ho scoperto quello che mi ha portata a Stoccolma. In una sorta di prigione, ma pensi che fortuna: non mi importava di morire, mi importava di studiare e di camminare lungo un cammino che continuerà dopo la mia morte. E lei, cara Ingrid: come ha fatto a resistere nella prigione della giungla?». La prigione sono gli altri, dice Betancourt: «La prigione sono gli uomini attorno a te, i loro sguardi, i loro gesti. È proprio così: per sopravvivere non bisogna pensare a se stessi ma agli altri, all’amore di chi è lontano, al dopo. A quel che resta da fare. Dio mi ha dato la forza. Ho trovato la forza nel pensiero dei miei figli, di mia madre». L’hanno trattata bene, chiede con pudore Montalcini. Betancourt abbassa la testa e la scuote. No, non mi hanno trattata bene. «Ho scoperto qualcosa che non sapevo. Un uomo con le armi che ha potere su uomini e donne senz’armi perde l’umanità, la logica, la pietà. Può diventare ignobile, diventa ignobile. La sopraffazione non conosce regole né confini, è assoluta, bestiale. Ma per favore, parliamo di lei non di me. Mi dica: come ha resistito durante la persecuzione nazista?»

Senza avere paura, risponde Montalcini «Essere ebreo o islamico, uomo o donna, di una fede politica o di un’altra non conta: conta come ciascuno agisce. Io ero sicura che sarei morta ad Auschwitz, è un miracolo che non mi abbiano deportata sono salva per caso. Passammo la frontiera a piedi con la mia famiglia e non ci scoprirono. Un caso. Potevo morire ma non ho mai pensato a me, alla mia persona, alla mia morte. Lei ci ha pensato?». Sì, ci ho pensato. «Ero sicura di morire. In certi giorni, terribili, ne sono stata certa ma non me lo sono mai augurata davvero. Mai, nemmeno nei momenti che non posso raccontare. Avevo i miei figli». Come è stato ritrovarli dopo tanto tempo: facile, difficile? «Né l’uno né l’altro: è stato magnifico». Mi mostri il suo braccialetto, adesso: posso vederlo? «Eccolo. L’ho fatto coi bottoni della mia casacca e coi fili della tracolla che regge le armi dei sequestratori. È un rosario. Guardi, può tenerlo, lo tenga. E il suo invece, così prezioso?». Il mio è un bracciale che disegnai per la mia gemella Paola, «poi era troppo pesante per lei, da quando non c’è più lo porto io: guardi, può tenerlo. Ma piuttosto, mi dica. Come ha vissuto questi sei anni?». Betancourt gira il bracciale d’oro e pietre preziose tra le mani, Montalcini tiene il rosario di bottoni: «Ogni giorno, con gli altri prigionieri, ci dicevamo “non lamentiamoci oggi perché domani sarà peggio”». Era vero: è stato sempre peggio. Ho cercato cinque volte di fuggire, cinque volte mi hanno ripresa e dopo è stato molto, molto peggio. Ci si lava nei ruscelli, si mangia dagli alberi, non esiste l’igiene personale, un momento di solitudine: mai». E la speranza? Chiede Montalcini. «La speranza non finisce. È incredibile, è una specie di miracolo ma la speranza non muore davvero mai. Però non voglio affliggerla col mio racconto, mi dica invece: quali sono i suoi progetti?». Il Nobel racconta: «Non dormo, mangio pochissimo, lavoro sempre. Sapendo che la fine deve essere vicina sto approfittando di ogni ora. Il mio cervello è meglio di quando avevo vent’anni. Sto per partire per un convegno in Galilea, un convegno scientifico. Mi occupo dell’istruzione delle donne africane, ho dato seimila borse di studio. E lei? Tornerà a fare politica?». Non subito, non ora, non nella forma che conoscevo prima, risponde Betancourt. «Non posso dire mai più perché mai più ho disimparato a dirlo, è una formula senza senso che dovremmo bandire. Non adesso. Non posso tornare in Colombia, troppi problemi di sicurezza. Non voglio, d’altra parte, dividere i colombiani. Non mi piace la politica che genera odio. Bisogna saper perdonare, piuttosto. Bisogna trovare un altro modo, guardare avanti. Ora quel che devo fare è riprendere in mano la mia vita. Ritrovarla. I miei figli li ho lasciati bambini, lo ho ritrovati adulti. Vivrò tra Parigi e New York, con loro, per un tempo. Proverò a capire qual è il mio posto. La battaglia non finisce, certamente. Ci sono ancora 26 persone sequestrate dalle Farc. Dobbiamo trovare il modo di ascoltare le Farc senza puntare il dito contro di loro. La Colombia non ha bisogno di guerre fratricide. Penso a mio padre, mentre dico questo: mio padre è morto un mese dopo il mio sequestro. Era un uomo straordinario. Avrei voluto che vivesse, come lei, cento anni. Gli devo uno sforzo ulteriore, adesso. Devo lavorare a unire, a cucire: lo farò». Anche a costo di rischiare ancora?, chiede Montalcini. «No, bisogna rischiare senza azzardo», sorride Betancourt mentre le stringe le mani. «Il libro che le inviai si intitolava “Forse mi uccideranno domani”. Lo avrebbero fatto volentieri, lo so con certezza. Avrebbero voluto uccidermi ma non ci sono riusciti. È anche per questo che sono qui oggi. Qui da voi in Italia, da chi mi ha così tanto sostenuta: i vostri giornali, il vostro sindaco di allora Veltroni, la Provincia che oggi mi ospita e che mi tratta come una regina. Non lo merito ma dico, e ne sono certa: non mi hanno uccisa per la pressione internazionale che chiedeva conto di me. Siete voi che mi avete salvata».

Montalcini ha lo sguardo lucido, prende un suo libro intitolato «Elogio dell’imperfezione» - una traduzione in francese - glielo porge. La governante Giovanna ha preparato dei dolcetti di burro. «Io non ho doni per lei, me ne scuso», dice Betancourt. La centenaria le sorride come si fa coi bambini, le stringe il capo tra le mani e la bacia: «Ci sono sessant’anni di differenza, fra noi, eppure mi sembra che non ci sia un minuto. Coraggio, Ingrid, avanti. Non siamo noi che l’abbiamo salvata. Si è salvata da sola. Ciascuno si salva nel coraggio di seguire il suo orizzonte. Lei merita il Nobel più di me. Così bella, così ferma. Ci rivedremo ancora, ne sono certa. Verrò a trovarla a Parigi». A ciascuna il suo bracciale, adesso. Tenga il suo, grazie e lei il suo. A ciascuna la sua vita, la sua storia.

Pubblicato il: 03.09.08
Modificato il: 03.09.08 alle ore 13.02   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Onora la madre
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 03:44:42 pm
Onora la madre

Concita De Gregorio


Sarà un limite, ma mi sfugge del tutto la ragione per cui dovremmo sapere chi è il padre del bambino di Rachida Dati. Sarà un eccesso di discrezione, ma mi fa impressione vedere sulle prime pagine dei giornali le foto di Josè Maria Aznar (un ex primo ministro belloccio, certo dipende dai gusti, comunque un uomo dotato di potere oltrechè di moglie in carica) associato, anzi sovrapposto con indelebile allusione all’immagine del ministro di Giustizia francese e del suo ventre rotondo. Sarà pochezza, sarà anche demagogia che è ormai l’etichetta per ogni sussulto di residuo buon senso ma mi pare che altre emergenze, altre drammatiche permanenze meriterebbero lo spazio dei nostri quotidiani. Poteva esserci chiunque, in quella foto sovrapposta. D’Alema, Schroeder, Putin ma perché non l’idraulico, il vicino di pianerottolo, l’amico d’infanzia. Ecco: perché non l’idraulico? Ma è ovvio: perché ogni donna che acceda a un posto di potere deve essere l’amante di qualcuno. È così rassicurante: conferma l’ordine naturale delle cose. Amante di Sarkozy, per esempio: la soluzione più facile. Che altro motivo avrebbe avuto il primo ministro di Francia di nominarla ministro se non per ripagarla dei suoi favori? Del resto da noi non si usa così? Dati ha detto: “La mia vita personale è molto complicata”. Come quella di chiunque, del resto. Poi: “Non sono malata, continuerò a lavorare”. Tradotto: sono fatti miei e sto benissimo, che c’è da fare oggi? A nome delle migliaia di donne che entrano in sala parto da sole, milioni. A nome di chi non ha mai visto Aznar. Coraggio, è sempre stato così e non può che migliorare. Possiamo farcela.

Pubblicato il: 05.09.08
Modificato il: 05.09.08 alle ore 11.24   
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Titolo: Concita DE GREGORIO. Sulla pelle degli studenti
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2008, 07:49:40 pm
Sulla pelle degli studenti

Concita De Gregorio


Sono un insegnante precario meridionale della scuola statale della provincia di Pordenone apprezzato dai miei alunni e dai loro genitori che ogni anno si battono per la mia riconferma. Dall'anno prossimo sicuramente a causa della riforma del maestro unico non lavorerò più (Sergio Catalano)

Comincia così una lunga lettera che racconta come dal tempo del «maestro unico» i saperi si siano allargati e specializzati, le classi cresciute di numero, la presenza di bambini stranieri aumentata, le risorse per il sostegno ai disabili diminuite ma come intatto resti invece il bisogno di chi ha sei anni o ne ha dieci di essere «seguito dalla presenza costante e attenta di uno sguardo adulto». Inoltre, dice il maestro Sergio, «i bambini di oggi non sono più quelli di vent'anni fa». Non lo sono più, non c'è dubbio, e a nulla servirà imporre loro di alzarsi in piedi quando entra l'insegnante, di mettersi il grembiule col fiocco, di imparare il Padre Nostro per obbligo come propone l'assessore veneto, di andare tutti il 4 novembre alla parata come suggerisce La Russa. È il mondo fuori che è cambiato, il mondo che i bambini delle elementari si portano in aula sugli schermi dei videofonini forniti da genitori ansiosi e assenti, di solito ansiosi in quanto assenti, e che gli insegnanti fino all'altro giorno non potevano sequestrare all'ingresso in classe perché sarebbe stato, appunto, un attentato alla proprietà privata. Intendiamoci. Cambiare la scuola ad ogni cambio di ministro è un'antica tradizione che ha prodotto guasti in ogni epoca e sotto ogni bandiera. L'assemblearismo e le «conquiste di libertà» non sempre hanno garantito progresso.

La decisione di non esporre i quadri coi risultati degli esami «per la tutela della privacy» è semplicemente grottesca, dice per esempio in una lettera il professor Mario Mirri da Pisa. Ha ragione. I miei figli hanno fatto le elementari andando uno in prima a cinque anni con la sperimentazione Berlinguer, uno a sette perché è nato a febbraio e la Moratti stabiliva al 30 gennaio il limite di ingresso, uno col tempo pieno, uno coi moduli, uno con la settimana corta l'altro con la giornata breve. Posso dire con certezza che cambia solo il grado di nevrosi dell'organizzazione domestica. Di nevrosi e di bisogno: una donna su cinque, ci dicono le cifre di ieri, quando fa un figlio smette di lavorare. A parte le implicazioni culturali e sociali (enormi) il danno è economico, vorrei dire a Tremonti: il lavoro femminile, per usare il linguaggio berlusconiano, «muove l'economia». Dal punto di vista della didattica però - dal punto di vista dei bambini - quello che conta non sono i voti né i grembiuli. Sono gli insegnanti, le persone. Va bene il grembiule, ha il vantaggio di non scempiare una maglietta al giorno col pennarello indelebile. Vanno bene i voti, i giudizi, il debito o il credito, l'esame a settembre: è lo stesso. Va bene persino farli alzare quando entra il maestro, se la palestra a scuola non c'è almeno si sgranchiscono le gambe. Dev'essere chiaro questo, però: il taglio di 87 mila insegnanti non ha nessuna motivazione culturale. È il taglio di 87 mila stipendi, tutto qui. È un risparmio giocato sull'unica cosa che in Italia funziona ancora meglio che nel resto del mondo: la competenza la passione e il talento delle persone che lavorano nella scuola elementare. Un governo che fa economia sui maestri è irresponsabile. Fa quadrare oggi conti che pagheremo tutti noi domani. L'unica risorsa di cui disponiamo è il futuro. Risparmiare sulla pelle dei bambini è criminale.


Pubblicato il: 07.09.08
Modificato il: 07.09.08 alle ore 8.33   
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Titolo: Concita DE GREGORIO. Governare col trucco
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2008, 06:08:29 pm
Governare col trucco


Sono arrabbiata. Sono fiera di esserlo. La rabbia aiuta a non abituarsi a tutto. Ho sentito le parole del ministro Carfagna. Diceva: «Io provo orrore per le donne che vendono il proprio corpo per denaro». Parlava forse di un suo calendario? No, parlava delle prostitute o meglio: solo di quelle che stanno per strada. Perché non succede niente? Perché non telefoniamo, chiamiamo, bussiamo, usciamo per strada? Forse ci stiamo davvero abituando a tutto.

Laura Guasti, Firenze




Più che altro stiamo cadendo nella trappola magistralmente ordita in anni di politica televisiva da Berlusconi e dai suoi ministri: discutere dei dettagli, attaccarci agli slogan, accapigliarci su una scemenza di facciata senza arrivare mai alla sostanza delle cose. Il grembiule, il voto, la bella cordata di imprenditori che «vuole salvare la compagnia di bandiera», la tassa abolita, l’immondizia sparita, l’esercito per strada che così sei più tranquillo quando esci la sera. Chi non vorrebbe salvare Alitalia, camminare in strade pulite, pagare meno tasse, avere figli che imparano in classe le regole della convivenza e quando tornano a casa che è buio non debbano imbattersi in prostitute abbrutite? La gente di sinistra, forse? E allora che problema c’è: ecco qua il governo del fare, lasciatelo lavorare. La questione, purtroppo, è che è un trucco. È il gioco delle scatole: una bella scatola col fiocco da esibire, l’altra marcia da nascondere. Le tre carte. I limoni legati col nylon alle piante del G8, la calza sull’obiettivo che maschera le rughe. È sempre quel trucco lì, una toppa, e poi via per settimane a parlare del fiocco.

È evidente che lo scopo della proposta Carfagna non è quello di combattere la prostituzione: è un progetto di decoro urbano, il suo. Una questione di ordine, di eleganza dell’inquadratura. L’obiettivo è mostrare strade sgombre di viados. Guardate che pulizia. Se volesse combattere la prostituzione dovrebbe occuparsi della tratta di essere umani, di mafia del commercio sessuale, di chi fa entrare in Italia milioni di ragazzine senza documenti e poi le riduce in schiavitù, di come faccia e di chi glielo consenta. Dovrebbe poi anche occuparsi dell’altra prostituzione, quella tutta italiana e non di strada: la prostituzione «pulita» delle studentesse che ricevono in studi che sembrano quello del dentista e poi la sera vengono a fare la baby sitter a casa tua, ragazze ben pagate e ben consapevoli della loro scelta, del resto motivata dalla richiesta di un esercito di uomini «per bene» che saldato il conto tornano in ufficio. Non lo fa, naturalmente. Allo stesso modo Gelmini esibisce la sua riforma come quella del grembiule e dei voti in pagella, un bel ritorno all’ordine antico: peccato che tagli 90mila posti da maestro e azzoppi la scuola. La scatola vuota e ben ripulita dai debiti della cordata Alitalia, le tasse comunali che cambiano nome, l’esercito che fa la guardia alle discariche ma si dimentica dei treni dei tifosi. È sparita la camorra, a Napoli? Gomorra era uno scherzo? Certo che no, ma conta la foto. Un bell’annuncio, un bel grembiule blu, quattro soldati con la mitraglietta cosa vuoi che sia se poi alle volanti hanno tagliato la benzina. Devono solo stare fermi, tanto. E poi tutti giù a parlare di estetica, pazienza per l’etica.

Concita De Gregorio


Pubblicato il: 14.09.08
Modificato il: 14.09.08 alle ore 8.16   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Epifani: non permetterò che la Cgil sia messa all’angolo
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 12:03:02 am
Epifani: non permetterò che la Cgil sia messa all’angolo

Concita De Gregorio


Waterloo. Caporetto. Titoli senza troppa fantasia, certo: giusto per capirsi. Il sindacato – la Cgil, tra i sindacati – è arrivato alla fine. Due volte il disastro Alitalia collassa a un passo dalla meta, due volte il dito è puntato contro il sindacato. Sono stati loro, è colpa loro. Un sentimento diffuso, un senso di estraneità alle storiche forme della battaglia sindacale che contagia ormai anche il cinema, nel cinema i registi di sinistra: nel documentario sulla Thyssen di Calopresti i sindacalisti inzuppano la brioche nel caffellatte mentre la Lega fa reclutamento nelle fabbriche, nel film di Virzì sui call center al difensore dei diritti dei precari attaccano i bigliettini di scherno sulla schiena.

Battaglie di retroguardia, conservatorismo miope. È notte, ormai. È la notte fra giovedì e venerdì, Cai ha ritirato l’offerta. Guglielmo Epifani arrotola al gomito le maniche della camicia, la cravatta è allentata. Tiene in mano la lettera datata “Roma, 18 settembre” e indirizzata a Colaninno. Comincia così: «Signor presidente, come d’intesa le confermo la nostra adesione e la nostra firma all’accordo quadro…». Finisce con una firma, appunto: la sua firma. Epifani aveva firmato, Colaninno sapeva dal giorno prima che lo avrebbe fatto: «Come d’intesa», se lo erano detti. «Bisogna stare molto attenti – dice adesso che è davvero tardi con la voce arrochita dalla giornata campale – bisogna davvero evitare di cadere nella trappola di questo governo: è chiaro che a loro faccia comodo dire che siamo stati noi ma non è così. Ecco la lettera, i fatti sono questi. Noi non abbiamo difeso i piloti: abbiamo provato a convincerli. I due terzi del personale di volo non è rappresentato dalla Cgil. Non si poteva arrivare ad un accordo senza di loro. Lei può fare il giornale senza i giornalisti? Ecco, è così. Poi io credo che le ragioni che hanno portato al fallimento dell’intesa siano più ampie di quel che appare: sulla decisione simultanea e unanime dei componenti della cordata devono aver pesato molti elementi, diverso tipo di pressioni a partire dal quadro catastrofico internazionale per finire a motivi di equilibrio politico. Sia come sia: dev’essere chiaro che i piloti hanno sei o sette rappresentanze diverse, sono una somma di corporazioni. C’è stato un tentativo di mettere all’angolo la Cgil che è passato da lì. La Fiat dell’80 non c’entra niente, semmai qui è il contrario».

Sia come sia, Epifani, lei è ritratto oggi come l’esecutore testamentario di un sindacato in agonia: un fatto culturale prima che tecnico. La Cgil frena, ferma, blocca e oltretutto non rappresenta più i giovani, i lavoratori precari che temono di associarsi perché ricattati dalla “flessibilità”: il sindacato così com’è non è più di questo tempo. «È certamente questo il messaggio che si vuole far passare. Questo governo cerca il nostro discredito e non c’è dubbio che lo faccia in un clima generale in cui si prova a fare a meno del sindacato. Però vede: è proprio a questo tentativo che dobbiamo fare argine e dobbiamo farlo partendo dai fatti. La Lega nelle fabbriche, lei dice: benissimo. Però nelle fabbriche votano Lega ma sono iscritti alla Fiom. Non posso dire tutti ma molti, moltissimi. Allora è un altro il problema: è la cerniera fra il sindacato e la politica, fra il sindacato e il partito che si è indebolita. I nostri tassi d’iscrizione sono sempre altissimi, molto più alti che altrove in Europa. Non c’è più un prototipo di lavoratore, la realtà è variegata. Certo: un tempo si arrivava al sindacato attraverso la politica. Certo, le generazioni più giovani sono sottoposte al ricatto del datore di lavoro in nome della flessibilità ed hanno paura di aderire al sindacato. I precari non si iscrivono, è vero: sono spaventati. La campagna ostile al sindacalismo è stata potentissima: è la politica che deve battersi contro questo tentativo di ostracismo». E non lo fa, sottintende Epifani: non lo fa abbastanza. La “cerniera” fra sindacato e partiti di sinistra: quella si è sciupata. «Sono convinto che su Alitalia alla fine Berlusconi ricorrerà all’ennesimo colpo di teatro. È una gestione del paese fatta di continui colpi di scena. Non è così che si tutelano i diritti, non così si conserva la democrazia. Noi abbiamo agito come sempre con senso di responsabilità e mi creda, questa volta in specie con una disponibilità estrema. Prima di suonare il de profundis del sindacato bisognerebbe guardarsi attorno: abbiamo affrontato la questione di cinquemila esuberi in Telecom, sei o settemila saranno quelli di Alitalia, quattromila quelli di Merloni. Quando si parla di quindicimila lavoratori bisogna contare da uno a quindicimila e soffermarsi a pensare che ogni numero è una persona. Ci vogliono ore a contare: uno sono io, uno è lei, provi a immaginare. Altro che Caporetto. Siamo nel pieno della guerra e dobbiamo crederci, dobbiamo restare fermi qui non arretrare di un passo davanti all’offensiva populista. Dobbiamo vincere».

Pubblicato il: 20.09.08
Modificato il: 20.09.08 alle ore 8.16   
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Titolo: Concita DE GREGORIO La paura è di destra
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 07:21:10 pm
La paura è di destra

Concita De Gregorio


Cara Unità. Sei persone massacrate da chili di piombo nella "Campania felix" raccontata da Berlusconi, la terra salvata dall´immondizia e quindi dall´illegalità. Il governo ci ha detto che la nostra è la nazione più sicura al mondo grazie alla "tolleranza zero" del ministro leghista che siede al Viminale e che spedisce l´esercito a presidiare le città. Quali città? Villa Literno o Grazzanise non fanno parte di questa Italia sotto controllo, linda e pulita? O questa campagna della sicurezza colpisce solo i più deboli e lascia impunita la criminalità vera? È facile prendersela con un bimbo nomade o una ragazza sfruttata su un marciapiede. Meno facile è affrontare Gomorra che come un cancro si mangia il Paese e la coscienza civile di un popolo.

Vincenzo Cosimi

Il governo (il ministro Maroni) è stato ieri chiuso in riunione diverse ore coi capi delle forze di polizia i quali devono avergli illustrato l´esistenza dei clan dei Casalesi, della Camorra in Campania e più in generale della rete internazionale di latitanti che controlla e stabilisce chi debba essere ucciso e quando, si tratti di traffico di droga di armi o di immondizia. Uno, gli hanno detto per esempio, è stato arrestato ieri a Barcellona: viveva lì da nababbo da anni e comandava omicidi. Dunque ora Maroni lo sa, possiamo stare tranquilli. Difatti ha deciso di spostare dal Fontanone del Gianicolo una certa quantità di camionette militari che (immaginiamo controvoglia, il cambio è foriero di rischi) si recheranno in quella terra di nessuno fra Villa Literno e Castel Volturno dove pure, a dispetto della speranza, vive ancora qualche italiano. Quattrocento uomini, ha promesso. Domani, ha detto. Vedremo. La questione è complessa perché il decreto che ha reso le piazze urbane scenari di guerra prevede l´uso dei militari solo nelle città e non nelle campagne. Una sbadataggine: il governo, ora che ha appreso dell´esistenza della camorra, è pronto a rimediare. Maroni si metterà certo in contatto con Borghezio, suo collega di partito ed altissimo esponente della Lega di governo, europarlamentare esperto in sicurezza. Non prima però che costui sia rientrato da Colonia dove, unico politico al mondo, è salito sul palco di una manifestazione neonazista sventolando la bandiera tricolore. La piazza era vuota, la polizia ha bloccato i manifestanti mascherati da SS. È arrivato solo Borghezio, cravatta verde e Padania in mano, a parlare di Oriana Fallaci. I tedeschi l´hanno portato via di peso. Ora quando torna potrebbe essere dislocato anche lui insieme ai quattrocento militari nei dintorni di Grazzanise a fare comizi contro il pericolo islamico: è un´idea. In alternativa Berlusconi potrebbe dire che Borghezio è una vergogna nazionale e chiedere a Bossi di cacciarlo dal partito. Non lo farà perché non ha tempo. Sta lavorando. Prepara la nuova soluzione del caso Alitalia e ha da fare con la sconcia presenza delle schiave nigeriane per strada: combatte la paura dei cittadini onesti. La paura. La fabbrica della paura studiata apposta per farci guardare la pagliuzza, mai la trave. È di ieri una ricerca pubblicata su ‘Science´ da tre universitari usa: la biologia condiziona l´ideologia, dicono. Le persone più inclini a spaventarsi (davanti a immagini o rumori orribili) aderiscono a partiti conservatori. La paura è di destra, s´intitola l´articolo. Siamo a posto. L´alleato della sinistra temeraria è in arrivo. Non serve la politica, che idea fuori moda. Ci salverà la scienza.

Pubblicato il: 21.09.08
Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.47   
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Titolo: Concita DE GREGORIO. Dopo la risposta alla posta, quando arriva il Direttore?
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 04:45:12 pm
Dolce morte grande ipocrisia

Concita De Gregorio


Sono un cattolico che crede che sul tema della fine della vita si ascoltino molto i monsignori e poco i cittadini. Mi hanno colpito le parole di Mina Welby: «Bisogna arrivare a una legge sul testamento biologico che raccolga le dichiarazioni di fine vita non solo per rifiutare alcune cure, ma anche per chiederle». Penso che la libertà di chiedere cure faccia il paio con la scelta drammatica di lasciarsi morire. E ci si lascia morire in tanti modi: smettendo di lavarsi, di cibarsi, di interessarsi a ciò che ci circonda. Una legge può aiutare solo se ci sa mettere al riparo dalle ideologie, dalle demagogie. Una legge che non tuteli gli interessi di chi la fa ma quelli dei malati. Delle persone che vivono coi malati. Di noi.

Alvaro Malerba, Vercelli



Al riparo dalla demagogia. Che meraviglia sarebbe, no?, se per una volta, per questa volta almeno la discussione si concentrasse sull’oggetto – chi sta morendo, chi vive senza vivere - e non sul soggetto, sulla tronfia presunzione di chi pontifica, sul narcisismo di chi vuole un palcoscenico nuovo per dire gonfiando il petto qualcosa di clamoroso e di insolito, i riflettori ancora su di sé e qualche voto, qualche copia di giornale in più. Il dibattito sul testamento biologico è il festival nazionale delle parole a vuoto. Ipocrita fin dalla scelta dei termini: eutanasia non si può dire, non sta bene. Ipocrita alla radice, la più grande delle ipocrisie. L’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero. Esiste e funziona così: quando un malato terminale non reagisce più, quando la sua vita è solo un calvario di cateteri e di sonde c’è sempre qualcuno, tra i meravigliosi medici che lavorano al confine con la morte, che avvicina le mogli, i figli, i genitori e spiega loro, chiede, prova a capire. Nessuno domanda: volete voi che. No, non è così. Sono pochi, pochissimi quelli che riuscirebbero a rispondere. È enorme il peso della decisione, insopportabile. Allora succede questo. C’è un momento di non ritorno, i medici lo conoscono. Inutile declinarlo qui: quando il drenaggio delle urine rallenta, cose indicibili così. Quando i familiari smettono di parlare tra loro. Ecco, quello è il momento in cui arrivano, una mattina, gli infermieri (persone che hanno scelto di lavorare in hospice, angeli a volte rudi, ma angeli) e dicono con la voce squillante al malato in coma «buongiorno, come va stamattina?». Lo chiamano per nome. Gli raccontano cosa succede fuori e intanto lo spogliano nudo, lo lavano, aprono la finestra e meglio ancora se è gennaio, fanno cambiare aria, raccontano una storia, insaponano, fa freddo, l’acqua sul corpo corre, che buon profumo il sapone, no?, che bello sentirsi puliti. Loro lo sanno bene. Sanno cosa stanno facendo. Cantano, a volte. Non ci si sveglia più da quell’ultimo bagno. Era l’ultima aria quella entrata dalla finestra aperta. Poi la sera, poi la notte, poi basta. Basta andare negli hospice, basta vivere la vita per sapere che è così. Chi maneggia il dolore lo sa. Il Paese è più avanti – sempre - di chi dibatte sulle sue sorti. La realtà è un chilometro oltre l’orizzonte delle parole a vuoto. La vita vera è questa, la morte – succede - un sollievo. Chi la frequenta lo sa. E ora torniamo pure al dibattito: prego monsignore, dica pure onorevole.




Pubblicato il: 28.09.08
Modificato il: 28.09.08 alle ore 14.49   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Quando l'Amore diventa «Malamore»
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2008, 11:52:38 pm
Quando l'Amore diventa «Malamore»


Concita De gregorio


Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima.

È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa. (...)
«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».
Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante.

Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire – a sopportare – in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare? (...)

Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro.Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. o meglio: può, ma paga un prezzo. È normale, no? È nella natura delle cose. Vorrei poter dire che violenza è telefonare otto volte durante un consiglio di amministrazione per chiedere in quale cassetto si trova il termometro ma non posso farlo, naturalmente, perché violenza è massacrare l’ex moglie e buttarla viva in un cassonetto, soffocare l’amante incinta di nove mesi e seppellirla mentre respira ancora, dare un passaggio all’ex ragazza e farla violentare da otto amici per due giorni, picchiare la moglie davanti ai figli nel salotto coi divani bianchi e la mega tv con lo schermo al plasma, convincere che il suicidio sia il minore dei mali, bastonare perché hai messo i jeans, far saltare i denti «perché ti avevo detto di stare a casa e non importa se dovevi andare in farmacia, ti ho detto che da sola non esci». Segregare, umiliare, costringere, esercitare la forza delle mani e non solo la brutalità delle parole. Sparare, certo. Soffocare col cuscino. Usare un corpo e sbarazzarsene, poi addormentarsi tranquilli. tutti fatti accaduti realmente, tutti episodi di cronaca degli ultimi mesi. C’è una gerarchia della violenza, è ovvio. Ci sono reati e ci sono soprusi. C’è un’abitudine, una tolleranza della violenza che è la cosa più spaventosa di tutte. Un’accettazione della fatalità della sopraffazione che non vieta, tuttavia, di chiedersi: ma come mai? cosa è successo, perché è possibile? come mai chi muore non si ribella un anno, un mese, dieci giorni prima di morire? Si muore anche restando in vita, ciascuno lo sa, e la domanda resta intatta.

Questo non è un libro sulla «violenza domestica», sulla violenza esercitata dagli uomini sulle donne nell’intimità delle case e delle vite. È piuttosto una raccolta di storie che gira intorno a un’altra domanda, speculare e opposta: come mai oggi, nell’Italia delle ragazze calabresi che a scuola sono le più brave in Europa, delle figlie delle rivoluzioni sociali, delle manager e delle capitane d’impresa, come mai nel mondo delle trentenni e delle quarantenni che hanno studiato all’estero, che sono cresciute libere, che sarebbero nelle condizioni di esercitare la loro autonomia, delle ventenni che potrebbero aspirare a fare l’astronauta e non la moglie, che non dovrebbero aver bisogno dei soldi e della tutela di nessuno, come mai – ecco – queste donne sono disposte a sopportare? Perché consentono che si eserciti su di loro la violenza, sottile o radicale? Perché subiscono, perché non si ribellano? I dati parlano chiaro, anche se in questo libro non troverete dati ma solo storie. I dati ci sono, e volumi che li espongono anche. Cinque anni di indagini Istat: nove violenze carnali su dieci non sono denunciate, il 96 per cento delle violenze cosiddette minori sono taciute. 96 per cento, quasi tutte. La vergogna, si dice. Ma anche se fosse solo vergogna: vergogna di cosa? Di non essere abbastanza brave a sopportare? Di non aver saputo adempiere al compito stabilito? Di essere macchiate e indicate dalla riprovazione sociale? La paura, si dice anche.

Ma se vale per chi non ha nulla e teme di perdere quel poco che resta, come si spiega allora l’epidemia di massacri e omicidi nelle classi alte e medio alte, il medico che avvelena la moglie con un farmaco volatile e torna a operare, il direttore artistico del teatro che la bastona e la chiude viva in un sacco per i cappotti, l’imprenditore dotato di auto fuoriserie che istiga i figli a scrivere sul muro del salotto «sei una perdente, mamma: vattene». Perché queste donne non hanno reagito prima, perché hanno lasciato che dentro le mura di casa, in segreto, si esercitasse su di loro una quotidiana umiliazione per poi uscire e tacere, tornare in ufficio e sorridere, andare a scuola a insegnare e dire alle colleghe non è niente, sono caduta, ho urtato contro l’armadio? (...)
Qui però di storie di violenza che conduce alla morte ne troverete solo una e neppure accaduta in Italia: l’omicidio di Marie Trintignant per mano del suo bellissimo e celebre compagno, il cantante idolo della sinistra francese Bertrand Cantat (anche un idolo della sinistra uccide, certo). Le altre sono fiabe (Barbablù, La rateta, la topolina che sceglie di sposare il gatto), sono film (La sposa cadavere, capolavoro di Tim Burton, Ti do i miei occhi di Icíar Bollaín). Sono donne di carta disegnate nei fumetti (Eva Kant) e donne vere che hanno disegnato e scolpito opere meravigliose (Louise Bourgeois, Dora Maar, Lee Miller, Sophie calle, Artemisia Gentileschi). Storie autentiche di anonime donne qualunque e di potenti ministri della Repubblica. Sante e streghe di molti secoli fa, prostitute di questo. Troverete riscritta la storia di Circe, che non era una maga orribile e cattiva ma una donna bellissima che tutti, compreso Ulisse, continuavano solo ad amare e abbandonare. Troverete una galassia piena di scie dolorose e luminose da dove cominciare a rispondere alla domanda: come mai è ancora possibile sopportare tutto questo? Cosa inchioda le donne al dovere o al desiderio di sopportare? Quanto di buono nasce dal dolore quando al dolore si sopravvive? cosa passa dalla mente e dal cuore delle donne che portano, per tutti, il peso della violenza?
Il malamore è gramigna, cresce nei vasi dei nostri balconi. Sradicarlo costa più che tenerselo. Dargli acqua ogni giorno, alzare l’asticella della resistenza al dolore è una folle tentazione che può costare la vita.

Il brano è tratto dal libro di Concita De Gregorio, «Malamore», dal 30 settembre in libreria


 


Pubblicato il: 30.09.08
Modificato il: 30.09.08 alle ore 13.17   
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Titolo: Concita DE GREGORIO. Le conseguenze della paura (sempre angolo dei lettori!!).
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 04:48:50 pm
Le conseguenze della paura

Concita De Gregorio


Cara Unità,
da giorni ed ogni giorno si ripetono episodi di razzismo di una gravità inaudita. La destra al governo, incapace di frenare la perversa macchina della paura instillata per anni nelle teste di cittadini, nega l’evidenza anche di fronte agli episodi eclatanti. Nell’opera di propagazione della paura ha avuto come connivente l’informazione. Una volta innescata la violenza è contagiosa e può dispiegare la sua brutalità, come sta avvenendo. La lotta per estirpare il razzismo dovrebbe cominciare con l’educazione: ma oggi sappiamo la scuola in che mani è.

Mario Sacchi, Milano



Sul nostro giornale Luigi Manconi scriveva ieri che non è il razzismo, in astratto, che va combattuto, ma il dilagare epidemico di episodi di razzismo. Non la teoria ma la pratica. Del resto alla domanda «sei razzista?» pochi (per ora) rispondono sì. Tutt’al più quando gli chiedi perché hai picchiato quel ragazzo cinese dicono: «Boh». Per noia, per divertimento, perché si può, è normale. Dei morti ammazzati di Castel Volturno questo giornale ha pubblicato nomi e cognomi ma sono difficili da ricordare: di solito si dice 6 neri. Si somigliano, no, i neri? Come i cinesi: si somigliano tutti. Eppure il tema non è ancora, oggi, l’odio razziale. Può peggiorare, ci sono tutti i sintomi ma la questione adesso - siamo in bilico - è ancora la spaventosa assuefazione a un linguaggio e a un comportamento violento, quasi sempre inutilmente violento, sciattamente violento e gradasso che si fonda sulla paura dell’invasore straniero. Quello che ti toglie il lavoro, che ti ruba in casa, che si prostituisce sul tuo marciapiede e «diminuisce il valore dell’immobile» in cui vivi, spiegano i sindaci anche di sinistra. Il valore dell’immobile. Lo so, qui scatta l’accusa di moralismo. C’è sempre uno che si alza e dice: la gente ha paura, deve essere protetta. La gente ha paura perché la paura è un’industria, è facile e proficuo alimentarla. La gente ha paura di chi non sta alle regole e spaccia e violenta e rapina, di chi compra coi soldi la sua impunità e ce ne sono di bianchi e di neri che lo fanno, di italiani e di romeni, molti italiani anche illustri. I figli di stranieri nati in Italia sono 400mila. Fra sei anni saranno 1 milione. Sono ragazzi che parlano con l’accento della città dove sono cresciuti, che vanno a scuola - quando sono messi in condizione di andarci - coi nostri figli. Si può strillare, strepitare, picchiare e umiliare chi non ci somiglia ma più che criminale è inutile. Stiamo andando lì, non c’è niente da fare. Bisogna mettere in moto il cervello prima delle mani. La storia va lì e nel mondo, in Europa, siamo fra gli ultimi a sperimentarlo. Le banlieu parigine le abbiamo già viste. Londra e Berlino le conosciamo. L’integrazione non è un tema da affrontare con argomenti sentimentali o retorici. Non c’entrano la solidarietà, la compassione, la giustizia. Anche, certo. Ma prima ancora c’entra la ragione. Imparare a vivere insieme e a rispettarsi serve a noi quanto a loro. Non avremo una sorte diversa, avremo questa e non c’è argine che tenga: non serve urlare nè sparare. Il futuro è la condivisione, le genti si mescolano. Separiamo il bene dal male, non il bianco dal nero. Proviamo ad esercitare il pensiero, persino il pensiero complesso. È un buon esercizio in sé, oltretutto. I bambini sanno farlo, è crescendo che si sciupano. Aiutiamoli. È meglio e per giunta, davvero: non c’è alternativa.

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.35   
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Titolo: Concita DE GREGORIO «Ho scelto di fare il padre». Il coraggio di Sergio
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 05:22:06 pm
«Ho scelto di fare il padre». Il coraggio di Sergio

Concita De Gregorio


È vero. Lascia il lavoro per amore. Lo sbalordimento, l’incredulità e l’ironia feroce di cui è bersaglio sono la misura esatta – millimetrica – dell’arretratezza culturale in cui siamo immersi fino a non accorgercene più, il segno preciso del pensiero dominante che ci istupidisce e che ci assorda. Un uomo non lascia la carriera, la politica, il potere per la famiglia. Non è possibile. Ci dev’essere dell’altro. È una scusa. Saranno i sondaggi. Sarà il partito che lo boicotta. Sarà la paura di perdere. Invece no. È Edoardo. Non ci credete? Poveri voi. Poveracci, proprio. Non avete capito niente della vita.

«Guardalo». Sergio Cofferati accende lo schermo del suo telefonino: compare la foto di suo figlio Edoardo, un anno a novembre. «Non è venuto molto bene qui però». Certo, non vengono mai bene i neonati nei telefonini. Le persone amate sono sempre - sempre – «più belle di così». Il sindaco sorride, guarda ancora la foto. «È molto sveglio». La folla intorno lo chiama: lui non sente, non risponde. Edoardo ha avuto un po’ di febbre, di recente. Niente di grave. Lui non c’era però, gli è dispiaciuto non esserci: molto. Si è preoccupato. Si è sentito in colpa. «Avere un figlio alla mia età è un dono della vita. Un’altra opportunità che arriva come un regalo, non capita a tutti la seconda occasione di mettere a fuoco quel che passa e quel che resta, è una fortuna. A sessant’anni non si possono fare spallucce, dire ho da fare. Non c’è più tempo».

A sessant’anni quando hai una compagna di quaranta e un figlio di uno e ti è già successo tutto – il sindacato, il Circo Massimo, la Grande Speranza della Nuova Sinistra, la delusione, il lavoro duro, la periferia dell’impero, la popolarità e l’impopolarità, il paladino dei lavoratori e lo sceriffo – a sessant’anni puoi anche permetterti di sovvertire «l’ordine naturale delle cose» e dare una nuova lezione, questa sì rivoluzionaria: «Raffaella, la mia compagna, ha un buon lavoro, un lavoro che ama e non è giusto chiederle di lasciarlo». Ottimo. Raffaella Rocca lavora come ufficio stampa del più importante teatro di Genova, lo fa “da prima”: prima di conoscere il padre di suo figlio. «Se ci fossero state le condizioni avrebbe potuto anche trasferirsi a Bologna e vivere con me, ma quelle condizioni non ci sono state. Ho percepito molta ostilità nei suoi confronti, lei per prima l’ha percepita e sofferta». Fenomenale. Bologna ha rigettato la compagna di Cofferati. Non ha perdonato al sindaco di aver fatto campagna elettorale con una moglie e di essersi insediato con un’altra. Il moralismo di sinistra, dice qualcuno. Era antipatica, dice qualcun altro. Antipatica a chi? «Quando Raffaella è entrata in ospedale i giornalisti hanno telefonato ai medici per avere notizie spacciandosi per parenti». Succede. «Non deve succedere». Hanno detto che era incinta di due gemelli quando non lo era. Hanno detto che stava male quando stava bene.

Mi hanno messo in croce perché non sono andato a una partita di calcio perché dovevo partire con loro per le vacanze. Capita, quando uno fa il sindaco. «Non deve capitare». Non dovrebbe, diciamo. Ecco quindi gli scontri pubblici coi giornalisti, alla Festa dell’Unità di settembre. Ecco i primi segnali: la difesa della sfera privata. Raffaella ha un lavoro, ma a Bologna non lo poteva fare: «I teatri sono tutti in qualche misura nell’orbita del Comune, avrebbero detto che era lì in quanto donna del sindaco e non per le sue capacità». Sicuramente l’avrebbero detto. Cofferati lo avrebbe trovato insopportabile. Dunque è rimasta a Genova, 300 chilometri da Bologna. «Lo scorso fine settimana sono venuti qui, ma un bambino di quell’età non può passare la sua vita in autostrada, anche in prospettiva». In prospettiva, certo. Migliaia, milioni di chilometri. Migliaia di ore: giorni, mesi in autostrada. Dunque? Cosa può fare un sindaco? «Sto con loro. Vado a vivere a Genova. Potrò lavorare molto anche da lì, ne ho parlato con Veltroni». C’è da occuparsi del partito del Nord. C’è da fare in Liguria, in Lombardia, in Piemonte. Veltroni ha condiviso. «Una scelta che capisco e che rispetto, una decisione importante», ha detto il segretario Pd. Non che non abbia provato a convincerlo, certo. «Però poi quando l’ho ascoltato non ho potuto far altro che abbracciarlo». È successo martedì scorso. Un colloquio privato. Veltroni è la persona che Cofferati ha informato per prima. Per seconda, sì. Vado dalla mia famiglia, gli ha detto. Non saranno pochi i problemi, lo so: scusami. Però ho dato, e anche molto: questo per me adesso conta di più. Vedrai che non lo capiranno, ma sbagliano. Per essere in sintonia con la realtà bisogna prima essere in armonia con se stessi. «Me ne assumo la responsabilità». Quindi ecco, vedete, questo è quel che è successo. Quando la ministra di Brown Ruth Kelly dice che lascia perché torna dai suoi quattro figli non c’è niente di strano: strano era piuttosto che facesse il ministro, con quattro figli. Le donne preparano la cena, un ministro come fa? Quando lascia il portavoce di Bush (Lawrence Ari Fleischer) perché torna «dalla famiglia, alla vita» si dice che è esaurito. Quando – in Italia – un politico si separa dalla moglie per amore di un’altra donna si dice che è stato ingenuo, sprovveduto: le mogli non si lasciano mai, non conviene (politicamente?) nemmeno a sinistra. Si possono benissimo far convivere, no?, mogli reali e mogli apparenti. Non è così che fan tutti? Se poi, incredibilmente, un uomo abbandona la sua poltrona di governo per fare in modo che la donna con cui vive mantenga il suo lavoro di ufficio stampa (c’è paragone?) e per stare vicino al figlio con la febbre senza sentirsi sempre nel posto sbagliato come capita a milioni di madri che lavorano si sconfina nel delirio senile o nel buio dell’incomprensione: è matto, è esaurito, ha perso la ragione o c’è senz’altro un’altra ragione. No. Non c’è. «Sono un uomo fortunato». La prima volta, con la prima moglie conosciuta da ragazzo e col figlio ormai uomo, trentenne, c’è stato sempre molto, moltissimo altro da fare. Ora si può riprovare, ripensare, rivedere cosa importa nella griglia dei valori. «Il suo lavoro non vale meno del mio», dice di Raffaella. «Non posso lasciare che Edoardo cresca senza un padre». Roba da non credere. Da farci le prime pagine e parlarne nelle scuole. Il privato e la politica. Cose da pazzi. Archiviamolo subito come un incidente. In alternativa ci toccherebbe dire che Cofferati è un eroe della modernità, un marziano in patria. Uno che ha fatto un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità. Bisognerebbe dir questo di lui, ma non succederà. Non lo farà nessuno, tranquilli.

Pubblicato il: 10.10.08
Modificato il: 10.10.08 alle ore 10.31   
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Titolo: Concita DE GREGORIO - La vergogna e il Bagaglino
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 04:33:49 pm
La vergogna e il Bagaglino

Concita De Gregorio


Quando stamattina ho letto su internet della morte di Haider ho provato un sentimento di cui mi sono vergognato. Anche ora mi imbarazza definirlo. Forse la parola adatta non esiste. Non è «soddisfazione», ma onestamente le somiglia. Non è stata la prima volta. Ero un ragazzo quando morì Franco. Rafael Alberti disse qualcosa come: «Le fiamme dell'inferno non sono sufficienti per accoglierlo». Mi piacque. Quella frase mi tornò in mente quando morì Pinochet. Mi è tornata in mente oggi, dopo Haider. Poi mi sono vergognato. Forse perché Haider aveva la mia età e questo mi ha fatto avvertire che non era solo un simbolo, era un uomo. Ho guardato le sue foto. Ho letto che lo paragonano a Bossi. Ho pensato ai loro vestiti tirolesi, alle camicie nere di Berlusconi al Bagaglino, ai simboli neofascisti esibiti da chi ci governa. Ho provato pena per Haider, alla fine, poi anche per me.

Giovanni Pera


È una bella lettera, la leggo e la rileggo. Bella perché parla di vergogna senza vergogna e di pena senza pudore. Perché entra con semplicità in un terreno complesso: l’ambiguità dei propri sentimenti e nei sentimenti, è chiaro, alberga anche la politica. Non ci si rallegra per la morte di nessuno: mai. Di un tiranno a lungo subìto, questo sì può accadere: «Beviamo a viva forza, è morto Mirsilo», scriveva Alceo. Però Haider non era un tiranno e neppure un dittatore, non era Franco né Pinochet. Era un leader politico della destra estrema, la destra vincente fatta di simboli odiosi e a questo può ridurre l’esasperazione e la frustrazione di chi si trova, davanti all’onda, in minoranza: a confondere la battaglia politica con l’odio personale. È un errore gravissimo che nasce dalla cultura sommaria dominante, rafforza questa cultura anziché combatterla: buoni contro cattivi, indiani contro cow boy e chi vince non fa prigionieri. Non è questo il terreno di scontro: non è la vita o la morte dell’avversario. È il prevalere delle idee e dei valori di cui ciascuno è portatore, è la mia opinione contro la tua e la forza delle ragioni che la sostengono, il comune sentire da cui germinano.

Questo il vero campo di battaglia: lo spirito del tempo e gli elementi che lo costruiscono, lo consolidano. Il problema non è che Berlusconi la sera vada al Bagaglino, nel fine settimana da Messeguè, la notte in discoteca vestito in «total black». Le donne se sono mogli di qualcun altro, dice la sua barzelletta, si pagano. È evidente che personalmente – finché è nel lecito - può vestire e passare il tempo come vuole. Il problema è il compiacimento e l’identificazione che suscita come «modello politico vincente». Il berlusconismo. L’idea che del fascismo non mi occupo perché ho da lavorare, che il Parlamento mi deprime. Che se hai i soldi puoi aggiustare i conti delle banche e delle città, puoi comprarti l’impunità e delle regole chi se ne frega, roba da moralisti tristi. È da qui che germinano i cori «duce duce» che ormai accompagnano la nostra nazionale di calcio all’estero, i caschi rosa con la svastica che le adolescenti comprano al mercato «perché vanno». Di questo sì c’è da vergognarsi: di non saperglielo spiegare. Meno male che si torna in piazza. Protestare va bene ma anche proporre, per favore. Indicare una rotta diversa, se possibile. Che non sia speriamo che muoia. Come per Haider, che non ci mancherà ma che se fosse invecchiato sconfitto a trastullarsi coi falconi in una baita sarebbe stato meglio. Per lui e per tutti.

Pubblicato il: 12.10.08
Modificato il: 12.10.08 alle ore 11.30   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Rinunciare a 30 anni
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2008, 04:34:17 pm
Rinunciare a 30 anni

Concita De Gregorio


Ho 29 anni e vado avanti a contrattini. Scarse prospettive, pochi soldi, niente illusioni. La bagarre sui fannulloni non fa altro che alimentare l’odio nei nostri confronti mentre intorno a me vedo macerie, spazzatura, degrado, amoralità, abuso, assenza dello Stato. Dunque criminalità. Il caso di Roberto Saviano è illuminante: di una situazione, di una generazione, di una questione meridionale ancora lontana dall’essere risolta. Inventarsi una nuova vita è così sbagliato? Cercare un posto dove è possibile lavorare, metter su famiglia, avere una casa e dei diritti, è così malvagio? Carlo Fedele, Napoli



Caro Carlo, che rabbia e che tristezza le decine di lettere che arrivano qui al giornale da giovani donne e uomini come te. Che frustrazione davanti alla montagna di curriculum vitae che crescono sulle nostre scrivanie: centinaia, migliaia di persone di 20, 30, 40 anni che chiedono di affacciarsi qui con le loro proposte, le loro idee, i loro studi, le loro speranze. Se anche potessimo dare a ciascuno di loro, per un giorno, una tribuna – e ci vorrebbero anni – sarebbe abbastanza? Certo che no. Sarebbe, per molti, solo un’illusione. Non si parla che di Saviano, per strada. È una vergogna per questo Paese che Roberto dica: me ne vado. Hai ragione però: è legittimo. Gli uomini, prima di essere simboli, sono persone. Saviano ha diritto, innanzitutto, a campare. A nessuno si può chiedere di immolarsi in nome e al posto dei mediocri che pontificano. Contro i farabutti che manovrano il potere. Gli eroi della sinistra rompono le righe, ha scritto qualcuno. Battono in ritirata. Rinunciano. Ci hanno messo dentro anche Cofferati che lascia Bologna per la famiglia ma è diverso, mi permetto di osservare: è diverso rinunciare a 60 anni quando hai dato, hai combattuto, ti hanno ostacolato e detestato anche dentro la tua casa politica. È un segnale ad uso interno, una sfida in codice: continuate così e andremo tutti in malora. Se invece hai 20 anni, 30 e la vita davanti, ecco: allora rinunciare è davvero una sconfitta di tutti. Non è questo il momento di ritirarsi, scrivevo il giorno che sono arrivata qui. È durissima, ma bisogna sfidare il muro di gomma dell’inerzia e le clientele dei senza talento, il conservatorismo della paura. Marco Simoni, un trentenne che insegna alla London School of Economics, ci ha raccontato su queste pagine della sua fuga dall’Italia e del disastro della nostra università in mano alle baronie. Volentieri, oggi, lascio la parola a due tuoi e suoi coetanei. Giuseppe Veltri, calabrese, vive e insegna a Parigi. Peppe Provenzano, siciliano di 26 anni, studia a Pisa. Leggi cosa scrivono, riparliamone.

Pubblicato il: 19.10.08
Modificato il: 19.10.08 alle ore 14.52   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Quel sorriso
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 04:14:48 pm
Quel sorriso


Concita De Gregorio


Sembrava che ridesse sempre, anche quando parlava serio. Anche in questa foto qui sopra dove forse ride davvero, chissà, non è proprio un sorriso in effetti: è quel suo modo di stare al mondo con i pugni chiusi, la fronte alta, la coscienza limpida e nelle parole un dubbio, sempre. Alla fine di ogni frase una domanda, perpetua ricerca.
Mai un lamento. Di tutti gli altissimi insegnamenti che Vittorio Foa, morto alla fine di un secolo irripetibile, ci lascia in dote questo che sembra un dettaglio mi pare stasera il più grande. Quel sorriso, diverso e lo stesso in tutte le foto e i ricordi. Ciò che in una vita come la sua un sorriso perpetuo significa: andare avanti, pensare agli altri, provare ancora, non chiudersi, non arrendersi, anche il dolore è un dono che porta sempre altrove, è un compagno e un amico.

C’è dell’altro, dopo. Venite e vedrete.

Questo il lascito, questo quel che ciascuno dovrebbe provare a portare con sé. I più giovani specialmente. Quelli che non hanno avuto e non avranno la possibilità di sperare in un riscatto definitivo e radicale perché non hanno avuto quel passato e quel presente, non hanno avuto quella storia. Lo ascoltavano in un silenzio solido, infatti, i ragazzi.

Sentivano bene la densità pesante – il monito - di quel sorriso al posto del pianto. Una sera d’autunno di molti anni fa (è un piccolo ricordo, ce ne sono mille più emblematici ma si sa come funziona la memoria: seleziona gerarchie segrete) Foa si presentò nella sala della Società psicanalitica italiana a parlare ad una platea di giovani studiosi e di studenti di un tema intitolato “Il mestiere di un uomo libero”. Che la libertà sia un mestiere, una fatica da conquistare ogni giorno sarebbe stato già da solo materia di riflessione silenziosa: bastava il titolo. Parlò a lungo, per regalo. Sempre con quel sorriso che esibiva i denti radi, con gli occhiali troppo grandi e un po’ storti, il bastone da un lato. Raccontò dei suoi anni in prigione: trasformò il carcere in un privilegio. Ne disse con leggerezza, con pudore e con semplicità. Fu chiaro – dopo pochi minuti, fu chiaro a tutti – come patire la galera fosse stato un modo, il modo scelto dalla vita, per andare incontro al futuro e decifrare il presente.

Un’esperienza fortunatissima, sembra pazzesco no?, eppure proprio così, una risorsa per capire le cose, sentirle, andarci in fondo e che peccato per quelli che devono faticare tanto per arrivarci comunque, anche senza prigione, che sforzo dovete fare voi che non avete avuto questa stessa sorte ma non preoccupatevi, adesso ve lo racconto. Faceva solo domande: sembravano tutte risposte. Alla fine rimase a lungo fuori, sul marciapiede che corre accanto al parco, di notte. I giovani gli chiedevano della sua vita, lui replicava informandosi della loro. Di cosa vi importa, per cosa vi arrabbiate? chiedeva. Non restate in silenzio, fate del silenzio una ricerca. E difatti in quella lettera che poi Ronconi ha messo in scena, in quel libro intitolato “Il silenzio dei comunisti” domanda a Miriam Mafai e ad Afredo Reichlin: «Cara Miriam, caro Alfredo, erano milioni in tutto il mondo e anche in Italia gli uomini e le donne che si dicevano comunisti: militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti.

In Italia pochi anni fa piú di un terzo dei cittadini si dicevano tali. Ora stanno in grande parte in silenzio, il loro passato è cancellato nella memoria. Sento acutamente, quasi come un’ossessione, questo silenzio. Tendono a scomparire i testimoni di un’esperienza e insieme si oscura un pezzo della nostra storia. L’anticomunismo a vuoto non è forse paura? Perché si ha paura? di che cosa? Il silenzio non è necessariamente un male. Da esso nasce la parola: nella parola si chiudono i problemi mentre nel silenzio essi restano aperti».

Quale idea è rimasta vuota? Quale speranza? Il disegno di una società giusta? «Oppure, cosa ancora piú grave, il distacco è da un’identità, individuale o collettiva?». L’identità, di questo parlava ancora negli ultimi giorni quando temeva per Obama, il sogno americano, e quando insisteva che certo bisogna coltivare il nostro, in Italia, e crederci, e costruirlo perché altra strada non c’è : alternativa non è data. Un ragazzo, sembrava. Con tutta la vita davanti, tutti i nostri ieri nel sorriso pieno di dolore e di coraggio.



Pubblicato il: 21.10.08
Modificato il: 21.10.08 alle ore 10.32   
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Titolo: Concita DE GREGORIO Scioperare serve ancora
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2008, 05:11:43 pm
12/12/2008 08:08

Scioperare serve ancora


Concita De Gregorio


Il giorno dell'Onda, dopo aver visto in piazza centinaia di migliaia di studenti ricercatori insegnanti e famiglie in tutta Italia, Silvio Berlusconi aveva detto con la consueta sicumera che il governo non si sarebbe lasciato impressionare, che non si sarebbe fatto condizionare da una esibizione di professori fannulloni e di ragazzi che non hanno voglia di studiare, di universitari figli di papà. Qualcuno aveva anche provato a suscitare l'incidente, ricordate le camionette in piazza Navona. Qualcun altro lo aveva invocato: se ci fosse il morto tanto meglio. Poco più di un mese dopo Maria Stella Gelmini maestra unica della scuola italiana ritira i punti qualificanti della sua cosiddetta riforma: quella delle superiori slitta al 2010, la scelta del maestro unico alle elementari sarà facoltativa e dipenderà dalle richieste. Resta dunque intatta la possibilità di accedere al tempo pieno, per moltissimi genitori - in specie per le donne - condizione indispensabile per conciliare famiglia e lavoro. Bene, la notizia è che dunque gli scioperi servono ancora nonostante lo scherno e il disprezzo con cui questo governo di solito li accoglie. È importante saperlo oggi che la Cgil scende in piazza contro la manovra economica e contro la quotidiana strage di lavoratori: l'ultimo ieri all'Ilva di Taranto, cinque morti il giorno prima e quasi duecento solo nell'edilizia dal principio dell'anno. Le bandiere della Cgil stamani saranno listate a lutto. Pierluigi Bersani spiega a Laura Matteucci perché anche lui scende in piazza: «Continuo a sperare che il sindacato riesca a presidiare il mondo del lavoro restando unito».

Ultime notizie di ieri: cinquemila i precari Fiat i cui contratti non saranno rinnovati. Scene drammatiche fra i dipendenti Alitalia cassintegrati, le lettere stanno arrivando in queste ore: i primi ad essere allontanati sono i portatori di handicap, poi le donne. Claudia Fusani è andata alla Magliana con loro. Piove una notte e Roma va a fondo. Centinaia di incidenti gravi e gravissimi, una donna uccisa dall'acqua che ha travolto l'auto. Alemanno scarica le responsabilità sull'amministrazione precedente. Il punto è che i tombini della Capitale sono intasati dalle foglie, bisognerebbe pulirli. Alcuni sono rimasti sigillati dalla visita di Bush. Bisognerebbe togliere i sigilli visto che è autunno, e piove. Di clima si tratta a Bruxelles. Berlusconi e il premier polacco sono arrivati decisi amettere il veto alle misure che puntano a ridurre del 20 per cento le emissioni dannose. La mediazione di Sarkozy ha portato a un compromesso, l'Italia sarà costretta ad accodarsi. Il premier insiste intanto a dire che sulla giustizia «farà da solo», dell'intesa con l'opposizione non gli importa. Illuminanti le parole di Franco Cordero intervistato da Federica Fantozzi.

È l'anniversario di Piazza Fontana, lo ricorda in ultima Carlo Lucarelli. A Bologna domani c'è una messa in chiesa per i gay vittime di omofobia, Caffarra deve essersi distratto, il Papa ne è senz'altro all'oscuro. Manoel de Oliveira compie cento anni, lo racconta Alberto Crespi. Sua figlia Adelaide (ultrasettantenne) risponde al telefono da casa dove è in corso una festa. «È sempre in giro, lo vedo meno ora di quando ero bambina», ride. Sta girando un film.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO La rosetta del cardinale
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 11:38:39 pm
28/12/2008 12:59

La rosetta del cardinale

(il filo rosso di oggi, 28 dicembre)

Concita De Gregori.


La Chiesa supplente di un governo assente. La foto di prima pagina - il cardinale Sepe con grembiule che distribuisce pane alla mensa dei poveri - non sarebbe che un abituale gesto di carità cristiana, massimamente frequente a Natale. Beati gli ultimi, si sa. Senonché nel frattempo la "social card" (i quaranta euro al mese destinati da Tremonti agli indigenti) è risultata essere solo un inutile pezzo di plastica per centomila persone: è stata loro consegnata ma non è mai stata attivata dall'Inps, con conseguenti momenti di tremenda pubblica mortificazione dei pensionati in fila alla cassa col panettone in mano. "Credito non disponibile". Va da sé che del fatto non sia stata data notizia dai tg impegnati a illustrare il menù del cenone di queste fantastiche niente affatto austere feste.
Sui grandi quotidiani d'informazione qualcosa si trova, invece. Il Corriere della Sera per esempio dedica al fatto la sesta delle nove lettere nella pagina della Posta, la 37. Il signor Cristiano Martorella informa che "un terzo delle social card consegnate non è stato caricato" e che "non c'è stata nessuna comunicazione per chi ha avuto la carta ma non l'erogazione del denaro". Sono le centomila persone di cui sopra.

Questo giornale ha dedicato loro la copertina e il primo piano del giorno di vigilia. Sarebbe una notizia, ci pare, ma si vede che come accade all'Inps anche nelle redazioni i criteri di selezione subiscono un restringimento al momento di essere attivati. Chi si attiva, in assenza di altri soggetti titolari dell'obbligo o del diritto, è la chiesa. Il cardinale Tettamanzi annuncia la costituzione di un fondo famiglia-lavoro per chi ha perso o sta per perdere l'occupazione: dote iniziale un milione di euro. Federica Fantozzi racconta di analoghe molteplici iniziative di soccorso da parte delle Diocesi di tutta Italia. Per giunta in segno di protesta molti parroci non hanno messo il bambinello nel presepe: è un mondo che non accoglie, hanno detto. Non accoglie gli immigrati in continuo approdo, non accoglie chi si ricovera in baracche che poi bruciano. Don Mazzi scrive per noi che è un'ottima cosa il fondo Tettamanzi, però si rischia "il clientelismo di chi offre e l'obbligo di riconoscenza di chi riceve". È vero, ma d'altra parte è sempre così anche nella politica, negli appalti e negli affari come le molte inchieste in corso dimostrano. C'è qualcosa di profondamente corrotto e tollerato nel sistema.

Furio Colombo parla nell'analisi di "collasso povertà" dall'America all'Italia. L'unica social card che qui da noi davvero funziona sempre, per il momento, è la rosetta del cardinale. Il mondo laico osserva e non cessa di chiedersi se non ci sia per caso un modo altrettanto efficace ma non curiale, un modo che valga per tutti.

Marco Bucciantini nel dossier di oggi torna a Messina cento anni dopo il terremoto e trova ancora lì, intatte, le baracche dove trovarono alloggio gli sfollati un secolo fa. Cinquantamila metri quadri mai abbattuti in cui vivono gli abusivi. Nel 1990 vennero assegnati 500 miliardi per il risarcimento e la ricostruzione. Sono in larghissima parte spariti. Messina è ancora oggi una città devastata e non dal terremoto. Cent'anni di inettitudine.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO La rotta perduta
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2009, 09:57:43 am
25/01/2009 02:05

La rotta perduta

(il filo rosso di oggi, 25 gennaio)

Incredibili le foto dei clandestini di Lampedusa che manifestano abbracciati agli isolani. La gente li ha accolti nelle case, gli ha dato da mangiare poi ha marciato con loro. Emanuele Crialese, che a Lampedusa ha girato «Respiro», dice della gente del posto: «I loro padri uscivano sui cargo coi portoricani, gli africani. Erano costretti a mantenere le famiglie girando per il mondo: anche loro». Incredibile in un paese dove chi ha la pelle nera non diventa presidente: chi ha la pelle nera fa paura. Incredibile il racconto di Claudio Camarca, che era lì ieri: «Quegli uomini vivono in duemila in un centro che ne può tenere al massimo settecento, bagni intasati e colmi di escrementi». Incredibile che sia solo Dario Franceschini (anche lui era lì) a dire: «Fermare i trasferimenti come ha fatto Maroni significa far esplodere Lampedusa: luogo simbolico, per la Lega non è nemmeno Italia. Martedì il governo firmerà un accordo con la Tunisia per far rimpatriare i tunisini 200 alla volta. Lì ce ne sono mille. Cosa pensa che faranno quando si accorgeranno che li stanno rimandando indietro?». Incredibile il commento di Silvio Berlusconi davanti alle immagini della folla a mani tese in corteo: «Stavano andando in paese come sempre, magari a bere una birra».

Ha poi anche promesso, il presidente del Consiglio, di mandare trentamila soldati nelle città a garantire la sicurezza dei cittadini. Trentamila soldati svuoterebbero le caserme d'Italia. Bisognerebbe dar loro poteri speciali: i militari, in base alla legge, oggi non possono neppure fermare un cittadino per strada. Pensano di dare ai soldati poteri speciali? Qual è il progetto? Achille Serra, che di sicurezza si è occupato con qualche successo, ripete che l'unico modo di intervenire è «prevenzione e solidarietà». Prevenzione. Il sindaco di Guidonia ne parla con Eduardo De Blasi. Guidonia, dove una coppia di ragazzi è stata aggredita e ridotta a un passo dalla morte, è un'altra terra di nessuno. Non nei mari d'Africa: accanto a Roma.

Il giovane italiano che ha violentato una coetanea a Capodanno è stato rimandato a casa dai giudici. Alemanno il sindaco ha attaccato la magistratura, Alfano il ministro ha mandato gli ispettori. Poi Maroni, anche lui ministro, ha detto che nelle città non c'è abbastanza luce: dopo si è corretto, non si riferiva a Roma. Non ce l'aveva col collega di coalizione. Un triste gioco di rimbalzi di responsabilità. Non saranno i soldati né le lampade a difendere i più deboli. La violenza che accalca gli uomini come bestie nelle stalle, che usa le donne come bambole gonfiabili di un videogioco criminale è nella testa di chi si sente in diritto di farlo. È nelle case prima che nelle strade. Nel palazzi prima che nelle baracche. È un lungo e difficile cammino quello che abbiamo davanti: ritrovare il seme della convivenza e del rispetto. Non serviranno le minacce e le sanzioni, non basteranno. Non trentamila soldati né centomila, non tutte le lampadine del mondo. La dissuasione è nell'etica della responsabilità, non nella minaccia. Quella, semmai, corregge la rotta di chi perde la strada. Il compito di chi governa è indicare la rotta. Dopo, solo dopo, difenderla.

Concita De Gregorio
da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO La difficile rotta comune
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2009, 11:07:27 am
01/02/2009 14:00

La difficile rotta comune
(il filo rosso di oggi, 1 febbraio)


Concita De Gregorio.


Ho incontrato ieri Chimamanda Ngozi Adichie, trentenne nata in Nigeria e diventata donna negli Stati Uniti, cittadina del mondo, nera come l'ebano autrice di uno straordinario romanzo epico che affonda le radici nella guerra del Biafra. In una pausa della conversazione sui destini dell'Africa mi ha chiesto dell'Italia: e l'opposizione a questo vostro governo è abbastanza forte, chiara e unita nell'indicare una rotta alternativa? Una domanda così: definitiva. Non era quello il momento di addentrarsi in spiegazioni e distinguo. La ripropongo qui: per noi sì che è cruciale chiedersi se siamo in grado di uscire dall'angusto orizzonte delle lotte fratricide, dei regolamenti di conti perpetui, dei destini individuali che ipotecano le speranze collettive. L'unità con la u minuscola è la faticosa tessitura quotidiana che questo giornale, con la u maiuscola, prova a tenere ferma come linea d'orizzonte. Nonostante le ingiurie interne ed esterne, gli assalti autolesionisti di chi pensa che la sfortuna del compagno di strada sia alimento della propria fortuna e pazienza per l'obiettivo: pazienza se i fatti -motore e scopo dell'azione politica - si riducono a un inconveniente. Fin dal primo giorno abbiamo detto che questo giornale sarebbe stato il luogo di molte voci, tutte quelle che hanno in comune l'obiettivo di dare al paese un governo e un futuro migliore. Ogni giorno ne trovate un coro.

Oggi Furio Colombo rimprovera ad Antonio Di Pietro di aver sbagliato bersaglio se ha inteso mettere in discussione l'azione del Quirinale. Io stessa l'avevo fatto qui. Bisogna rispondere a quella ingenua e cruciale domanda: abbiamo la capacità di indicare insieme, nel rispetto delle diverse opinioni, una rotta comune o vogliamo procedere - dentro l'opposizione - all'autodistruzione per eliminazione reciproca? Berlusconi ne sarebbe entusiasta. È un copione già noto.

Veltroni ha presentato ieriunpiano decennale per la «rivoluzione verde». Qualcosa di molto concreto: riqualificazione energetica degli edifici, agevolazioni fiscali, rinnovo dei mezzi pubblici con autobus a metano, ecoincentivi per elettrodomestici a basso consumo, ricerca, riciclo dei rifiuti e industria collegata. Per il fastidio dei professionisti del retroscena e per l'entusiasmo delle persone qualsiasi: ecco un progetto. Straordinario no? Qualcuno vuole sostenerlo? Esiste un'Italia che fa le cose con successo e con passione. I giornali ne parlano pochissimo, certo. La scrittrice nigeriana era premiata ieri a Percoto, Udine, dalla famiglia Nonino. Un uomo, Benito, e molte donne, Giannola le sue figlie le sue nipoti adolescenti e bambine, hanno accolto dentro alla distilleria prima al mondo il premio Nobel Naipaul, i premiati - Hugh Thomas che meglio di chiunque altro ha raccontato la schiavitù; Silvia Perez Vitoria che narra il mondo salvato dai contadini - centinaia di ospiti e amici. C'era Giovanna Marini con la chitarra che cantava, Ermanno Olmi che dava consigli per la coreografia. C'erano donne e uomini di lettere e d'impresa, manager e scienziati d'altri continenti, malgari della Carnia e pastori. Un'Italia diversa: si è brindato. Sarà un anno buono per il raccolto - ha annunciato Giannola - lo dicono i venti che solo i contadini sanno leggere. Tutti hanno sorriso. Hanno levato i calici a quei venti.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Partita aperta
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2009, 06:24:47 pm
21/02/2009 03:23

Partita aperta


Piero Fassino ha lavorato per Franceschini segretario. Nell'intervista che pubblichiamo in apertura del giornale spiega le sue ragioni, che sono quelle di buona parte del gruppo dirigente del Pd. Franceschini saprà rinnovare, promettono: si circonderà di volti nuovi. Ci vorrebbe una direzione di 40 persone di cui 20 siano dirigenti locali, dice Fassino: ricominciare dal radicamento nel territorio, ricostituire un partito che abbia radici nel Paese. Che il mandato di Franceschini sia questo. Una direzione, una segreteria, il tesseramento. Poi il congresso e le primarie perché farle adesso sarebbe follia: ci sono le elezioni, c'è la crisi economica, ci sono leggi in aula da approvare e non è il tempo di pensare ai plebisciti. Anche Mercedes Bresso confida che una gestione federale, che tenga in direzione i dirigenti locali, aiuterà a superare le faide; lo dice ad Andrea Carugati.

Tuttavia la partita che si apre oggi alla Fiera di Roma è aperta: un salto nel buio, un'assemblea che vede emette in gioco tutti i delegati, migliaia di iscritti, milioni di elettori. Fortissima la spinta per le primarie: dalla base, dai più giovani, damolti dei dirigenti di nuova generazione che hanno partecipato ieri al vivace Forum dell'Unità - trovate la cronaca e le loro opinioni al centro del giornale - da chi pensa come Sergio Cofferati che «la cosa più importante sia oggi motivare gli iscritti, i simpatizzanti, gli elettori». Congresso o primarie subito. Molti dei 2800 non
verranno. Sono stati convocati 48 ore fa per  sms, il messaggio diceva: «Fiera di Roma ore 10 padiglione Est. Odg: Statuto articolo 3 comma 2», anche in termini di comunicazione si poteva fare di più. Molti verranno, invece. Anche questa è un'incognita. Molti volti, molte voci, molti umori. Vittime di uno Statuto farraginoso - il «mostro», lo chiamano tutti - i delegati dovranno innanzitutto decidere se votare o no la proposta del coordinamento per l'elezione di Franceschini. Anche su questo l'incertezza è massima. Si tratterà di capire prima che aria tira, ci spiegava ieri un dirigente di lunghissimo corso. Che aria tira.

Quella che tira nel Paese è stata segnata ieri dal decreto sulle ronde: cittadini privati autorizzati da sindaci e prefetti a fare la guardia ai giardinetti. Disarmati, certo. Però basta leggere cosa scrive Achille Serra qui accanto, basta avere un poco di buon senso e immedesimarsi nel ruolo: andreste voi disarmati in un luogo buio e pericoloso a distogliere eventuali bande di criminali? Correndo quale rischio? E allora armati magari di arma bianca, per dire. E di nuovo: con quali conseguenze possibili? Di fronte al decreto il Quirinale è rimasto in un silenzio di gelo. Il
Vaticano attraverso monsignor Agostino Marchetto ha detto che così «muore il diritto». Agonizza da tempo. E sul testamento biologico, la prossima norma che il governo si prepara a portare in aula, si manifesta oggi in piazza, a Roma, con l'adesione di Beppino Englaro. Pubblichiamo il testo del testamento biologico preparato da Luigi Manconi e dall'associazione Luca Coscioni che vi abbiamo proposto qualche giorno fa, lo ristampiamo a grande richiesta con l'appello che lo accompagna. Sono tempi cupi. Bisogna vedere che aria tira, certo, ma senza aspettare troppo. Sono tempi in cui muore il diritto e nemmeno la gente a casa si sente troppo bene.

Concita De Gregori
da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Violenza e retorica
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2009, 11:24:03 pm
Concita De Gregorio


21/04/2009 08:53

Violenza e retorica


Siamo diventati bravissimi nella retorica dell'ipocrisia, così bravi che nessuno si domanda più l'oggetto quale sia: di cosa, davvero, stiamo parlando. Si apre a Ginevra la conferenza Onu su razzismo e xenofobia nel mondo. Il presidente iraniano dice quel che sempre dice, lo fa anzi questa volta - come il delegato vaticano nota - con insolita discrezione rispetto all'abituale sua violenza non solo retorica. Dice che Israele (senza nominarlo) «ha privato della terra un'intera nazione istituendo un governo razzista nella Palestina occupata». Risultato del prevedibile intervento: indignazione dei delegati Ue che, con l'eccezione del Vaticano, abbandonano i lavori. Come molti altri paesi, America in testa, l'Italia non si era neppure presentata allineandosi al preventivo timore di un «attacco antisemita». Risultato, come Tobia Zevi fa oggi notare: di razzismo e xenofobia nel mondo non si parla sui giornali che riferiscono del vertice. Si parla di Ahmadinejad, della sua campagna elettorale.

L'antisemitismo è una piaga purulenta e persistente che il governo italiano giustamente addita, tanto più meritoriamente trattandosi di un governo che vede tra i suoi alleati gli eredi del partito fascista. Giusto domenica scorsa il sindaco Alemanno festeggiava il Natale di Roma con l'alloro in testa, sui maxi schermi un documentario celebrativo di Mussolini. Facciamo finta che siano tutti convinti che le leggi razziali siano state una macchia e una vergogna. Spostiamo ora l'obiettivo sull'intransigenza antirazzista dentro casa. Ci perdoni chi crede che i due piani siano molti distanti ma crediamo che si debba essere ugualmente severi con chi offende e attacca i popoli e le razze. Sporco ebreo o sporco negro, per intenderci.

Allora se ci concentriamo sulle misere vicende di casa nostra osserveremo che lo stesso governo che diserta impegni internazionali in nome del giusto disprezzo dell'antisemitismo non trova il tempo nè la forza per combattere la battaglia antirazzista nei luoghi dove l'odio fiorisce rigoglioso: gli stadi. Avrete seguito la vicenda di Balotelli, l'ultima. Saprete che a causa degli insulti al giocatore la Juve giocherà la prossima partita a porte chiuse. Vi pare che basti?

Leggete le parole di Lippi, quelle d iGianfranco Zola raccolte da Malcom Pagani. In Italia non esiste una legge che punisca con sanzioni pesanti il razzismo negli stadi. In Spagna sì, per esempio: tolleranza zero. Da noi decide il giudice sportivo. Un governo capace di pensare leggi ad hoc sul testamento biologico (se ne stava facendo una per Eluana Englaro) sulla violenza sessuale (caccia ai romeni violentatori, certo), sui manager accusati di causare la morte in fabbrica (leggete cosa dice a Marco Travaglio il giudice Guariniello a proposito del processo Thyssen) ecco questo governo non è in grado di proporre una legge che recepisca la piattaforma Uefa contro il razzismo. Come mai? È un test, si accettano risposte. Buone notizie, ora. Claudia Fusani racconta delle prime lauree a L'Aquila dopo il terremoto. Sono 27, una per Lorenzo Cinì: l'ha ritirata suo padre, Lorenzo non c'è più. Ascanio Celestini scrive di «Lotta di classe»: la battaglia dei lavoratori precari dell'Atesia. La buona notizia, in questo caso, è che qualcuno ancora ne parli.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Difetto di serietà
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2009, 11:40:44 am
26/04/2009 13:25

Difetto di serietà

Concita De Gregorio


Proviamo a dire le cose in modo semplice. La pacificazione nazionale è una cosa seria e auspicabile. Quasi nessuno ha più la forza, il tempo, l'energia e la costanza di rendimento necessarie a vivere in una perpetua battaglia fra buoni e cattivi, indiani e cow boy. Siamo stanchi di affrontare discussioni intrise di pregiudizi e mai di giudizi, mai nel merito delle questioni, mai al cuore delle cose. Sarebbe bello che arrivasse il giorno in cui ci si misura adesso, su quello che siamo capaci di fare e di cui c'è bisogno: sulla base delle forze reali in campo, delle energie e dei talenti. In altri paesi a noi vicini per scrivere una legge sul rispetto della memoria tra vincitori e vinti ci sono volute due generazioni: possono farlo i nipoti, meno facilmente i figli di chi c'era, mai chi c'era. Non è difficile capire perché. Servono onestà d'intenti, chiarezza di vedute, serietà. È soprattutto per questo, per la serietà, che risulta molto poco credibile un appello alla pacificazione (all'equiparazione tra chi ha fatto la Resistenza e chi ha combattuto fino all'ultimo a fianco dei nazisti) proposta da un leader politico che non si caratterizza per doti di saggezza austera, di sobrietà sapiente.
Silvio Berlusconi è solito far ridere - o piangere, dipende - per i suoi motti di spirito il mondo intero. È famoso per la capacità di ridurre a fatto personale qualsiasi vicenda o relazione politica, si tratti di Gheddafi di Rasmussen o di Putin. È celebre per la passione per i sondaggi e per una certa mobilità di comportamento a seconda delle private convenienze. Gli italiani lo hanno votato dunque si comporta come ritiene utile in quel momento. Altrettanto legittimamente (in base all'esperienza) noi siamo autorizzati a diffidare. Quando propone di chiamare la Festa della Liberazione, da domani, Festa della Libertà ci viene in mente che il suo partito si chiama «delle Libertà», diventerebbe anche questa la sua festa. Ci ricordiamo di quando fondò Forza Italia facendo il verso al tifo per la Nazionale appropriandosi del colore azzurro.

Berlusconi è solito far suo quello che è di tutti. Ha una certa sapienza nell'utilizzare quel che si trovi a portata di mano per un personale incremento di polarità, 25 Aprile compreso. Del resto non aveva mai festeggiato questa data, l'ultima volta irridendola con «ho da lavorare»: lo ha fatto ieri sulle rovine di Onna per la prima volta, fazzoletto tricolore al collo. Quanti punti nel gradimento? Apicella ha pronto l'inno? In generale, nel tempo e nelle grame condizioni in cui viviamo, crediamo che sia meglio non lasciarsi illudere e preservare, al posto dell'equidistanza, la giusta distanza. Conviene, sul crinale della democrazia, praticare la prudenza. Del resto c'è molto da fare. In Abruzzo, per dire, si cercano ancora i dispersi. Le notizie ufficiali non ne parlano ma mancano ancora all'appello 50 persone. Lo avete sentito dire da qualcuno? Da leggere l'intervista di Giovanni Maria Bellu al sindaco di Gela Rosario Crocetta, un resistente dei giorni nostri minacciato di morte per la sua lotta al racket mafioso.

Questo governo voleva cambiare nome all'aeroporto Falcone-Borsellino perché «porta jella e avvilisce i turisti».

Lo dico per promemoria, a proposito delle reali intenzioni e del marketing politico.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Senza rancore
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2009, 11:36:07 am
10/05/2009 06:03

Senza rancore


Dire no all'Italia multietnica è come opporsi alle maree. Come dire mi oppongo al passare del tempo. Gli anni cambiano i connotati degli uomini e delle società. Nel caso delle persone si invecchia, per esempio: conoscete qualcuno che dica mi oppongo? Se lo conoscete provate a convincerlo come si fa con uno che non sta bene, spiegategli che non saranno le protesi a fermare i giorni, davvero no. Oltretutto il tempo assai spesso rasserena e migliora. Non sempre ma capita, quando succede è uno spettacolo che valeva la pena aspettare quarant'anni. In copertina Gemma Calabresi e Licia Pinelli, sono appunto quarant'anni da allora, la storia d'Italia nel mezzo. Tutte le rughe in faccia, i segni del dolore uno per uno eppure a guardarle si vede solo il sorriso, le mani nelle mani. Si vede la luce che sempre torna dall'ombra, come nei giorni. Il mondo in cui viviamo ha un presidente d'America nato da un padre africano, in Italia avrebbe problemi col permesso di soggiorno. L'Italia multietnica non è una teoria no global, è un dato di fatto censito persino dal dossier Caritas. Sulla base delle proiezioni dell'Istituto nazionale di statistica (un altro ente non sospetto di simpatie comuniste) l'organismo pastorale dei vescovi ha stimato che a metà del secolo gli immigrati nel nostro paese saranno più di dodici (12) milioni, il 18 per cento della popolazione italiana del 2050.

Una persona su cinque. «Pertanto - si legge - il futuro dell'Italia non è immaginabile senza gli immigrati e questi non possono essere più considerati una presenza accessoria». Il no all'Italia multietnica non è nemmeno un proposito realizzabile. Perché è impossibile che il capo di un governo ignori una nozione tanto elementare, che non veda la direzione della storia e il dispiegarsi della cronaca. È una pura e semplice dichiarazione propagandistica che ha, molto probabilmente, il solo scopo di blandire la Lega. Vi sembrerà piccola cosa di fronte alla forza dell'evidenza, piccola e sciocca cosa.

Eppure è così. D'altra parte la politica di questo governo sul tema immigrazione è segnata da dichiarazioni roboanti e «cattiviste» che si oppongono alla realtà. Un altro dato. Nel 2007 (governo Prodi) gli sbarchi di immigrati furono poco più di 20.000. Nel 2008 (governo Prodi, da maggio Berlusconi) quasi raddoppiarono: 37.000. Nei primi mesi di quest'anno (dati aggiornati allo scorso 22 aprile) sono raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell' anno precedente. Fermare le maree non è possibile. Si può, al massimo, abbaiare alla luna.

«Se torno indietro negli anni - dice Gemma Calabresi a Licia Pinelli, il presidente Napolitano fra loro - mi rendo conto che le nostre due famiglie sono state divise. Siamo stati tutti vittime della stagione dell'odio e del terrorismo. Ora non è più tempo di recriminazioni ma della memoria, che deve essere sgombra da sentimenti di rancore. Chissà, a volte l'uomo è schiavo di certi preconcetti e forse questo falso pudore del mondo che ci guarda ci ha portate a non incontrarci prima». «È stata una bella giornata», dice Licia Pinelli. «Forse incontrarci prima ci avrebbe aiutate a superare un dolore che è lo stesso», risponde Gemma Calabresi. C'era bisogno di questo tempo. Di invecchiare, sì. Di trovare alla fine del cammino la serenità e la saggezza per dire: si può.

da "Insieme" unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Tra liberismo e cattivismo
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 11:42:30 am
Concita De Gregorio.


13/05/2009 08:51

Tra liberismo e cattivismo


Alla fine i nodi vengono al pettine. E si scopre che - tra un attacco agli immigrati e un insulto alla libera stampa - il governo lavora per una parte consistente della sua base elettorale: le caste. Dei farmacisti, degli assicuratori, dei banchieri, dei tassisti e così via. È in atto un'attività sistematica di smantellamento delle liberalizzazioni introdotte da Bersani col governo Prodi. Si vogliono eliminare le attività imprenditoriali che, aumentando la concorrenza, hanno già avuto effetti benefici sui portafogli dei cittadini. C'è un disegno di legge che tenta di colpire le parafarmacie (la cui nascita ha determinato una diminuzione del 20-30 per cento del costo dei farmaci da banco) e di ripristinare di fatto il monopolio delle farmacie tradizionali. C'è stato già un provvedimento che ha frenato la nascita di distributori di benzina nei grandi centri commerciali. C'è poi lo snaturamento della class action - l'azione collettiva dei soggetti deboli - sottoposta a regole così restrittive da essere diventata difficilissima. Un bel favore alle grandi aziende, un altro danno ai diritti dei cittadini. Il servizio di Roberto Rossi è una sorta di Bignami sulla distanza enorme che c'è tra le promesse di liberismo e la politica del governo Berlusconi.

Adesso - se ce n'era bisogno - è ufficiale. L'Onu condanna il «cattivismo» di Maroni. E lo fa attraverso la sua autorità più alta, il segretario generale Ban Ki-Moon che ha fatto propria la censura pronunciata dall'Alto commissariato per i rifugiati. Parole più chiare - ne scrive Andrea Carugati - non potevano essere dette: «La politica dell'Italia mina l'accesso all'asilo nell'Unione europea e comporta il rischio di violare il principio fondamentale di non respingimento previsto dalla Convenzione del 1951 sui rifugiati». E ancora: «Il principio di non respingimento non conosce limitazione geografica e gli Stati sono obbligati a rispettarlo ovunque esercitino la loro giurisdizione, anche in alto mare». Parole chiarissime, come dicevamo. Non altrettanto si può dire di quelle pronunciate dal premier. Ha parlato di «statistiche» secondo le quali «sui barconi di persone che hanno diritto d'asilo non ce n'è praticamente nessuna. Solo casi eccezionalissimi». Ha aggiunto che i clandestini sono persone «reclutate in maniera scientifica dalle organizzazioni criminali» e «senza diritto d'asilo». Si può essere cattivi con tutto ma non con l'aritmetica. I dati ufficiali (quelli del ministero dell'Interno e della Giustizia e quelli delle organizzazioni sopranazionali) dicono che circa il 35 per cento degli oltre 36 mila migranti sbarcati in Italia nel corso del 2008 ha ottenuto lo status di rifugiato. E dicono pure che a chiedere l'asilo sono persone che vengono dalle aree più martoriate del mondo. Non da zone controllati dai criminali, più semplicemente da zone colpite dalla guerra e dalla fame come la Somalia, l'Iraq, il Kurdistan. Le loro storie (le raccontano Cesare Buquicchio e Mariagrazia Gerina) dovrebbero far provare un po' di vergogna a chi, con tanta leggerezza, gioca con la vita del prossimo siano uomini donne o bambini. Alice Miller, psicoanalista di origine polacca, scrive oggi delle conseguenze della violenza, origine del male. Causa e conseguenza, per meglio dire: una spirale.

da unita.it


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14/05/2009 09:12

Il proconsole d'Abruzzo


Guido Bertolaso ha chiamato il vescovo: «Basta, me ne vado, troppe lamentele». Aveva appena letto l'editoriale del «Centro», il quotidiano degli abruzzesi. Si chiedeva - prima che l'afa soffochi le tendopoli - di sistemare gli sfollati in prefabbricati. Questo racconta Marco Bucciantini dall'Aquila. Di come il capo della Protezione Civile (e di molto altro) abbia chiamato l'arcivescovo Giuseppe Molinari per dirgli «tenete la gente tranquilla». Di come il vescovo abbia dapprima radunato i parroci chiedendo loro un lavoro «tenda a tenda» per sedare gli sfollati, di come poi abbia scritto alla presidente della Provincia, un tempo sua allieva, rimproverandola col tono dell'antico professore di «fare politica» fomentando i malumori. Caro arcivescovo, gli ha scritto in risposta la presidente Pezzopane: «Proprio lei mi ha insegnato a privilegiare prima di tutto chi è in difficoltà. Sollecitando attenzione per le persone in tenda e chiedendo per loro tempi brevi e migliori sistemazioni ho assecondato la necessità di rispetto per le loro vite già provate». La gente in Abruzzo non può aspettare i fasti e le gare di architetti del G8. Servono soldi e risposte subito e come ora anche il ministro Tremonti sa sul fronte dei denari c'è un problema serio. Vittorio Emiliani racconta punto per punto come si declini la demagogia e la pubblicistica di corte. Il proconsole delle emergenze, ora assurto anche al rango di guida dei vescovi in supplenza del passeggero vestito di bianco che qualche settimana fa portava in auto, dovrebbe piuttosto dare risposte concrete alle popolazioni prima che photo opportunity al premier per le tv.

Passa alla Camera con tre sì alla fiducia chiesta dal governo il decreto sicurezza, prima manovra nello scambio politico di «gentilezze» alla Lega di cui parliamo da settimane. Le  intercettazioni seguiranno. Intanto arrivano le «ronde» e il reato di immigrazione clandestina (passibile di multe da cinque a diecimila euro) con obbligo di denuncia da parte dei pubblici ufficiali. I presidi spia, i medici spia. Il rischio che non si denuncino le nascite dei figli di immigrati è uno dei punti - i bambini invisibili - su cui i vescovi fanno sentire la loro voce accanto a quella dell'opposizione: «Il grande tema sotto silenzio è quello dell'integrazione», dice la Cei. Un eufemismo. Un modo paludato per dire che passano leggi razziste, xenofobe. Leggi razziali, le chiama ormai così anche la stampa estera. Roberto Rossi ci racconta il mondo degli highlander. Non sono i protagonisti di una saga nordica. Molti cittadini li hanno incontrati. Di solito sono giovani, spesso anche simpatici, ed eleganti. Aprono le loro borse piene di moduli e di brochure come si trattasse di scrigni di gioielli e offrono «prodotti finanziari» capaci di garantire un sereno futuro attraverso pensioni, assicurazioni, rendite perpetue. Ma chi sono in realtà i «promotori finanziari»? Nient'altro che venditori al servizio delle banche. Non fanno l'interesse del cliente ma  quello dell'azienda che li remunera (spesso poco, e infatti solo due su 50 ce la fanno). Spesso nascondono informazioni essenziali. A volte compiono delle vere e proprie truffe. Intanto sparisce di fatto la class action sepolta da un voto al Senato: non sarà più retroattiva, dunque a che serve? Salvi i truffatori, pazienza per i truffati. Urgente trovare qualche vescovo che li conforti.


da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO. Il mondo si occupa di noi e Gioco sporco
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2009, 09:27:37 am
27/05/2009 23:01

Sotto gli occhi del mondo


Il mondo si occupa di noi.

Incomprensibilmente ignora gli accorati appelli tv di Sandro Bondi, le minacce di querela dell'avvocato Ghedini, le grida dei proconsoli ex fascisti e dei giornali scendiletto del premier per concentrarsi sulle gesta (la vita e le opere, le parole le menzogne e le gesta) del presidente del Consiglio. Direttamente su di lui, su quello che fa, come nelle democrazie si usa. «È un pericolo in primo luogo per l'Italia ed un esempio deleterio per tutti», Financial Times. «Se il primo ministro può farla franca portando avanti una storia d'amore adulterina e semipubblica con una adolescente (e poi mentire così spudoratamente che ogni sciocco può vedere che non sta dicendo la verità) e non venir chiamato a risponderne allora la nazione è in pericolo», The Independent. «Un clima decadente da basso impero (...) una escalation inquietante di impunità morale», El Pais. Altri editoriali e commenti sono dedicati al comportamento di Silvio Berlusconi dal Clarìn di Buenos Aires, dal Times e dal Guardian di Londra, da Abc news e da quotidiani e agenzie di stampa tedeschi, francesi, nord e sudamericani. Un complotto su scala mondiale, praticamente. Tutti lì a dire che l'Italia corre un pericolo serio perché insufflati da qualche suggeritore comunista, si vede. Forse un giornalista, certo: i servizi segreti lo troveranno, statene certi, e lo metteranno a tacere al più presto. Così il nostro prestigio internazionale tornerà a rifulgere. Nel frattempo la giovane Noemi scrive alle amiche di non poter lasciare il fidanzato prima della data delle elezioni (prassi notoriamente abituale tra le adolescenti, questa del vincolo alle scadenze elettorali, da cui deve derivare l'antica formula «voto di castità»): nuovi appassionanti dettagli ci attendono. Coi corrispondenti dei giornali stranieri abbiamo appuntamento stamani qui all'Unità per un Forum. Inviate loro le vostre domande, vorremmo discutere di politica e di economia, del futuro che attende l'Europa alla vigilia di un voto della cui importanza si parla pochissimo. Inauguriamo oggi una guida al voto che speriamo possa aiutare.

Il rapporto di Amnesty international è dedicato alle politiche sull'immigrazione e contiene un duro attacco all'Italia a partire dai respingimenti. Insieme all'osservatorio Italia-razzismo trovate oggi una doppia pagina di «Le belle bandiere» dedicata ai giovani di seconda generazione: nati in Italia da genitori stranieri. Delle migliaia di commenti arrivati sull'on line faremo un dossier. Debuttano oggi sul giornale il giuslavorista Massimo Pallini, l'autista Yuri e l'operaio Davide. I loro commenti, da punti di vista evidentemente diversi, ci aiuteranno a decifrare la realtà.
P.S. Due giorni fa per un errore di impaginazione l'attacco dei vescovi alle politiche del governo sul lavoro è finito a pagina 15 anzichè a pagina 9 come avrebbe dovuto. Un disguido che capita in ogni giornale e sul quale non vorremmo annoiarvi. Il collega Paolo Franchi, che salutiamo con la consueta stima, ha voluto sottolinearlo sul Corriere della Sera. Escludendo che ritenga che questo giornale non si occupi dei temi del lavoro e dei lavoratori lo prendiamo come un contributo da caporedattore esterno di sostegno.
Grazie Paolo, e buon lavoro.

da concita.blog.unita.it

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30/05/2009 22:43

Gioco sporco


Niccolò "Mavalà" Ghedini, avvocato personale del premier e dunque deputato, detta la linea difensiva e stuoli di suoi assistenti - spesso parimenti deputati - eseguono solerti. I giornali di famiglia si incaricano del lavoro sporco: picchiano, insinuano. La strategia è questa: screditare personalmente i «testimoni d'accusa», infangarne la reputazione. Non entrare nel merito delle circostanze provate ma distruggere le prove: siano intercettazioni telefoniche (con una legge, addirittura, se serve) o fotografie: ci sono dirigenti Rai che procacciano ragazze «per il morale del Capo»?. Illegittimo diffondere i testi, al macero. Ci sono foto che mostrano il premier con decine di ragazze giovanissime a seno nudo in altalena? Violata la privacy, sequestrate le foto.

Fingiamo per un momento che non siano enormemente più importanti il processo Mills, All Iberian, la corruzione eletta da trent'anni a sistema. Parliamo solo di quest'ultimo inconveniente senile. Siamo di fronte da mesi, forse da anni - un crescendo peggiorato con l'età - ad un premier che sistematicamente usa il suo enorme potere economico e politico per procacciarsi, tra molti altri benefici privati, ragazze a decine di cui circondarsi nelle festicciole a palazzo. Tutti lo sanno, i protagonisti di questa esibizione di grandeur da basso impero sono migliaia.

Ogni ragazza ha un'amica, che ha un fidanzato, che ha un amico. Le foto sui cellulari circolano senza controllo. Le ragazze sono sempre più giovani: crisalidi sul punto di diventare farfalle. Per prima Veronica Lario, la moglie, ha detto: è un uomo che non sta bene, frequenta minorenni, figure di vergini che si offrono al drago. Libero l'ha messa in prima pagina a seno nudo, foto di scena giovanili, col titolo «Velina ingrata». Nessuno dei figli ha reso in quell'occasione dichiarazioni pubbliche.

L'ex fidanzato della ex minorenne Noemi ha rivelato la data dell'avvento nella sua vita di Silvio Berlusconi: 2008.

Gli avvocati e i giornali del premier lo hanno aggredito personalmente senza mai smentirlo: ha precedenti penali, si è fatto pagare. Dal testo si evince che Repubblica non l'ha pagato, Novella 2000 ha smentito, il Giornale gli ha dato 500 euro. L'unico ad aver pagato è dunque finora il Giornale. Il fotografo sardo che custodisce centinaia di scatti di ragazzine in villa è da ieri indagato, le foto sotto sequestro. Non avendo altro a cui attaccarsi Libero ha titolato ieri in prima pagina «Pure Concita al servizio del Cavaliere». L'argomento è che pubblico libri con Mondadori.

La prima casa editrice di questo paese, come Einaudi, esistevano prima di Berlusconi e gli sopravviveranno. Ho un rapporto personale con Cristina Mondadori da quando, negli anni Ottanta, vinsi la prima edizione del premio giornalistico intitolato a suo marito Mario Formenton: fu quella borsa di studio a portarmi nei più grandi giornali europei e poi a Repubblica dove ho lavorato vent'anni. Con Cristina Mondadori ho condiviso il lavoro per una fondazione dedicata ai bambini affetti da malattie congenite, vicende personali ci accomunano. I proventi dei miei libri vanno ad associazioni che di questo si occupano.

Sono vicende personali, queste sì. Provo un poco di imbarazzo per i colleghi che con tanta leggerezza le sollevano senza sapere cosa toccano. Mi scuso di aver abusato di questo spazio per rispondere, non accadrà più.

da concita.blog.unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO La morale dei sultani
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:30:08 am
12/06/2009 22:18

La morale dei sultani

Concita De Gregorio

La questione è questa. Siamo diventati un Paese in cui il rispetto delle regole, persino quelle semplici della buona educazione e del rispetto degli altri, è completamente in disuso. Le leggi e i tempi li detta il sultano che del resto li vìola quando gli pare e piace e li modifica a suo uso, dunque così fanno i sudditi. Nel loro ambito, certo, ma lo fanno e considerano da sciocchi non farlo: da perdenti, da moralisti, da poveri. È l'andazzo generale, è lo spirito del tempo. Ecco che persino il normale gesto di Fini - annullare un incontro dopo due ore di ritardo dell'invitato - diventa una specie di simbolo della resistenza. L'invitato era Gheddafi, atteso alla Camera da Fini D'Alema e Pisanu oltreché da decine di parlamentari e ospiti del convegno in agenda. Anche Gheddafi - che non è un sultano ma un colonnello - in generale fa come gli pare: d'altra parte è una delle caratteristiche proprie dei dittatori, per quando indicati dalle biografie ufficiali come «dittatori buoni». Perciò non gli deve essere nemmeno passato per l'anticamera del pensiero l'idea di avvisare. Stava male - abbiamo appreso dopo - o forse aveva la preghiera. Comunque: aveva deciso di non andare e non deve spiegare a nessuno, Gheddafi fa come vuole. Una parte degli italiani lo troverà senz'altro un esempio inarrivabile, la versione perfetta di modelli minori. Ad altri piace meno ma lo dicono poco: convenienza, timore, in qualche raro caso convinzione. Così è sembrata proprio una ribellione, quella di Fini. Accidenti: qualcuno dice no. Un respingimento di Stato, ma senza scherzare troppo su quei disperati che dalla Libia anziché con le amazzoni al seguito ci arrivano in barcone, in mare muoiono e se non muoiono tornano indietro. Persino Casini, moderato per statuto, ha osservato che «va bene i soldi e gli interessi, ma la politica è fatta anche di valori e princìpi». Anche, effettivamente. Ci sarebbe poi da dire dell'incontro avvenuto prima che Gheddafi si sentisse male - o che dovesse pregare - con la ministra Carfagna e le donne «di successo» italiane alle quali il colonnello ha dato lezioni di femminismo: nei paesi arabi le donne sono «pezzi di mobilio», ha detto. Qui si è opposta Rosy Bindi: prima di parlare di diritti delle donne bisognerebbe che la Libia ratificasse la Convenzione internazionale sui diritti dei rifugiati. Lo so, sarà bollata come una disfattista. Non capisce l'importanza della posta in gioco, sottilizza. In Iran lo sfidante moderato Moussavi annuncia la sua vittoria contro Ahmadinejad, poco dopo l'agenzia di Stato ribalta il risultato: ha vinto il presidente uscente. Sono momenti in cui diventa chiaro a cosa servano l'opposizione e la libera informazione.


Da noi in Italia è per adesso ancora molto chiaro chi ha vinto e chi ha perso. Il Pd, per esempio, ha perso molte amministrazioni locali. Tuttavia in tanti altri casi ha vinto, inaspettatamente e in luoghi «ostili»: se ne parla meno. Siamo andati a vedere cosa sia successo dove il Pd ha battuto il centrodestra a dispetto dei pronostici o è cresciuto fino a sfiorare il sorpasso. Magari ad osservare bene si capisce meglio quale sia la formula, la combinazione vincente. Si ascoltano le storie, si prende nota, chi ha da imparare può eventualmente farlo.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Ombre e palme
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:31:03 am
11/06/2009 22:45

Concita De Gregorio


Ombre e palme

Mentre il leader beduino Gheddafi attraversava Roma paralizzata dalla sua visita a bordo di una limousine color sabbia del deserto, le tendine decorate da palme - un'ambulanza, tre camionette dei carabinieri, sedici auto di scorta contenenti tra l'altro decine di amazzoni al seguito - duecento metri più in là, a Montecitorio, l'aula del Parlamento italiano che a differenza di quello libico rappresenta una democrazia votava una legge voluta dal premier e dettata dal suo ministro Alfano che impedisce, di fatto, di usare per le indagini le intercettazioni telefoniche, uno dei più efficaci strumenti di lotta al crimine in un'epoca in cui i piccioni viaggiatori non si usano più e le lettere di carta sono parecchio in disuso, pizzini a parte. Mentre il presidente di tutte le Afriche intratteneva il sindaco Alemanno, in origine componente del medesimo partito fascista che uccise l'eroe di cui Gheddafi porta la foto appesa al petto, dicendo che «l'America nell'86 non si è comportata diversamente da Bin Laden» - affermazione sulla quale alcuni potranno trovarsi eventualmente d'accordo, difficile che ci rientrino Frattini e Berlusconi - 21 parlamentari dell'opposizione nascosti dal voto segreto contribuivano ad approvare quella che l'Associazione nazionale magistrati chiama la legge bavaglio. «Avremo le mani legate», dicono i giudici. Il Parlamento approva. Mentre il colonnello invocava il dialogo coi terroristi e proponeva di abolire i partiti «aborto della democrazia» (poi fermava il chilometrico corteo per salutare una coppia di sposi con lui festosissimi, un tifoso della Roma gli regalava la sua maglia) tre consiglieri del Csm, in un palazzo vicino, si dimettevano dai loro incarichi per protesta contro le parole del ministro della Giustizia, il medesimo Alfano di cui sopra. In aula, intanto, boati e cartelli dai banchi dell'opposizione: la libertà di informazione è morta oggi.


È stata una giornata così: molto materiale per i tg, parecchio folklore cupo, sirene spiegate e cartelli, urla e sit in, il mondo fuori e il mondo dentro il Palazzo. La visita di Gheddafi si conclude oggi con l'incontro con centinaia di donne imprenditrici e «di successo», non è una battuta, è vero. Lui poi ripartirà, avendo lasciato a chi ci governa in cambio di tanto imbarazzato silenzio almeno qualche promessa di contratti miliardari. Sempre a parlare di soldi si finisce, sempre quello il motore e il bavaglio. In fondo nel nostro piccolo sappiamo di cosa si tratta.


In redazione abbiamo invitato ieri i giovani delle scuole di formazione politica per un forum a chiusura della serie «Le belle bandiere» - proposte e critiche, voci delle nuove generazioni per «il partito che vorremmo». Mai come in questo momento (all'indomani delle elezioni, alla vigilia di un nuovo cantiere da aprirsi in vista del congresso) c'è bisogno di ascoltare e capire le indicazioni di chi si è sentito ed è stato finora escluso. Le soluzioni che propongono, la strada che indicano. Scrivono Federica Fantozzi e Mariagrazia Gerina che i giovani chiedono un ritorno al partito «porta a porta», non modello Vespa: modello Pci. Parlano dei nonni, meno dei padri. D'Alema intanto indica in Pier Luigi Bersani il suo candidato. La partita, ufficialmente, è aperta.


da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Congresso Pd, Chiamparino rinuncia: «Troppo solo»
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 06:01:43 pm
Congresso Pd, Chiamparino rinuncia: «Troppo solo»

di Concita De Gregorio


«Ci ho pensato seriamente fino a stamattina. Ero a un passo dall’accettare questa candidatura che in così tanti, soprattutto dal popolo democratico, mi chiedevano. Poi mi sono fermato un momento, una breve pausa di solitudine, e ho sentito uno strano silenzio. Il silenzio della politica, perché c’è un’aspetto emotivo importante - quando si deve prendere una decisione come questa - e c’è un aspetto politico decisivo. Avrei corso per vincere, naturalmente, non per fare da candidato di colore in una partita a due. E per vincere c’è bisogno del sostegno del popolo democratico, naturalmente, degli amici e dei compagni ma soprattutto c’è bisogno del partito. Così mi sono messo in attesa di qualche telefonata rivelatrice. Non sono arrivate. Non ho sentito non dico Letta ma neppure Fioroni, non ho sentito nessuno di coloro che stanno preparando il congresso, né D’Alema, certo, né Fassino: da Piero, per meglio dire, non ho sentito una parola chiara e poiché ci conosciamo e ci stimiamo da quarant’anni, ho capito».

Sergio Chiamparino è nel suo ufficio di sindaco. «Sto guardando la posta. Può sembrare una sciocchezza, ma è decisivo, per me, rispondere ai cittadini. Lo faccio ogni giorno. Se fossero mancati pochi mesi alla scadenza del mandato, anche un anno, avrei potuto tirare la carretta ma due anni no, due anni sono tanti e non si può fare il segretario e il sindaco di una città come questa. Così se mi fossi candidato - lo avrei fatto, ripeto, per vincere - avrei dovuto interrompere il mandato. Non è il momento, non mi pare proprio che lo sia. Sarebbe stato un rischio lasciare Torino adesso, con queste condizioni politiche al Nord. Non abbiamo bisogno di interrompere quello che funziona.

«Certo, servirebbe anche un grande slancio alla guida del Pd. Di un rinnovamento vero, di un progetto deciso. È per questo che sono stato tentato. Ho creduto che la mia candidatura, se adeguatamente sostenuta, avrebbe potuto sbloccare un meccanismo fatale, far uscire questa campagna precongressuale dalla logica dello scontro frontale, degli eserciti schierati per cui l’unica domanda che si sente è “tu con chi stai” e non “tu cosa vuoi, come intendi realizzarlo”. Mi pare che sia questo invece che si vuole: lo scontro. Io avrei potuto mettermi al servizio del partito per evitarlo, non ho nessun interesse a fare il terzo uomo di facciata per avere un po’ di visibilità. Non ne ho davvero bisogno. Ho molto da lavorare, non mi basta il tempo. Ho sentito forte la spinta che viene dal basso. Capisco e vedo quanto grande sia l’area del malcontento, di quelli che non vogliono andare ad una conta che replica vecchi schemi e antichi dualismi. Ma un partito nuovo e un progetto forte non si fanno mettendo insieme il malcontento. Non serve e non basta.

Ci vuole coraggio, coesione, bisogna che le forze si uniscano e non si dividano: bisogna, bisognerebbe che ciascuno si chiedesse qual è il bene comune, l’obiettivo che lo realizza, e che si mettesse al servizio di quella causa persino suo malgrado. Non siamo ancora pronti. Il partito è insieme fluido e rigido. Potrebbero essere due virtù, risultano due difetti. È fluido laddove avrebbe bisogno di struttura, è rigido dove servirebbe elasticità. Ho capito, nelle ore del mattino, che la mia candidatura sarebbe stata funzionale alla legittimazione del duello e non sarebbe servita ad evitarlo. I candidati sono entrambe persone di grandissimo valore.

Non capisco perché si debba procedere per eliminazione e non per unione delle forze. So che moltissimi dei giovani che si affacciano oggi alla vita politica e molti dei meno giovani che se ne sono allontanati disillusi si aspettavano da me un gesto e mi dispiace non poter soddisfare la loro aspettativa ma in queste condizioni si sarebbe rivelata un boomerang. Avrebbe portato all’ennesima frustrazione. La speranza è un sentimento positivo, non le si può lasciare un angolo come palestra. Bisogna investire sulla forza di chi si aspetta da noi scelte chiare e coraggiose. Avere coraggio e chiarezza nel farlo. Verrà il tempo. Ho altri due anni da sindaco di una città magnifica, molto lavoro e nessun risentimento».

01 luglio 2009
da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO «Una candidatura anti apparato»
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2009, 06:14:53 pm
«Una candidatura anti apparato»

di Concita De Gregorio


Il tavolo di Ignazio Marino è coperto di lettere, mail, biglietti. «Sono consigliere e sindaco, ho contribuito a fondare il Pd, non ho ancora preso la tessera: aspetto, per farlo, la sua candidatura». «Sono una studentessa universitaria, la prego, Marino, abbiamo bisogno di lei». Il tenore è questo. Elettori e simpatizzanti del Pd, delusi o disillusi in attesa di ricredersi, persone con un piede sulla soglia: prendo la tessera solo se lei si candida, dicono. «Sento molto forte la spinta che viene dall’elettorato, davvero è qualcosa di palpabile: c’è un grande desiderio di rinnovamento e di nuovo inizio, parole chiare sui valori e sulle scelte, niente più logica della “posizione prevalente”. Sento bisogno di coraggio. Le persone che incontro nelle piazze, negli ospedali, nelle scuole chiedono di essere ascoltate, vogliono essere rappresentate da qualcuno che sfugga alla logica tutta autoreferenziale degli apparati e delle oligarchie. Del resto non c’è chi non veda come questo tipo di confronto allontani il consenso. È come chiudersi in una stanza mentre fuori, in piazza e per strada, se ne stanno andando tutti».

In queste ore Marino è molto preoccupato dalla notizia, anticipata ieri nella rubrica «Il congiurato» de l’Unità, del patto stretto da Gianni Letta con le gerarchie vaticane: un patto che anticipa la discussione sul testamento biologico da ottobre a luglio in modo tale da far passare quel «progetto dissennato» nel silenzio e col favore dell’estate. Sarebbe questa, si dice a Palazzo, la prima moneta di scambio che il clero ha preteso dal governo come condizione per ricucire con il Berlusconi degli scandali sessuali e del Bari-gate. «Ecco che di nuovo si fa un gioco di potere e di interessi sulla pelle dei cittadini. E l’opposizione? Lo denuncia, si prepara alle barricate? Non mi pare».

In effetti c’è uno strano silenzio attorno all’ufficio del senatore a Sant’Ivo alla Sapienza. I notabili di partito sono molto, molto intimoriti da una sua eventuale decisione. La notizia, filtrata sui giornali in queste ore, di una possibile alleanza fra Marino e la generazione dei quarantenni (Pippo Civati e gli altri del Lingotto) nel nome del cambiamento e contro l’eterno conflitto fra Ds e Margherita, fra Ds e Ds, la possibilità che chi non ha conti personali da saldare possa unirsi in una campagna comune cresce nel tam tam delle stanze di chi prepara il congresso. Marino è molto tentato, moltissimo. «Giorni fa fuori dalla sala operatoria mi sono messo a scrivere un testo, una sorta di indice delle questioni sulle quali mi piacerebbe che il congresso discutesse».

Una sorta di manifesto programmatico, in verità. Si parla di diritti civili, di meritocrazia e di laicità. Comincia così: «Come molti ragazzi della mia generazione preparavo gli esami di medicina in compagnia di un mito, un medico anche lui, Che Guevara, un poster nella mia camera. Crescendo ho affiancato a quella la foto di Berlinguer pubblicata da l’Unità nel giorno in cui morì. In quegli stessi anni in cui si formava la mia coscienza di adulto consolidavo le mie convinzioni di credente su principi che non escludevano la partecipazione al fermento sociale degli anni Settanta. Anni dopo, vivendo e lavorando negli Usa, mi sono ritrovato a curare con il trapianto di fegato decine di veterani del Vietnam, soldati contro i quali avevo manifestato da ragazzo». Il Foglio ha pubblicato il testo dicendo che si tratta di «una requisitoria che vale come una candidatura». Non c’è dubbio che sia così. «Dove sono finiti i temi che riguardano la vita di ognuno? Il diritto al lavoro, a un salario dignitoso, alla casa, la gestione dei rifiuti nelle grandi aree metropolitane, i treni per i pendolari, i cinquecento ospedali a rischio sismico, il milione di persone che ogni anno emigra dal sud al Nord per curarsi, gli oltre 200 mila precari di una scuola sempre più povera, la giustizia senza risorse che costringe le persone nel limbo dell’incertezza?».

Il Pd, dice Marino, non è il fine, ma lo strumento: il fine è il bene del Paese. Dunque si candiderà? Il senatore sorride, chiede ancora qualche ora di tempo: «Vorrei fare qualcosa di utile per tutti, portare il mio contributo fuori dalle logiche di potere. I meccanismi congressuali blindano i movimenti di chi non sia già irregimentato. Però forse qualcosa si può fare. Mi lasci ancora un paio di giorni, ho una paziente che aspetta un trapianto: vado, torno e poi ne parliamo».

02 luglio 2009
da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Un premier due morali
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2009, 11:47:54 pm
01/07/2009 22:34

Un premier due morali

Concita Di Gregorio


Chissà. Forse è l'ennesimo complotto. O una specie di maledizione. Ma di nuovo - mentre s'interroga sull'ennesima tragedia causata dall'incuria e dal caos normativo - il paese è costretto ad occuparsi della doppia morale del presidente del Consiglio. Lo schema è sempre lo stesso. Il Noemigate ci ha fatto constatare che il sostenitore del family day, l'uomo che bacia la mano al papa, l'ispirato difensore dei valori della cristianità non disdegna d'accompagnarsi a ragazze delle quali potrebbe essere il nonno e di trascorrere una notte con una squillo pagata da altri. Ieri abbiamo abbiamo dovuto scoprire che il fustigatore delle «toghe rosse», il castigatore dei pubblici ministeri che partecipano a dibattiti di carattere politico, il perseguitato dalla giustizia, intrattiene rapporti amichevoli e conviviali con i magistrati che dovranno decidere sulla legittimità costituzionale della legge che l'ha reso immune dalla giustizia medesima. Quel «lodo Alfano» che, tra l'altro, è all'origine di una delle sentenze più innovative della storia giudiziaria italiana: la punizione di un corrotto (l'avvocato Mills) ma non del suo corruttore. La notizia era filtrata qualche tempo fa. Ieri è stata solennemente confermata dal governo. Nelle prime settimane dello scorso mese di maggio il presidente del Consiglio è andato a cena a casa del giudice costituzionale Luigi Mazzella il quale, per tenergli compagnia, si era premurato di invitare anche Paolo Maria Napolitano, un altro dei giudici che dovranno decidere sulla legittimità della più famosa delle leggi ad personam. Si trattava, naturalmente, di una bicchierata tra amici e non si è parlato nel modo più assoluto del lodo Alfano. E infatti c'erano persone totalmente disinteressate alla questione, Gianni Letta, il senatore Carlo Vizzini e anche, casualmente, il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Non è finita. Perché ieri, dopo che era scoppiata la polemica sulla reale natura del party, il giudice Mazzella ha fatto sentire la sua voce. Si è cosparso il capo di cenere per la sconcertante gaffe? Si è dimesso? Figuriamoci. Il giudice Mazzella - per sottolineare la sua indipendenza - ha scritto una vibrante lettera alla presidenza del Consiglio dei ministri. Parole di fuoco: «Caro Silvio, siamo oggetto di barbarie ma ti inviterò ancora a cena». Lo racconta Claudia Fusani.
Inauguriamo oggi le pagine di Unità Estate al centro del giornale. Seguendo il filo del riavvicinamento fra generazioni (più di tutti ci piace quello fra nonni e nipoti) abbiamo provato a mescolare le culture, portare i vecchi e i giovani sullo stesso terreno e vedere se si parlano, in cosa si capiscono. Nel «Calendario del popolo» abbiamo chiesto alle nostre firme più illustri di declinare in modo semplice e chiaro una «parola da salvare». Oggi trovate «Libro» di Vincenzo Cerami. Giovanni Nucci racconta Shakespeare a chi non l'ha letto o l'ha dimenticato. Comincia con Giulio Cesare, in tema di complotti. Due pagine sono dedicate allagrafic novel su Peppino Impastato, la prima di una serie di storie che pubblicheremo a puntate. Accanto le rubriche di Andrea Camilleri, Fortebraccio, Jovanotti. Molto altro arriverà.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Pd, Marino: pronto l'appello agli elettori
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2009, 10:16:17 am
Pd, Marino: pronto l'appello agli elettori


di Concita De Gregorio


L’appuntamento è stasera a Verona. Pippo Civati e una delegazione di giovani democratici, quelli del Lingotto, incontra Ignazio Marino. Vanno da lui nell’ospedale dove opera, vanno a parlare della struttura da dare a un cammino comune: la terza candidatura prende forme in queste ore. Marino è pronto. Il suo "manifesto" è già in rete, si sta studiando un appello agli elettori: i giovani portano in dote la speranza in un partito “aperto” che sappia rianimare la passione in chi l’ha smarrita, il senatore il suo carisma e la sua credibilità, una visione “americana” di partito dei talenti, l’essere «estraneo alla logica delle correnti» come sottolinea il suo consigliere Goffredo Bettini che giusto ieri al Caprainica, seduto ad ascoltare Veltroni, diceva di lui: «Macché solo un chirurgo, è molto più abile politicamente di quanto si possa pensare, è una persona onesta e libera ma insieme acuta e sottile, doti che difficilmente si coniugano. Il mio cuore batte per lui, per l’amore che porto allo spirito del progetto del Pd».

Mentre Bettini parlava al Capranica del «suo candidato» Ignazio Marino limava il testo di un appello agli elettori che vedrà la luce nelle prossime ore. La saldatura col gruppo dirigente di “giovani” (i quarantenni in questo paese sono considerati tali) parte, sul piano strategico, da un appello al tesseramento. «Contiamoci», dicevano i democratici del Lingotto. «Facciamo un passo l’uno incontro all’altro», dice Marino. Si rivolge agli elettori, ai sostenitori, ai delusi: a tutti quelli che sono con un piede sulla soglia dell’impegno politico. «Potremmo incontrarci a metà del ponte, noi e chi ci chiede con forza di impegnarci: un passo a testa. Noi verso l’impegno, loro verso il sostegno a questo impegno. Dobbiamo essere in tanti, solo così potremo partire». Il primo passo sarà dunque un appello al tesseramento. Una cosa del tipo: tutti quelli che chiedono un rinnovamento del partito battano un colpo adesso, mostrino di esserci. Vadano al circolo vicino e prendano la tessera.

In questo modo la candidatura di Marino e il sostegno di Civati e del gruppo del Lingotto assumerebbe due segni: il primo, quello di un obiettivo contributo al tesseramento che langue a quota 300 mila (qualcuno dice 400, non esistono dati ufficiali) e che rafforzerebbe la consistenza degli iscritti al Pd, cosa che a nessuno può dispiacere. Il secondo, quello di «contare» davvero la quota dei sostenitori del “terzo uomo” e di consentirgli di avere accesso al congresso, dove solo gli iscritti voteranno i candidati alla segreteria. Al congresso serve un numero minimo di consensi (un pacchetto di tessere) che in questo momento Marino e Civati non hanno, essendo entrambi estranei alle correnti che controllano e sollecitano il reclutamento. Chiamare al tesseramento chi altrimenti - nello scontro frontale fra Bersani e Franceschini, quello che Anna Finocchiaro definisce «una guerra ad eccessivo tasso di testosterone» - non avrebbe aderito al Pd è quindi la porta d’accesso di Marino al congresso e ad una sua successiva presenza alle primarie. E’ chiaro che poi, alle primarie appunto, la voce degli elettori può rovesciare l’esito del congresso. Siamo al primo passo. Marino e i quarantenni di Civati da una parte, i loro sostenitori dall’altra. Una settimana e sapremo quanti sono.


03 luglio 2009

da lastampa.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Come tra fratelli
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2009, 12:18:02 pm
03/07/2009 22:17

Come tra fratelli

Concita De Gregorio.


Dunque Ignazio Marino è sceso in campo. Un «terzo uomo» corre alla segreteria del Partito democratico accanto a Franceschini e a Bersani. È un outsider, non solo perché la sua storia professionale - è un chirurgo di fama internazionale - è ben più lunga e più ricca di quella politica. Lo è, soprattutto, perché la sua breve storia politica non affonda le radici nelle organizzazioni fondatrici.

È ancora presto per un bilancio, ma dai primi segnali non si può dire che la sua discesa in campo sia stata accolta con una standing ovation. Franco Marini, uno dei padri nobili del partito, ha manifestato con franchezza il timore che questo «terzo uomo» determini una radicalizzazione dello scontro interno. In generale tra gli ex popolari si è diffusa la preoccupazione che lo scienziato Ignazio Marino sposti l'asse culturale del Partito democratico sul tema della laicità facendone non una «condizione» ma un «contenuto» dell'agire politico (così Pier Luigi Castagnetti). Di certo la candidatura di Marino non avrebbe suscitato queste preoccupazioni (e forse non ci sarebbe nemmeno stata) se, per esempio, il Pd fosse stato in grado di assumere una posizione chiara sul tema del testamento biologico. Né se lo stesso Marino - nel pieno del caso di Eluana Englaro - non fosse stato sostituito come relatore di minoranza nella discussione della legge.
Dunque non c'è alcun dubbio che lo scontro interno possa radicalizzarsi. D'altra parte, in questi ultimi giorni - e Marino ancora non era candidato - abbiamo assistito ad asprezze dialettiche e anche a colpi bassi che già sono stati abbondantemente utilizzati ed enfatizzati dai telegiornali e dalla stampa di destra. La prospettiva di trascorrere così i quattro mesi che ci separano dal congresso fa rabbrividire. E, prima di ogni altra cosa, c'è da augurarsi che tutti - «giovan»i e «vecchi» - dedichino le loro energie al dibattito sui contenuti e sulle regole, anziché sulle persone. L'alternativa è, chiunque vinca, una vittoria amara e, in definitiva, il fallimento o la mutilazione del progetto.

Un primo passo in questa direzione costruttiva sarebbe leggere per intero il «manifesto» di Ignazio Marino. In particolare la parte finale: «Il fiume deve scorrere dentro gli argini e ogni persona per contare si deve iscrivere al Partito democratico e partecipare con il proprio voto alla fase congressuale, e scegliere il candidato». In altre condizioni sarebbe un'assoluta ovvietà. Un tale si candida alla segreteria di un partito e lancia un appello affinché la gente si iscriva. Ci mancherebbe altro. Se non fosse che, nello specifico del Partito democratico, quell'appello dice una banale verità. Dice che c'è una parte del Pd (dei suoi potenziali elettori, dei suoi potenziali futuri dirigenti) che ancora non ha trovato la porta d'ingresso. Ha un forte potenziale non simbolico a questo proposito il sostegno a Marino che viene da Pippo Civati e dei giovani del Lingotto.

E dunque apriamo, spalanchiamo, quella porta. E litighiamo, anche ferocemente, ma come si litiga tra fratelli. I nemici sono altrove.

Non possiamo permetterci di essere nemici di noi stessi.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO La guerra lercia
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 10:37:15 am
29/08/2009 22:07


La guerra lercia

Concita De Gregorio


Un assaggio della guerra che ci aspetta in autunno. Non sporca, lercia. La battaglia finale di un uomo malato, barricato nel delirio senile di onnipotenza che sta trascinando al collasso della democrazia un paese incapace di reagire: un uomo che ha comprato col denaro, nei decenni, cose e persone, magistrati, politici e giornalisti, che ha visto fiorire la sua impunità e i suoi affari dispensando come oppio l'illusione di un benessere collettivo mai realizzato. Dall'estero guardano all'Italia come un esempio di declino della democrazia, una dittatura plutocratica costruita a colpi di leggi su misura e di cavalli eletti senatori. Vent'anni di incultura televisiva - l'unico pane per milioni - hanno preparato il terreno. Demolita la scuola, la ricerca, il sapere. Distrutte l'etica e le regole. Alimentata la paura. Aggrediti i deboli.
È una povera Italia, un piccolo paese quello che assiste impotente all'assalto finale alle voci del dissenso condotto da un manipolo di body guard del premier armate di ministeri, di aziende e di giornali. L'ultimo assunto ha avuto il mandato di distruggere la reputazione del "nemico". Scovare tra le carte gentilmente messe a disposizione dei servizi segreti, controllati dal premier medesimo, dossier personali che raccontino di figli illegittimi e di amanti, di relazioni omosessuali, come se fosse interessante per qualcuno sapere cosa accade nella vita di un imprenditore, di un direttore di giornale, di un libero cittadino. Come se non ci fosse differenza tra il ruolo di un uomo pubblico, presidente del Consiglio, un uomo che del suo "romanzo popolare" di buon padre di famiglia ha fatto bandiera elettorale gabbando milioni di italiani e chi, finito di svolgere il suo lavoro, va a letto con chi vuole - maggiorenne, sì - in vacanza con chi crede. La battaglia d'autunno sarà questa: indurre gli italiani a pensare che non c'è differenza tra il sultano e i suoi sudditi, tra il caudillo e i suoi oppositori. Non è così: la parte sana di questo paese lo sa benissimo.
Un anno fa arrivavo in questo giornale scrivendo che avrei voluto diventasse "il nostro posto". Non immaginavo sarebbe stata una trincea di montagna. Mentre cresceva, l'Unità è stata oggetto di una campagna denigratoria portata avanti dal presidente del Consiglio e dai suoi alleati, da giornali compiacenti non solo - purtroppo - nel centrodestra. Anziché difendersi e reagire compatto il fronte dell'opposizione si è diviso in guerre fratricide. Mentre si alimentano i veleni e le calunnie su di noi i nostri lettori sono cresciuti, negli ultimi mesi, del 25 per cento, caso unico nel panorama editoriale. I cittadini ci sono: leggono, capiscono. Mentre l'aggressione diventava personale (scritte intimidatorie sotto casa, telefonate notturne, le nostre vite sotto scorta) ci venivano offerte da emissari dei poteri opachi videocassette e carte contenenti "le prove" di gesta erotiche dei nostri aggressori. Materiale schifoso, alcove filmate all'insaputa dei protagonisti. Naturalmente le abbiamo respinte. Il sesso tra adulti, di chi non lo baratti con seggi e presidenze, non ci interessa. Questo è quello che ci aspetta, però. Sappiatelo. Una guerra lercia.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO La ricetta dell'unita'
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:10:57 am
10/10/2009 22:24

La ricetta dell'unita'


Concita De Gregorio

Oggi il Pd va al congresso. Lo chiude, per meglio dire: la convenzione chiude il congresso che si è svolto nei circoli e proclama i candidati alle primarie: i tre che conoscete. È il primo atto di un processo che si concluderà con la scelta del leader dell'opposizione, cioè l'uomo (avremmo voluto poter scrivere «o la donna») che dovrà affrontare e possibilmente sconfiggere Silvio Berlusconi. Un passaggio fondamentale per il Paese. Ecco, diciamocelo: la tensione politica, l'attesa, l'aria che si respira, non corrisponde alla portata dell'evento. Di certo perché il complicato regolamento che il Pd si è dato sposta tutto alle primarie alle quali potranno partecipare tutti, iscritti e non. Forse perché, ancora, la dilagante per così dire personalità del presidente del Consiglio è riuscita a oscurare oltre che l'immagine del nostro paese nel mondo anche la nostra capacità di concentrarci, quando occorre, sugli obiettivi per il futuro. È il momento di farlo.

Seguiremo minuto per minuto i giorni che ci separano dal 25 ottobre: se le donne, tutte le donne che a migliaia hanno spedito ieri la nostra cartolina per il premier, le donne rassegnate e disilluse sapranno ribellarsi dipenderà soprattutto dal loro voto - come è accaduto nel recente passato - l'esito delle primarie e, di conseguenza, della capacità di portare l'opposizione al governo di questo Paese. Vi proponiamo con Pietro Spataro una sorta di guida, un vocabolario del Pd. Attenzione alla lettera U. Non solo perché la parola prescelta coincide con la testata del nostro giornale. Ma perché davvero oggi, davanti all'irresponsabile e violenta aggressività di chi governa, l'Unità è indispensabile. Non si può fare senza.

Ovvio, certo. Facile a dirsi. Eppure sul giornale di oggi proponiamo in qualche modo un metodo. È il trentesimo compleanno di Bobo, il personaggio di Sergio Staino che rappresenta le ambizioni, le frustrazioni, le speranze e le rabbie di ciascuno di noi. Bene. La prima notizia "unitaria" è che Bobo ha un mucchio di amici. È questa la «festa a sorpresa» che vi abbiamo annunciato ieri. I migliori scrittori satirici e vignettisti italiani tornano oggi o si affacciano per la prima volta sulle nostre pagine.
Bobo, col suo fare burbero e col suo candore ha avuto la capacità di farli ritrovare. Bobo con la sua fatica e i suoi sorrisi amari. Bobo che da trent'anni guarda il mondo sgombro da pregiudizi. A partire dai valori che lui - un personaggio immaginario - ha saputo mantenere più saldi di tanti personaggi reali che, tra l'altro, avrebbero il dovere istituzionale di farlo. Anche ieri pomeriggio Bobo prima di entrare nella sua vignetta qui accanto ha letto in anteprima il giornale che avete nelle mani: l'intervista in cui Tullio De Mauro, oggi che il Tar boccia il ministro Gelmini, spiega la «pandemia del lavoro precario» che da vent'anni ammala la scuola.

L'ironia con cui Goffredo Fofi racconta il proliferare consolatorio di festival della cultura. La piazza contro l'omofobia, i lavoratori dell'Innse che rientrano in fabbrica.

Ecco la ricetta per l'unità. Ed ecco anche la ricetta de l'Unità. Parlare chiaro. Parlare forte. Non avere paura delle proprie idee, né delle proprie paure.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Le ragioni del dissenso
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2009, 11:39:55 am
17/12/2009 22:36

Le ragioni del dissenso

Concita de Gregorio

Disturba se parliamo dell'Italia? Ora che il presidente del Consiglio è tornato a casa possiamo distogliere l'attenzione dai bollettini medici del San Raffaele, augurargli pronta guarigione e riprendere a dire quel che succede nelle nostre vite. Senza essere accusati di essere anti-italiani, mi auguro. Senza rischiare di finire nella lista dei cattivi, dei terroristi, dei mandanti morali solo perché - stando ai fatti, come ogni giornale dovrebbe fare, poi commentandoli - raccontiamo il terribile disagio di un numero crescente di cittadini. Sofferenza e a volte disperazione responsabili, quelle sì, di un clima esasperato che la sottovalutazione di chi governa - «povertà percepita», ricordate? «disfattisti, menagrami» - non fa che enfatizzare. In Parlamento ieri i dipendenti del ministero di Giustizia lamentavano di non avere gli strumenti per lavorare. Nei giorni precedenti hanno manifestato per strada i pompieri, i poliziotti, gli insegnanti, gli agricoltori, i ricercatori, la guardia di finanza, i lavoratori del pubblico impiego. La lista è lunghissima. Nel terzo trimestre dell'anno sono scomparsi 500 mila posti di lavoro. Mezzo milione di persone a casa senza stipendio. Sui tetti, sulle gru, sui moli, ai cancelli delle fabbriche ci sono in queste ore i lavoratori della Merloni, della Fiat di Pomigliano d'Arco, della Fincantieri, della Yamaha di Lesmo. I 49 pionieri della Innse hanno fatto scuola. In ogni città se alzate gli occhi vedete striscioni, cartelli. La flessibilità ha aumentato le differenze sociali, dice il rapporto sulle disuguaglianze economiche presentato ieri al Nens: il 10 per cento delle famiglie possiede la metà della ricchezza del Paese. La metà degli italiani ne possiede il 9,7 per cento. Una forbice sudamericana d'altri tempi, cifre da paese in via di sviluppo. In questo contesto il governo proroga fino al 30 aprile lo scudo fiscale concepito per far rientrare a prezzo di una mancia i denari di chi ha evaso le tasse nascondendo all'estero le sue ricchezze. Chi ha pagato regolarmente sta dentro quella metà di italiani che vive onestamente, spesso con poco o pochissimo. Chi non ha pagato sta in quel 10 per cento che vive disonestamente con molto o moltissimo. Siamo di nuovo al punto: non servono, in Italia, nuove leggi. Basterebbe applicare quelle che ci sono e controllare che siano rispettate, eventualmente punire chi non lo fa. Basterebbe volerlo. Basterebbe non essere della partita di chi evade.
All'origine del dissenso verso chi governa c'è normalmente una condizione materiale vissuta come ingiusta e diseguale. Il dissenso, la critica sono strumenti di espressione dati in democrazie a chi altri non ne ha. A chi non dispone di televisioni e di giornali, per esempio: ai cittadini. Quando Schifani dice che Facebook diffonde il terrorismo peggio che negli anni Settanta mette un'altra pietra all'edificio della censura, quella di cui Lukashenko, a cui Umberto De Giovannangeli dedica la seconda puntata sugli amici imbarazzanti del premier, è maestro. A Repubblica, ad Anno Zero ai colleghi del Fatto auguriamo di continuare a fare il loro lavoro con libertà. Ce lo auguriamo per noi, il vostro straordinario sostegno ci rafforza di giorno in giorno. Grazie.

da unita.it


Titolo: DE GREGORIO Virzì, ridare le parole alle cose negli anni dell'Italia perduta
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2010, 10:14:09 am
Virzì, ridare le parole alle cose negli anni dell'Italia perduta

di Concita De Gregorio


Non c'è niente di cui abbiamo più bisogno. Ridare un nome alle cose. Daccapo, rinominarle come quando dopo un'epidemia, una perdita di memoria collettiva arriva un superstite con le etichette e le attacca alle cose: tavolo, sedia, lampada, penna. Guardate: pen-na. Serve a scrivere. Ecco. In un tempo in cui davvero non sappiamo più di cosa parliamo quando parliamo d'amore (di Chiesa e di carità cristiana? di regole e diritto di famiglia? di politica per farci un partito?) Paolo Virzì ha fatto un film che riassegna un posto ai sentimenti: il loro posto.

Confuso eppure chiarissimo, scalcinato e indistruttibile, agrodolce, semplicissimo, definitivo, talmente piccolo da contenere una persona sola e così grande da farci entrare tutti. Un film che parla di vita mentre racconta la morte, di cose che funzionano al collasso, di bellezza inconsapevole, la bellezza senza silicone e senza restauri quella delle donne che «intrampolano» sui tacchi e scoppiano nei vestiti, che ridono e piangono ma mai in favore di telecamera, sempre e solo per sé, quella dei palazzi quadrati in una città di vento, dei giardinetti spelacchiati e dei tinelli con la specchiera dove i bimbi crescono di quello che c'è, pazienza se è poco.

Un posto qualunque che però è un posto preciso e vero invece, è Livorno: la più anonima e scalcagnata delle città, la più brutta di Toscana - «cosa c'ha che non ti piace Livorno?». «Tutto» - e invece liquida e lucida nelle notti sui Fossi, ariosa dei giorni, una città che è un posto di transito dove tutto passa e tutto in qualche storto modo resta e a chi ci vive sembra sempre di ballare. Di fare il bagno al mare, «che fa tanto bene».

Mentre la politica avvilisce, il Paese imbruttisce, i sentimenti collettivi intorpidiscono e la direzione di marcia (dove si va, con chi, chi guida?) è così vaga che è meglio non pensarci e andare al bar a far colazione col cornetto esce "La prima cosa bella", l'ultimo film di quello che i critici indicano come il vero erede della grande tradizione della commedia all'italiana, il regista che ci ha raccontato gli scontri di classe quel che resta della borghesia gli operai di provincia la chimera del successo tv la paranoia macabra dei call centre. E dunque cosa fa oggi Virzì, in questa landa desolata? Un film di denuncia, un film sulla politica del malaffare e delle leghe, un film sulla crisi economica? Nemmeno per sogno. Fa (con Francesco Bruni, coautore di sempre, e con Francesco Piccolo) l'unica cosa che abbia senso: fa reset, come col computer.

Daccapo. Ricominciamo da capo. Una storia vera e semplicissima che comincia negli anni Settanta e arriva a stamattina, parte dalla Castiglioncello di Dino Risi e Mastroianni e ci torna adesso, sul lungomare di libeccio dove sono rimaste solo le tamerici e i cavalloni, quelli uguali. Dice: mare, desiderio, vergogna, paura, bellezza, morte, zucchero, fratelli. Ci mette l'etichetta. Una mamma bellissima che ti rovina la vita e te la riempie, un padre che di suo ci mette le botte della gelosia, due bambini da tirarsi dietro scappando sempre per mano, sempre cantanto, via bimbi si canta? Non è nulla, cantiamo.

Stefania Sandrelli così brava non l'avete vista mai: a letto nell'hospice un momento prima di morire che fa ridere e innamora, che scappa per andare al cinema e al figlio quarantenne dice ti serve nulla amore? Mutande, calzini?, poi mangia lo zucchero filato. Michela Ramazzotti, la madre da giovane, è un fiore selvatico una tromba d'aria al largo dell'Elba, uno spettacolo della natura che uno la guarda e dice: da dove viene, a chi somiglia? I due fratelli, Claudia Pandolfi e Valerio Mastrandrea, sono bravi da sembrare veri: belli mentre sono brutti, pieni di dispetto nell'amore e di segreti facili da riconoscere anche per chi non li nomina mai, i segreti di ciascuno.

Tutti gli attori sono diretti così da risultare tagliati al millimetro, Dario Ballantini e Marco Messeri, i livornesi: il giornalista lacchè col parrucchino Emanuele Barresi, il vicesindaco Giorgio Algranti, la professoressa di liceo Lucilla Serchi. Alcuni di loro sono davvero questo nella vita. Una professoressa, una cassiera del cinema, un medico di cure palliative, un regista, un portuale. I costumi, di Ella Pescucci, un capolavoro dell’anima: dev’essere stato bello per una superstar come lei tornare sul lungomare di Rosignano da dove è partita.

Così quando il film finisce si canta "la prima cosa bella" per una settimana, ci si sente che anche quando va male si può sempre dire «però ci siamo tanto divertiti», si pensa che bisognerebbe ritelefonare alla zia Lina e tornare a casa, ogni tanto. La casa di quando eravamo bambini. Perché non ha proprio senso arrendersi, mai. Né davanti alla chemio né davanti al fallimento di un progetto né davanti alla vita quando il mondo fuori è quello che è, dove niente è più al suo posto e non si sa come farcelo tornare. Ecco come: ricominciando da dove siamo partiti, dal nostro posto, prendendo i bimbi per mano e attraversando la strada di notte, non importa se è buio e se fa vento. La luce è dentro, basta accenderla.

11 gennaio 2010
da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO «Sanità pubblica non è ufficio di collocamento»
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:51:34 am
«Sanità pubblica non è ufficio di collocamento»

di Concita De Gregorio

La sanità pubblica non è un ufficio di collocamento per il personale politico né un bacino di denaro per il mondo degli affari: esiste in funzione dei cittadini, della loro salute. Se i medici e i dirigenti sono reclutati con criteri che prescindono dal merito è molto probabile che non siano bravi medici né bravi dirigenti: la qual cosa può essere un problema giudiziario, è certo un problema politico ma prima di tutto è un problema di tutti gli italiani che saranno curati peggio di come potrebbero. Questo dice Ignazio Marino alla fine di una giornata passata a ripetere che non è solito pensare ai complotti, che non crede ce ne sia stato uno ai suoi danni, che con Bersani presenterà a febbraio il suo progetto di riforma sui criteri di nomina di direttori generali e primari e che questo deve diventare un punto qualificante della politica del Pd perché certo che c’è un problema, un problema molto serio, ed è l’intreccio fra sanità politica e affari che induce i nostri uomini migliori ad andarsene dall’Italia e che rende la vita molto difficile a quelli, di valore, che restano.

Senatore Marino, cos’è successo col Sant’Orsola di Bologna? Può ripeterci quel che ha testimoniato in procura a dicembre?
«Sono stato sentito ed ho portato le mail che ho qui. Il carteggio col direttore generale Augusto Cavina. Nella primavera del 2009 avevo ricevuto un’offerta dal Sant’Orsola per andare ad operare da loro. A giugno ho avuto una proposta di contratto molto dettagliata: una volta alla settimana, il lunedì mattina, nessun compenso dovuto in caso di prestazioni in regime di libera professione ed altre specifiche. Nello stesso periodo ho deciso di candidarmi alle primarie, sono stato preso da altri impegni e ho tenuto il contratto nel cassetto. A metà agosto ho scritto al direttore scusandomi per il ritardo e dicendomi pronto a firmare. Mi ha risposto il giorno stesso: lavori di ristrutturazione alle sale chirurgiche consigliavano di soprassedere fino a ristrutturazione avvenuta. Ho chiesto quando sarebbe avvenuta la ristrutturazione, mi ha risposto: nell’autunno del 2010. Ho capito, ho risposto cordiali saluti. Mi sono preoccupato a quel punto di trovare un altro luogo dove operare i miei pazienti».

Nelle intercettazioni si legge che in un colloquio il direttore le avrebbe parlato di ragioni politiche.
«Non abbiamo mai avuto colloqui dopo la proposta di contratto, solo scambi via mail. Non mi ha mai parlato di politica».

Cosa pensa che sia successo fra giugno e agosto?
«Ho parlato con Bersani. Non ho mai neppure pensato che un uomo dei suo calibro possa immaginare di impedire ad un medico di operare malati di cancro al fegato, è assolutamente fuori discussione. Non è così. Presenteremo insieme il mio ddl nei prossimi giorni».

Dunque crede che in autonomia i dirigenti sanitari emiliani abbiano cambiato idea? Nel caso: perché?
«Hanno cambiato idea. Sul perché non ho una risposta».

Cosa dice il suo ddl?
«Che i direttori sanitari devono essere nominati sulla base dei titoli, scelti da un albo a cui devono iscriversi. Oggi hanno 18 mesi di tempo per dimostrare che hanno i requisiti. Dovranno mostrarli prima. Dice poi che i primari devono essere selezionati da una commissione di 4 loro colleghi estratti a sorte fra un elenco di specialisti della stessa disciplina che lavorano in altre regioni. Oggi il direttore generale propone una rosa di tre nomi, poi la politica sceglie».

Le è mai capitato da quando è in politica di avere pressioni?
«Al principio mi chiedevano appuntamento persone che avevano in corso un concorso per primario, mi manifestavano simpatia politica e chiedevano appoggio. Ho preparato una lettera standard da indirizzare ai dirigenti: “Vi chiedo, sulla base della verifica dei titoli e dello stato di servizio, di scegliere il migliore”. Dopo qualche tempo non ho avuto più richieste di appuntamento».

21 gennaio 2010
da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Umiliati gli onesti
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2010, 08:50:56 am
06/03/2010 22:08

Umiliati gli onesti

Concita De Gregorio


Il partito del fare e del malaffare, del fare un po' come gli pare - dell'abuso e del condono, del sopruso e del perdono, della cricca che sono - ha digrignato i denti e sfoderato braccia tese, ha minacciato mostrando la bava, «non ci fermeremo davanti a niente», poi ha fatto la voce sottile e il pianto da vittima quando del danno era artefice. Ha infine preteso, battendo i pugni, di cambiare le regole in corsa. Prima della Costituzione (articolo 72, nessun decreto in materia elettorale) ha infranto, gettandolo a terra tra risa di disprezzo, quel che resta del senso dello Stato. Ha insultato milioni di persone per bene che vivono ogni giorno nel rispetto delle regole pagandone il prezzo. Li ha - ci ha - resi ridicoli, sudditi a capo chino di un tiranno. Costoro, le persone per bene, sono furibonde ed hanno ragione: chi sta in fila a affoga tra le carte per un permesso di soggiorno, un'iscrizione a scuola, un concorso, un bollo scaduto, il rinnovo di un contratto, una concessione edilizia avrà da oggi la possibilità di sanare per decreto irregolarità burocratiche e ritardi? Certo che no. Eppure ciascuna di queste regole da rispettare corrisponde ad un diritto. Il diritto alla cittadinanza, all'istruzione, al lavoro, alla casa. Si potrà dire, da domani, che dovendo scegliere tra un ritardo nell'iscrizione a scuola e il diritto ad andarci prevale il secondo? No. Chi ritarda di mezz'ora sarà escluso. L'elasticità vale solo per chi può imporla con l'abuso. Dunque gli italiani onesti sono furenti: se fosse accaduto alla sinistra avremmo avuto un decreto del governo? Difficile. Pagheranno una multa i ritardatari come si paga la mora sulle bollette? Non sembra proprio. La regola vale per il deboli, l'arbitrio per i forti. Forse Milioni quello del panino è stato radiato dal Pdl per manifesta incompetenza? No, lo si è visto anzi in queste notti dalle parti di Palazzo Chigi. Dunque era un disegno, l'ennesima furbizia per alzare fumo? Che triste giorno, il 5 marzo. Un nuovo 8 settembre, scriveva ieri Alfredo Reichlin. «Fino a che punto siamo consapevoli che l'Italia è arrivata all'appuntamento con la storia?». Ecco, lo siamo?
Il presidente della Repubblica ha agito, si deduce dalle sue parole, secondo la logica del male minore: tra i due beni - il rispetto delle norme e il diritto dei cittadini a votare - ha scelto il secondo. Una scelta di quelle in cui si perde comunque. L'astuta truffa - il quesito del premier - era questo: o la democrazia o la legge. Ma la democrazia e la legge sono la stessa cosa, solo la banda di governo crede di no. Napolitano ha agito anche per timore delle conseguenze possibili: chiede che «tutti si rendano conto» dell'acuirsi di tensioni «non solo politiche ma istituzionali». Abbiamo titolato, l'altroieri, «Gulp di stato». Oggi possiamo dirlo in chiaro: colpo di stato, è questo il pericolo. Siamo sull'orlo e adesso tocca a noi. Spiazziamoli. Non sbagliamo la mira. Non cadiamo nel tranello, di nuovo, di assegnare ad altri - peggio che mai ad uno solo - compiti, colpe, responsabilità. La storia è nelle nostre mani e si cambia in un solo modo: non coi decreti ma col voto. Spiazziamoli, sì. Scendiamo in piazza e saremo noi a umiliarli: col voto delle persone oneste. Sono o no la maggioranza del Paese, annidate in tutti i partiti? Vediamo. Contiamole.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO «Lavori in corso», apriamo il cantiere della sinistra
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2010, 12:15:33 am
«Lavori in corso», apriamo il cantiere della sinistra

di Concita De Gregorio


Da dove cominciamo, Nadia Urbinati, a parlare del risultato elettorale e dello stato della sinistra in Italia? Dal Partito democratico? Dal cantiere dei lavori fatti e da fare, dall'analisi degli errori e dalle fondamenta di una nuova proposta? Cominciamo dal successo di Vendola, da Grillo?
«Cominciamo dall'Emilia».

Risponde così Nadia Urbinati: c'è bisogno di una discussione larga, ampia, franca e senza paura. Un dibattito come quello che si è sviluppato in questi giorni anche sulle colonne del nostro giornale e soprattutto nel web, migliaia di lettori ci hanno scritto per raccontarci quel che vedono, quel che sperano, quello in cui credono e in cui non credono più. Apriamo davvero il cantiere delle idee, dice la docente della Columbia, appassionata studiosa di politica. Però facciamolo a partire dalla realtà: lasciamo che l'insegnamento ci venga dai fatti.

Dunque l'Emilia, dove da poco è tornata a vivere. «Perchè in queste settimane, da quando sono rientrata in Italia, ho visto nei miei paesi qualcosa che non avevo visto mai. L'Emilia sarà la prossima regione a diventare leghista se non ci sarà un cambio radicale e profondo. In larga parte lo è già. Vedo i militanti della Lega girare per le piazze dei paesi con le roulotte e i camioncini, fermarsi a fare comizi di fronte a sei persone. Senza telecamere, senza microfoni. Senza media al seguito. Li sento scandire parole d'ordine semplici che fanno presa. Vedo le persone a me vicine cambiare. L'Emilia oggi è la frontiera più avanzata, o più arretrata. È Little Big Horne. La Lega ha capito molto bene che è questa la sfida più grande. La rivincita. Il vecchio desiderio democristiano. Quel che non si è tinto di bianco oggi si sta tingendo di verde. I leghisti hanno la capacità di farlo. Hanno militanti che credono, non che dubitano e discutono. Fanno turni, lavorano in modo sistematico, casa per casa. Il modello americano è questo: casa per casa. Non bastano le cene elettorali, quelle sono ad un altro livello. Nelle piazze dell'Emilia profonda il Pd non c'è. A Ferrara ho visto le navette che portano al centro commerciale. Nei paesi sono tutti chiusi dentro le case, con le loro parabole per vedere la tv. E' il Midwest: è qui che si vince o si perde».

«A partire dal linguaggio, sì. Ma dietro il linguaggio ci deve essere un ordine del discorso. Devi prima sapere cosa vuoi poi dire cosa pensi. Farlo in modo chiaro. Parole semplici e narrativa ricca. A Carpi, a Sassuolo. C'è la crisi della ceramica. Ha la sinistra una politica di riconversione industriale da proporre? Le donne della Omsa, senza lavoro perchè la manodopera all'estero costa meno. La risposta non può essere la cassa integrazione per mesi, per anni. Ci vuole un progetto. Quegli impianti devono restare qui, qualcuno sa dire come?
La Lega dice che i neri - gli stranieri - portano via il lavoro. In queste zone è un'affermazione che somiglia alla realtà. Quando il lavoro non c'è la competizione è fra chi resta escluso e chi entra in assenza di regole. Sappiamo dare una risposta?»

«A Modena - continua Nadia Urbinati - ho visto favolose piste ciclabili. Non basta. Ho visto nascere come funghi grandi centri commerciali fatti per dare ossigeno alle coop edili. Hai dato lavoro per qualche tempo agli edili, ma hai finito per portare la gente nei luoghi del berlusconismo. Dentro casa davanti alla tv durante la settimana, al centro commerciale nel week end. L'integrazione con le comunità immigrate non è avvenuta. Ciascuno vive nel proprio ghetto. I bambini vanno insieme a scuola, e cosa fanno dopo? Niente che li porti in un futuro diverso dal passato: rientrano nelle loro comunità di origine, gli adulti si chiudono e si difendono gli uni dagli altri. Sta nascendo un'altra società e la sinistra non ne è consapevole, non sembra esserlo, se lo è è impotente».

«Proviamo in Emilia a ricostruire le sezioni di partito. Non i circoli che si riuniscono una volta al mese, per il resto deserti, nel migliore dei casi i militanti si parlano sul web. È la presenza sul territorio che manca, i giovani hanno bisogno di fare qualcosa, lo chiedono: domandano cosa possiamo fare, dove possiamo andare? Non c'è un luogo. Alle feste dell'Unità la maggioranza è fatta di anziani.
È a questo livello che bisogna ricostruire a partire dai nostri principi, i nostri valori: il buon governo, la legge uguale per tutti, la Costituzione, la crescita di una comunità solidale».

«Il Pd è nato distruggendo i partiti alla sua sinistra. Una parte della sinistra non si riconosce in quel partito, né può farlo.
Ma il modello arcipelago è fondamentale. Se non ti federi con i partiti a te vicini quelli se ne vanno. Gli elettori con loro.
La scelta strutturale di guardare al centro ha conseguenze visibili. Gli elettori che non si riconoscono in questo Pd guardano a Di Pietro, poi a Grillo. Oppure si astengono. È una catena di delusioni progressive. Poi, certo, se guardo ai risultati dei partiti alla sinistra del Pd osservo che l'utopia è parte della politica, e la protesta è necessaria. Serve se è finalizzata a un risultato, se no può diventare dannosa per tutti. Si può stare vicini senza essere identici. Bisogna ascoltare chi protesta, provare a comprendere e non snobbare.
Lo stimolo critico deve essere espresso, ce n'è bisogno. Nader ha determinato la sconfitta di Gore, ma è stato perché la politica di Gore non era abbastanza convincente».

«Il grande problema è avere una classe dirigente solo istituzionale, parlamentare. Sarebbe una buona cosa che il leader dello schieramento non fosse un uomo delle istituzioni. Chi è nella condizione di difendere la sua posizione non è fino in fondo libero. Vivere di politica significa che non si può vivere per la politica. È Weber. Ci vogliono personalità libere di progettare un disegno comune fuori dagli schemi delle convenienze e delle appartenenze. Sarà chi saprà trovare un minimo comune denominatore alle forze della sinistra colui che saprà renderla forte abbastanza da consentirle di governare il Paese».

«Sì, c'è anche una questione di leadership. Dobbiamo consentire di far crescere un'altra generazione, non usarla solo come simbolo senza dargli potere. Se no è il rapporto che c'è tra genitori e figli: i genitori hanno la borsa, tengono i cordoni. I figli hanno bisogno del loro conto in banca. Non hanno lavoro, non hanno autonomia, non hanno peso».

«Berlusconi occuperà anche il web. Ha grande istinto, è capace di arrivare alla gente. Per il Pd il web è burocrazia, un lavoro come il resto. Non rispondono. Io lo uso a volte. Non mi rispondono. Non vedono, non capiscono. Obama ha vinto le elezioni grazie alla rete.
Un dollaro a testa, in milioni e milioni lo hanno finanziato. Qui vai a cene elettorali dove paghi cento euro e il leader non viene. Certo bisogna fare le due cose: ma farle bene, entrambe».

«Infine direi solo: bisogna andare a riprendere le persone e tirarle fuori da casa, dar loro qualcosa di più interessante della tv. Berlusconi ha costruito il suo potere isolando gli italiani davanti alle sue tv. Ma la Lega non ha tv, usa il modello del Pci di antica memoria. Uno stile premoderno, il camioncino e il megafono, bussano e ti compilano i moduli, ti aiutano a risolvere i problemi minimi che per le persone sono fondamentali. Noi non facciamo né l'uno né l'altro. Vogliamo cominciare a parlarne?».

04 aprile 2010
da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Il Falcon e Ipazia
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2010, 03:11:42 pm
20/04/2010 22:41

Il Falcon e Ipazia

Due parole sul sobrio titolo del giornale di casa Berlusconi, edizione di ieri: «Non ringraziano chi gli salva la pelle. I tre operatori sanitari rifiutano il volo di Stato», tema svolto dal direttore di quel quotidiano in assoluto disprezzo della realtà, come del resto sovente gli capita salvo poi chiedere scusa, in qualche raro caso, nella pagina delle lettere. Parliamo dei tre operatori di Emergency trattati dalla stampa di destra come terroristi e non ancora rientrati in patria. Come chiunque abbia fonti giornalistiche alla Farnesina sa, e di certo il Giornale ha facile accesso ai collaboratori del ministro Frattini, una delle condizioni poste dal governo di Karzai per la liberazione dei tre era che non «rientrassero da eroi». Che non ci fossero particolari cerimonie al loro arrivo, accoglienza solenne in aeroporto. Che non volassero su aerei di Stato: un rientro discreto, meglio se con tappa intermedia, meglio ancora se separati. La Farnesina, a dispetto dell'atteggiamento a dir poco prudente del ministro, si è attivata difatti fin dal primo giorno per le trattative, due inviati sono stati mandati immediatamente sul posto, quasi subito hanno saputo e riferito come non ci fossero capi d'accusa corroborati da prove di alcun tipo contro i tre operatori sanitari. Alcuni altissimi esponenti del ministero si sono messi in moto, rientrando se del caso anche dalle loro sedi estere, per porre rimedio alle improvvide parole di Frattini («Prego Iddio che siano innocenti») che nel linguaggio della diplomazia suonavano come una presa di distanza e hanno collaborato a mitigare i toni, a scrivere i testi successivi del ministro, a tenere i contatti con il governo di Karzai. Dunque, la trattiva si è conclusa ad alcune condizioni tra cui quella di cui sopra. L'inviato della Farnesina Massimo Iannucci lo sapeva benissimo e si è adoperato in questo senso. Non lo sapeva, evidentemente, il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, inviato sul posto da La Russa, che ha "offerto" il passaggio sul Falcon dell'Aeronautica. Difetto di comunicazione fra ministeri? Rivalità fra ministri? Occasione creata ad arte per gettare altro discredito su Emergency? Difficile scegliere l'ipotesi peggiore. La verità per una volta è facile da accertare, certo per chi non sia in mala fede. I tre operatori sanitari non sono stati accusati di alcun reato, dunque sono stati ingiustamente detenuti. Chi è andato a riprenderti ha trattato su condizioni che ha poi rispettato. L'ospedale è stato sottratto al controllo di Emergency, è lecito il sospetto che fosse questo l'obiettivo. Inoltre per la prima volta si parla in documenti ufficiali di interessi nell'aera legati al traffico di droghe. La presunta connivenza coi talebani, l'esserne "oggettivamente complici" per il fatto di curare anche i loro figli - come se medici e militari avessero la stessa missione - oltre che essere tesi che qualifica chi la sostiene risulta in questo caso fuori tema. La partita era un'altra.

P.s.: è nelle sale Agorà, il film che narra la storia di Ipazia - matematica, astronoma e filosofa - lapidata dai cristiani nel 415 dopo Cristo. A decretarne la morte il vescovo Cirillo: una donna, secondo le scritture, non aveva diritto di parola pubblica.

Le cavarono gli occhi, fu fatta a pezzi. Andate a vederlo, se potete.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Te lo dico in faccia
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2010, 11:33:05 am
22/04/2010 21:58

Concita De Gregorio

Te lo dico in faccia

Segnatevi questa data perché l'era del superuomo è finita. Certo ci vorrà tempo, mesi forse anni perché il naturale dibattito interno di un partito diventi veleno che lo corrode e lo sfinisce come è accaduto, appunto negli anni, ai partiti che abbiamo conosciuto prima dell'avvento del messia, fossero di destra di centro o di sinistra. Ci vorrà tempo, quello del Pdl si conta da ieri. Il centralismo carismatico su cui è stato costruito a prezzo del sacrificio della destra di Fini - e per buone ragioni, ragioni di marketing elettorale e di posti di potere - ha conosciuto un affronto finora impensabile: come nella fiaba del bambino e del re in mutande. Osanna al re, e nella folla una voce che dice: ma è nudo. A Berlusconi non deve essere mai successo niente di simile, di certo non in pubblico. Il mito del sole in tasca, del venditore fortunato, dell'uomo dei miracoli adorato dalle genti non contempla possibilità di critica. Nessuno fra i suoi ha mai saputo o potuto dire forte: imbrogli, sbagli, menti. Non conveniva. Ha detto ieri Fini: lo facevano solo sottovoce e quando voltava le spalle. L'unica è stata la moglie, ma quella è una vicenda privata e abbiamo visto comunque quanto feroce sia stata e sia ancora l'ira del sovrano e la vendetta: umiliata, ritratta nuda come "velina ingrata" e fatta inseguire dai giornali di famiglia fin nelle isole ad aprile deserte. Ora è Fini, però, che si alza e lo indica col dito dalla platea sbalordita (impagabile la faccia del fido Bonaiuti seduto accanto) e gli si rivolge chiamandolo per cognome: «Berlusconi, te lo dico in faccia». L'elenco di quel dirà è incompleto e sommario, date le circostanze. Tu sai bene come sono andate le cose nelle presentazione delle liste a Roma. I giornalisti "lautamente pagati da tuoi parenti stretti" mi danno la caccia perché dico quello che penso, mi trattano da traditore. Berlusconi è sotto choc. Lo vedete qui come non l'avete visto mai: prende il microfono e strilla tu non sei venuto in piazza San Giovanni, tu non puoi parlare così sei il presidente della Camera. Sottinteso, ma neanche tanto: io te l'ho data e io te la tolgo. Sei roba mia anche tu. Ecco, questo hanno visto ieri milioni di italiani. L'inizio del tramonto del Re Sole. La prima ombra, per le conseguenze vedremo. Potrà comprare i finiani uno ad uno, come ha promesso, ma d'ora in avanti sarà in pubblico. E poi l'esito non dipenderà solo da Fini. Tutto il mondo politico, sinistra compresa, si muove da oggi in uno scenario nuovo. Un'ottima occasione per battere un colpo, volendo anche due.
P.s. Vi diciamo oggi chi sono nove delle famiglie che non hanno pagato la retta per la mensa dei figli, ad Adro. Leghisti e destra si sono sgolati a dire chi non ha soldi non pretenda di mangiare, troppo comodo sperare nei benefattori. Famiglia numero uno: operaio in Cig, coniuge disoccupata, 4 figli (8,4,3 anni e 8 mesi), reddito 2009 tremila euro, affitto mensile 400. Così fino alla nona. Si potrebbe ora sostenere che chi non ha lavoro è meglio che i figli non li faccia. Lo diranno, vedrete. L'unico problema sarà distribuire anticoncezionali alle famiglie operaie: la Chiesa potrebbe ritenerlo contrario alle scritture. Immorale, il preservativo. Per i bambini senza pranzo invece tutto ok. Governo Adro.

da unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO La P2 e il ddl intercettazioni
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 10:41:56 pm

La P2 e il ddl intercettazioni

di Concita De Gregorio

Qualche sera fa, in via Veneto, entrava Edward Luttwak all’hotel Flora, usciva Licio Gelli dall’Excelsior. Il Flora era il quartier generale tedesco negli anni di guerra. L’Excelsior, in anni più recenti, teatro di un’altra guerra, silenziosa e lunga. Una guerra di cospirazione. Le due auto blu si sono incrociate. Gelli, 91 anni compiuti ad aprile, scende a Roma molto più di rado. Non tutti i mercoledì come era solito fare. Ha qualche piccolo problema di salute, spiega uno dei tre intermediari che tra Pistoia, Arezzo e Montecatini occorre interpellare in sequenza per avere notizie dello «zio», così vogliono lo si chiami al telefono, mai nomi al telefono, si sa. Riceve a villa Wanda, si spinge a Roma «solo per questioni delicatissime e urgenti di massimo livello».

Quale possa essere stata la questione delicatissima e urgente di queste settimane, le cronache dominate dalla cricca di Anemone e dall’urgenza che il presidente del Consiglio avverte per una legge bavaglio che ammutolisca giornali e tg, si può chiedere, ma non è lecito sapere. «Che domanda impertinente». La stessa risposta che Licio Gelli mi dette sette anni fa, quando il 28 settembre andai a intervistarlo a villa Wanda. Sente ancora Silvio Berlusconi, lo vede? «Che domanda impertinente». In quella lunga conversazione mi disse cose che a ripensarci oggi - la privacy, il ddl sulle intercettazioni - conservano un loro interesse: il suo Piano di Rinascita democratica diceva che era necessario redigere «una nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino, sul modello inglese». La privacy. Disse: «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa». Ancora dal Piano di Rinascita della Loggia massonica P2, Silvio Berlusconi aveva la tessera numero 1816. «Qualora le circostanze permettessero di contare sull’ascesa al governo di un uomo politico (o di una equipe) già in sintonia con lo spirito del club è chiaro che i tempi di procedimento riceverebbero una forte accelerazione». Le circostanze lo permettono. Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del Paese. Non solo alla guida suprema. È nei gangli vitali delle burocrazie, nelle segreterie felpate, nei ministeri, nelle anticamere. È un club, come lo definiva Gelli, i cui nomi fanno capolino di continuo tra le carte delle inchieste sulla corruzione, nomi a volte anonimi per il grande pubblico ma notissimi, invece, tra chi conta.

Martedì scorso a «Ballarò» Antonio Di Pietro, reduce da Firenze dove era stato sentito dai magistrati come testimone, ha risposto alla domanda «che cosa le hanno chiesto, lei cosa ha detto». «Non posso dire cosa ho detto, ma molte sarebbero le domande da farsi. Per esempio chiediamoci cosa ci fa Bisignani a palazzo Grazioli». Cosa ci fa? Ha domandato il conduttore, Floris. «Eh, cosa ci fa...». Luigi Bisignani, grande esperto della storia della P2.

Dunque i palazzi sono ancora questi, la storia non si capisce se non si riparte da lì. Per dirlo con le parole del Venerabile maestro: «Se le radici sono buone la pianta germoglia». Ha germogliato.

Brevi estratti dal Piano di Rinascita, che magari chi ha meno di trent’anni non lo ricorda o non l’ha letto mai. A proposito di stampa e tv. «Acquisire 2 o 3 giornalisti per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio o meglio a catena da non più di 3 o 4 elementi che conoscano l’ambiente». Le gratifiche economiche adeguate. «Dissolvere la Rai tv», «abolire il monopolio Rai». Fin qui, ha germogliato. Punto centrale: «Controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese». La prosa non è delle più felici ma il senso preciso: la pubblica opinione media, la massa dei cittadini. Nel vivo del paese: un controllo capillare. Addomesticare la pubblica opinione attraverso le tv. Procedere di seguito ad «alcuni ritocchi alla Costituzione».

Anche sui ritocchi ci siamo
Lavorare a dividere il sindacato, disarticolare la magistratura: questa è la parte più corposa del piano. Anche quella più meticolosamente perseguita. Sarebbe interessante fermarsi su altri dettagli: la «legislazione che subordini il diritto di residenza alla dimostrazione di possedere un posto di lavoro e un reddito sufficiente», per esempio, di cui Bossi è oggi paladino. Bossi, di cui Gelli dice: «Si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato molti parlamentari, è stato bravo. Ma aveva molti debiti...». La stampa, per finire. «Nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino sul modello inglese (oggi diciamo privacy). Obbligo di pubblicare ogni anno bilanci e retribuzioni. Abolire tutte le provvidenze agevolative».

Creare un’Agenzia centrale che controlli le notizie locali. Acquisire alcuni settimanali da battaglia, settimanali popolari. Oggi diremmo rotocalchi. Quelli che vendono migliaia di copie e si trovano nelle sale d’attesa dal dentista, dal pediatra, dal barbiere: quelli che arrivano più lontano dei settimanali d’inchiesta, del resto - con le nuove leggi sulla privacy o dignità del cittadino che dir si voglia - destinati a scomparire. Di Berlusconi, quel giorno di sette anni fa, Gelli mi disse: «Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c’è bisogno in Italia: non di parole, di azioni». Della corruzione, delle tangenti, degli appalti e delle cricche: «In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima, molto più di prima?».

23 maggio 2010

http://www.unita.it/news/italia/99054/la_p_e_il_ddl_intercettazioni


Titolo: Concita DE GREGORIO Louise Bourgeois la più bella che si sia mai vista
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2010, 12:06:47 pm
La più bella che si sia mai vista

di Concita De Gregorio

Louise Bourgeois Regalava agli amici degli specchi, quasi sempre rotondi. «Nella vita ci sono molte realtà, come quelle che restituisce uno specchio.

Bisogna accettare che la gente non vede quello che voi vedete.

Ciascuno vede una cosa diversa, guarda nello specchio e vede se stesso come vuole che sia: fa paura ma bisogna accettarlo».

Alla morte della madre cercò di uccidersi gettandosi in un fiume: «Era intelligente paziente opportuna utile e ragionevole. Era indispensabile, come un ragno». Per molti anni ha scolpito ragni enormi.
I ragni riparano la tela dove si rompe, ricominciano sempre da capo. Come le donne fanno, come lei e sua madre facevano: riparavano arazzi.

Ha sofferto tutta la vita d’insonnia, l’ha dipinta. «Rivendico il diritto di essere infelice. Rompo tutto quello che tocco, sono violenta. Distruggo i miei amici i miei amori i miei figli. Rompo le cose perché ho paura e passo il tempo a ripararle». È stata distrutta dal padre e lo ha distrutto. Ha amato molti uomini, male. Ha scolpito per anni i loro sessi enormi. «La mia bambina, fillette», aveva intitolato il più famoso. «Ci innamoriamo sempre di coloro che temiamo, così provochiamo un cortocircuito alla paura e non la sentiamo più».

L’arte è una garanzia di salute mentale, s’intitola una sua opera: «Terminata la scultura sento che ho eliminato l’ansia. Combattere la paura non è tutto, anche in assenza di paura il pericolo persiste. Quello che mi interessa non è scappare, è restare. La conquista della paura. Confrontarsi, vergognarsi tremare alla fine avere paura della paura stessa. Questo è il mio tema. Questo, credo, è il tema». Louise era minuscola e gentile con un’anima di fil di ferro. Cantava ninne nanne straordinarie con voce roca. Sorrideva con gli occhi, con le rughe del volto. Aveva le mani fredde, i gesti svelti. Non aveva paura, alla fine, più di niente. Era un essere umano straordinario.

Una donna, per giunta. La più bella che si sia vista mai.

31 maggio 2010
http://www.unita.it/news/culture/99422/la_pi_bella_che_si_sia_mai_vista


Titolo: Concita DE GREGORIO Eugenetica padana
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2010, 10:19:12 am
07/06/2010 22:18

Eugenetica padana

Concita De Gregorio

L'incredibile storia che vi raccontiamo oggi ha il pregio, se è lecito usare la parola pregio in una vicenda che non ne contempla alcuno, di chiarire esattamente in cosa consista, nella pratica, quel mix di egoismo, brutalità, cinismo e disprezzo delle povertà in qualunque forma si manifestino che va sotto il nome di leghismo. Siamo nella Regione Veneto, si parla di trapianti di organi. L'assessore alla Sanità, fieramente padano, scrive le linee guida a cui i medici delle strutture regionali dovranno attenersi. Non si dovranno trapiantare organi, scrive nero su bianco, a quelle persone che abbiano un quoziente intellettivo al di sotto del punteggio 50. Nemmeno a chi abbia di recente tentato il suicidio. Anche in questo caso non ne vale la pena. Perché la comunità dovrebbe dare un fegato a uno che ha cercato di uccidersi? E se lo fa un'altra volta? È uno spreco. Perché bisognerebbe dare un rene a una persona down, a un ragazzino con un deficit dell'intelligenza? Perché lo chiede sua madre? Ma andiamo, su.

Basta con questi buonismi pietosi. Si trapianta qualcuno che valga la pena trapiantare: i malati potenzialmente sani. I malati cronici no. Un demente, un handicappato: che si trapiantano a fare, tanto sani non tornano. L'estensione del criterio a chi ha tentato il suicidio è se possibile persino più aberrante. È come stabilire per legge che non esista la sofferenza dell'anima, il dolore disperato e profondo - emendabile, tuttavia, chi non lo spera? È come stabilire nelle linee guida venete che la speranza non esiste. Chi tenta di uccidersi deve essere un malato di mente. Uno che lo farà certamente di nuovo. Col paradosso, lo spiega nella sua veste di medico Ignazio Marino, che chi tenta il suicidio ingerendo pasticche (da cui spesso discende la necrosi del fegato) non dovrebbe essere operato ma lasciato morire.

Le linee guida sono state scritte un anno fa, nel marzo del 2009. Per un anno, dunque, si suppone che i medici vi si siano attenuti. Solo in questi giorni, dopo che l'American Journal of Transplantation ha pubblicato un articolo incredulo parlando del Veneto alla comunità internazionale, il medesimo assessore ha ritenuto di «rispondere a questo polverone» con una circolare interpretativa che fa parziale marcia indietro. Se nessuno ne avesse scritto - e nessuno, per un tempo lunghissimo, lo ha fatto - tutto a posto, avanti così. Sorgono spontanee alcune domande, pur senza disporre di un quoziente intellettivo straordinario. Per quale ragione i paladini delle crociate antiabortiste non insorgono? Se decidere di non far nascere una creatura destinata è vivere con gravi handicap è omicidio (eugenetica, come sostengono, selezione della razza) non è ben più grave negare le cure ai vivi, nati e divenuti adulti? Bisognerebbe farli nascere e poi morire negando loro le cure? E perchè chi è destinato a morte certa, malato terminale, deve stare attaccato alle macchine contro il volere suo o dei suoi familiari? In che senso far intervenire la scienza per mantenere in vita una persona in coma irreversibile è più utile, giusto, etico che farlo per mantenere viva una persona viva? Dipende dal suo Q.I.? Se è questo il punto riprendiamo pure a parlare di selezione della razza: riprendiamo da qui.

http://concita.blog.unita.it//Eugenetica__padana_1313.shtml


Titolo: Concita DE GREGORIO Veltroni: stragi volute dall'Antistato ma la verità è vicina
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2010, 11:10:09 am
Veltroni: «Le stragi volute dall'Antistato ma la verità è vicina»

di Concita De Gregorio

C'è solo da continuare a cercare. Chi cerca la verità non lo fa a vantaggio di qualcuno, è chi depista lo fa per occultare qualcosa, proteggere qualcuno. Le cose stanno come avevamo immaginato in questi anni e anche peggio. Torno da questi tre giorni in Sicilia con la certezza che quei magistrati, se non si impedirà loro di lavorare, potranno dire al Paese la verità che fin qui è stata nascosta».

Si chiude così l’analisi dei fatti che Walter Veltroni fa all'indomani della lunghissima audizione dei magistrati siciliani in commissione Antimafia. Audizione secretata nel merito della quale - dice subito - «non entrerò per rispetto istituzionale ed etico del segreto. Posso però dire che sono stati giorni straordinari, di grande valore storico ed emotivo. Ne esco con la conferma che ciò che abbiamo detto in questi anni è assolutamente vero. È vero ciò che scrissi su questo giornale nella notte delle stragi, quasi vent’anni fa. È vero ciò che ha detto il presidente Pisanu parlando di “convergenza di interessi tra mafia, logge massoniche, pezzi di apparati deviati, settori politici”. Ripeto ciò che ho detto in questi mesi e che ora è da tutti confermato: le stragi del ‘92-’93 sono state stragi dell'Antistato, non solo stragi di mafia. C'è stato un disegno volto al condizionamento della vita politica nazionale e non era certo Totò Riina a guidarlo. Dico Antistato perché non voglio smettere di pensare che lo Stato siano Falcone, Borsellino, Caponnetto, gli uomini delle scorte, coloro che hanno speso la loro vita in difesa della legalità. Non importa quale grado gerarchico, quale posizione nella vita pubblica avesse chi ha complottato contro Falcone e Borsellino: era antistato».

Stiamo alle dichiarazioni pubbliche rese dai magistrati fuori dall'audizione: siamo davvero a un passo dalla verità?
«Sembra emergere, hanno detto alla stampa i magistrati, che l’assassinio di Borsellino è stato spiegato negli anni seguendo un depistaggio spaventoso. Una falsa verità costruita ad arte. Le dichiarazioni di Spatuzza fanno ripensare a quel che anni fa disse Brusca: per via D'Amelio ci sono innocenti in galera. Si sono evidentemente fatti passi avanti nel disvelare una gigantesca menzogna. Ma se Scarantino non è il responsabile dell'assassinio di Paolo Borsellino: perché qualcuno si è accusato di responsabilità che non aveva e per questo ha accettato condanne dure? Su mandato e per coprire chi, che cosa? Se si lasciano lavorare i magistrati, se avranno il sostegno delle istituzioni, se i mezzi di informazione non si lasceranno trascinare in pericolose operazioni di depistaggio (le fughe di notizie sono uno dei modi classici), se chi indaga sarà messo in grado di accedere alle fonti di informazione, ecco, allora davvero la verità sarà a portata di mano. Il sistema politico non deve avere paura della verità. Mi ha davvero colpito che il procuratore Lari abbia detto: il sostegno del capo dello Stato è importante. Sono importanti i segnali politici così come i gesti concreti: i colpi ai vertici della mafia, certo, ma poi sconcertano le contraddizioni. Negare la protezione a Spatuzza è messaggio pericolosissimo: se collabori non sei protetto. Una decisione assurda, mi rivolgo al governo: ci ripensi».

Spatuzza è stato oggetto di una campagna di discredito. Ci si domanda se sia credibile.
«Le parole di chi collabora con la giustizia devono trovare riscontri. Non bisogna delegittimare né credere a prescindere: bisogna verificare quello che dicono. Senza i pentiti né la mafia né il terrorismo sarebbero stati colpiti. Come ci ha detto un procuratore: le parole dei pentiti offrono una panoramica, poi ci sono altri strumenti per lo zoom. Le intercettazioni sono uno di questi. Il ddl sulle intercettazioni è pericoloso perché nega ai magistrati la possibilità di indagare: anche in materia di mafia, poiché come ciascuno sa molti reati di mafia sono emersi a partire da indagini che con la mafia in origine non avevano a che fare. E' questo il nodo della legge in discussione, questa la posta reale».

Ogni volta che si parla di stragi di stato, o di antistato, c'è chi ironizza sui complottisti e i dietrologi. È ora di uscire dalla panoramica ed entrare nel dettaglio: nomi, circostanze, prove, dicono. Dicono anche: come mai solo adesso, 18 anni dopo?
«È maturo il momento. Io non sono complottista né dietrologo. Guardo la realtà per quella che è. Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia, Ustica, la precisa composizione del commando che ha rapito Moro: se ancora non si sa con certezza come siano andate le cose non è per caso. Assassini rossi o neri, le mafie che hanno provato a distruggere il tessuto civile di questo paese non hanno mai agito da sole. Mi domando: perché si coprono verità cosi devastanti? Politicamente ci siamo già dati le risposte. I magistrati indagano quando sono in condizioni di farlo. Quando c'è chi collabora, per esempio. Oggi lo stanno facendo con serietà, con scrupolo, rischiando molto».

Un'altra domanda interessante è perché la mafia abbia smesso di fare stragi. È lo snodo del ragionamento di chi sostiene: perché lo scenario politico successivo alle stragi la garantiva.
«È un dato di fatto che le stragi finiscono in coincidenza con l’aprirsi, dopo il governo Ciampi, di una nuova fase politica, ed è altrettanto chiaro che le stragi non sono il linguaggio della mafia. La mafia uccide. Il Velabro, i Georgofili uomini come Riina non sanno neppure cosa siano. Un'altra mano, dal '69 in poi, c'è stata dappertutto. Perché la banda della Magliana compie il depistaggio del lago della Duchessa, perché rapisce Emanuela Orlandi, perché il suo capo è sepolto a Sant'Apollinare? Quando Grasso parla di "entità" non indica la Spectre ma un sistema di interessi che si coagula di volta in volta. Per me non vale solo per la mafia. È stato così per piazza Fontana, nel '78 con Moro. Qualcuno ha eseguito ma ci hanno messo le mani in molti. Nel libro di Flamigni dedicato a via Gradoli c'è una sorta di outlet del terrorismo: sul pianerottolo nell'appartamento di fronte a quello di Moretti e Balzarani il cognome sul campanello era Mokbel. La storia di questi anni è così. Che fine hanno fatto l'agenda rossa di Borsellino? Quella di Ilaria Alpi? Gli appunti di Cassarà, il file del computer di Falcone, la videocassetta di Rostagno? Ecco. Siamo forse oggi in condizione di arrivare a dirsi qualcosa che non si poteva dire prima. D'altronde la storia non è fatta della fretta bulimica dei giorni né dei mesi, è fatta di fasi. È arrivato il momento della verità ed è questo il tempo in cui chi sa ha il dovere di parlare: lo faccia. Il nostro paese ha diritto alla verità sulla sua storia».

A chi si rivolge?
«Ci sono molti testimoni viventi che hanno avuto in quegli anni responsabilità istituzionali e politiche. C'è stata per molto tempo una strategia destabilizzante. Guardiamo agli eventi di quei due anni. La mafia ha colpito prima i suoi referenti politici colpevoli di non aver ammorbidito la sentenza del maxiprocesso. Falcone, a Roma, stava arrivando al cuore del sistema finanziario e politico mafioso, è stato ucciso quando è stato lasciato solo. Poi la trattativa con l'Antistato - lo Stato non può trattare con la mafia. Non va a buon fine o Borsellino si oppone. Poi le stragi del ’93-’94, appena formato il governo Ciampi. Bisognava intervenire sull'esito della vita politica nazionale. L'alternativa è che fosse in corso un'altra trattativa. Oggi sappiamo che anche l'attentato all'Addaura non è andato come hanno voluto far credere. Agostino e Piazza, due agenti, sono stati uccisi in circostanze misteriose. Falcone diceva “menti raffinatissime”, e non penso si riferisse a Riina. Abbiamo avuto il nemico in casa, annidato dentro lo Stato. Siamo vicini, sì, a conoscere la verità ma è importante proprio per questo, proprio adesso il messaggio politico che si manda. La frase su Mangano non può essere dimenticata».

"Un eroe", per Berlusconi e Dell'Utri.
«Un uomo che ne ha sciolto un altro nell'acido, condannato a più ergastoli. Un segnale precisissimo, quella frase. Mi fa piacere che oggi se ne accorgano anche altri ma meglio sarebbe stato forse dirlo prima. Due anni fa per esempio, quando gli italiani andavano a votare: sarebbe stato bello sentirlo dire allora. No, Mangano non è un eroe».

22 luglio 2010
http://www.unita.it/news/italia/101526/veltroni_le_stragi_volute_dallantistato_ma_la_verit_vicina


Titolo: Concita DE GREGORIO Giovani a scuola di politica fra caso Vendola e realtà
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2010, 09:24:23 pm
Giovani a scuola di politica fra caso Vendola e realtà

di Concita De Gregorio

Dice Nichi Vendola, in procinto di partire per Bertinoro dove stasera - alla scuola «Democratica» - parlerà di religione, che «nella grande area del Pd» sente «una forte onda emotiva». Vendola parla così, è anche per questo che piace molto a chi ha meno di trent’anni e poco o pochissimo a chi ne ha parecchi di più. Non è solo un fatto anagrafico, naturalmente. Scarta sempre di lato, o avanti: va su un altro piano. Gli domandi cosa pensi della reazione dei leader del centro sinistra alla sua candidatura alla guida della coalizione - la gamma va da dispetto a ostilità passando per prudenza - e risponde che sente una forte onda emotiva. Non si riferisce ai vertici, evidentemente. Parla delle persone che incontra. Dice che c’è «molta passione» fra i ragazzi. Gli domandi se non sia stata prematura, la sua candidatura, visto che le primarie non sono proprio alle porte e considerato che il risultato ottenuto è stato per ora di farsi attaccare da destra e da sinistra e risponde che «la forza del centrodestra sta nella debolezza del centrosinistra». E’ lì che c’è da fare, a saldare i pezzi della sinistra. D’altra parte «i massacri mediatici organizzati scientificamente dal centrodestra, che mette in campo pool di persone e di giornali che attraverso collaborazionisti sul territorio - fabbricanti di falsi dossier, li sappiamo all’opera - cercano di demolirti, sono momenti di crescita». Momenti di crescita, li definisce: rafforzano.

Esiste un caso-Vendola, a sinistra. Tutti ne parlano. Di Pietro gli ha dato lo stop, certamente pensando alla possibile erosione del suo bacino elettorale e probabilmente alla sua stessa più che probabile candidatura. Con D’Alema è un dialogo per così dire difficile da antica data, le vicende delle primarie pugliesi non hanno aiutato. Bersani è il segretario in carica e si capisce che si irriti se qualcuno si alza e dice: corro anch’io. Del resto non c’è neppure la pista, al momento, e i problemi del paese effettivamente sono altri. Basta sfogliare le cronache. Veltroni lo ha invitato a Bertinoro e allora ecco che subito riparte la ridda dei sospetti: nuove alleanze, nuove strategie per rimescolare le carte a sinistra? Pippo Civati, in campeggio coi giovani democratici in Emilia, lo ha elogiato dopo un incontro alle Fabbriche e ora parla di «generosità in politica»: è stato iscritto d’ufficio tra i neovendoliani. Le cose non stanno così, le cose - fuori dai palazzi romani - non stanno mai come le racconta chi è schiavo dell’antica logica del nemico interno: la logica per la quale è sempre più urgente annientare il presunto rivale domestico anzichè mettere insieme le forze per sconfiggere chi occupa disastrosamente l’altra metà campo. Anche i giornali, con le semplificazioni derbistiche, non aiutano - lamenta Civati.

Proviamo a vedere cosa sta succedendo in questi giorni. Alcune centinaia di giovani appassionati di politica anzichè andare in vacanza hanno deciso di spendere qualche soldo e molto tempo a pensare il futuro. Succede nel Pd. C’è la scuola di Democratica a Bertinoro, di cui Veltroni va fiero, dove centinaia di ragazzi (non tutti Pd, ce ne sono di Sinistra e Libertà, dell’Idv, cattolici e radicali) parlano in queste ore di diritti e religioni.

«I ragazzi si appassionano ai grandi temi del presente, più difficilmente alle correnti di partito. Chiedono unità e visione. Hanno la passione che serve per dare nuove risposte. L’investimento da fare è questo», diceva Veltroni alla vigilia del seminario. Pippo Civati, in campeggio a pochi chilometri da lì con altre centinaia di giovani: «Detesto le logiche di quelli che a tavolino traggono conclusioni tipo ‘due scuole vicine dunque rivali’, non c’è nessuna conflittualità, ce ne dovrebbero essere cento in tutta Italia di iniziative così e decine ce ne sono: in Lombardia, in Sardegna, al Sud. Detesto quelli che se dico che Vendola ci offre una grande occasione di confronto mi additano come il traditore: non abbiamo bisogno di duelli ma di condivisione, la felicità non esiste se non è condivisa, anche la politica funziona così. Il nostro motto qui al campeggio è: alla pari. Non chiediamo la provenienza di nessuno, chiediamo ai ragazzi di mettersi a disposizione. Solo con la generosità potremo sonfiggere il berlusconismo: solo offrendo la proposta di un modello positivo, diverso dalle battaglie di potere, un modello in cui le persone sappiano e vogliano collaborare. Questo chiedono i giovani che vedete qui». Questo dicono anche i venti-trentenni di diverse provenienze che Francesca Fornario ha chiamato a collaborare in un gruppo di lavoro sui temi concreti: la bioetica, i diritti, il lavoro, lo sviluppo sostenibile, le energie, lo studio. Ne abbiamo sentiti alcuni, trovate le loro parole in queste pagine: militano nel Pd e nell’Idv, nel movimento Cinque stelle e in Sinistra e libertà. Si trovano a fare volantinaggio insieme. Lavorano ad iniziative comuni. Non hanno nessun interesse alla battaglia per la leadership per le primarie: certamente non adesso. «Continuare a combattere tra di noi è l’unico modo sicuro per far restare Berlusconi al potere a vita», dice uno di loro. Troppo semplice? Ingenuo? Pensateci. Mettetevi nei panni degli elettori, anche, non è difficile, ciascuno di noi lo è.

La «bella politica», abbiamo sentito nelle scuole e nei campeggi in questi giorni, è quella che sarà capace di fare “Punto e a capo” con le cricche, le P2 e le P3 - giusto ieri il Pd ha chiesto una commissione d’inchiesta, questo giornale vi parla di P2 da mesi, direi da sempre. E’ quella capace di voltare pagina e di superare le logiche di condominio di chi per far dispetto al vicino demolisce le scale di casa.

<CS9.5>Luigi De Magistris, Idv, sta preparando con Vendola un’iniziativa nel Nord Italia che, dice il governatore pugliese, ha bisogno di «essere scaldato». Sono stati insieme a Roma, all’Eliseo, poi a Napoli alla città della Scienza. «Era dai tempi del primo Bassolino che non vedevo una folla così, ma questa di precari, lavoratori, studenti, non solo intellettuali e buona borghesia, non solo quadri di partito». Anche lui neo-vendoliano, in rotta con Di Pietro? «Ma per favore, smettiamola. Smettetela anche voi giornalisti. Va bene, forse la candidatura di Vendola è stata prematura. Forse ha avuto fretta e non ce n’era. Ma proviamo a metterla così: guardiamo ai contenuti, pensiamo alla squadra. La gente ci chiede unità. L’altro ieri ero a un dibattito con esponenti della Fiom, con Marino, con Ferrero. La sala era colma. Mi hanno invitato alla festa dell’Unità di Pesaro, sto partendo. E’ una fase delicata: parliamoci, io parlo ogni giorno col Pd, con Sel, con tutti quelli disposti a lavorare ad un progetto. Non facciamo gli stessi errori di sempre, gli elettori questa volta non ce lo perdonerebbero. Proponiamo nei fatti un modo di fare politica diverso».

Apro il blog di Civati: «Ho chiesto e ripetuto - anche a Bari, Vendola presente - di evitare questo clima da spareggio, che non è utile a nessuno. La candidatura di Vendola fa bene al centrosinistra. Non ho mai escluso che possano essercene altre, però. Né che la ricerca del candidato si esaurisca ora. Mi auguro che il confronto avvenga sull'idea di "Paese" e non sull'idea di "cordata". E che non ci siano "reazioni" da parte di nessuno, ma "azioni" da parte di tutti». Apro quello di Vendola, parla di Fiat: «Siamo di fronte a scelte che mettono in discussione la credibilità del piano industriale della Fiat e del suo management. Tutto questo mentre siamo di fronte alla vera emergenza nazionale dell'Italia: la perdita ogni giorno di migliaia di posti di lavoro, il quotidiano passaggio di migliaia di famiglie da una vita dignitosa alla povertà».

24 luglio 2010
http://www.unita.it/news/italia/101653/giovani_a_scuola_di_politica_fra_caso_vendola_e_realt


Titolo: Concita DE GREGORIO Le domande semplici
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 06:05:06 pm
29/07/2010 21:55


Le domande semplici

Un giorno o l'altro bisognerà riraccontare tutta questa storia da capo, nella giusta prospettiva, facendo le domande che servono a capire senza lasciarsi distrarre.

Senza lasciarsi distrarre dai professionisti della disinformazione che tendono sempre lo stesso tranello, arrivano al momento giusto con il solo scopo di distogliere l'attenzione dal cuore del problema. Usano armi di distrazione di massa, la sparano il più grossa possibile, mentono senza scrupoli, sanno di poter contare su una soglia di attenzione bassissima: la gente non ne può più, chi sa sa e chi non sa non ha interesse a sapere, resta impressa l'ultima battuta, lo slogan più efficace, l'accusa più greve o maliziosa. Cosa avrà voluto dire? Mah, vai a sapere. Tanto sono tutti uguali, il più pulito ha la rogna. Ecco, questo è quel che si dice il giorno dopo al caffè del mattino, prima di passare alle svago di giornata. La cocaina e le ragazze. Belen. Le coatte di Ostia. Una doccetta. Un calippo.

Così di nuovo, ancora all'infinito. Mentre il Pdl si sfarina in un clima di congiure e di complotti, coi giornali di famiglia del Cavaliere impegnati a cercare nelle vite private dei "nemici" la pagliuzza che faccia dimenticare le travi in casa propria, ecco che anche Denis Verdini, il "toscanaccio simpatico" diventa un martire, vittima di una campagna ostile, ecco che in suo soccorso si schierano i dipendenti e gli amici mettendo sul piatto, se occorre, reputazioni costruite negli anni in difesa di un garantismo a senso unico.
Le domande fondamentali, quelle semplici, le fanno solo alcuni magistrati e pochissimi giornalisti subito oggetto della successiva aggressione, è il caso di Claudia Fusani.
Questa del Credito cooperativo fiorentino, dell'irresistibile ascesa di Verdini, dei suoi rapporti con Carboni è semplicemente una questione di soldi, e di soldi bisognerebbe parlare. Com'è che una piccola banca di provincia diventa cruciale nel sistema di potere che sta al centro della rete di affari e di appalti mossi dalla cricca? Com'è che un politico di quarta fila scala in pochi anni i vertici di un partito fino a diventarne custode delle chiavi e crocevia delle trame? Com'è che Flavio Carboni, faccendiere di lungo corso con base in Sardegna, finanzia di sua tasca un giornale locale toscano di scarsa fortuna, di proprietà del piccolo banchiere oggi grand commis di partito di nome Verdini? Avete mai provato, voi, ad incassare - negoziare, trasferire, compiere una qualsiasi operazione - un assegno firmato da un prestanome di chi versa il denaro ed intestato ad altri da chi lo riceve? - fate la prova nella vostra filiale di fiducia.

Intorno alla piccola banca di Verdini ruota una rete di affari, di relazioni e di ricatti che sono solo parzialmente emersi dalle intercettazioni che ora Berlusconi e i garantisti beneficiari di quei soldi vorrebbero eliminare come strumento d'indagine. È una storia di denaro, dalla quale bisogna distrarre l'attenzione. Così come nessuno si è più chiesto quali fossero i reali rapporti tra Berlusconi ed Elio Letizia, il cui nome riaffiora dalle quindicimila pagine dell'inchiesta sulla P3. Noemi è venuta dopo, anche anagraficamente. Per avere risposte alle domande semplici bisogna prima di tutto farle, poi non avere paura delle aggressioni che seguono se tocchi il nervo scoperto di Cesare.

Che non sono le donne nè la politica ma gli affari, fin dal principio sono i soldi ed il modo più veloce per farli.

http://concita.blog.unita.it//Le_domande_semplici_1453.shtml


Titolo: Concita DE GREGORIO inocchiaro: «Un patto per la Repubblica»
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2010, 05:49:53 pm
Finocchiaro: «Un patto per la Repubblica»

di Concita De Gregorio


Lo stallo. La palude. Anna Finocchiaro vede il rischio di un pantano politico da cui più passa il tempo più sarà difficile uscire, più passa il tempo più grande sarà il senso di scoramento dei cittadini esausti. Da qui parte la rotta che prova a tracciare, e che tocca tutti i nodi sul tappeto. Il voto e il governo tecnico, le alleanze, Fini e Nichi Vendola, il Terzo polo, la sinistra, le primarie. La disillusione degli elettori, prima di tutto.

«Cominciamo da questo. Sento forte il pericolo che anche nel nostro popolo si diffonda lo smarrimento. Vorrei dire con molta chiarezza: non siamo nelle condizioni di nutrire scoramento né smarrimento. Siamo a una svolta che porta buone notizie. Si chiude oggi, più rapidamente del previsto, una fase della vita politica segnata da un attacco senza precedenti alle forme del vivere democratico. Illegalità, furberie, pratiche illecite come sistema: è questo che entra in crisi. Immondizia da spazzare via».

Con il voto? Il Pd è pronto al voto o lo teme?
«Un partito è pronto alle elezioni per definizione. Abbiamo un segretario eletto da poco con milioni di voti, 320 fra deputati e senatori, migliaia e migliaia di quadri e amministratori.
Un popolo che è pronto a mobilitarsi solo che lo si chiami. Sul terreno delle alleanze abbiamo una crisi di abbondanza: siamo il secondo partito del paese, il primo di opposizione. Poi, aggiungo però: vogliamo andare a votare con una legge elettorale che priva i cittadini della possibilità di scegliere gli eletti? Io dico di no. Fare una nuova legge elettorale è una responsabilità da assumersi di fronte al Paese, non una scusa per evitare il voto».

Dunque serve un governo di servizio che faccia la riforma elettorale, lei dice.
«Sarebbe opportuno, sì, ma non è questione che stia nelle nostre mani. La scelta è nelle mani del presidente della Repubblica, sempre che si verifichino alcune condizioni.
Per prima cosa Berlusconi si deve dimettere. Il premier agirà come ha sempre fatto: per il suo interesse. Gli conviene avere un parlamento fatto di signorsì, la democrazia non lo interessa, direi che sovente lo infastidisce. Se dovesse temere un logoramento, visto lo stato, potrebbe rimettere il mandato. A quel punto toccherà al presidente della Repubblica agire con il senso di responsabilità che ha esercitato in questi anni. Certo una delle questioni centrali per sbloccare la perdita di rappresentanza nel rapporto fra elettori ed eletti è proprio la legge elettorale. Se si dovesse andare ad un ‘governo del presidente’, io preferisco chiamarlo così, l'opposizione dovrà decidere se sostenerlo».

Crede davvero che la Lega voglia una nuova legge elettorale? Sono molti coloro ai quali conviene tenere questa.
«Non all'Italia. La Lega vuole un sistema dove i cittadini chiedano conto direttamente agli amministratori. Questo deve valere oltre che a livello locale anche sul piano nazionale, se c'è coerenza. Bossi pure farà quello che gli conviene. Vuole ottenere il federalismo fiscale, ha sopportato nell'attesa l'oltraggio di sostenere il governo degli affari di quella che chiamava la Roma ladrona. Anche i suoi elettori posso perdere la pazienza».

Torniamo al governo del presidente. Si parla di Tremonti. Non crede che se il Pd lo appoggiasse potrebbe alienarsi una quota del suo elettorato?
«La discussione sui nomi è surreale. L'incarico lo dà il presidente della Repubblica. Un governo tecnico ha un mandato circoscritto: non deve governare, deve fare una cosa.
Sarebbe difficile anche per me dal punto di vista simbolico e politico accettare un eventuale governo che non segni discontinuità col passato, ma bisognerebbe per una volta non pensare alle convenienze di partito: dovremmo pensare a quel che serve per voltare pagina. Misurerei le scelte non sulla cabala dei nomi ma sulle esigenze dell'Italia».

Quale legge elettorale, eventualmente? Lei crede che la Triplice, l'alleanza tra Fini Casini e Rutelli, segni la fine del bipolarismo?
«Lo si vedrà col tempo. E', questo, un centro dove Casini sta nel solco della tradizione, Rutelli si approssima all'Udc. Fini è piuttosto l'uomo di quella destra liberale che l'Italia non aveva. Prima di pensare al numero di poli chiederei piuttosto, subito, un'alleanza per la Repubblica. Chiamiamo forte all'appello tutti coloro che sono fedeli ai principi della Costituzione. Prendiamo noi l'iniziativa. Sulla libertà di stampa, sul diritto di sciopero, sulla difesa delle istituzioni e della magistratura: abbiamo scherzato? Se è questo che vogliamo difendere allora vediamo chi è disposto a dire: chiunque vinca questi principi non si toccano».

Potrebbe essere un elenco che va da Fini a Beppe Grillo. Anche Grillo sostiene la necessità di un governo tecnico, ha sentito.
«C'è molta confusione sotto il sole. Proviamo a vedere chi è davvero pronto a sottoscrivere un patto per la Repubblica. Fini sono convinta che lo farebbe, Di Pietro se smette gli abiti del caudillo che attacca il Capo dello stato, Vendola certamente, e i movimenti».

Vendola si è candidato alle primarie. El País oggi scrive che è l'unico in grado di sconfiggere Berlusconi. Anche lei come D'Alema non lo voterebbe?
«Le primarie si fanno se si fa una coalizione. Se si decide, sulla base di un programma, di fare un’alleanza che si presenti al voto allora si parla di primarie. Altrimenti, di nuovo, è un dibattito surreale. Non siamo a questo. Siamo al punto in cui chi davvero sente il dovere di evitare che Berlusconi torni a governare deve trovare la via efficace per ottenerlo.
Il resto è demagogia, un danno che alimentando chiacchiere ci facciamo da soli. Cerchiamo piuttosto di sottrarci al rischio che la difesa dei principi democratici diventi una clausola di stile. Contiamoci su questo: chi sta dalla parte delle regole che servono al Paese. Cominciamo a farlo subito, nei dibattiti in tutta Italia, nelle feste dell'Unità, in ogni luogo».

C'è anche il tema del rinnovamento della classe dirigente, molto sentito dagli elettori.
«Certo, e c'è prima ancora il tema delle prospettive che vogliamo dare ai giovani di questo paese, che siano dirigenti o non lo siano. Per rinnovare non basta mettere cinque quarantenni in lista. Bisogna fare leggi che favoriscano l'accesso al lavoro e alla vita attiva dei ragazzi. Il primo punto del programma sia questo».

06 agosto 2010
http://www.unita.it/news/italia/102129/finocchiaro_un_patto_per_la_repubblica


Titolo: Concita DE GREGORIO Le primarie nei collegi
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2010, 08:55:10 pm
26/08/2010 22:34

Le primarie nei collegi

Penso, e in questo credo di somigliare a una moltitudine di persone che ancora guardano all'opposizione politica con qualche speranza, che la gara ad azzopparsi reciprocamente dei leader politici che l'opposizione incarnano sia la principale causa di disaffezione, in qualche caso di disgusto, comunque di insofferenza da parte di chi guarda. Credo che sia una delle principali ragioni dell'astensionismo di sinistra: la delusione che nasce quando alla richiesta di unità (ricordate le invocazioni di piazza delle ultime piazze popolate da milioni?) si risponde con la replica di protagonismi rivendicativi che affondano radici in anni remoti, gli anni della giovinezza di coloro che dalla competizione personale e dal desiderio di rivincita non sanno liberarsi, anni in cui molti di noi non erano nati, le torri gemelle erano lì, la cinquecento non era la replica ma l'originale, il vaccino antipolio lasciava il segno sul braccio e in tv davano Sandokan.

Penso che da questo senso di saturazione a volte rabbiosa salga l'invocazione unanime di rinnovamento della classe dirigente - il «tutti a casa» dei commenti che gli elettori lasciano nelle nostre caselle di posta e nei blog, che le persone in carne ed ossa ti dicono stringendoti un braccio per strada, che ingrossa le fila dei popoli viola e dei grillini, che offre il terreno ad una nuova area politica che si nutre e cresce sul disprezzo di una "certa" sedicente sinistra, quella degli accordi sottobanco e dei pizzini rivendicando per sé verginità, purezza di intenti, libertà intellettuale, durezza nello scontro con il Caimano e con il caimanesimo, lo spirito rapace e corrotto di questi anni. Di questo - del rinnovamento - dirò qualcosa tra un attimo, condividendone la necessità: qualcosa che non sia una protesta ma una proposta.

Lasciatemi prima però fare due sole osservazioni. La prima: si vince non sulla base delle alleanze ma su un programma. Molto semplicemente: vorremmo tutti sapere per che cosa si lavorerà un minuto dopo aver, eventualmente, vinto. Lo scriviamo da mesi, da mesi facciamo l'elenco dei bisogni: voglio qui ricordare solo un punto. Non sarà più democratica una società che dia due soldi in più di sussidio a chi ha bisogno, lo sarà quella che abbia una scuola migliore. Una società della conoscenza, sapiente e realmente solidale, dove partiti e sindacati sappiano tutelare con la stessa forza gli occupati e i pensionati che costituiscono il loro corpo elettorale e gli inoccupati, i precari, i disoccupati e i lavoratori flessibili che non sono (più? Ancora?) né loro iscritti né elettori e che si avviano ad essere, se non lo sono già, la maggioranza del paese.

La seconda: non vedo differenze sostanziali tra la proposta di Bersani, quella di Franceschini, di Veltroni, di Zingaretti e di Rosi Bindi. Nei tempi, forse. Nel modo di presentare un progetto. Tutti dicono, mi pare: uniamoci, uniamo tutte le forze di opposizione di centro sinistra. Potrebbe essere sufficiente. Se non lo fosse allora stringiamo alleanze elettorali con chi può garantire la sconfitta del Caimano. Più avanti, questo. Vedremo.

La proposta, infine. C'è davvero bisogno di un rinnovamento della classe dirigente. Davvero questa generazione politica non ha saputo né voluto dare voce ai suoi fratelli minori, ai suoi figli. Li ha soppressi sul nascere, spesso, o li ha usati a fini di propaganda elettorale. Allora. Se andremo a votare con questa legge elettorale - sempre che la paura di votare di Berlusconi lo consenta - poiché è una legge, questa, che dà ai partiti la facoltà di nominare gli eletti (la sottrae agli elettori, certo. E ai partiti, a tutti i partiti, in fondo fa comodo) facciamo le primarie in ogni circoscrizione perché siano i cittadini a dire chi vogliono in lista. Ribaltiamo nei fatti la logica aberrante dell'imposizione dall'alto, antidemocratica. Siate voi, siamo noi a scegliere chi deve essere candidato, si presentino le liste in ordine gerarchico in base ai risultati ottenuti dal voto: risulteranno eletti coloro che sono stati preferiti dalla base elettorale. Se la base vuole il rinnovamento lo avremo.

È possibile, in qualche caso - a livello locale - lo si è fatto. Diciamolo subito: se si va ad elezioni sarete voi a scegliere i candidati. Posso sbagliare, ma sarà un banco di prova: per gli elettori soprattutto. Li chiameremo a decidere, conteremo quelli che davvero vogliono sconfiggere il caimano, isoleremo quelli che agitano le acque contro il nemico presunto nella stessa metà campo senza mai ricordare - in buona o cattiva fede - l'avversario qual è.

http://concita.blog.unita.it//Le_primarie_nei_collegi_1533.shtml


Titolo: Concita DE GREGORIO Le vanita' inessenziali
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2010, 09:38:23 am
18/09/2010 21:58

Le vanita' inessenziali

Alfredo Reichlin, 85 anni, condivide lo stato d'animo dei più giovani e appassionati tra i nostri lettori i quali - una moltitudine - ci hanno scritto negli ultimi due giorni per chiedere, direbbe Benigni in altri termini, "cosa diavolo sta succedendo" e soprattutto perchè. Reichlin si dice "sorpreso, preoccupato, allibito". Chiede "su cosa ci dividiamo? Sulle ambizioni personali?". Quindi ci consegna una lunga riflessione, che trovate integrale nel giornale on line.
 

Inizia così: «Siamo entrati in una fase politica nuova e molto delicata che può riaprire la strada a una svolta democratica, ma può spingere le forze più reazionarie all'avventura. E' in gioco la speranza che l'Italia resti una repubblica unita e una democrazia parlamentare mentre, dal fondo limaccioso del Paese, tornano a emergere tentazioni di tipo peronista. Io non so come andrà a finire. So, però, che è troppo grande lo scarto tra i rischi di disgregazione della compagine italiana e la debolezza della politica... Pesa non poco la vanità e l'inconcludenza di tanta parte delle polemiche che lacerano la sinistra».

La vanità e l'inconcludenza. Nemmeno io so come andrà a finire: se l'Italia resterà una repubblica unita e democratica o se la cricca dei corruttori e la "maggioranza sonnambula" di cui parla oggi Goffredo Fofi la consegnerà a un destino di melmosa tirannica decadenza dalla quale, in altri tempi, solo una guerra avrebbe potuto riscattarla. So però che se questo accadesse - se davvero ancora una volta non trovassimo un antidoto al grande banchetto finale così chiaramente annunciato - gran parte della responsabilità sarebbe di quella vanità e di quell'inconcludenza. Della sinistra, in una parola. Dell'opposizione che di fronte a un momento che la storia - quella scritta sui libri - definirà in forma postuma cruciale e decisivo, non ha saputo far meglio che consumare fino in fondo i suoi privati rancori, i suoi risentimenti. Vengo da due giorni trascorsi in Emilia. Teatri, piazze, persone. Volti e mani di gente che racconta storie di vita: la scuola a pezzi, la distruzione del sapere, il lavoro soggetto a ricatti, miserie e tragedie quotidiane, inciviltà di ritorno persino nei rapporti familiari, fra generazioni e fra generi, fra persone. La soglia di pericolo è tangibile. L'Italia sta cambiando, è cambiata già.

La pazienza è finita, l'esasperazione è cresciuta, la tensione è sul punto di esplodere. Fra chi ancora reagisce, certo. La maggioranza sonnambula è già in sonno da molto: il risultato di un lavoro certosino dei maestri dell'ipnosi. C'è anche però un residuo di speranza. C'è, si sente: si vede negli occhi di chi si avvicina e chiede "che possiamo fare?". E' a queste persone che bisogna rispondere: farlo adesso. Leggete i nostri servizi sulla scuola: i nuovi schiavi pronti a lavorare gratis nelle private pur di avere punteggio, i maestri delle elementari soppresse che fanno lezione a casa. Qual è il punto, nello scontro a sinistra? Davvero le candidature alle prossime politiche, i criteri con cui saranno scelti gli eletti?

E allora vedete quanto la nostra proposta di farli scegliere ai cittadini, i candidati, il nostro suggerimento per le primarie di collegio tocchi il nervo scoperto? Coraggio. Ritrovate la voce. E' questo il momento di dire basta. Non saranno i giornali e nemmeno le tv a cambiare il corso delle cose: se ne sarete capaci, sarete voi.

http://concita.blog.unita.it//Le_vanita__inessenziali_1582.shtml


Titolo: Concita De Gregorio Minuscole maiuscole
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:06:29 pm
Minuscole maiuscole

di Concita De Gregorio


Tra i milioni di giovani italiani senza Papi in paradiso - siano tri bi o monolingua, diplomati o laureati, maschi o femmine, di bella o chirurgicamente migliorabile presenza - uno su tre è senza lavoro. Chi non gode dei favori del generoso leader, il quale se non tocca con mano non eroga denari, è destinato ad un ingiusto avvenire di stenti. Nessuna politica di governo, difatti, si occupa della moltitudine di giovani di bel talento e scarsa fortuna. Il governo si occupa semmai personalmente di aiutare quanti, fra costoro, accedano personalmente in villa: meglio se disponibili a slacciare il reggiseno, terza misura minimo. Una gestione politica figlia di uno stile di vita spacciato come “vincente” nel corso del recente ventennio. Fai carriera se ti scelgono e se sei disponibile, servile, cortigiano. Ne consegue il Paese che abbiamo attorno, del quale ecco di seguito alcuni fotogrammi di giornata in ordine sparso - politica, sesso e mercato, fa lo stesso, son sinonimi. Luca Barbareschi fra la spola fra Berlusconi e Fini i cerca del miglior offerente. Le famiglie italiane si indebitano per fare il seno nuovo alle figlie, se c’è da spendere spendiamo bell’a’papà. La mamma di Noemi Letizia, antenata di tutte le minorenni di Arcore, incassa denaro dal ragionier Spinelli agente pagatore di Silvio B. detto “Spin” dalle ragazze del condominio Olgettina. Spin è anche il presidente della società editrice del Foglio di Ferrara, neoeditorialista di Sallusti che invece dirige in condomino (metaforico, questo) con Daniela Santanchè il Giornale con la G maiuscola, per cui quando esce la notizia poi smentita che il Cav ha dato incarico a Santanchè medesima di armare le piazze e Ferrara commenta che Silvio B. “ha problemi con lo Spin” tutti pensano alla maiuscola, invece è minuscola: spin nel senso di agenda del presidente, ce l’ha con Bonaiuti. Presto sugli schermi un nuovo gioco a premi, “Il contratto”: un’azienda mette in palio un posto di lavoro i concorrenti si sbranano in tv in una gara di sottomissione. In un liceo di Napoli gara di fellatio in classe fra sedicenni ripresa dai compagni fra le risate collettive, per la serie che male c’è, le gare di sesso orale a ricreazione in bagno sono molto in voga come gli affranti insegnanti sanno. Un parlamentare del Pdl sorpreso a cercare puttane sul catalogo nell’Ipad durante il voto di sfiducia a Bondi, è Simeone di Cagno Abbrescia, si giustifica dicendo che “il dibattito non era emozionante”. Aperto un fascicolo su Frattini, che ha chiesto carte a Santa Lucia senza che nessuno (Nessuno, con la maiuscola) glielo avesse chiesto. Aperta indagine anche sulla fuga di notizie dal Csm, che uno penserebbe essere un posto sicuro non fosse che è popolato da persone come Matteo Brigandì. (Solidarietà alla collega del Giornale perquisita, se uno lavora al Giornale del resto sa come funziona, le carte o i nastri arrivano sovente direttamente dall’editore. A rifiutarsi si rischia di finire tra i concorrenti del nuovo reality). Non sappiamo se sia stato Brigandì a passare al Giornale le carte su una vicenda (archiviata) di trent’anni fa che riguarda Ilda Boccassini, che non era e non è presidente del Consiglio: sappiamo che lui, membro laico del Csm, le aveva chieste in visione una settimana prima. Brigandì, il leghista che commentò l’elezione di Scognamiglio al Senato con «È stato meglio di una scopata», da quando è al Csm ha fatto aprire una pratica per incompatibilità ambientale contro due magistrati torinesi che si sono occupati di lui in altrettanti processi (una condanna in primo grado per una storia di assegni familiari e una in appello per diffamazione). In caso di condanna definitiva decadrebbe dal Csm. Forse però. Non è detto. Potrebbe sempre cambiare la legge, minuscola.

da - concita.blog.unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Le parole e la paura
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2011, 04:41:18 pm
Le parole e la paura

di Concita De Gregorio


Un soffio costante di vento. Un passaparola tra persone di carne, non il megafono della tv, ha convocato questa gente qui. Una manifestazione di cui nessuno, se non chi l’ha voluta e sostenuta, ha mai parlato. Nessuna televisione, i quotidiani nazionali – gli altri – da ultimo e per forza, giusto ieri una colonna. Eppure a mezzogiorno del primo giorno di sole, ieri, a Milano la metro era colma. Ragazze, moltissime. Famiglie. Coppie. Gente tranquilla, ridente, quieta. Alle due, un’ora prima della manifestazione, il Palasharp era pieno. Diecimila persone sedute. Moltissime altre, arrivate dopo, sono rimaste fuori. Non ho mai visto, in tanti anni di cronaca politica, una riunione così imponente di persone così poco rumorose. Applausi tanti, certo. Ma niente cori, nessuna canzoncina, niente insegne di nessun genere tranne qualche vessillo tricolore. Qualche cartello scritto a penna, portato da casa. Un silenzio, durante gli interventi, unanime e all’unisono. Il silenzio di chi ascolta. Era talmente avvertita, misurata, critica e attenta, la gente in sala, che questa volta l’incredibile comunicato congiunto scandito a memoria dai Cicchitto, Capezzone e varii altri valvassori che urlano sono «fascisti di sinistra, vogliono piazzale Loreto» risulta proprio fuori misura, come un vestito da sera al mare, precotto e non adatto all’occasione.

Hanno preparato una risposta standard per qualcosa che immaginavano fosse come l’avrebbero fatta loro. Invece non era così. Hanno sbagliato, ancora una volta non hanno ascoltato. Se urlano così forte, del resto, vuol dire che hanno paura: questa volta hanno paura. Lo stesso capo in testa ce l’ha: non bisogna dal loro credito, ha detto. E poi ha dato disposizione al suo intermittente spin doctor di scatenare Il Foglio contro la manifestazione del 13. Anche quella si sente crescere e lo innervosisce parecchio. Perciò hanno dato mandato ai loro scriba di far passare la cosa come un’assemblea di moraliste che ce l’hanno con le prostitute. Di nuovo: non hanno ascoltato, non hanno letto, non hanno seguito. Ma non da ieri: da anni.

Potrebbero fare qualche ricerca d’archivio, o anche sfogliare gli editoriali e gli articoli recenti. Se ne guardano bene. Non è il dialogo né il confronto il loro obiettivo. È cercare e trovare lo slogan più efficace per demonizzare l’avversario e fare in modo che non sia ascoltato per principio, a priori e a prescindere. Temono più di ogni altra cosa la parola che porta il pensiero. È questo che li innervosisce. La possibilità che la parola, col tam tam, dilaghi sebbene fuori dal loro controllo. Proprio di questo, che è quel che avevamo scritto ieri qui e abbiamo ripetuto al Palasharp, hanno parlato tutti, ieri pomeriggio, con una misteriosa ed eloquente convergenza di pensiero. Bisogna invece ridare senso e dignità alle parole, ripartire dall’ascolto.

Di questo hanno parlato Eco Saviano e Salvatore Veca, «l’uso sapiente e responsabile delle parole», la capacità di ascoltare e farsi sentire, il ponte con l’altra metà del paese. Sandra Bonsanti, una ragazza di settant’anni, ha dato la parola a Giovanni Farizzo, un ragazzino di 13. Le figlie di Biagi hanno letto parole del padre insieme sul palco.

Milva, indomita, accanto a Irene Grandi, 50 anni di musica in mezzo. Susanna Camusso, sindacalista, ha spiegato che in tutto il paese, non solo ad Arcore, c’è qualche serio problema rispetto alla sessualità. Logiche da bar, da barzelletta al potere, ha concluso idealmente il suo discorso Lorella Zanardo, manager. Saviano ha parlato a braccio, a lungo, come se fosse a casa davanti a pochi amici. Paul Ginsborg da casa a Firenze, si sentiva il sorriso. Scalfaro in video, esortava le donne. Eco a Marcegaglia: io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant. Molta ironia nelle parole serissime di Zagrebelsky, molto vigore in quelle del maestro Pollini così poco abituato all’oratoria pubblica. Ci vediamo il 13, dicevano tutti alla fine. E sì, ci vediamo in piazza il 13: faranno il diavolo a quattro, i servi del padrone, vedrete. È normale. Tranquilli. È solo che hanno paura. Lui ha paura, e loro – che sono utensili – fanno grancassa.

5 febbraio 2011
da unita.it - concita.blog.unita.it/le-parole-e-la-paura


Titolo: Concita DE GREGORIO La giusta lezione
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2011, 06:33:14 pm

La giusta lezione

di Concita De Gregorio

«La maestra ha detto che ci sono i musei aperti stanotte, bisogna andare a vedere. Ha detto che abbiamo tutti 150 anni, anche io». Erano le undici di sera quando il piccolo di casa, che ci aspettava svegli, ci ha accolti al rientro con queste parole. Aveva messo la giacca e il papillon con l'elastico, pronto per uscire. Si sono rivestiti anche gli altri, siamo usciti tutti. A mezzanotte i fuochi d'artificio sul Tevere, gente sotto la pioggia come fosse mattina. All'una, ai musei Capitolini, coda all'ingresso per andare a vedere il Marco Aurelio. Davanti a noi una comitiva di adolescenti. Famiglie coi figli per mano attorno alla Lupa. Folla per le scale, folla in piazza Venezia, folla al Quirinale. Musica dappertutto, bambini ovunque. Coccarde e tricolori.

L'Italia è un paese incredibile. È un paese che diresti sull'orlo del collasso e poi all'una di notte – in ogni piazza, in ogni città, nonni e nipoti, in massa – esce dalle case e va a festeggiare che abbiamo tutti 150 anni, tutti, ha detto la maestra anche io. È un paese che si rimette a studiare i nomi dei «giovani e giovanissimi protagonisti di quelle imprese audaci», diceva ieri Napolitano, quei ragazzini di vent'anni che un secolo e mezzo fa hanno fatto l'Italia, che si inalbera di orgoglio patrio sotto il temporale, che sta fuori tutta la notte riempie i teatri e i musei, fischia i leghisti che dicono «soldi buttati, questi per le celebrazioni».

E poi fischia La Russa, vendicativo e rancoroso anche nel dispetto. Fischia il Presidente del Consiglio che ormai non può più camminare per strada senza che gli urlino contro e difatti non lo fa, parla sono da Vespa telefona in tv manda videocassette si barrica ad Arcore nel suo bunga bunker, quando proprio gli tocca di passare dal Gianicolo o di visitare una chiesa per obbligo istituzionale gli tocca uscire dal retro, nascondersi, sgattaiolare via da un'uscita secondaria per non farsi notare. Alla folla che lo fischia risponde «non lascio il paese in mano ai comunisti». Patetico, oramai. Fuori luogo ovunque tranne che dove può staccare assegni per la claque.

Fa davvero impressione sentire il ministro Stefania Prestigiacomo dire «è finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate. Bisogna uscirne ma in maniera soft». Fa impressione il momento in cui lo dice: solo ora. Non davanti all'apocalisse giapponese, no. Li sono rimasti tutti composti, «andiamo avanti, non cambiamo il nostro programma nucleare, non ci facciamo coinvolgere dall'onda emotiva». Onda emotiva? L'emozione non è forse uno strumento utile all'intelligenza delle cose? Solo l'utilità e il profitto sono un criterio ragionevole? È questa la verità: più della catastrofe hanno potuto i sondaggi.

Nessuna reazione finché il problema erano 'solo' quelle tre o quattro centrali lontane, alcune decine di migliaia di contaminati. Peggio per loro, andiamo avanti. Ora però ci sono i sondaggi: eccoli sui tavoli. La popolarità del premier è in picchiata, la richiesta di votare cresce, sul nucleare questa volta il quorum c’è.

Perciò, attenzione alle poltrone su cui siamo seduti, colleghi ministri: non facciamo cazzate. Cerchiamo l'uscita soft. Briffiamoci. Prendiamo tempo. Che poi magari ci pensa Gheddafi a scatenare una bella guerra nel Mediterraneo, proprio il diversivo che serve a blindare il governo, nessuno si muova, stai a vedere che ci viene in soccorso il Colonnello.

17 marzo 2011
da - concita.blog.unita.it


Titolo: Concita DE GREGORIO Buongiorno Italia: c'è un Paese nuovo
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 09:15:54 am
Buongiorno Italia: c'è un Paese nuovo

di Concita De Gregorio

È solo l’inizio”, abbiamo scritto il prima pagina il 14 febbraio all’indomani della grande manifestazione delle donne, sordi agli insulti e allo scherno che si levava dai giornali della destra, al sarcasmo greve, alle offese personali. Era solo l’inizio ma insieme era l'approdo di un lungo cammino, ostinato e silenzioso, sotterraneo: il cammino che ci ha portati sin qui, 30 milioni di persone alle urne, una vittoria dei cittadini e dell’Italia intera. La vittoria di quelle parole che insieme in questi anni abbiamo rinominato da capo: verità, autenticità, coraggio, dignità, responsabilità, giustizia.

Adesso dette così, tutte in fila, possono sembrare l’ennesimo rosario retorico e astratto ma noi sappiamo bene, invece, che a ciascuna di queste parole corrisponde una battaglia, un episodio, un gesto, un segnale che si è levato dal Paese in questi mesi e che qui abbiamo ascoltato, accolto, amplificato, illustrato. Prendendo quel refolo di vento e provando con le nostre forze - la forza di chi osserva la realtà e la racconta, la forza del giornalismo libero - a farlo crescere con noi. Se scorriamo all’indietro le prime pagine del nostro giornale troveremo tutte le orme, le tappe di quel cammino. Ne abbiamo raccolte alcune, all'interno, per aiutare la memoria breve che è così volatile, per ricordare a tutti che niente accade all’improvviso e per caso, che il futuro era già qui bastava saperlo vedere. È questa cecità, questa sordità il difetto di chi è rimasto cristallizzato in un tempo che stava scivolando via: è questa incapacità di ascolto che ha punito chi ha perso.

Era maggio del 2009 quando dicevamo “La rabbia dei figli”, saranno i giovani a portarci via da qui. “Ribellarsi fa bene” quando era ancora il momento del torpore apparente, bisognava spronare. Era luglio di due anni fa quando abbiamo lanciato la campagna sul nucleare, era ottobre (“La legge è uguale per tutti”) il tempo di quella sul legittimo impedimento, era il 6 novembre 2009 quando abbiamo denunciato - “Le mani sull’acqua” - il tentativo in atto. Poi il risentimento e la rabbia che tanti temevano ci riportasse agli anni Settanta - ricordate? - sono stati cavalcati da alcuni e non da altri. Non ci è mai piaciuta la politica della bava alla bocca, non ci sono piaciute le urla e le minacce, i tentativi di provocare incidenti, le città blindate. “La lezione degli studenti”, dicevamo il giorno dopo la grande manifestazione dei ragazzi che sfilavano con le copertine dei libri appese al collo. La rivolta delle donne, poi l’ironia e la forza del web - “Avanti Pop” e “Avotar” - il vento, infine, finalmente.

Ecco, siamo arrivati fin qui. Il voto di ieri ci consegna un Paese nuovo. Veramente nuovo, profondamente nuovo. Guai a chi si ostinasse a non vederlo, a chi continuasse ad interpretarlo col vecchio lessico e i vecchi schemi. Dopo le amministrative - la “rivoluzione gentile” - il referendum. Proverò a dire quelli che mi sembrano i tratti salienti di questo voto e mi scuso in anticipo coi lettori abituali del nostro giornale che queste parole le hanno già lette molte volte, nei mesi, qui. Scusate se mi ripeto, ma oggi è il giorno: riassumiamo, dopo averne avuta conferma, quello che ci siamo già detti nei giorni.

Oltre. Non (solo) un voto contro Berlusconi ma un voto oltre Berlusconi. La stagione del Sultano è finita. Restano in quattro a ballare la sua musica. Bossi che studia come uscirne, e quando. I servi sciocchi e stipendiati. I comprati, che dalla sua caduta hanno solo da perdere. Non vale la pena occuparsi di loro, adesso. Il Paese non si occupa di loro, è oltre. Dei trenta milioni che hanno votato moltissimi sono elettori di centrodestra, molti altri astenuti che sono tornati a votare perchè chiamati a riprendersi la delega, a esprimersi finalmente su qualcosa di concreto, che li riguarda. A dire: non ci sentiamo rappresentati da questa classe politica, ne vogliamo una nuova che ci somigli e ci tuteli.

I partiti
Continuare a leggere il voto, come sento fare ancora nei salotti tv e nelle direzioni politiche, con la logica del chi ha vinto e chi ha perso, quale alleanza è opportuno adesso fare, destra sinistra centro, come spostare i blocchi di voti secondo convenienze di vertice è miope e sbagliato. Se ce ne fosse ancora bisogno il voto di ieri conferma che è finita l’epoca della politica verticale, quella in cui il leader di partito dà indicazione all'elettorato e quello - obbiediente e acritico - esegue. È orizzontale, questa politica.

È politica, non c'è dubbio che lo sia: non è antipolitica velleitaria e populista. E' politica che nasce dal basso, dai comitati dai cittadini che si organizzano, che passa anche attraverso i partiti ma non solo, che è capace di disubbidire, che esercita in prima persona la responsabilità. Direte: ma la nostra è una democrazia rappresentativa, le forme di democrazia diretta come il referendum sono un'eccezione non sempre salutare. Sì, ma se la democrazia rappresentativa è bloccata da un sistema elettorale che impedisce ai cittadini di scegliere gli eletti, se gli eletti sono nominati dai leader e non rispondono più all'elettorato, se sono deboli perchè dipendono da quella nomina e dunque corruttibili come possono, allora i cittadini, dare un segno? Come possono chiedere di tornare ad essere i protagonisti di un sistema in cui “la sovranità appartiene al popolo” se le forme in cui la esercita sono sclerotizzate e ammalate? Gli elettori hanno imparato a dissentire dalla “linea” dettata dalle segreterie. Raccolgono firme sui tavoli anche quando i loro partiti di riferimento non lo fanno, vanno a votare anche quando i loro leader dicono di no.

La Padania di Bossi è andata alle urne in massa, il Veneto e il Piemonte assai più della Calabria: uno scollamento che deve togliergli il sonno, e che connoterà domenica prossima l'appuntamento di Pontida. Hanno fatto come volevano: a sinistra come a destra, al centro. Inoltre, vedete, torna al voto il partito del non voto: quel 30 per cento di italiani che non si fida e non si identifica più in nessuno – per stanchezza, per disillusione, perchè troppe volte eccetera eccetera – ecco che quando trova spazio per dire la sua in un'area non rappresentata solo dai partiti lo fa. Il tesoro nascosto riemerge. In questa struttura a rete, orizzontale, certo che i partiti hanno una funzione fondamentale: ne sono parte, non ne sono più il vertice.

Possono e devono mettersi al servizio dei cittadini: quando lo hanno fatto, sebbene in ritardo in qualche caso, seppure con qualche prudenza al principio, hanno vinto. Nella battaglia referendaria, per esempio, nata dai Comitati così a lungo dileggiati, sostenuta da principio da Di Pietro e da Sel, poi anche convintamente dal Pd tutti costoro possono dire oggi di aver vinto. Come tutti coloro che hanno sostenuto con lealtà De Magistris e Pisapia hanno vinto. Come le primarie - che ora anche la destra con ridicolo ritardo e nessuna credibilità dice di voler fare – insegnano. L'elettorato ha dimostrato, tutte queste volte, di avere più lungimiranza e più coraggio di chi lo rappresenta in Parlamento. In qualche caso, penso al voto cattolico, persino di essere più a sinistra dei suoi leader. Gli elettori di centrodestra hanno detto invece che possiamo voltare pagina, Berlusconi è passato, adesso torniamo a fare politica.

I giovani
La rivoluzione arriverà quando i nonni si alleeranno coi nipoti, abbiamo scritto tante volte. Quando i ragazzi convinceranno i genitori: a votare, a cambiare, ad uscire dal torpore ipnotico di cui la generazione di mezzo è stata in grande parte vittima, nel trentennio di regime mediatico. I vecchi e i giovani hanno realizzato questo cambiamento. I ragazzi, soprattutto. E principalmente usando mezzi e linguaggio nuovo: il web, l'ironia, il passaparola, i videomessaggi, la satira. Vale più una vignetta che gira in rete di un comizio.

La Rete
Dicevamo qualche giorno fa che il voto delle amministrative decreta la fine dell'era televisiva. L'inizio della fine, certo, perchè ci vorrà tempo. Ma oggi non c'è chi non veda come questo voto non sia stato in alcun modo determinato dalla tv. A parte tre o quattro dibattiti televisivi, sempre gli stessi, del referendum non ha parlato nessuno. Gli otto milioni di Santoro non sono nemmeno un terzo dei trenta che sono andati a votare: davvero è colpa o merito di Annozero presidente? Non penso proprio, fate un giro in rete. La quantità e qualità della mobilitazione ha raggiunto l'eccellenza creativa anche con mezzi rudimentali: vi abbiamo mostrato in copertina, negli ultimi giorni, di cosa fosse fatta questa campagna. Del protagonismo di ciascuno e della sua capacità di “bucare”. Capacità, scrive oggi il blogger Alessandro Capriccioli, direttamente proporzionale all'autenticità del desiderio di esserci, di passione e ragione, di verità. La verità, l'autenticità hanno vinto sulle menzogne sulle censure e sulle prepotenze. Si riconoscono, le une e le altre. Non serve più che il Tg1 oscuri Napolitano che va a votare, come non serve censurare le voci scomode: si leveranno altrove. Vale per tutti, a destra e a sinistra. Del resto: il governo ha provato a boicottare in ogni modo il voto: spostandolo al primo week end dopo la chiusura delle scuole, scrivendo leggine e inoltrando ricorsi. Ma se era inutile, perchè tanta fatica presidente?

Un tempo nuovo
Erano 15 anni che un referendum non raggiungeva il quorum. Ventidue, dal '97, hanno fallito l'obiettivo. Vogliamo continuare a discutere, da domani, come se non fossimo davanti a un'Italia che rinasce? Vogliamo ancora baloccarci con le pensose analisi degli opinionisti tv - tutti uomini, di solito, tutti cinquantenni - o vogliamo andare a sentire anche i ragazzi per strada, i giovani dei comitati, gli amministratori coraggiosi, quelli che non contano niente perchè non hanno l'autista, quelli che lavorano nei circoli e nelle sezioni ma nessuno gli chiede mai altro che obbedienza, magari per fax? Liberiamo le donne e i bambini, ascoltiamo la voce dei figli e dei nonni, riprendiamoci la libertà, la dignità, la bellezza dell'impegno politico. Nei partiti e fuori di lì, dappertutto. Costringiamo chi pensa che il potere sia facoltà di comando a ricordarsi che è obbligo di servizio. Una grande responsabilità, una fatica e una gioia. Tutto il resto verrà, sta già arrivando. Buongiorno, Italia. E grazie.

14 giugno 2011
da - unita.it


Titolo: Concita De Gregorio a-rileggerti presto.
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2011, 06:38:01 pm
Nel segno della chiarezza

Concita De Gregorio

È trascorsa quasi una settimana dal giorno in cui insieme all’editore vi ho annunciato che avrei lasciato la guida dell’Unità e sento il bisogno di non far passare altro tempo per ringraziare tutti coloro che in questi giorni hanno scritto al nostro giornale e a me. Migliaia di persone alle quali non mi sarà possibile, se non in piccola parte, rispondere individualmente come vorrei: un’ondata di affetto che ci ha travolti fatta di messaggi, video, link su youtube, lettere di carta, persino telegrammi come si usava una volta, disegni di bambini, post su Facebook e poesie. Vecchie e nuove generazioni, ciascuna col suo linguaggio, ci hanno dato una testimonianza di calore e di stima per il lavoro di questi tre anni, per il cammino fatto insieme, che da sola giustifica le fatiche e l’impegno collettivo. Insieme alle lodi e all’affetto in molti hanno espresso qualche preoccupazione, domandato un supplemento di spiegazioni.

Come sapete non ho mai tenuto in conto, salvo che in rarissime e gravi eccezioni, gli attacchi scomposti della destra che sempre si qualifica da sola per quel che è con il suo carico di dossier fatti di voci anonime, lettere autoprodotte, falsi plateali spacciati per documenti, sussurri rancorosi assurti a verità e conditi nel caso specifico dell’opportuna dose di misoginia volgare. Anche questa volta non sono mancate le bordate ma d’altra parte lo sapete, viviamo ai tempi in cui Bisignani regna, non un appalto un incarico una quota di pubblicità si danno se non passano da quella regia e noi che ce ne siamo tenuti ben alla larga: anche per questo paghiamo pegno. Per non aver chinato la testa alle eminenze nere e ai signori degli affari. Il nostro giornale non porta quella macchia. Non è ai picchiatori e agli scherani del potere della destra che mi rivolgo dunque, naturalmente, ma a quanti fra i nostri lettori hanno espresso dubbi, chiesto rassicurazioni.

In primo luogo: questo giornale non conosce censure. Sotto la mia guida non ne ha subite da parte di alcuno, non ne ha esercitate. Capisco chi ci sia chi della persecuzione ha fatto la sua professione non avendo altro talento da spendere ma i fatti parlano: si può domandare a Marco Travaglio e a Claudio Fava, a Luigi De Magistris e a Sergio Staino, a don Filippo di Giacomo e a Lidia Ravera, a Francesca Fornario e Francesco Piccolo. Neppure i commenti sul web sono filtrati dalla moderazione: entrano tutti, in automatico. I nomi che ho citato esprimono sensibilità lontane tra loro, come vedete. Chi ha lavorato qui non ha mai subito pressione alcuna. Chi ha deciso di andare lo ha fatto per legittime aspirazioni professionali o economiche, in qualche caso perché ha avanzato richieste che non potevamo esaudire. Chi è arrivato, per contro, da Pippo Del Bono a Margherita Hack, da Michela Murgia ad Ascanio Celestini, da Nicola Piovani a Loretta Napoleoni lo ha fatto per passione, accettando quelle condizioni. Nessuna censura è stata mai esercitata su di noi, d’altro canto. Né da parte dell’editore né da parte del Partito Democratico.

Non sono mancate, lo abbiamo scritto con Renato Soru, critiche a questo o quel numero del giornale da parte di qualche dirigente, come ad ogni latitudine accade. Sono venute da tutte le componenti del partito il che è di per se una garanzia di equilibrio. D’altro canto moltissimi sono stati i riconoscimenti, personali e pubblici, degli esponenti di un partito che in questi tre anni ha cambiato tre volte segretario, ha affrontato le primarie e varie tornate elettorali con le tensioni che ne conseguono: hanno trovato costante spazio qui tutti coloro che hanno voluto esprimere il loro pensiero, dal preziosissimo Alfredo Reichlin che ci aiutato spesso a trovare la rotta ai più giovani dirigenti delle diverse anime del partito: Francesca Puglisi per la scuola e Stefano Fassina con Vincenzo Visco per l’economia, Livia Turco sui temi dell’immigrazione e Vittoria Franco su quelli delle donne, Ivan Scalfarotto e Paola Concia sulle diversità, Enrico Letta sulla politica e i diritti individuali, Sandra Zampa e Matteo Orfini, Sandro Gozi e Pietro Ichino, Pippo Civati e Susanna Cenni, moltissimi altri, tutti coloro che hanno voluto. Luigi Manconi ha portato il suo spirito libero. Goffredo Fofi la sua critica. Angelo Guglielmi i suoi libri. I più giovani, da Andrea Satta a Tobia Zevi ci hanno parlato del tempo in cui viviamo.

Nessuno può dunque credere che questo luogo libero e felice di incontro fosse ai suoi protagonisti sgradito a meno di non andare contro la logica e l’evidenza. Le tesi complottiste si spengono al cospetto dei fatti. I fatti sono che il nostro giornale ha attraversato due anni di stato di crisi, una ristrutturazione aziendale avvenuta all’unisono con quella di tutti gli altri grandi quotidiani, che ci ha costretti a lavorare in grande economia di mezzi e a chiedere alla redazione il sacrificio della cassa integrazione a rotazione per consentire ai più anziani di raggiungere il limite dell’età pensionabile, oltre il quale tutti quelli che lo desideravano sono stati mantenuti al lavoro con contratti di collaborazione. Nessuna delle energie storiche è andata dispersa. Al contempo però, e di questo ho parlato molte volte in pubblico e in privato con Susanna Camusso, la legge che regola le ristrutturazioni aziendali prevede che per prima cosa cessino i contratti flessibili, a tempo indeterminato.

L’Unità non ha mai licenziato nessuno, in questi tre anni: semplicemente, in base alla legge, non ha potuto rinnovare i contratti atipici che come ciascuno sa sono quelli con cui negli ultimi anni sono stati assunti tutti i più giovani. È una normativa che penalizza le generazioni in entrata e tende a creare conflitti generazionali. Nell’anno in cui abbiamo potuto farlo abbiamo firmato contratti a termine a ragazzi che hanno avuto qui una tribuna che li ha portati, in base alle loro capacità e ai loro talenti, ad ottenere in seguito interessanti e prestigiosi incarichi. Moltissimi di loro, anche molti tra i collaboratori, ce ne rendono in questi giorni atto. Alle parole e alle denunce di chi non conosco non posso rispondere.

È falso che abbiamo chiuso le cronache locali, al contrario ho messo le mie dimissioni sul tavolo nel momento difficile della discussione sulle edizioni di Firenze e Bologna, che sono state rilanciate sotto la regia di Pietro Spataro. Così come ho combattuto per le sostituzioni maternità che abbiamo coperto, sempre, tutte.

Ora che il ciclo si è chiuso, al 31 maggio la faticosissima stagione della Cig è finita, il giornale è pronto per un rilancio. A ciascuno la sua stagione. Io credo di aver portato il lavoro sin qui, con l’aiuto di Giovanni Maria Bellu di Luca Landò e della redazione intera, in condizioni di mare in tempesta. Credo anche che l’investimento fortemente voluto dall’editore sul web, che ha quintuplicato il suo traffico – 150 mila amici su Facebook, un luogo che si chiama ComUnità straordinario e vivacissimo, punte di due milioni di utenti unici – sia stato ancora una volta un esempio di quanto l’azienda e la redazione siano state capaci di trasformare le difficoltà in opportunità, guardando lontano.

Io credo che oggi - e le mobilitazioni degli ultimi mesi, i risultati delle amministrative e dei referendum ci danno ragione – sia davvero cambiato il tempo e sia quello il luogo dove ha senso proseguire una battaglia di rinnovamento del Paese. Anche quello. Credo che sia legittimo che io vi dica che le vecchie logiche spesso non offrono più le condizioni di libertà e di autonomia che le nuove generazioni a buon diritto pretendono. Che in questo momento di transizione verso il futuro, insieme alla conservazione di un patrimonio storico – quello che abbiamo traghettato sin qui, insieme al suo archivio centenario, portandolo nel presente – ci sia bisogno che chi ha forze e passione per farlo investa in nuove scommesse, come dico da tempo. Lavorare all’Unità è stato un privilegio, questi anni un investimento che ci ha portati dove voi eravate: proviamo per una volta a non demolire ciò che abbiamo costruito, ad avere rispetto del giornale e di noi stessi, a non farci distrarre dalle grida di chi – debole e ormai alla fine – vorrebbe trascinarci nella polvere con sé. La nostra forza è quella che gli altri non conoscono e non sanno decifrare: la disinteressata passione, la trasparenza di chi non è in vendita, il coraggio di rischiare.

24 giugno 2011
da - http://concita.blog.unita.it/nel-segno-della-chiarezza-1.307367


Titolo: Concita DE GREGORIO Le confessioni di Marrazzo "Perché andavo in via Gradoli"
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2011, 10:18:18 am
L'INTERVISTA

Le confessioni di Marrazzo "Perché andavo in via Gradoli"


L'ex governatore del Lazio due anni dopo si racconta.
Lo scandalo, le dimissioni, la solitudine. Una confessione: "Ho sbagliato per fragilità, chiedo scusa.
Un uomo pubblico deve controllare le sue debolezze".

E poi: "Non ero drogato né omosessuale. Ma ricattabile sì.

Perché i trans? Sono donne all'ennesima potenza, rassicuranti"

di CONCITA DE GREGORIO


NEL CORSO di questa intervista, iniziata la sera del primo turno delle amministrative di maggio con le proiezioni che continuamente irrompevano dai cellulari e finita ad agosto a Monterano, borgo abbandonato dove è nata una quercia dentro una chiesa disegnata dal Bernini, Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte "perché io sono il figlio di Joe Marrazzo".

L'ultima volta - era il giorno del congedo di Paolo Ruffini dall'azienda - lo ha detto a proposito della Rai: "Perché io sono entrato per la prima volta alla Rai da bambino per mano a mio padre". Nei primi due incontri, segnati dalla sua estrema diffidenza e in definitiva dal tentativo reciproco di capire se saremmo riusciti a parlare della "cosa", ha raccontato solo della sua famiglia.

Del padre, del padre e poi ancora del padre, per ore. Della madre americana, la cui vita è un romanzo. Delle figlie ragazze, i loro studi. Con grandissima prudenza della moglie Roberta, "certo che la amo ancora, come sempre". In ultimo della loro figlia bambina. Il secondo incontro è finito così, con una lunga pausa alla domanda "come ha raccontato quello che è successo a sua figlia di dieci anni?". Dopo un paio di minuti ha risposto: "Le ho detto che papà è andato alla festa sbagliata". Poi due mesi di silenzio, come se quella frase fosse stato tutto quel che c'era da dire.

Al suo ritorno da un viaggio in Armenia - ha ricominciato a girare documentari per la Rai - ci siamo incontrati di nuovo. Grotta romana di Stigliano, il luogo dove i soldati feriti andavano a recuperare le forze e a curarsi. Catacombe da cui si esce risorti. "Magari funziona", sorride. Una settimana prima otto persone, tra cui tre carabinieri, erano state rinviate a giudizio per tentata estorsione ai suoi danni.

Soddisfatto?
"Come potrei essere soddisfatto? Sono due anni che vivo solo, che non parlo di questo con nessuno, che provo a ritrovare il bandolo della vita. Sono il figlio di Joe Marrazzo, ce la farò. Ce l'ho fatta già. Ma la soddisfazione, mi creda, in questa storia non è contemplata".

Un paio d'ore più tardi ne abbiamo parlato. Avrei solo sei o sette domande, gli ho detto. Cos'è successo davvero quella sera, perché, cosa non si perdona, a chi attribuisce le responsabilità, cosa le è successo nella vita politica e privata in quei mesi, come pensa il futuro, se la politica la tenta ancora o se è una storia finita. Va bene? "Va bene. Ma solo perché in cima o in coda a queste domande c'è una sola cosa che sento di dover dire. Pubblicamente, alle persone che si sono fidate di me".

Che cosa?
"Che ho sbagliato. Ho fatto un errore. Di questo errore voglio chiedere scusa. Ho sbagliato, scusatemi. Ecco. Solo questo".

Sono passati più di due anni da quel giorno. L'errore è stato andare in via Gradoli, andarci con l'auto di servizio, assumere droga, fidarsi della persona sbagliata, non aver capito, non averlo detto a chi avrebbe potuto, non aver denunciato il ricatto? Di quale errore parla?
"Un errore più grande di tutti questi. Una mia fragilità di fondo, un bisogno privato e così difficile da spiegare, una mia debolezza. Un uomo che assume un incarico pubblico non può avere debolezze. Le deve controllare. Per questo mi sono dimesso, per quanto fossi vittima di un reato come oggi quei rinvii a giudizio dicono. Vittima, non colpevole. Ma l'aspetto giudiziario è secondario: so di non aver commesso reati, di non aver violato alcuna legge. Umanamente però, nei confronti della mia famiglia, e politicamente, verso i miei elettori e la comunità che governavo, ho sbagliato. Così mi sono dimesso".

È andato a far visita a una persona per motivi privati con l'auto di servizio.
"È vero. È stata in molti anni la prima volta che è successo. Avevo sempre usato la mia macchina. Quel giorno ero confuso, stanco, ho avuto un impulso di andare lì subito. Un impulso, ecco un errore grave. C'erano anche ragioni di sicurezza: non avrei mai dovuto muovermi da solo - secondo le regole - e ogni volta che lo facevo era complicatissimo. Quel giorno non ho avuto l'energia di allestire un meccanismo complicato. Ero stanco, volevo andare lì e dimenticare il resto. Ho fatto parcheggiare lontano, ma certo questo non scusa. È stata la prima volta, e naturalmente l'ultima".

C'era della droga nella stanza.
"Non faccio uso di droghe. Mi sarà successo tre o quattro volte nella vita, a distanza di molti anni. Da ragazzo, un paio. Un paio da adulto. Sono pronto a fare l'analisi del capello per dimostrarlo. So che non è un argomento, ma sono certo che moltissimi "insospettabili", anche tra gli attuali miei censori, non potrebbero dire altrettanto. Quel giorno è successo: anche in questo ho sbagliato. Penso al messaggio devastante che ho mandato, soprattutto ai più giovani".

Vedeva abitualmente quella persona? Era come si è scritto "la sua fidanzata"?
"Assolutamente no. Per anni non ho visto nessuno. Mi era capitato in passato di avere rapporti con prostitute, come a volte agli uomini accade - specie se oberati dal dovere di essere all'altezza delle aspettative, pubbliche e private. Ho fatto un intenso lavoro terapeutico in questi anni per capire. Intendo capire le ragioni del mio comportamento".

Un lavoro di analisi?
"Sì. Ho provato a capire attraverso l'analisi, e la parola e l'ascolto, che cosa mi fosse davvero accaduto. Credo di dovere alla terapia molte delle risposte".

Diceva della fatica di essere all'altezza delle aspettative.
"So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse".

Non c'entra l'omosessualità? Ricorda la battuta del presidente del Consiglio: almeno a me piacciono le donne? Se fosse, lo direbbe?
"La ricordo. Io non sono omosessuale. Non ne faccio un vanto, ma non lo sono. È così. Ho amato solo donne. Moltissimo, e con frequente reciprocità. Dai transessuali cercavo un sollievo legato alla loro femminilità. Il fatto che abbiano attributi maschili è irrilevante nel rapporto, almeno nel mio caso. Non importa, non c'è scambio su quel piano. È il loro comportamento, non la loro fisicità, quello che le rende desiderabili. Ma temo che ogni parola possa suonare come una giustificazione: non è quello che voglio. Quando sei padre le scelte in questo ambito, giuste o sbagliate che siano, se date in pasto alla pubblica opinione fanno male non a te ma ai tuoi figli. È questo che non mi perdonerò mai".

Lei aveva un appuntamento in via Gradoli quella sera?
"Non esattamente. Sono andato per suonare alla porta. Il desiderio è questo: suoni alla porta, e si apre. Poi riposi".

E se l'appartamento fosse stato occupato da altri?
"Sarei andato via".

Un rischio enorme.
"In effetti".

E come spiega allora la trappola. L'orchestrazione, la cocaina, il video?
"Aspettavano che arrivassi. Era successo altre volte. È un giro così. Ho saputo nei mesi successivi che quei cosiddetti rappresentanti dell'ordine erano coinvolti in molti altri episodi. Un sistema. Avrei dovuto accorgermene ma le difese, come le ho spiegato, in quei momenti sono molto basse. Non dimentichi, comunque, che nel mio caso è scattata l'azione giudiziaria solo perché io ho denunciato i fatti. È il nodo centrale: tutto è avvenuto perché ho denunciato, testimoniato. Se non l'avessi fatto nulla sarebbe emerso".

Quanto le costava tutto questo? Come poteva disporre di tanto denaro?
"Sono stato per molti anni un professionista affermato. Non ho accettato la candidatura per motivi economici, sono abituato a vivere del mio. Quello che ho guadagnato è frutto del mio lavoro, ho speso solo soldi miei".

Due persone sono morte: Brenda e il pusher Cafasso. Si è parlato della mano dei Servizi segreti. Si è detto che gli appartamenti di via Gradoli fossero controllati dai servizi.
"L'idea che mi sono fatto è che la dietrologia non aiuta mai a capire. C'è un'inchiesta in corso, bisogna aspettare. I giornali non sempre hanno aiutato la ricerca e la comprensione dei fatti, in questa vicenda. Ho letto in prima pagina sul Corriere un'intervista sulla morte di Brenda che non avevo mai rilasciato".

Quel video girava da mesi.
"Sì, ma nessuno mi stava ricattando. Io l'ho saputo dopo. Ho ricevuto una sola telefonata, non personalmente tra l'altro, molto ambigua. Non ho dato risposta. Non c'era un tentativo di estorsione in corso: se ci fosse stato, le assicuro, lo avrei denunciato mesi prima. Cosa sarebbe cambiato?".

La sua ricandidatura alla Regione, per esempio.
"Non mi sarei mai ricandidato sapendo di essere sotto ricatto. Difatti non è avvenuto".

Berlusconi l'ha avvertita dell'esistenza del video.
"Sì, era il 19 ottobre del 2009".

Cosa le ha detto? Come mai aveva il video?
"Mi ha detto che lo aveva avuto da uno dei suoi giornali a cui era stato offerto. Si è proposto di aiutarmi".

E lei cos'ha pensato? Che volesse aiutarla o tenerla sotto scacco?
"Ho pensato solo che non potevo restare in una posizione di tanta debolezza. Che comunque quella telefonata segnava uno spartiacque. Che non avrei più potuto fare il mio lavoro con la stessa autonomia, responsabilità, libertà. È stato l'inizio della mia decisione di parlare. C'è voluto un po' di tempo, dovevo prima dirlo in famiglia".

Sua moglie non sapeva niente delle sue abitudini, neppure di quelle remote, precedenti al vostro incontro?
"Lei cosa pensa?".

Immagino sia un no. Non ha mai pensato di parlargliene?
"No. Anche questo è stato un errore, di cui non so più come chiederle scusa. Ma è molto complicato, è qualcosa che riguarda davvero le nostre vite private".

Oggi siete separati.
"Purtroppo sì. Sono stati mesi molto duri per lei. Un giorno è persino uscito un articolo di giornale in cui si diceva che ricevevo una transessuale in Regione. Non era vero, non è vero, non l'ho fatto né l'avrei fatto mai. Questa persona è stata probabilmente indotta a dirlo in un tentativo orchestrato da altri di screditarmi anche sul piano della condotta pubblica. Un piano su cui so di non avere macchie. Quando sono andato in Procura a rendere dichiarazioni spontanee sull'episodio mi hanno detto: non c'è alcuna deposizione in proposito, non può dichiarare sul niente".

Lei dice di non avere macchie sul piano della conduzione della Regione. Nei mesi in cui si immaginava che a qualcuno convenisse tenerla sotto ricatto, però, si è molto parlato di alcune sue indulgenze in materia di sanità. Si diceva che Angelucci venisse in Regione in tuta da ginnastica, come fosse a casa sua la domenica, e che la trattasse da padrone.
"Veniva in tuta, è vero. Era un suo problema, non un mio problema. Lo facevo sedere, lo ascoltavo, e poi gli dicevo di no. Ho detto molti no, parlano gli atti per me. La sfido a trovare una singola carta che dimostri un mio trattamento di favore verso gli Angelucci. Non esiste. Al contrario, vedrà. Ho toccato interessi molto consistenti, e non solo a danno dell'imprenditore che lei nomina. La sanità è un territorio esteso, gli interessi sono trasversali. E poi c'è stata la tutela dell'ambiente nelle zone del basso Lazio, gli appetiti dell'edilizia sui parchi, il racket dei rifiuti. A Fondi ho commissariato il mercato ortofrutticolo inquinato dalla camorra e ho fatto saltare le speculazioni urbanistiche intorno al lago dichiarandolo "monumento naturale". Su questo ci sarebbe molto da dire. Ho scontato un isolamento ed un'ostilità assolute, dopo. Bipartisan, si dice in politica".

Si è sentito isolato anche a sinistra?
"Cambiano i caratteri, le modalità private di relazione fra persone. Alcuni sono stati più cortesi e compassionevoli, anche questo può essere umiliante, altri più sferzanti. In sostanza hanno tutti concordato sulla straordinaria opportunità che offriva la mia uscita di scena. Circolavano sondaggi che mostravano come avrei vinto comunque le elezioni. Non me ne sono curato, sono andato via. Avevo sbagliato. Che io sparissi dalla scena pubblica in quel momento - Polverini era la candidata di Fini, ricorda? - faceva comodo e piacere a molti non solo sul piano locale. In ogni caso avevo davvero altro a cui pensare. Per un mese intero sono stato in un convento".

Era Montecassino, da dove ha scritto la lettera al Papa?
"Non ho scritto al Papa. Dopo qualche giorno a Montecassino, e ancora oggi sono grato al Padre Abate e alla comunità monastica per come mi hanno accolto, ho sentito il bisogno di scrivere al cardinal Bertone per spiegare i motivi che mi avevano spinto a chiedere ospitalità. Non erano giorni facili, sapevo quale disagio potevo causare. Il senso di quella lettera era "la mia vita riparte da qui". Ricordo le parole "non posso che sedermi all'ultimo banco". A Montecassino ho ripreso in mano due libri, le confessioni di Sant'Agostino e l'autobiografia di Simenon. Il primo mi ha aiutato a capire che se hai conosciuto il male non devi più nasconderti, devi continuare a guardarlo in faccia. Nella vita di Simenon mi interessava il tema dei sensi di colpa di un padre. Ecco, sono ripartito da questo".

E oggi, che cosa pensa? Tornerebbe in politica? Se ne parla molto.
"Lo so, lo so. So che molti lo temono, anche fra gli "amici". Ho conservato un rapporto straordinario con le persone, con la gente per strada. Mi chiedono sempre, anche stasera - ha visto? - presidente, quando torna? Le persone comuni capiscono benissimo le vicende della vita, sanno distinguere, sanno giudicare e trarre le conseguenze. Sanno anche perdonare, se la colpa è una debolezza e non una frode ai loro danni. Ne sono sicuro, lo so perché lo vedo. La distanza di questa politica dalla vita reale è diventata il vero problema del paese. Hanno paura - tutti, nelle loro blindate stanze - di tutto ciò che è autentico, anche nell'errore. La popolarità, il consenso di chi non sia manovrabile, ricattabile è per loro un pericolo tremendo. È la misura del loro limite. Quelli che si comportano come se avessero un mandato a vita per rappresentare gli altri sono uno dei problemi della nostra politica. Chi governa deve essere chiamato a farlo dai cittadini ed avere la loro fiducia. Parlare di liste civiche, dei protagonismi di questo o quel personaggio in un momento di crisi come questo mi sembra fuori luogo, miope e presuntuoso insieme. Detto questo: da uomo pubblico non ci si dimette".

In che senso?
"Lasci l'incarico, ma non lasci mai il carico di responsabilità che hai agli occhi degli altri. L'ho capito a mie spese. Un giorno Enrico Mentana, col quale avevo lavorato al Tg2, mi ha detto: Piero, è inutile girarci intorno. Ogni uomo pubblico viene ricordato per un episodio e tu sai che lo scandalo è entrato nella memoria collettiva per sempre. È vero, e ho apprezzato la sua franchezza, ma sentivo che c'era qualcosa di più. C'è la vita di un uomo, la vita prima e la vita dopo. Questo la memoria collettiva, per quanto impietosa, non può cancellarlo".

Lei era ricattabile, mi pare che questo resti il punto.
"Ero ricattabile, sì. Infatti è andata com'è andata. Però vorrei che si ricordasse sempre che mi sono dimesso, che era una debolezza privata, che non ho fatto torto a nessuno se non alla mia famiglia. Che la corruzione era in chi avrebbe dovuto proteggerci e non credo alle "mele marce", non posso credere che nessuno vedesse e sapesse tra chi comandava quel nucleo criminale. Che gli interessi enormi che ho toccato sono ancora tutti lì, che le vicende umane sono state devastanti per molti e letali per alcuni. Ma io sono il figlio di Joe Marrazzo, mio padre lo voleva morto la mafia. Ho sbagliato e chiedo scusa, lo chiederei a lui prima che agli altri se fosse qui. Per il futuro vedremo, nessuno di noi può darselo da solo. Sconto il mio errore come è giusto. La vita è davanti".

(15 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/08/15/news/intervista_marrazzo-20450866/?ref=HRER3-1


Titolo: Concita DE GREGORIO La P3, la P4 e quei milioni regalati la pista del denaro ...
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2011, 10:49:12 am
L'INCHIESTA

La P3, la P4 e quei milioni regalati la pista del denaro porta al Cavaliere

Sei procure, sei filoni d'indagine, migliaia di pagine agli atti.

Tutte le inchieste che negli ultimi mesi hanno intrecciato il mondo della politica hanno un filo conduttore comune. Fatto di bonifici, assegni e faccendieri 

di CONCITA DE GREGORIO

La P3, la P4 e quei milioni regalati la pista del denaro porta al Cavaliere Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi
QUELLO CHE abbiamo smesso di chiederci è perché, per conto di chi. Assuefatti all'omeopatico dilagare della corruzione che ha trasformato l'Italia nel paese del "che male c'è, così fan tutti", tutti colpevoli nessun colpevole, scivoliamo distratti sui resoconti di giornata dei giornali, tanto si sa come va il mondo.

Sei Procure, sei filoni di indagine, migliaia e migliaia di pagine agli atti. Berlusconi ha regalato a Dell'Utri dieci milioni di euro? Un uomo generoso, beato lui che ce li ha. Angelucci ha estinto il mutuo da otto milioni di Denis Verdini? Ah. Walter Lavitola, curatore testamentario della un tempo gloriosa testata L'Avanti! paga uno stipendio mensile al procacciatore di protesi e di prostitute Tarantini, rimborsato dal presidente del Consiglio? Era prevedibile, Tarantini del resto ("le donne e la cocaina favoriscono gli affari", un maestro del pensiero) in qualche modo doveva essere messo in salvo. Meglio soldi che un seggio in parlamento, in fondo.

Fu Verdini ad avvisare Caldoro, allora candidato alla presidenza dalla regione Campania, che c'era un dossier "tipo Marrazzo" sul suo conto? Gentile. Del resto fu Berlusconi in persona ad avvisare Marrazzo. Voleva aiutarlo, certo. Un gruppo di faccendieri scambia le sorti politiche di Cosentino con la legge sull'età pensionabile dei giudici. Normale. Si attiva per far pagare alla Mondadori solo il 5 per cento di quel che deve alla Agenzia delle entrate? Gianni Letta segue la vicenda di persona? Vabbè, se è per pagare di meno, chi non lo farebbe, potendo.

Ecco, bisognerebbe ritrovare lo stupore, almeno. Se non l'indignazione la consapevolezza dell'enormità di ciascuna di queste notizie. Ricominciare a chiedersi: ma perché? Per conto di chi? Il Grande Corruttore ha comprato ogni cosa, persone e beni, ha disinnescato alla fine l'unica arma per lui davvero letale: l'intelligenza, la capacità di ciascuno degli italiani di darsi risposte in proprio, senza delegare.

Eppure non è difficile, basterebbe riportare tutto alla dimensione propria e ragionare sui soldi. Come se fossero i nostri, i vostri. Può una persona che guadagna 4000 euro al mese, come dice di sé uno degli indagati P3, spenderne 1000 per invitare ogni giovedì a cena degli amici? Non può, voi non potreste.

Dunque chi lo ripaga, per conto di chi lo fa, e perché? Quando qualcuno vorrà scrivere finalmente in chiaro la storia di come affondò nel pantano da lui stesso progettato l'impero di Silvio B. dovrà raccontare non di donne e di magio e, il collante del ricatto che tutti ammutolisce. Vediamo.

I PRESTITI INFRUTTIFERI
Vuol dire regalo. Non rendono niente, soldi a perdere. Abbiamo qui, venti pagine di relazione della GdF, la relazione sui soldi regalati negli ultimi tre anni da Berlusconi a Dell'Utri. Dieci milioni in tre parti: il 22 maggio 2008 attraverso il Monte dei Paschi, filiale di Segrate (la stessa che stipendiava le Olgettine), febbraio e marzo 2011 su Banca Intesa. Coprono uno scoperto di oltre 3 milioni di euro di Dell'Utri, e sette avanzano.

A cosa servono quei soldi? Perché il presidente del consiglio in carica finanzia con una somma così ingente un suo vecchio amico, certo, un uomo che in questo momento non ha altri incarichi se non la presidenza dei Circoli del Buon Governo, ironia delle parole, oltre ad una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa? Il procuratore Giancarlo Capaldo ha chiesto lo stralcio di questa parte dell'inchiesta P3. Il resto andrà a giudizio a metà ottobre, sui bonifici si continuerà ad indagare. Capaldo si è chiesto perché, in definitiva.

Si deve lavorare ancora per spiegare perché, in cambio di cosa Berlusconi paga l'uomo che gli presentò lo stalliere Mangano. Immaginarlo, indovinarlo non basta a certificare che si tratta di un compenso. Nel faldone bonifici c'è un'altra vicenda per lo meno curiosa: villa Gucci a Firenze, comprata da Denis Verdini per 8 milioni di euro - che non aveva - e in effetti pagata in tre rate dal re delle cliniche private Angelucci, denaro transitato da una società Lussemburghese sulla filiale Roma 5 del banco di Brescia.

Perché Angelucci paga i debiti di Verdini? Non basta accertare il passaggio di denaro, bisogna "chiarire senza equivoci la natura dello scambio". In questo caso, lo scambio tra due uomini che si sono fatti da soli, proprio come il Principale. Un ex portantino del San Camillo il primo, il titolare di una macelleria divenuto presidente di banca, Credito cooperativo fiorentino, il secondo.

Un miglioramento di status, quello di Verdini, che si riverbera anche nella natura dei reati che negli anni, una ventina di procedimenti, gli sono stati contestati. Dallo stupro alla concussione, che è più elegante. Chissà quanti bei ricordi di gioventù, con l'ex barelliere Angelucci, tra un passaggio di milioni e un altro. E comunque perché corrono questi denari e favori? Nell'interesse di chi?

I LUOGOTENENTI
C'è qualcuno che comanda, qualcuno che esegue gli ordini o addirittura li indovina, addestrato a prevenire i desideri. La storia del Grande Corruttore passa per le vicende dei suoi uomini, quelli che si sporcano le mani e qualche volta le lasciano in pasta, il sentimento di impunità e di onnipotenza essendo lo spirito del tempo. Le inchieste di questa stagione passano di qui, conviene conoscerli.

Sono, dirà la storia, tre modesti faccendieri. Quello di Berlusconi si chiama Denis Verdini, era in principio un macellaio di Fivizzano, divenne infine il dominus della sorte politica del suo signore per via dei denari, ovviamente: aveva una banca, teneva i cordoni della borsa e le fila dei moltissimi famigli e questuanti, dei finanziatori venuti da lontano, dalle epoche sepolte del craxismo degli esordi, delle massonerie degli affari, dei faccendieri piduisti da cui tutta questa storia trae origine.

Poi c'è Luigi Bisignani, in stretti rapporti con Gianni Letta: era un ragazzino all'epoca di Licio Gelli, è un crocevia degli affari trent'anni dopo.

Il luogotenente di Tremonti è Marco Milanese, irpino di Cervinara, una laurea assai tardiva, ombra silenziosa e avida del ministro dell'economia.

Le sei inchieste che nel 2011 minano come cariche di tritolo l'edificio già pericolante del Sistema si occupano di loro: i lobbisti a capo di una corte di figurine minori - Fofò, Mimì, Gegè, magistrati e presidenti, imprenditori e aspiranti scudieri - che parlando stretto dialetti di diversi entroterra si riuniscono indifferentemente tra gli stucchi di palazzo Pecci Blunt o sotto una tettoia di un'area di servizio autostradale, fanno a gara ad acquisire credenziali presso "Cesare", lo chiamano così, l'imperatore che tutto muove, per passare poi all'incasso.

Premono sulle corti di giustizia per favorire il lodo Alfano, dunque la di lui impunità; facilitano la nomina di un magistrato amico; fabbricano dossier su un candidato nemico, governano miliardi di appalti pubblici, si regalano barche, macchine e ville, se il mutuo è scoperto arriva presto un imprenditore in debito di gratitudine ad estinguerlo.

Sei inchieste: Milano, Monza, Firenze, Perugia, Napoli, Roma. E sullo sfondo la guerra per la successione: Gianni Letta e Giulio Tremonti, gli eredi naturali, si contendono da mesi, in verità da anni, l'eredità del berlusconismo. Letta è l'Andreotti del Duemila. Ecumenico, trasversale, amico di tutti, destra e sinistra, mediatore congenito fin dal tono di voce. Tremonti è l'uomo del Nord, pratico, antipatico, sodale della Lega di Bossi, la foglia di fico efficiente - a suo modo - in un governo di ventriloqui di modesta competenza. L'uomo dei conti.

E' dunque la storia, questa, della guerra fra Letta e Tremonti: una battaglia che oggi, estate 2011, li vede entrambi in ginocchio, azzoppati dalle inchieste in procinto di andare a dama. Fra settembre e ottobre le procure depositeranno le richieste di rinvio a giudizio dei loro uomini. Il pallino torna nelle mani di Silvio B., Cesare ormai diffidente di entrambi, mentre l'impero costruito negli anni Ottanta sul mattone e poi sulle tv, diventato infine politica allo scopo di mantenere intatte ricchezze e privilegi, tutto intorno si sfarina.

GLI ASSEGNI
La storia è scritta in un vortice di assegni e bonifici firmati da Berlusconi nell'arco di trent'anni. Il primo riemerge dalle nebbie degli esordi, è nelle mani dell'avvocato Stefano Gullo da Agrigento, classe 1923, biografia che incrocia quella di Sindona negli anni della P2. Gullo prestò, allora, un miliardo di lire a Flavio Carboni e Silvio Berlusconi ottenendo in cambio come garanzia assegni da non incassare. Non ha recuperato che 200 milioni, oggi reclama il resto esibendo - appunto - gli assegni firmati Berlusconi. Gli ultimi sono i bonifici di Berlusconi a Dell'Utri di cui si diceva. Prestiti infruttiferi.

Le carte sono agli atti, le fotocopie degli assegni e gli estratti conto in uno dei faldoni sulla scrivania del procuratore Giancarlo Capaldo. P4, P5, P55. Potremo andare avanti all'infinito ma la storia è sempre la stessa. Il sistema è quello, e non è neppure nuovo. Ricordate Evangelisti, "a Frà che te serve?". Era così ai tempi di Andreotti, che del resto è ancora assai presente sulla scena, è così oggi. Solo: a beneficio di un uomo solo.

Possiamo chiamarla P5 o P55 ma per capire il senso della sigla bisogna risalire alla P2, in fondo anche Licio Gelli era un impiegato della Permaflex, Berlusconi allora un giovane affiliato alla Loggia. "Dovrebbero pagarmi i diritti d'autore", disse Gelli anni fa a proposito di Berlusconi e Cicchitto. Più di recente, dei nuovi faccendieri sulla scena: "Dilettanti".

Anche Berlusconi ha detto di loro "pensionati sfigati". Della sfortuna si può discutere, che siano pensionati è una menzogna. Flavio Carboni, signore di Sardegna, viene direttamente dagli anni di Andreotti e di Sindona, crocevia di morti sparizioni e misteri. Arcangelo Martino, socialista napoletano, viene dagli anni craxiani del Raphael. Fu proprio al Raphael, racconta, che presentò negli anni Ottanta a Berlusconi il suo collaboratore Elio Letizia, presente Craxi. Elio Letizia, padre di Noemi. Ricordate cosa disse Berlusconi il primo giorno? "E' la figlia dell'autista di Craxi". Non proprio l'autista, qualcosa del genere.

I soldi, di nuovo - non le donne - sono la pista. I soldi e gli affari. Soldi di antica origine, debiti e sodalizi vecchi di decenni. Le radici alle origini. I frutti, poi, sono i Tarantini di Puglia, gli imprenditori sardi dell'eolico, gli Anemone dei grandi appalti e delle case ad altrui insaputa. E' come se sulla scena delle inchieste, oggi, ci fossero la prima e la terza generazione di affaristi. I "pensionati" della Prima repubblica e i giovani affaristi rampanti dell'ultima. Un passo indietro, nell'ombra, la generazione di mezzo quella delle grandi fortune: il ragazzo sveglio di allora, anziano Cesare oggi.

UNA SOLA STORIA
Il "sistema gelatinoso" dei grandi appalti, la fabbrica del fango della P3, le pressioni sui magistrati e sulla Guardia di Finanza della P4: è una sola unica storia, la storia della corruzione eletta a sistema. Quando Caldoro dice: "Mi convocò Verdini alla Camera, mi disse che c'erano storie di sesso sul mio conto. Mi disse che si sentiva in dovere di informare Berlusconi" siamo tutti in grado di leggere il sottotesto di queste parole.

Perché, in favore di chi? E quando si incontrano poi a casa Verdini per definire la candidatura di Arcibaldo Miller, l'interessato presente, Dell'Utri e Carboni. Per conto di chi? In un interrogatorio di sette ore Verdini è chiamato a dar conto di 2 milioni e 600 mila euro transitati dalla sua banca, in seguito oggetto di un'ispezione della Banca d'Italia che ne denuncia le molte irregolarità e la condanna a pagare una multa. Soldi che arrivavano da un imprenditore romagnolo dell'eolico, Fabio Porcellini. E finivano dove? "A finanziare il Giornale", risponde Verdini. Il Giornale di Paolo Berlusconi, edizione Toscana. E perché un imprenditore dell'eolico con interessi in Sardegna, regione guidata dall'amico Cappellacci, dovrebbe pagare i debiti del Giornale. Per favorire chi, oltre a se stesso?

NELL'OMBRA
Dice Arcangelo Martino di Pasquale Lombardi, il socialista e il democristiano campani protagonisti dell'inchiesta P3: "Lombardi aveva rapporti con Gianni Letta, più volte ho sentito le loro telefonate. Disse che stava aggiustando la faccenda Mondadori perché fosse trasferita alle sezioni unite della Corte". I nomi di Letta e di Tremonti - nelle 66mila pagine di un'inchiesta, le 80mila di un'altra - compaiono così, interlocutori invisibili all'altro capo del telefono. Beneficiari sedicenti inconsapevoli di appartamenti di gran lusso, mandanti mai espliciti.

Cesare è il convitato di pietra. Quando in una nota in calce a uno dei fascicoli resta l'appunto dei Carabinieri - "Cesare è il nome in codice che gli interlocutori telefonici danno a Silvio Berlusconi" - succede la fine del mondo. Per il metodo, non per il merito. Formalmente quella postilla doveva essere secretata, è rimasta per errore.

Leggiamo dagli atti. La cricca si attiva per la riammissione della lista Formigoni in Lombardia, per il dossier sul Caldoro che intralciava Cosentino in Campania, per la nomina di Alfonso Marra e il tentativo di candidatura di Arcibaldo Miller, questi ultimi magistrati perché le carte pullulano di giudici non ascrivibili alle toghe rosse, al contrario, giudici amici e compiacenti che volentieri partecipano a convegni 'all inclusive' nei più esclusivi resort della penisola, paga Carboni, paga il presidente della regione Cappellacci. Perché, nell'interesse di chi? Chi è l'utilizzatore finale?

CADUTI SUL CAMPO
Il primo a cadere, tra gli uomini di Gianni Letta è Guido Bertolaso, inviso assai a Tremonti. Il sistema gelatinoso degli appalti, il G8 e i mondiali di nuoto, Balducci, Anemone, De Santis, Della Giovanpaola, il procuratore Achille Toro, le aragoste per pranzo e l'eolico per cena, i centri benessere e gli evviva la notte del terremoto. Bertolaso declina.

Tremonti gioisce, ma subito l'inchiesta Finmeccanica - false fatturazioni, fondi neri - in un filone secondario, Eurotec, porta in luce la strana storia del suo consigliere Milanese. Questa è la vicenda di una barca ma sullo sfondo c'è un giro vorticoso di benefici galattici, di regali stellari, una vita vissuta nello sfarzo supremo mentre il paese intero si accinge a metter mano al portafogli per risanare la voragine del debito in cui è precipitato. Il ministro dell'Economia chiede enormi sacrifici agli italiani e il suo braccio destro veleggia di regalo in privilegio.

Lui stesso, il ministro, abita un appartamento da Milanese procurato. L'inchiesta, a parte i Rolex, parla di tre milioni e mezzo di tangenti per assicurarsi appalti assai più redditizi. Letta assesta un colpo alla Rai morente - perché, nell'interesse di chi? - piazza la cattolicissima Lorenza Lei alla direzione generale piuttosto che il candidato di Tremonti, Angelo Petroni. Subito Bisignani, uomo di fiducia di Letta a Palazzo Chigi, già lobbista ai tempi del tangentone Enimont e delle vicende Ior-Vaticano, finisce nell'inchiesta napoletana P4, altro giro di corruzione altre pressioni altri regali.

Il 2 agosto l'aula di Montecitorio autorizza l'acquisizione degli atti su Milanese (corruzione, associazione a delinquere, favoreggiamento) e non per Verdini su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio per tentato abuso d'ufficio nella ricostruzione dell'Aquila. Un colpo a Tremonti, senz'altro: Verdini salvo, Milanese no.

Il 3 agosto Capaldo lascia l'inchiesta Enav-Finmeccanica per la storia del pranzo con Tremonti e Milanese , il 4 chiude le indagini sulla P3 e stralcia la posizione Berlusconi-Dell'Utri quanto ai bonifici di cui sappiamo. Su quelli si indagherà ancora. Intorno a Ferragosto emerge che Tarantini, il procacciatore di prostitute pugliese, è pagato un tanto al mese da Walter Lavitola, direttore de l'Avanti!, a sua volta rimborsato da Berlusconi. Per cosa? "Per generosità, perché Tarantini era disperato", risponde Cesare.

Lavitola, attivissimo nel procurare documenti sul caso appartamento di Montecarlo-Gianfranco Fini nei giorni della rottura politica tra i due fondatori del Pdl, conferma che si tratta di beneficienza. "Un uomo disperato", Tarantini. I molti disperati d'Italia sanno ora a chi rivolgersi. A patto di avere qualcosa da offrire in cambio, è ovvio. "La generosità di per sé non è un reato, bisogna certificare con precisione in cosa consiste il do ut des". Immaginarlo non basta. Un assegno, un bonifico, un prestito infruttifero. Cesare paga, in questo scorcio di fine epoca. Generosamente, "disinteressatamente".

Peccato per la concomitanza con la manovra, che gli italiani pure pagheranno un conto. Che sappiano almeno con esattezza per coprire cosa, per salvare chi. Il pantano è un pozzo senza fondo, non basteranno pochi miliardi a risanarlo. Il Grande Corruttore sarà al sicuro fino al minuto esatto in cui non cominceremo tutti a chiederci perché, a favore di chi. Senza lasciare alla magistratura la supplenza, che prima del reato c'è il delitto politico. La responsabilità morale e materiale dello scempio.

(29 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: Concita DE GREGORIO Bersani non poteva non sapere cosa faceva il suo ...
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2011, 08:39:57 am
L'INTERVISTA

"Bersani non poteva non sapere cosa faceva il suo capo segreteria"

Parla il sindaco di Napoli De Magistris: "Gli affari Il limite dei due mandati? Troppo rigido. Ma non mi candiderò alle primarie del centrosinistra" 

di CONCITA DE GREGORIO

SINDACO De Magistris, esiste la "diversità etica" della sinistra?
"Storicamente è esistita. La sinistra più di ogni altra ha posto la questione morale come architrave dell'agire politico. Ultimamente la diversità etica è molto scemata".

Molto quanto?
"Assai. La politica si è persa nei palazzi e l'affarismo l'ha corrotta. Il sistema degli affari funziona allo stesso modo a destra e a sinistra".

Populismo. Demagogia. Antipolitica.
"Conosco bene il ritornello di autodifesa della casta. E' l'unico modo che è rimasto loro per preservare il loro potere: accusare chi non fa parte del loro gioco di antipolitica. Hanno una paura terribile di tutti coloro che non possono essere ricattati, provano a farlo e se non ci riescono tentano di gettare addosso la croce dell'antipolitica. Ma non c'è antipolitica nel Paese, c'è antipartitocrazia. Il sistema è ammalato gravemente e so quel che dico: il metodo è lo stesso ad ogni latitudine. Scambi fra pubblico e privato, mercato di consulenze, appalti, favori contro poltrone o credenziali. Poi non tutti lo adottano, certo. Come sempre la differenza la fanno le persone".

Esempi.
"Mi irrita la sorpresa che mostrano i leader di partito di fronte ai casi Bisignani, Penati e quant'altro. Penati era il capo della segreteria di Bersani. Bisignani l'uomo di fiducia di Gianni Letta a Palazzo Chigi. I leader sanno sempre benissimo quel che accade nel loro cerchio stretto. Sono stato ai vertici di un partito, ho trattato con i miei referenti in altre forze politiche, lo so. Del resto: sui casi di corruzione e concussione i partiti non sono mai arrivati per primi. Non ce n'è stato uno che abbia di sua iniziativa bonificato situazioni opache. E' stata la magistratura, sono stati i movimenti di cittadini a sollevare i casi".

Anche nell'Idv non sempre è andato tutto benissimo.
"Non sempre. Il reclutamento della classe dirigente è fondamentale e deve rispondere a criteri di chiarezza assoluta. Sono stato il primo a battermi per questo".

Una nuova classe dirigente. Pisapia suggerisce il limite tassativo di due mandati. E' d'accordo?
"Come principio di carattere generale sì, ma in politica le regole burocratiche non sempre funzionano. La questione morale non si risolve solo così. Avrebbe avuto senso stabilire il limite di due mandati per Enrico Berlinguer? Dopo di lui il Pd non ha più avuto un leader di quel calibro. Non è mettendo un limite temporale ai mandati che si fa emergere una generazione nuova ma coltivando in chi arriva alla politica i valori etici e morali di giustizia, libertà, trasparenza. Non cooptando persone simili e servili, gente che non faccia ombra a chi guida ma ingaggiando una gara fra talenti e progetti, valorizzando chi ha consenso e non emarginandolo. Non bisogna avere paura e scegliere le persone che sappiano fare una rivoluzione partendo dalla questione morale. Persone fuori dagli schemi, che sappiano connettersi col popolo e trovare un equilibrio fra istituzioni e movimenti civici".

Parla di sé?
"Ma no, anche se quello che è avvenuto a Napoli a Cagliari a Milano è stata una vera rivoluzione, e vedo che anziché prendere ad esempio quel modello c'è una gran fretta di dimenticarlo e marginalizzarlo. Il Paese è pieno di persone di valore che fanno politica, o che la farebbero in condizioni di aver voce in capitolo. Il fermento che c'è attorno a noi è il contrario dell'antipolitica: le battaglie della Fiom, quelle delle donne e degli studenti sono politica. Non a caso i partiti ne sono rimasti fuori, o sono stati tenuti fuori dai movimenti. Bisogna portare quella forza nelle istituzioni. Scegliere da lì le persone: quelle capaci di mobilitare, di animare speranze e di tradurle in progetti".

Chi deve scegliere queste persone? Servirà un criterio.
"Certo. In primo luogo serve una nuova legge elettorale. Siccome sono certo che questo Parlamento non la farà dico che si deve firmare per il referendum. E' ovvio. A livello locale le primarie funzionano ma non devono essere un veicolo di lotta interna ai partiti. Bisogna che entrino in gara persone libere, competenti, indipendenti e che non siano ostacolate dai correntismi ma incoraggiate".

Stento a immaginarlo.
"Appunto. Ma è l'unica strada perché la politica torni in contatto con la realtà. Bisogna creare dei laboratori politici che facciano da pungolo ai partiti. La questione morale non la risolve la magistratura. E i partiti, oggi - spiace dirlo - non hanno la capacità di affrontarla".

Laboratori politici come?
"Bisogna riattivare il controllo democratico. Partire dal basso. A Napoli abbiamo creato l'assessorato ai Beni comuni e alla democrazia partecipativa. Era una città depressa dal malaffare e dalla corruzione, che oggi è assai più grave che nel '92. Oggi la corruzione è un sistema diffuso nel quale la criminalità è penetrata attraverso società quotate in borsa. Bisogna che i cittadini sentano di avere la forza di cambiare. Incoraggiare assemblee popolari su questioni specifiche, nei quartieri. E' lì che nascono i progetti, e le leadership. Bisogna prendere l'indignazione che c'è e allontanarla dall'antipolitica, trasformarla piuttosto in energia. Scegliere dalla base chi mandare in Parlamento, per esempio. Come lei sa sono sempre stato favorevole alla battaglia sulle primarie di collegio per selezionare deputati e senatori. Non altrettanto i vertici dei partiti, ci sarà una ragione".

Pensa che si vada al voto nel 2012, che ci sarà un governo tecnico o che questa maggioranza reggerà?
"Temo che si andrà a fine legislatura. Questo governo è in grande difficoltà ma ha paura di perdere le elezioni. Del resto il centrosinistra non è ancora pronto ad avanzare un'alternativa credibile a Berlusconi: né come modello, né come leadership. Andare a votare non conviene a nessuno".

Nel caso ci fossero si candiderebbe alle primarie del centrosinistra?
"Io no, voglio fare il sindaco. E' un compito magnifico. Ancora la mattina quando esco per strada non mi sembra vero. Voglio cambiare questa città, portare la domanda dei cittadini nelle istituzioni. E poi bisogna evitare personalismi in questo momento, è stato l'errore degli ultimi mesi di Vendola. Bisogna usare il tempo per formare una generazione competente e combattiva. Poi certo, mi piacerebbe partecipare a livello nazionale a questo processo".

A livello nazionale, da sindaco?
"Certo, è dalle amministrative e dai referendum che sono venuti i più importanti segnali di cambiamento. Vorrei contribuire a creare un movimento politico organizzato che sappia tenere insieme elementi della politica e dei movimenti".

Un nuovo partito?
"No, al contrario. Un movimento che affianchi i partiti nella via del risanamento. Un movimento popolare e politico. Un luogo dove le energie e le intelligenze si sentano rappresentate e non mortificate, anche quelle critiche. E non è solo una questione generazionale, di "rottamazione": la questione morale non è anagrafica. Il rinnovamento passa certo dalle donne e dai giovani, ma anche dagli uomini e dai vecchi a patto che rispondano alla domanda di bene comune. Che facciano politica per gli altri e non per sé, non per l'interesse della loro corrente o del partito".
 

(01 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: Concita DE GREGORIO - Il wiki-sindaco a molti non piace ...
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2011, 06:25:36 pm
Il personaggio

Il wiki-sindaco a molti non piace, dal segretario Pd alla Bindi e neanche a Civati e Serracchiani, che pure l'anno scorso erano alla Leopolda con lui.

I prodiani lo sostengono, Berlusconi lo ha invitato e piace ai leghisti scontenti

di CONCITA DE GREGORIO

Da Bersani agli ex popolari del Pd ecco chi teme l'offensiva di Renzi Big Bang alla Leopolda.

PUÒ piacere o non piacere, ma è bravo. È bravo a parlare, la cadenza toscana la battuta pronta lo aiutano, e dunque a stare in tv. È bravo a capire cosa serve e cosa no per arrivare dove vuole.

È bravo a intuire i tempi e i modi, i toni che sempre risultano eccessivi ma funzionano, alla fine, in tempi di eccesso al ribasso. Allo scherno è subentrata la paura, se e quando ci saranno le primarie del centrosinistra Renzi sarà l'avversario da battere: per il segretario, per Vendola e Di Pietro se le primarie saranno di coalizione, per tutti. Si è candidato con chiarezza e con anticipo, alla battaglia per la rottamazione generazionale ha poco a poco sostituito quella delle idee, ha mosso se stesso sulla scacchiera con un gioco che deve andare a dama, quella: provincia, comune, governo.

Può piacere o dispiacere, Matteo Renzi - superstar del weekend alla stazione Leopolda di Firenze, Big Bang non solo del Pd - e a moltissimi non piace. Non al segretario del Pd Bersani ("Bersani ha un'idea del partito antica, novecentesca") nè ai suoi giovani leoni, oggi in leggerissimo dissenso dalla linea del segretario ma pur sempre dentro quel recinto, il confine segnato dall'ortodossia ex Pci ex Ds, compagine ancora forte ma in evidente sofferenza dentro un'autentica trincea difensiva ossessionata dal nemico interno. Non piace perché viene dalla Dc, e dunque nell'amalgama mal riuscita del Pd rappresenta, per i Ds, "quegli altri". Non piace neppure a una parte consistente degli ex popolari, Rosy Bindi in testa, per motivi di stile, di programma e in fondo certo di rivalità.

Renzi va a messa la domenica e in ritiro spirituale l'estate. È favorevole al nucleare controllato, non ha votato sì a tutti e quattro i referendum sicuro che sull'acqua pubblica ci fosse qualcosa da discutere, non è un paladino dei matrimoni gay ma neppure omofobo, piace agli industriali e ai parroci. Per i cattolici del Pd della vecchia guardia è un rivale temibile, imbattibile sul fronte dei social network, della banda larga e di twitter, roba che Bersani dice di "farsi governare da altri" come se fossero maiali, che poi non si butta via niente ma intanto sporcano e fanno rumore.

Non piace più un granché neppure a Civati e Serracchiani, che alla Leopolda dell'anno scorso erano con lui, anche per via di quella sua così visibile ambizione personale: Renzi vuol fare le primarie e di seguito il presidente del consiglio, "è un furbo", dicono di lui, è uno addestrato alla competizione fin dall'asilo, uno che fa melina al capitale e alle massonerie, alle nobildonne fiorentine e ai Della Valle, "non è affidabile". "Divide e non unisce", dice Rosy Bindi, "al contrario di Prodi" il quale tuttavia seppur attraverso i suoi uomini lo sostiene: sarà pure che c'è in ballo la corsa al Quirinale, che l'alleanza eventuale del Pd con Casini porta in pegno il Colle per Pierferdy e che i prodiani hanno altre ambizioni, ma insomma lo sostiene. Parisi e i prodiani alla Leopolda ci sono. D'Alema lo detesta come chiunque non sia sé medesimo o altri da lui forgiati. Veltroni sta a guardare in crescente silenzio essendo stato Zingaretti, in principio, il suo quarantenne di riferimento.

A chi piace dunque quello che con tutta evidenza sarà il candidato per così dire nuovo alle eventuali primarie di centrosinistra? Il per così dire nuovo Renzi (in politica da quando aveva 17 anni, cioè ormai quasi da venti, già presidente della Provincia, oggi sindaco) piace al centro e a destra, fra i leghisti scontenti del Bossi servile, fra i delusi del berlusconismo imprenditoriale, le partite iva e i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori che sono tanti. Piace a Berlusconi stesso, che lo invita a casa (Renzi ci va, pazienza per le critiche) e ne elogia le virtù che mancano a se medesimo e ai suoi alleati: non usa il dito medio, non bestemmia, non racconta barzellette sui negri e sugli ebrei, non usa metafore falliche come intercalare, non dice culona alle signore.

La rivoluzione della buona educazione. Matteo Renzi è beneducato e svelto. Furbo, ambiziosissimo. Piace, a sinistra, agli scontenti del Pd e alla sinistra di nuova generazione, a un bel po' di grillini e dipietristi, a quelli che non se ne può più della casta che finora piuttosto silenti - ma in molti - serpeggiano anche nel partito di Bersani. Roberto Benigni gli ha dato di recente la sua benedizione. Santoro lo aveva ospite frequent flyer. A Ballarò e da Lilli Gruber è di casa, la Sette il suo salotto. Nel parterre della Leopolda, la cui sigla è mutuata da una serie americana tv di grande successo, ci sono il giuslavorista Pietro Ichino e Sergio Chiamparino, Alessandro Baricco e il presidente dell'Anci Graziano Del Rio, il vincitore dello Strega Edoardo Nesi, l'inventore dei Gormiti, il fratello di Peppino Impastato, il successore del sindaco assassinato a Pollica, il mago della tv Giorgio Gori, l'inventore della Tecnogym Neri Alessandri.

Sindaci trenta-quarantenni al governo delle città. Apre i lavori Davide Faraone, deputato regionale siciliano anti-Lombardo. Li chiude lui, domenica. Ha predisposto un servizio di baby sitting e di road sharing per arrivare in stazione (vuoi ridurre l'inquinamento? Sei un pendolare? Clicca qui e chiedi un passaggio alla Leopolda, venite insieme). Ha fatto in modo che con "un aggeggino" si possa partecipare alla discussione inviando messaggi in diretta dalla tv, dunque da casa. Troppo inglese, forse, ma chi deve capire capisce. Firma l'invito alla Leopolda con: "Un sorriso, Matteo". È amico personale di Pep Guardiola, l'allenatore del Barca, e chissà che non faccia una sorpresa. Non è abbastanza, certo, per fare un leader di centrosinistra né un presidente del consiglio. È quel che basta, tuttavia, per capire a chi faccia paura, Matteo Renzi, e perché.

(29 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/29/news/renzi_spaventa_pd-24069754/?ref=HREC1-1


Titolo: CONCITA DE GREGORIO. Primarie Pd e lo scontro generazionale le 4 correnti dei...
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2012, 03:57:31 pm

IL REPORTAGE /1

Primarie Pd e lo scontro generazionale le 4 correnti dei giovani divisi su Renzi

La sfida per il futuro del partito democratico passa dalla generazione dei 30-40enni. "La base parla solo di rinnovamento".

Ci sono quelli dell'Area Renzi, c'è il Gruppo Civati, i Giovani Turchi al fianco di Bersani e i Lettiani, l'ala liberal con forti venature cattoliche

di CONCITA DE GREGORIO


MILANO - La distanza fra la politica delle parole e i fatti della vita Stefano Fassina l'ha misurata col centimetro sulla sua pelle nell'arco di tre giorni. Il giorno 8, sabato, era al tavolo dei relatori del magnifico auditorium Loris Malaguzzi di Reggio Emilia a spiegare ad una platea di trenta-quaratenni che Bersani farà meglio di Monti, platea del resto a priori convintissima, perché non si fanno riforme senza consenso e se c'è un posto dove il Pd deve stare è quello di chi lavora: Carbosulcis, Mirafiori, Almaviva. Avanti, a sinistra. Il giorno 10, lunedì, era appunto lì, tra i lavoratori dell'Alcoa in protesta, ed è lì che è stato contestato 1: una spinta, vattene, andatevene, non sappiamo che farcene delle vostre promesse, ci avete abbandonati ora è tardi.

Se ora sia davvero tardi, questo è il punto. Se sia troppo tardi per colmare il vuoto che separa le parole dei convegni e degli articoli di giornale dai fatti che, lontano dalle sale insonorizzate, colorano di rabbia, di stanchezza, di fragilità e infine di disperazione le reali vite delle persone alle quali il Partito democratico guarda come al suo elettorato ma che sempre meno, invece, da quel partito si sentono rappresentate. Un bacino enorme di delusi che ingrossano le fila del ribellismo politico, della disillusione incapace di distinguere. Questa è la sfida. Questa la posta in gioco della campagna elettorale appena cominciata, le primarie del Pd in vista delle elezioni di primavera. Restituire credibilità alla politica, che in concreto significa: proporre come candidate a colmare quel vuoto persone credibili. Va sotto il nome di rinnovamento, questa sfida. Di niente altro ormai si parla nelle feste democratiche, nei circoli, nelle città e nei paesi percorsi in camper o in bicicletta dai candidati. Il rinnovamento, il ricambio.

Su Renzi, che del tema si è impadronito per tempo, raccontano a Ravenna questo aneddoto. Ravenna, Romagna, terra di Bersani. Alberto Pagani, segretario provinciale del Pd: "Mi avevano chiesto, come si usa, di fare due conti e vedere chi sta con chi. Ho fatto un sondaggio fra la nostra gente, segretari di circolo funzionari amministratori: tutto a posto, tutti con Bersani. Poi la sera che è venuto Renzi a parlare alla festa ho visto, in platea, il parrucchiere del mio paese, Alfonsine, è da lui che vanno a tagliarsi i capelli tutti i ragazzi. E ho visto anche il direttore della Conad, quella dove vanno le donne a fare la spesa. E poi in fondo il fratello di mia suocera, che fa l'imprenditore e che quando vuol sapere di politica chiede a me. Ho domandato al parrucchiere. Ma stai con Renzi? E lui: ma sì, è nuovo è giovane. Poi tanto sono tutti nel Pd, no? Bersani faccia il segretario, Renzi il presidente del consiglio". È così, annuisce il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, ex Pci, 55 anni: "Se chiedi ai quadri di partito è un conto, se parli con la nostra gente, anche coi vecchi, è un altro: in tanti pensano che sia venuta ora di rinnovare e io credo che in fondo in Renzi ci vedano i loro figli, i loro nipoti. Anche se non li convince fino in fondo ci vedono la generazione dei ragazzi che hanno a casa e pensano che possa dar loro una chance".
Certo che non può essere solo una questione di età: messa nei termini dello scontro generazionale "è stupida e stucchevole, sono d'accordo con Alfredo Reichlin", dice Alessandra Moretti, vicesindaco di Vicenza: "Noi non vogliamo uccidere i nostri padri. Abbiamo quarant'anni: noi "siamo" padri e madri". E tuttavia è in questi termini che la pongono tutti, ormai, a partire da Bersani: che sgombra il palco della festa di Reggio per salirci da solo, che invita i suoi trenta-quarantenni, la generazione T/Q, i giovani turchi, a farsi avanti. Tra gli autoconvocati di Reggio Emilia, al centro Malaguzzi, ci sono al completo gli uomini dello staff del segretario, uffici stampa passati e presenti, bracci destri e portavoce. C'è Aurelio Mancuso, ex Arcigay ora Equality: "Qui ci si prepara allo scontro, ci si mette in luce per una eventuale compagine di governo, ci si segnala. Troverà anche molti della corrente ex Marino, perché sui temi dei diritti civili queste sono le posizioni più a sinistra. Poi qualche ex franceschiniano, qualche lettiano. Il grosso però è formato dalla componente organica agli ex Ds: se Renzi le mette sullo scontro generazionale bisogna opporgli la stessa carta, no?". Organici, partitici, keynesiani in economia, vicinissimi alla Cgil, camussiani osservanti. Parlano uno dopo l'altro dal palco di "Rifare l'Italia" e tutti somigliano a qualcuno dei padri. Fassina a Bersani, Alessandra Moretti ad Anna Finocchiaro, Andrea Orlando a Violante, Matteo Orfini a D'Alema persino nelle pause e nel tono di voce, nelle battute sarcastiche, nella qualità del silenzio di chi ascolta. Nessuno somiglia a Veltroni "perché il vero erede di Veltroni è Renzi", sorride una giovane volontaria della Festa venuta qui, dice, solo a "dare un'occhiata: difatti Renzi in questa platea è il nemico".

Con Renzi, che si prepara a partire da Verona vento in poppa, si sono schierati finora tutti quelli che hanno molto da guadagnare e poco da perdere. Giovani dirigenti e amministratori come Matteo Richetti, Davide Faraone, Roberto Reggi. Nessun dirigente con una posizione consolidata, nessuno che abbia messo a rischio una rendita nè una promessa. Le grandi manovre si sono chiuse un paio di mesi fa, quando il gruppo che un tempo si chiamava dei "piombini" - Civati, Serracchiani, Scalfarotto, lo stesso Renzi - ha provato a puntare su Debora Serracchiani. L'ipotesi era più che concreta, dicono: Renzi diceva "dobbiamo vincere, se Debora ha più possibilità di me rinuncio, ma dev'essere una cosa ben fatta e sicura". Non è stata ben fatta né sicura, evidentemente. Serracchiani oggi corre per la presidenza del Friuli Venezia Giulia e sulle primarie si dice perplessa. Parla dal palco della festa di Reggio seduta accanto a Martina, Sandro Gozi, Nico Stumpo. "Dico che rischiamo di essere quelli che mentre il palazzo crolla si fermano a scegliere le tendine del bagno", applausi tiepidi di una platea di età avanzata, bersaniana senza se e senza ma, incerta sul cognome di Gozi. "Non ho capito bene come si chiama? Cozzi?", domanda un vecchio volontario.
Di martedì, ieri, Pippo Civati presentava a Milano con Stefano Boeri il libro di interviste a esponenti pd "Ma questa è la mia gente" di Ivan Scalfarotto, quarantenne vicepresidente del partito. "La questione del rinnovamento generazionale nasconde quella, più seria, della contendibilità del potere - dice Scalfarotto - questo è un partito in cui cambia il contentitore, anche il nome, ma mai il contenuto". Al contrario dei grandi partiti democratici dove il contenitore è sempre lo stesso, l'identità del partito più forte di quella di chi lo abita, e cambiano i protagonisti. "Il problema delle nuove generazioni è che sono fatte a loro volta di persone cooptate al potere. Non è colpa loro, funziona così: se non sei in quota a nessuno non entri in Parlamento. Si sa da dove vieni, chi ti porta. La conseguenza è che per emanciparti devi personalizzare lo scontro, fare le tue piccole battaglie in diretta tv. Battute, battibecchi, e pazienza per la credibilità del partito che è di tutti. Quando la gente da casa vede scontrarsi Boccia e Orfini, un giovane lettiano e un giovane bersaniano, e sente che poi alle primarie sono sullo stesso fronte, contro Renzi: ecco, la gente cosa capisce? E il lavoro, i diritti, l'Europa, il futuro della conoscenza e il web: non è su questo che si dovrebbe piuttosto chiedere il ricambio in nome di una coesione generazionale?".

Nessuna coesione generazionale, in effetti. Pippo Civati conduce una nuova battaglia interna buona e giusta: sostiene i "6 quesiti referendari al Pd" su questioni come il reddito minimo, la riforma fiscale, il consumo del suolo, i matrimoni gay, l'ineleggibilità di chi ha carichi pendenti, le alleanze. Non proprio dettagli, come si vede, per quanto il ricorso allo strumento del referendum (pure previsto dallo statuto) segnala che da sole, le sei grandi questioni, non si muovono. Tendono anzi a ristagnare, ad essere continuamente accantonate come incomode. Di grandissima attualità quella sulle alleanze, di questi tempi. La quale, scrive Civati sul suo blog, porta con se l'eterno rovello del sistema elettorale. Che tanto si voleva cambiare ma sinora non si cambiò, "purtroppo ancora nulla si sa del nuovo sistema elettorale ma si teme che dal Porcellum si passi al Prosciuttum, si sente parlare di liste bloccate per quote significative". Un'aggiustatina, insomma. Sarebbe proprio un peccato che finisse così: persino tra i giovani bersaniani di Rifare l'Italia c'è chi - Piero Lacorazza, presidente della provincia di Potenza - si azzarda a dire che sarebbe davvero meglio rinunciare alle garanzie e lasciare la possibilità di far scegliere gli elettori.

I giovani di Letta si riuniscono a Dro, in Trentino e parlano - Alessia Mosca, Guglielmo Vaccaro, Francesco Boccia - di quote rosa, cervelli in fuga. Propongono leggi, elaborano piattaforme: sono l'ala liberal con forte venatura cattolica, sulla carta potrebbero dialogare con Renzi ma si segnalano fedeli alla linea Bersani, invece. La fassiniana Francesca Puglisi lavora con Marco Rossi Doria, sostenitore di Ignazio Marino ora al Governo, al futuro della scuola. Ciascuno porta un pezzo e sarebbe anche interessante provare a tessere una tela comune ma è tempo di serrare le fila, ormai. Chi sta con Renzi e chi sta contro, questo ora è il punto. "Adesso", come dice perentorio lo slogan del sindaco. I sondaggi fanno paura, sottovoce si parla di altri candidati possibili. Una donna, magari. Un terzo incomodo che riapra i giochi. Chissà. Molti volevano Barca, ma Barca fa il ministro e non può. "Ragazzi, io Grillo non lo voto ma se non tirate fuori uno diverso da Renzi guardate che ci tocca votare lui", si alza dal pubblico della libreria di Milano una signora di mezza età. Applausi, sguardi di smarrimento, sorrisi. La signora, del resto, ha detto: ragazzi.

(12 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/12/news/primarie_pd_inchiesta-42379830/


Titolo: Concita DE GREGORIO La corsa di Laura Puppato, terza candidata alle primarie...
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2012, 11:11:30 am
L'inchiesta/2

Primarie Pd, ecco la donna che sfida Bersani e Renzi

La corsa di Laura Puppato, terza candidata alle primarie: "Un'anima bella? Eccomi".

E racconta: "Non posso vedere il mio partito dilaniarsi in una battaglia fratricida per le primarie, diventa una carneficina così.

Quante energie stiamo perdendo?"

di CONCITA DE GREGORIO


TREVISO - Eccolo, l'altro candidato alle primarie del Pd. Eccola, anzi. Laura Puppato è una bellissima donna di 55 anni, giovane alla politica. È stata eletta sindaco la prima volta 10 anni fa. Ha sconfitto la Lega in Veneto, due volte. Ha amministrato un comune strappandolo al centrodestra e rendendolo tra i più virtuosi d'Italia, d'Europa.

Il suo primo partito è stato il Pd. Ha preso la tessera quando Grillo si è fatto insistente: la voleva con sé come testimonial ai comizi "ma io avevo da lavorare, e poi non mi è mai piaciuto quel tono, quel disfattismo apocalittico. Qui in questa terra impariamo da piccoli che è più difficile e importante costruire che distruggere". Pd, dunque. Fuori dalle correnti e dalle appartenenze. Sessantamila preferenze a sorpresa alle europee del 2009, non ci credeva nessuno. Le hanno sempre preferito altri candidati: per la segreteria, per la presidenza della Regione. Questa Puppato, mah. Poi, alle regionali, ha fatto il pieno un'altra volta: quasi la metà dei voti sono andati a lei. Talmente tanti che non poteva non diventare capogruppo Pd in Regione.

Sorride. Sorride sempre e dentro il sorriso dice cose di granito. Che bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, i partiti esistono
per questo: darsi un obiettivo, provare a raggiungerlo, se non ci si riesce ritirarsi. Che bisogna pensare a "riparare il mondo", come diceva il suo amico Alex Langer, e non a farci soldi per sé sfruttandolo ora e pazienza per gli altri. Che non è finita la politica, la vecchia politica: è finito il tempo della cattiva politica. Che non siamo in crisi economica, siamo in crisi di un modello economico dal quale nessuno sembra aver voglia di uscire, perché conviene restarci.

Poi fa esempi concreti e luminosi: una scuola, un sistema di gestione dei rifiuti, un modo per ridurre il consumo di energia che genera lavoro e felicità. Poi dice, davanti a una parmigiana di melanzane - "chè anche questa storia che la magrezza è bellezza è una bufala" - che "non posso vedere il mio partito dilaniarsi in una battaglia fratricida per le primarie, diventa una carneficina così, quante energie stiamo perdendo? Abbiamo tutti la stessa tessera, no? Allora possiamo provare a fare una proposta che si rivolga agli elettori e dica: questi siamo noi. Decidete. Mettiamoci in gioco per il bene comune, per quanto possiamo e sappiamo. Io lo faccio".

Lei lo fa. Laura Puppato si candida. "Ma non contro Bersani o contro Renzi. Per un'idea di futuro possibile. Per i nostri figli. Io ne ho una di trent'anni, sto per diventare nonna. Questa discussione sull'età è davvero curiosa. Quando è che abbiamo cominciato a credere che sia l'anagrafe a decidere se hai buone idee e buoni propositi? A me sembra un trucco per distogliere l'attenzione dalla vera posta in palio".

Qual è la vera posta in palio?
"Un'altra idea di mondo, che altro? Questo è alla fine. Non c'è salute, non c'è lavoro, non ci sono diritti. Impera la corruzione, la convenienza privata, l'interesse. Un partito deve indicare un'altra rotta. Dire qual è il suo obiettivo, nominarlo anche a costo di scontentare qualcuno. Dare contentini a tutti è facile. Bisogna avere coraggio e andare altrove anche quando tutti dicono: impossibile".

Riparare il mondo, diceva. Ha conosciuto Langer?
"Eravamo molto amici. Nel movimento ambientalista insieme. Io vengo da lì e continuo a pensare che l'anima verde sarà la salvezza del paese. Non c'è dubbio che sia così, se poi ha tempo le dico perché. Alex ci ha dato una mano quando andavamo in Jugoslavia a portare camion di viveri, durante la guerra. Abbiamo fatto non so più quanti viaggi al fronte. Mio figlio Francesco, che oggi ha 19 anni, è nato in viaggio. Lo ha battezzato un prete croato. Sono cattolica, si".

Poi è arrivata la politica.
"Mi sono candidata a Montebelluna, ho vinto. Abbiamo iniziato a parlare di salute, cultura, di raccolta differenziata dei rifiuti contro le mafie dei megaimpianti al veleno. Abbiamo mostrato che basta cambiare mentalità per sconfiggere certi interessi. Non è stato mica facile. Risparmio energetico, riciclaggio. Ci sono voluti anni. Abbiamo dato lavoro. Le pratiche virtuose creano lavoro. Se non si mettono in atto è perché ci sono interessi economici contrari. Sa quanti soldi sono a disposizione oggi per cambiare modo di vita?".

No, quanti?
"L'Europa mette 14 miliardi di euro per progetti per le smart cities, 180 per l'incremento dell'efficienza energetica. Il futuro è lì, basta tendere la mano. Parchi, mobilità sostenibile, città digitali. In media nel mondo un edificio ha un bisogno energetico di 160 kilowatt per ora. Noi abbiamo fatto un asilo che ne consuma 20, e senza pannelli solari. Solo costruendo con raziocinio. L'energia che costa di meno è quella che non consumi. Ma non parlo di stare a luce spenta, sa? Parlo di sprechi. Certo che l'Enel questo ragionamento non lo vuole sentire, ma il mondo va lì. Deve andare lì, lo dobbiamo a chi verrà dopo. Centinaia di migliaia di persone trovano lavoro nella costruzione di un mondo pulito. Certo servono anche altre riforme: la giustizia, l'amministrazione".

Cosette...
"Noi agli imprenditori dobbiamo dire. La pubblica amministrazione ti deve dare una risposta in 30 giorni. La giustizia deve emettere un giudizio in 180. Noi, partito politico, vogliamo questo: questo è il nostro obiettivo. Se non ci riusciamo avanti un altro".

Le diranno che è un'anima bella.
"Me l'hanno già detto, in effetti. Si vede che loro si sentono brutte, io preferisco stare nel primo gruppo. Li conosco i cinici. Un giorno D'Alema mi ha detto: io non mi sento più un politico, mi considero un intellettuale. Benissimo, c'è posto per tutti. Gli intellettuali sono indispensabili".

Fra Bersani e Renzi chi avrebbe votato?
"No, guardi. Servono l'energia di Renzi, la competenza di Bersani. Ciascuno faccia quello che sa fare e dica quali sono i suoi obiettivi. Mettiamo insieme le forze, non una contro l'altra.. La gente non è interessata alle battaglie di potere. Viviamo un'epoca drammatica, i giovani non hanno lavoro, i loro padri che lo perdono si uccidono. Quale dev'essere lo scopo di un grande partito di sinistra se non indicare un orizzonte di sviluppo possibile? Allora io dico: zero metri quadri. Facciamo una politica urbanistica senza un metro quadro di costruzione in più. Ristrutturiamo, restauriamo. Abbiamo il paese più bello del mondo, proteggiamolo. Creeremo lavoro, cultura, bellezza, felicità. So di cosa parlo, l'ho fatto. Quando Grillo è venuto a premiarmi come primo sindaco a cinque stelle l'ho ascoltato. Le sue denunce sono giuste, quasi tutte. Quello che è sbagliato è la rabbia, il risentimento, l'ansia di abbattere tutto, il disprezzo della politica. La politica è fatta di persone: bisogna affidare il compito nelle mani giuste, avere fiducia in chi la merita, avere coraggio. I partiti, anche il nostro, soffrono di un eccesso di servilismo: i giovani sono scelti dai vecchi non per i loro meriti ma per la fedeltà. Rompiamo questo meccanismo. Andiamo avanti, invece, lontanissimo: rinnoviamo, sì, dando fiducia al merito e al coraggio".

Con questa legge elettorale...
"Appunto. No ai pateracchi. Facciamo le primarie, per far scegliere i candidati ai cittadini. Se si va a votare con la vecchia legge lasciamo l'80 per cento delle liste agli elettori e il 20 per cento, al massimo, per figure tecniche, storiche...".

E le alleanze?
"Quello delle alleanze non può essere il tema della campagna elettorale. Noi dobbiamo essere noi. Dobbiamo crescere, essere credibili, guadagnare la fiducia degli elettori. Questo è un grande partito. Metta da parte i potentati. Abbia il coraggio di rischiare. Dica quello che vuole, e come lo vuole. Sul lavoro, sui diritti civili, sulla salute e sulla scuola, sullo sviluppo. Gli altri verranno da noi, dopo. Se non ci votano è perché non scegliamo. Diciamo parole chiare. Poi sarà su quello, su quel che diciamo che si decideranno le alleanze. Sono stanca, davvero stanca, di vedere invece che il Pd che è anche casa mia è diventato l'autobus di cui si serve chi vuole fare la sua personale fortuna per scendere alla prima fermata. Tutti vogliono vendere la loro merce. Io vorrei partecipare a un mercato comune, invece. Vorrei dire: ho questo da offrire, e voi? Vorrei sconfiggere le destre, vorrei che tutti ci ricordassimo i pericoli che abbiamo attraversato e che corriamo ancora, vorrei proporre un'idea che sia utile ai nostri figli e miei nipoti, non a me. Se serve un'anima bella - ride ordinando il dolce - ho deciso: io ci sono".
 

(13 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/13/news/primarie_pd_ecco_la_donna_che_sfida_bersani_e_renzi-42443668/?ref=HRER1-1


Titolo: Concita DE GREGORIO - Ma a Pomigliano e all'Alcoa le primarie sono lontane ...
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2012, 10:58:25 am
INCHIESTA / 3

Ma a Pomigliano e all'Alcoa le primarie sono lontane anni luce

I lavoratori a rischio tra delusione e rabbia: "Alle parole non crediamo più".

Luisa, 39 anni: "I politici non hanno idea di cosa significa vivere con 600 euro al mese"

di CONCITA DE GREGORIO


CHIUNQUE si candidi alle primarie, racconta questa storia, continuerà a far girare a vuoto la ruota finché non guarderà diritto negli occhi persone come Emanuela, Giacomo, Luisa, Antonella. La classe operaia, si diceva una volta. I lavoratori chiamati a scegliere fra Vendola e Bersani, Puppato, Tabacci, Renzi. Ammesso che abbiano voglia di scegliere.

Emanuela Massaro aveva 23 anni quando suo padre, operaio di Pomigliano, votò sì al referendum. Scrisse una lettera a Marchionne, allora, e la indirizzò ai giornali. "Eccola, vede. Non è stata mai pubblicata, Marchionne non mi ha mai risposto ma io l'ho conservata. Avevo visto mio padre piangere, a tavola, quel giorno, perché aveva paura di perdere il lavoro e allora come avrebbe mantenuto noi tre, mia madre che non cammina bene e non può andare a servizio, me e mio fratello che studiamo. Io però non volevo che lui piangesse, che perdesse la sua dignità. Andiamo a lavorare noi, papà. Gli ho detto così. Poi ho scritto a Marchionne: se mio padre deve essere costretto a chinare la testa per me io preferisco rinunciare al mio futuro. Ora che Fabbrica Italia si rivela per quello che era, un inganno, un bluff per convincere la povera gente, ora vorrei che qualcuno ci dicesse almeno: avevate ragione. Perché Marchionne lo capisco, in fondo. Fa il suo mestiere. Ma i partiti politici della sinistra, quelli che allora stavano con la Fiat per il sì al referendum: ecco, quelli, che mestiere fanno?".

Emanuela
non ha smesso di studiare, suo padre non le ha dato ascolto ed è ancora lui che le paga la retta. "Non parlatemi di politica. Chi diceva 'con Marchionne senza se e senza ma' non ha vergogna, oggi, e allora sono io che mi vergogno per loro".

Pomigliano, Mirafiori, Carbosulcis, Alcoa, Almaviva. Delle "primarie dei progressisti" a chi è in procinto di perdere il posto interessa relativamente poco. Ad ascoltarli si capisce molto bene perché. La distanza che separa la politica dai fatti della vita è diventata un baratro colmo di cinismo, disincanto, risentimento. Sedute attorno al tavolo di un bar di Cinecittà Est, Roma, un gruppo di donne di Almaviva, uno dei più grandi call center d'Italia.

Una inizia la frase, l'altra la finisce. "Io capisco che abbiano fischiato Fassina, che poveraccio neppure se lo merita", comincia Barbara. "Se si presentava D'Alema, tra i lavoratori dell'Alcoa, gli andava peggio", continua Antonella. "Arrivano ora, ma arrivano tardi. Troppo tardi, alle parole non ci crede più nessuno", conclude Luisa. Almaviva ha annunciato la chiusura della sede di via Lamaro, 630 dipendenti, per aprire in Calabria dove ci sono incentivi e sgravi fiscali.

Dal punto di vista dell'azienda non fa una piega: la regione Lazio paga la cassa integrazione, la regione Calabria paga gli incentivi. Restano a casa i dipendenti, soprattutto donne, moltissime madri sole di figli ancora piccoli. Luisa Scognamiglio, 39 anni, laureata in Lettere all'Orsola Benincasa di Napoli, separata, due figli di 9 e 6 anni. Assunta al call center dieci anni fa, guadagna 9 mila euro all'anno. Più o meno quanto prendeva, in lire, all'inizio. "Non mi sento rappresentata da nessun partito politico, no. Non hanno la minima idea di cosa voglia dire prendere 600 euro, avere due figli e non sapere a chi lasciarli quando si ammalano e non vanno a scuola. Poi ci accusano di assenteismo. Io faccio i salti mortali, ma quando parlo con le colleghe le capisco: se una è da sola dove lo mette suo figlio con la febbre il giorno che ha il turno a mezzanotte? Dove sono le politiche per il sostegno al lavoro, la rete di assistenza alle donne e ai bambini, una scuola che funzioni? Parole, parole, ma nei fatti ci arrangiamo. No, io non voglio fare politica, perché dovrei? Sono una persona onesta, la politica non fa per me".

Sono una persona onesta. "Sa quanta gente alla quale chiedo di impegnarsi in politica mi risponde così", ride di amarezza Piero Coco, Rsu Cgil, iscritto Pd. Con lui Barbara Cosimi. Anche lei Rsu Cgil, anche lei iscritta Pd. Alle primarie voteranno Bersani. "E' diventato difficilissimo fare politica e sindacato nei luoghi di lavoro - dice Coco - i lavoratori pensano che siano un modo per far carriera, diffidano. Sei connivente col padrone, questo pensano". Barbara Cosimi: "Non è vero che i lavoratori dei call center siano la nuova classe operaia. Come numeri, forse. Ma la coscienza politica non c'è più. Vent'anni di incultura hanno lasciato il segno. Non è paura di perdere il posto, è anche questo ma è di più: è il qualunquismo di fondo, l'idea che la corruzione sia la norma, che ciascuno agisca solo per convenienza. Siete tutti uguali: è questa la frase che uccide".

Poi racconta: "Stamani in assemblea parlavo di una lavoratrice che ha rinunciato al contratto di apprendistato perché era per lei troppo oneroso. Una dipendente si è alzata e ha detto: allora non bisogna darle più il sussidio di disoccupazione. Capisce? Si è fatta piazza pulita di vent'anni di battaglie operaie per i diritti, siamo come dopo come uno tsunami. E' tutto da ricostruire".

Antonella Liberati, 57 anni, monoreddito, una figlia di 18. Diecimila euro all'anno. "Da ragazza facevo politica a sinistra del Pci. Lotta continua, Potere operaio. Poi nel Pci, per molti anni. Poi nel Pd, turandomi il naso". Ha la tessera? "No. Anzi sì, sì, ce l'ho. Scusi, me lo ero dimenticata. Presi la tessera del Pd-Atesia quando nel 2008 si aprì un circolo in azienda ma poi non so nemmeno com'è andato a finire, quel circolo. Ci andavano 8 persone, è morto d'inedia come un bimbo abbandonato sul ciglio di una strada. Agli scioperi sui diritti venivano in 20. Poi ora che rischiano il posto arrivano tutti... Primarie? No, grazie. Dopo la stagione del governo Prodi, Damiano ministro, non c'è stato più nulla. Tornano ora, ma è tardi. Si è persa quell'idea di politica, la dignità del lavoro. C'è un'ignoranza terribile. Io sto in cuffia da dieci anni: sento parlare la gente. Sento ragazzi di venti, trent'anni che non sanno mettere in croce due parole. Li ho sentiti peggiorare un anno dopo l'altro. Non hanno proprio il lessico, come fanno ad avere le idee? E c'è qualcuno che metta la scuola al centro della politica? Perché prima della difesa del posto di lavoro deve venire la cultura del lavoro. E questo è la scuola che lo insegna".

Un'ignoranza terribile. Racconta Coco che i lavoratori minacciati di essere messi in Cig il 22 settembre vanno da lui a fargli domande così: ma lo sciopero è retribuito? Ma mi possono licenziare? Se entro e faccio due ore di straordinario e poi faccio sciopero va bene? Devo avvisare, se sciopero? "E come si fa a fare le battaglie sull'articolo 18, sul diritto di sciopero se si parte da qui? Persino a Mirafiori e a Pomigliano, che hanno la storia che hanno, è andata come sappiamo".

Su Mirafiori e Pomigliano Giorgio Airaudo, Fiom di Torino, ha un'idea nitida: "I lavoratori sono stati lasciati soli dalla politica. Gente che guadagna 1200 euro al mese. I referendum non erano liberi. Noi del sindacato non vogliamo entrare in politica benché in questa logica malata, binaria, non ci creda nessuno. Siamo stati costretti a fare da supplenti ai partiti che stanno sempre dalla parte del più forte. La vicenda Fiat è la prova della debolezza dei partiti: Marchionne ha esercitato il suo ruolo ma chi doveva chiedergli conto per il bene del paese e non solo di quello dell'azienda che ruolo ha esercitato? Renzi, che diceva 'con Marchionne senza se e senza ma' e che vuole che si lavori la domenica e il primo maggio, che ruolo esercita? La politica deve dire, deve scegliere: se si lasciano soli i lavoratori diventa una prateria. E non è vero quello che pensa chi è cresciuto nel Pci, che tanto alla fine resteranno tutti qui. No, non restano".

Nelle assemblee, dice Airaudo, le voci si dividono fra quelli che non credono più a niente - e che non votano più - e quelli che dicono 'mandiamoli via tutti', e vanno ingrossare le fila della rabbia. "Quella che altri chiamano antipolitica non è che questo, vista dalla fabbrica: disillusione assai ben motivata. Terra bruciata. Per ricoltivarla ci vorrebbero impegno, coerenza, perseveranza e molto tempo". Chi si è fidato ed è caduto non si fida più.

Giacomo Firinu ha 27 anni, lavora alla Carbosulcis. Suo padre lavorava all'Alcoa. "Se la sono svenduta per un piatto di lenticchie, l'Alcoa. Lo sapevano che stavano solo rinviando il problema. Era che non volevano fare brutta figura loro, hanno detto chiuderà fra tre anni e chi se ne frega. Così tre anni dopo hanno mandato a casa la gente che si era fidata di loro e li aveva votati. Mio padre è andato in depressione, ha cominciato a soffrire di cuore, è morto d'infarto a 55 anni. L'ho visto morire coi miei occhi. Io sono tornato in miniera, come mio nonno. Ho occupato, sì, la Carbosulcis. Ma anche qui: lo sanno bene che il nostro carbone è pieno di zolfo, e allora? Basterebbe applicare delle tecnologie che esistono, investire. Non lo fanno, rinviano. Chiedono aiuti pubblici, e poi dopo un anno siamo da capo".

La politica ci ha lasciati orfani, dice Giacomo. "Da ragazzo m'impegnavo molto, mi sono presentato in una lista civica, sono stato militante del Pd. Poi ho visto che uno come me, al partito, non serviva a niente. Altre logiche, altri progetti. Vanno avanti quelli di città, portati dalle segreterie. Allora sono andato a sentire Grillo, che quando faceva il comico non mi potevo mai pagare il biglietto. Ora che fa comizi gratis, ho detto, vado. Sì, spiega le cose, s'incazza: ma non so dire, non mi ha convinto. Non mi fido, mi sembra uno di loro anche lui. Mi dispiace, a votare non ci vado più, non mi importa delle primarie e lo so che è una cosa brutta. A volte penso che sia colpa mia, come pensano i bambini quando i genitori se ne vanno da casa. Ma invece no. E' la politica che ha abbandonato noi. Se n'è andata per gli affari suoi. Noi non abbiamo colpa, mi dico, e non ci possiamo fare niente".

(3. continua)

(15 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/15/news/ma_a_pomigliano_e_all_alcoa_le_primarie_sono_lontane_anni_luce-42572795/


Titolo: Concita DE GREGORIO - Anche Pippo Civati accetta la sfida
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2012, 11:00:03 am
INCHIESTA / 4

Anche Pippo Civati accetta la sfida

"Serve un'alternativa a Matteo e Pierluigi"

Il consigliere regionale della Lombardia lancia "occupyprimarie". Lo scontro Renzi-Bersani è uno scontro di leadership. Nessuno dice cosa succede un giorno dopo le primarie. Sono solo utili a contare

di CONCITA DE GREGORIO

Anche Pippo Civati è pronto alla sfida delle "primarie dei progressisti". Pronto a candidarsi. Questo ha scritto nella mail in sette punti che ha inviato venerdì ai suoi collaboratori, una lettera "riservata ma aperta", dice. "Riservata, perché una decisione del genere si prende se è condivisa e dunque si tratta in primo luogo di capire questo, quanto è condivisa e da quanti. Aperta perché non abbiamo niente da nascondere, non abbiamo dietro nessuno e le domande che mi pongo in queste ore le pongo apertamente, appunto, e per scritto. Quello che non voglio assolutamente è aggiungere autocanditatura ad autocandidatura, in un effetto formicaio impazzito. La collezione di nani da giardino no. Se si riesce ad esprimere una candidatura unitaria che sia davvero alternativa a Bersani e a Renzi io ci sono, questo ho scritto. Ora vediamo se si riesce". Formicaio impazzito, nani da giardino.

Civati, la sua disponibilità a candidarsi arriva dopo quella di Boeri e dopo la candidatura di Laura Puppato. Venite dalla stessa area, l'effetto nani da giardino si sarebbe evitato da una candidatura unitaria.
"Appunto. Non ne parlerei al passato. In fondo non conosciamo ancora le regole di queste primarie, nè tanto meno sappiamo quale sarà la legge elettorale che - secondo il modello che sarà scelto - potrebbe renderle inutili. Sto appunto cercando di capire se si può realizzare un fronte unitario".

Lei scrive, nel primo punto
della sua mail-manifesto: "Dobbiamo essere presenti ora, con un nostro profilo, nel cammino verso il congresso del prossimo anno. Se c'è il doppio turno queste primarie sono congressizzate. Dobbiamo dirlo".
"È così. Lo scontro Renzi-Bersani è uno scontro di leadership. Nessuno dice cosa succede un giorno dopo le primarie. Sono solo utili a contare chi sta con chi, addirittura "a prescindere". Molti punti di vista non sono rappresentati, dobbiamo portarceli dentro. Occupare le primarie, riempirle di contenuti".

Arriviamo subito a "occupyprimarie", la sua proposta. Prima però il punto 2. Lei scrive. "Con nessuno dei due candidati maggiori sulla carta avremmo il nostro profilo e potremmo salvaguardare la prossima sfida: Renzi è troppo divisivo all'interno del partito, Bersani è troppo poco plausibile". Dunque serve una terza candidatura forte. Quella di Laura Puppato, dice, somiglia a quella di Ignazio Marino.
"Sì, e lo dico con la massima stima per entrambi. Conosco Laura, è una bellissima figura. È limpida e forte. Penso che dovremmo unire le energie in un progetto unitario che tenga insieme la sua esperienza e la sua proposta, quella di Boeri, Scalfarotto, Serracchiani e tanti altri che in questi anni si sono battuti sul campo, con fatica, sui temi".

Dunque potrebbe appoggiare lei Laura Puppato.
"Devo ancora parlarle. Davvero non c'è stato tempo, nessuno sapeva niente della sua decisione e credo invece potremmo far parte di uno stesso progetto".

D'altra parte alcuni dei suoi sostenitori, Civati, spingono verso Renzi.
"Lo vedo e lo sento, ma io credo che la candidatura di Matteo sia totalmente autoreferenziale. Io ho già fatto un pezzo di strada con lui. Facemmo la Leopolda e una settimana dopo lui andò ad Arcore. Non ne sapevo niente, non ero e non sono d'accordo. Sento chi dice: fate la sinistra dei renziani. Ma non è proprio possibile. Nei contenuti su moltissime questioni siamo lontanissimi. Matteo era per Marchionne senza se e senza ma, non so adesso. Era in una posizione diversa dalla nostra sui referendum. Abbiamo proposto 6 referendum al Pd, è da giugno che ci lavoriamo: riforma fiscale, incandidabilità, alleanze. Parliamo di questo".

E dunque lei propone, punto 4 della mail, occupyprimarie. Ce lo spiega?
"Penso a un occupyprimarie per costruire il Pd e il centrosinistra. I temi politici ci sono tutti: primarie parlamentari, sistema elettorale, referendum, continuità a sinistra con Monti. E c'è il tema generazionale, che dobbiamo salvaguardare, perché Renzi rappresenta alcuni, non tutti. In più c'è l'idea di una cosa collettiva, perché non ci sono mica solo io. E ci sarebbero tanti altri, credo, che ora sono stati silenti".

Tipo Boeri, Scalfarotto, Serracchiani?
"La posizione di Debora è un po' diversa. Lei pensa che le primarie dividano e basta. Io la penso come Prodi, invece. Dico stiamo attenti a fare cose che servono. Se la riforma del sistema elettorale, ammesso che si faccia, sarà nel senso di eliminare il sistema bipolare a cosa servono primarie come queste? E lo dico io che sono favorevole alle primarie per principio, sia chiaro. Ma se fanno un proporzionale con un terzo di liste bloccate, un Prosciuttum...".

E se la riforma elettorale non si facesse?
"Allora dovremo fare le primarie di collegio per eleggere i parlamentari. Lo dico e lo scrivo da anni".

Lei aveva pensato anche al ministro Barca, come candidato, è vero?
"Beh non solo io. Ma sì, certo. Però non è il momento, mi pare".

Finiamo di raccontare il suo 'manifesto'. Lei dice: chiediamo a tutti i candidati di esprimersi sul sistema elettorale, sulle primarie per i parlamentari. Chiediamo le regole e il loro rispetto: che non sia uno scontro fra due persone a prescindere dai contenuti. Chiediamo di esprimersi sui diritti civili, sull'occupazione del suolo, sui sei temi concreti dei referendum pd, e di firmarli.
"Per prima cosa le regole. Cosa sono queste primarie? Matteo and Co contro Bersani e il partito? Così è una fine del mondo che lascia solo macerie. Vendola, d'altra parte, cambia alleanza ogni settimana. Sta col Pd, poi sta coi referendari dell'articolo 18... Facciamo una proposta nostra: politica, unitaria, alternativa. Allora ci sono".

Ma quanto tempo le serve ancora per capire se le condizioni ci sono?
"Poco, una settimana al massimo. Dipenderà dalle risposte che arriveranno. Renzi dice che la dava per scontata, il solito simpaticone. Io non do per scontato nulla, vedo molto bene la forza mediatica ed economica di Matteo, conosco il suo talento televisivo, vedo che si è impadronito di alcune delle nostre battaglie. Il limite di mandati, il rinnovamento, la lotta alla cooptazione e al corporativismo. poi c'è dell'altro, però. Non si governa, in Europa, solo con questo".

Lei chiude il suo "manifesto" dicendo che Adesso! è uno slogan che brucia tutto. Quale sarà il suo, invece?
"Noi andiamo "Avanti". Come un candidato che ci piace davvero, dall'altra parte dell'oceano".

(17 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/17/news/primarie_inchiesta_4-42683994/?ref=HREC1-5


Titolo: Concita DE GREGORIO - "Cerchiamo una sinistra lontana dalla Fiom".
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 02:22:04 pm
L'INCHIESTA

Prof, sedicenni e "spie" dei rivali ecco il melting pot del Renzi show

Molti i neofiti fra il pubblico: "Cerchiamo una sinistra lontana dalla Fiom".

Dal tecnico del suono ai filmaker, Matteo ha scelto persone più brave di lui

di CONCITA DE GREGORIO


ROMA - Cambio di prospettiva. La campagna elettorale di Matteo Renzi bisognerebbe provare a guardarla dal palco: spalle al protagonista e occhi negli occhi al pubblico. Proprio come fa il fotografo - bravissimo - che ad ogni tappa dà il visto si stampi ad un'immagine sempre uguale e ogni volta diversa: Matteo di spalle, camicia bianca e pantaloncini affusolati, che parla alla folla inquadrata di prospetto e col grandangolo, assiepata nei teatri e nelle piazze. Effetto: un uomo solo e la moltitudine. Nelle foto gli sguardi delle cuoche della festa di Ravenna, i capelli col gel dei ragazzini di Monza, la messa in piega delle anziane signore del Politeama di Varese, i giovanotti con la borsa a tracolla e le insegnanti trentenni dell'Auditorium di Roma. Una foto, lo sa bene Renata Polverini, può decretare l'inizio e la fine di ogni cosa. Molto più delle cronache di giornale, delle analisi, dei mille commenti in chat. Una foto che dice, per esempio, che nell'autunno in cui alle Feste del Pd si è segnato il minimo storico di presenze (perché erano tante e tutte insieme, certo, perché faceva freddo e pioveva, sì, perché alle feste ci vanno solo i militanti mentre nei teatri e nelle piazze ci vanno tutti, d'accordo) ecco negli stessi giorni, però, guardate bene in faccia la platea di Renzi. Di qua, ai dibattiti di partito, militanti di mezza età inoltrata seduti composti sulle sedie. Di là ai comizi di Matteo, giovani e vecchi seduti ovunque, per terra e sulle scale, amici nemici e curiosi, addetti stampa degli
avversari venuti a prendere appunti con l'Iphone e ragazzini non ancora in età di voto che "mi interessa perché domani c'è assemblea, a scuola, e così racconto cosa dice". Potete non crederci, che ci siano sedicenni che vanno in gruppo ad ascoltarlo, ma ci sono.

A Ravenna è venuto a sentire il parrucchiere del paese vicino, Alfonsine, che "le ragazzine sono pazze di lui, vorrei capire perché". A Forlì la cuoca della Festa dell'Unità "che potrebbe avere l'età di mio nipote mi fa tanta tenerezza, mi dà speranza". A Monza l'imprenditore ex socialista "che non so, ci devo pensare ma certo la destra ormai fa schifo e a sinistra ci sarà pure qualcuno che non parla solo la lingua della Fiom". A Varese, culla leghista, la vecchina coi capelli blu che vorrebbe farsi autografare la sua foto "perché mi piace un casino". Dice così, la settantenne: un casino. Certificato dai video.

Visto dal palco, letto negli occhi di chi guarda, lo show di Renzi funziona. Fa ridere e scalda, coinvolge, non annoia. Perché questo sono, i comizi di Renzi. Uno spettacolo: un format studiato nei dettagli - colori sul palco, rosso e blu come Obama, luci, regia, quattro pillole di video, sempre le stesse, tre o quattro immagini che lui chiama sul maxischermo a comando con la confidenza del tu all'interlocutore invisibile alla consolle: "mi dai Curiosity?, ce l'abbiamo?". Certo che ce l'abbiamo, che domande. Ecco Curiosity, il rover della Nasa che cammina su Marte, "ho controllato, è costato meno dei lavori alla Salerno Reggio Calabria". Risate, applausi. Le battute sono sempre le stesse, dall'ampolla del dio Po all'alzate la mano se pensate che spendiamo troppo per il pubblico impiego. Le pillole in video anche, scelte con sapienza televisiva: alleggeriscono, emozionano. Arrivano dove lui da solo non arriverebbe. Troisi che a "ricordati che devi morire" risponde "ora me lo segno", per dire dello sconfittismo di certa sinistra, riscatta anni di cupezza nei cinquantenni che "Non ci resta che piangere" lo videro in prima visione. Cetto La Qualunque nella gag dello scontrino fiscale scatena i venti-trentenni dello sciagurato ventennio della furbizia al potere. Will Smith che dice al ragazzino "non permettere a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa" illanguidisce le giovani madri e le nonne. Crozza con l'orsetto che fa il verso al bambino Renzi fa ridere il pubblico televisivo, cioè tutti. Obama che parla della bimba Christina uccisa a Tucson - obiettivamente: superlativo - chiude lo show, due minuti di silenzio solido in platea e standig ovation, commenti all'uscita su quanto è bravo Obama, mamma mia, piccoli capannelli nel foyer, "Ma hai sentito quando dice che bisogna tenere in vita le aspettative dei bambini?". E sì era Obama, non Renzi, ma è uguale.

Perché almeno in una cosa, sicuramente in questa sì, Renzi ha già sconfitto tutti gli avversari: si è circondato di persone più brave di lui. Non ha avuto paura che gli facessero ombra, i collaboratori. Ha preso su piazza i migliori: lo spettacolo dell'Auditorium, chiunque abbia mai allestito anche solo un palco di paese lo sa, è un oggetto teatrale semplicissimo e sofisticato, costoso, studiato e provato nei particolari. Il regista, il tecnico del suono, gli autori dei testi, i filmaker che riversano sul blog le interviste fatte per strada, l'organizzatore che prende al volo la sala una settimana prima. Tutto funziona meglio di quando non accada agli altri, basta dare un'occhiata il giorno dopo sul web per verificare. Non è solo Gori, anche se Gori è molto. Non sono nemmeno le risorse, cioè il denaro: anche gli altri ne dispongono in sufficiente quantità. E' una rete di competenze al lavoro, e la differenza si vede. Il pubblico applaude con convinzione, ed è un pubblico davvero misto per età e formazione, per provenienza politica. A Varese, nel teatro strapieno, c'è "una minoranza di ex leghisti, pochi del Pd", annota sul taccuino la giornalista locale che i militanti politici li conosce quasi tutti di persona. Il resto "sono gente qualunque, quella è la mia vecchia prof del liceo. Quella la libraia del corso. Quello lì un avvocato, democristiano mi pare. Gli altri non so, alle manifestazioni politiche non li ho mai visti". A Roma, alle nove di sera a due passi dal Vaticano, ci sono gli ex addetti stampa di D'Alema, di Franceschini e di Prodi, gli uomini del Campidoglio di Veltroni e quelli di Alemanno, i pdl Fabrizio Santori e Gianluigi de Palo assessore alla scuola del Comune. "Questo ha già vinto", si dicono i collaboratori di Alemanno dando un'occhiata alla sala. "Macché, sono tutti curiosi", rispondono dal capannello bersaniano.

Tutti no. In massa si fermano a firmare gli otto referendum per Roma proposti dai radicali, poi dentro in sala tutto pieno fino in galleria. Renzi batte e ribatte sulla scuola, gli asili nido e la formazione, il merito e i professori che fanno il mestiere "più bello e più importante del mondo". Tre video su cinque (Crozza, Will Smith, Obama) parlano di bambini e lui stesso manda di sé questo messaggio: racconta del figlio undicenne, poi diventa in proprio il portabandiera dell'innocenza e del coraggio di un bambino. In platea, tra i tanti, tre sedicenni compagni di classe. Mattia Fiorilli, David Valente, Federico Stefanutto. A Federico piace, a Mattia per niente, David è dubbioso. "Siamo venuti a sentire, così poi possiamo discutere meglio". La madre di un loro compagno di scuola passa e li riconosce, li saluta, si compiace. Mattia dice che "però tutta questa roba è fuffa, è solo buona per la tv". Federico si accalora, non è vero, David ascolta. Una giovane donna, il doppio dei loro anni, si ferma a guardare la scena. "Ma ragazzi, voi l'avete mai sentito un uomo politico parlare di asili nido?", domanda. Vorrebbe fermarsi a parlare con loro ma s'è fatto tardi, scusi signora, domani c'è scuola e fra mezz'ora chiude la metro.

(26 settembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: Concita DE GREGORIO Schierati e dubbiosi le primarie dei sindaci
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2012, 02:12:54 am
L'INCHIESTA

Schierati e dubbiosi le primarie dei sindaci

Viaggio tra gli amministratori del Pd. "Il Paese vero è altrove".

Minervini, giunta Vendola: "Questo voto servirà solo a ridefinire i rapporti di forza interni"

di CONCITA DE GREGORIO

LA ROGNA di questa baldoria finirà per ricadere su tutti, dice Salvatore Adduce sindaco di Matera, 57 anni, politico di professione e dalemiano di lungo corso in una regione, la Basilicata, dove tutti nel Pd a domanda oggi rispondono: Bersani. "Io sono pronto a ritirarmi, se serve: non c'è nulla di male nell'andare in pensione. A un certo punto, anzi, si deve".

È un giro d'orizzonte fra sindaci e amministratori locali del centrosinistra, questo, che riserva qualche sorpresa. Tra chi fa politica misurandosi coi fatti trovi sindaci dell'ortodossia Pci pronti a farsi da parte, sindaci usciti dalle primarie che chiedono un Monti bis, amministratori del sud desolati dallo scontro di potere interno al partito. Nello scontro vacilla l'Emilia, roccaforte del segretario: è sempre più lunga la lista di quelli che guardano a Renzi. Nella città di Bersani il sindaco è Paolo Dosi, che ha sconfitto alle primarie il candidato proposto da Migliavacca, l'ex Ds Francesco Cacciatore. Dosi, area cattolica, è delfino di Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza e oggi capo dello staff di Matteo Renzi. A Renzi hanno dato sostegno esplicito il sindaco di Finale Emilia, comune terremotato, Fernando Ferioli; il capogruppo Pd in consiglio comunale a Parma Nicola Dall'Olio; il modenese Matteo Richetti presidente del consiglio regionale emiliano; il sindaco di Reggio Emilia e presidente dell'Anci Graziano Del Rio. Un certo smottamento si avverte a Ravenna (il sindaco Fabrizio Matteucci
sente forte "la richiesta di rinnovamento"), a Cesena e a Forlì.

Roberto Balzani, attuale sindaco di Forlì, è un docente universitario eletto dopo aver sconfitto da outsider alle primarie la candidata sostenuta dal partito, Nadia Masini. Ha appena pubblicato col Mulino un libro, "Cinque anni di solitudine. Memorie inutili di un sindaco". Non ha sciolto la riserva su Renzi, "al momento voterei scheda bianca, spero in un Monti bis. Conosco l'ancien regime di partito: c'è un blocco di ricambio da rompere". Racconta a titolo d'esempio l'istruttiva vicenda dell'aeroporto di Forlì. Costruito negli anni '30 da Mussolini "quando voleva trasformare i romagnoli in aviatori". La società che lo gestisce in concessione dall'Enac, la Seaf, è partecipata al 49 per cento dal comune. "Ci sono nel raggio di mezz'ora altri due aeroporti: Bologna e Rimini. Per mantenere aperto quello di Forlì si è fatto un accordo con la Wind Jet di Pulvirenti. Un certo numero di biglietti prepagati in cambio del mantenimento dello scalo. Così abbiamo comprato una montagna di biglietti per la Polonia e per la Russia, voli naturalmente vuoti. Poi Wind Jet è fallita. Il comune ha avuto perdite mostruose, 5 milioni di euro nel 2010. Seaf è un centro di potere che serve anche a ricollocare la vecchia classe dirigente. L'ultimo presidente è l'ex sindaco della città".

Un andazzo, commenta Graziano Delrio sindaco di Reggio Emilia e presidente dell'Anci, destinato a finire. "Si è militarizzato il primo livello ma non il secondo. Un quarto dei sindaci italiani hanno meno di 35 anni, moltissimi sono stati eletti nelle liste civiche anche a centrosinistra. Si sentono liberi". Delrio respinge come "velina di apparato" la notizia che lo vorrebbe sostenitore di una legge in favore di Renzi: l'abolizione della norma secondo cui sei mesi prima delle elezioni chi si presenta deve dimettersi da sindaco. "Una proposta presentata più volte da chi mi ha preceduto. Non riguarda Renzi, tra l'altro: non si sta candidando in Parlamento".

Sta con Bersani Salvatore Adduce, sindaco di Matera. A 17 anni segretario della Fgci, migliorista quando Ranieri era segretario della federazione regionale della Basilicata, poi dalemiano. Per 15 anni presidente della lega Coop. "La più grande corrente del Pd è quella che non esiste: quella di D'Alema", ride. Poi ricorda che quando il suo leader era al governo "facemmo l'accordo sul petrolio, i fondi sarebbero andati a finanziare il piano di mobilità per collegare Matera alla rete ferroviaria nazionale. E' arrivato Berlusconi e si è fermato tutto, anche il treno". Ad agosto Adduce ha sciolto la sua giunta "fatta a regola d'arte con manuale Cencelli" fra Pd, Idv, lista civica, Sel, Udc e socialisti. "Era paralizzata dalla litigiosità interna. Ho messo dentro tre tecnici. Ho voluto dare un segno. Non si può più andare avanti se ciascuno usa il governo per costruire il consenso. La mia generazione, lo so, è l'ultima di un ciclo".

E' donna di partito anche Ilda Curti, 48 anni, assessore a Urbanistica Integrazione e Periferie del comune di Torino. "Una donna del Novecento", dice di sè, cresciuta nell'ultima leva del Pci. Fa parte della rete di Pippo Civati "Prossima Italia", guarda con interesse alla candidatura di Laura Puppato. "Ma non mi metto nelle tifoserie senza sapere qual è il gioco. Dei leaderismi diffido. Queste sono, per ora, primarie in supplenza di congresso. C'è una distanza siderale dalle cose. Qui abbiamo bisogno di risposte concrete: possiamo o no dare la cittadinanza ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri? Questo serve, non fare la conta".

Una conta oltretutto inutile a governare, dice Guglielmo Minervini. Assessore Pd nella giunta Vendola, cattolico con don Tonino Bello, dirigente di Pax Christi, fondatore delle edizioni la Meridiana. Tra i più votati nel Pd nel 2010. Siede in piazza, a Bari, tutti si fermano. "Viviamo uno scorcio di presente che fatica a morire. La riforma in senso proporzionale segnerà un ulteriore indebolimento della politica. La sera delle elezioni scopriremo di non avere un governo. La riforma conviene all'Udc e a quella parte del Pd che ha in mente l'alleanza con l'Udc, il governo di unità nazionale, qualche scambio con la presidenza della Repubblica. Quelle cose che si scoprono dopo.
Dopo Monti vedo solo un altro Monti. La disperata domanda di alternativa e il bisogno di futuro del Paese non sono l'oggetto del confronto". Saranno primarie, dice, "utili solo a definire i nuovi rapporti di forza dentro il partito. Ciascuno parla al suo esercito. Ho già vissuto due volte, con le primarie di Vendola, lo scontro fra apparato ed energia vitale. Ma ogni volta è più difficile, ogni volta la gente è più stanca". Gli piacerebbe, dice, che "si ascoltasse chi fa politica affondando le mani ogni giorno nelle piccole cose della vita. E' nelle piccole cose il seme della grande speranza. Ma lo dico perché sono ottimista patologico. Perché devo continuare a crederci se voglio alzarmi da questo bar, fra cinque minuti, e tornare a guardare negli occhi la gente".

(29 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/29/news/sindaci_primarie-43500723/?ref=HREC1-4


Titolo: Concita DE GREGORIO Follini: "Liberare Bersani dalle secche di Fassina, Vendola
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 09:33:35 am
   
L'inchiesta

Primarie, la scelta dei montiani Pd "Non serve un nostro candidato"

Il "Partito trasversale" dei supporter del premier si affaccia nella "Corsa" democratica: voteremo chi sta con il Professore.

Follini: "Liberare Bersani dalle secche di Fassina, Vendola e Fiom, e evitare Renzi"

di CONCITA DE GREGORIO


ROMA - Nella partita delle primarie per il Monti bis gioca una squadra senza maglia. Mimetica, trasversale, invisibile agli occhi di chi del cielo politico non conosca anche il pulviscolo: renziani doc, ex veltroniani ora con Renzi, bersaniani antifassiniani nel senso di Fassina, rutelliani del Misto, ex dalemiani ora con Montezemolo, riformisti puri, antivendoliani sostenitori della riforma Fornero, ex radicali oggi centristi. E poi Tabacci, naturalmente, fuori dal Pd. E ancora più al centro i terzopolisti, ancora più a destra un pezzo di finiani ma qui siamo già fuori dalle primarie del centrosinistra, evidentemente: siamo in un terreno che passa dalle gerarchie ecclesiastiche e dagli ambasciatori delle grandi potenze d'Occidente e arriva, come sempre, a Gianni Letta.

Il gruppo in abiti borghesi e senza insegne che dentro il centrosinistra anima in queste ore il movimento sotterraneo al campo di gioco ha, sugli spalti, una tifoseria da far spavento. Tifano per Monti dopo Monti la Chiesa, se con Chiesa si intende la Cei, l'America di Obama, la Germania di Merkel, la grande industria di Marchionne e Squinzi. Ora che Monti stesso ha dato la sua disponibità a "restare, se serve", il lavorìo perché resti e perché serva si fa visibile anche in quel congresso del Pd a cielo aperto in cui le primarie si sono provvisoriamente trasformate in attesa di conoscerne le regole e il senso. Senso che dipende, tutti ne convengono, da quale sarà la nuova legge elettorale, se ci sarà.
 
Riuniti al Tempio di Adriano, ieri, i quindici parlamentari Pd firmatari dell'appello pro-Monti hanno invitato amici di varia provenienza tutti curiosi di sapere se ci sarà un candidato di area, che fosse Enrico Morando o Pietro Ichino o altro ancora, ed hanno chiarito intanto che no, per il momento di un candidato dell'agenda-Monti "non si avverte il bisogno", ha detto lo stesso Morando. Piuttosto quel che c'è da fare è lavorare, trova Marco Follini, a "disincagliare l'area Bersani dalle secche dove lo portano Fassina, l'alleanza con Vendola e con la Fiom". È chiaro che nessuna agenda Monti si farà con chi vuole il referendum sull'articolo 18 e la riforma della legge Fornero. E vuole anche, Follini, "evitare lo tsunami Renzi che azzererebbe storie tradizioni e carriere di questo partito". I bersaniani sono tuttavia qui in minoranza: solo Follini e Cabras, tra i promotori. Nutrito il gruppo dei veltroniani o ex (Tonini, Peluffo, Maran, Gentiloni, Morando, Vassallo, Ceccanti) alcuni dei quali hanno lavorato al programma di Renzi. Tra gli "amici ospiti" Andrea Romano di Italia Futura, Linda Lanzillotta di Api, Benedetto della Vedova di Futuro e Libertà, Giulio Zanella di "Fermare il declino", movimento di Oscar Giannino. Il tema è: giocare le primarie per far vincere chi sia più adatto, nel Pd, a sostenere un governo Monti. Ceccanti: "Le primarie sono il dito che indica la luna. Monti è la luna. Scegliamo il dito che la indica".

Ecco, questo. Tonini usa la metafora della tossicodipendenza: la politica è ammalata, Monti può guarirla sebbene con metodi non amabili, un po' come Muccioli. "Se non si cura il male attraverso la politica succederà contro la politica". Andrea Romano interviene per dire ai riformisti di smetterla di "contarsi anziché contare", li invita a giocare nel "mare aperto della contendibilità del partito".

Suona come un invito a sostenere Renzi, sottolinea Ivan Scalfarotto. Claudio Petruccioli, veemente, dice che "l'agenda Monti è un modo per non raccontarsi balle", teme che se la politica non sarà in grado di governare questo passaggio "non ci sarà più bisogno di noi". Chiarisce Gentiloni: "Un governo Monti sostenuto da Alfano Bersani e Casini non sarebbe una buona notizia per gli elettori. Il Pd deve vincere e governare in continuità con l'azione di Monti". Ichino difende la riforma Fornero, Morando paventa la disgregazione del sistema: "La crisi di rappresentanza può diventare crisi della democrazia. Un modello Grecia, dove si vota ogni 15 giorni".

Fuori fuma il sigaro Roberto Giachetti, segretario d'aula del gruppo Pd esperto di regolamenti, smagrito dallo sciopero della fame che conduce contro il Porcellum. "La legge elettorale non cambierà  -  profetizza  -  i capigruppo il 9 ottobre la metteranno in calendario per fine mese. Arriverà alla Camera un testo di compromesso e alla Camera sulle preferenze si vota a scrutinio segreto: quanti sono i parlamentari di quest'aula che con le preferenze non sarebbero rieletti? Voteranno contro, dovrà tornare al Senato, si arriverà alla soglia dello scioglimento delle Camere e sarà tardi. Anche col Porcellum d'altronde rischia di non esserci una maggioranza al Senato. Vedo una strada difficilissima, le riforme si dovevano fare prima. E quel che trovo intollerabile è che chi ha fallito non riconosca le sue responsabilità. Che non dica: non siamo stati capaci, la finiamo qui".

(30 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/30/news/primarie_la_scelta_dei_montiani_pd_non_serve_un_nostro_candidato-43559008/?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO "Questa volta possiamo cambiare davvero"
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:19:22 pm
IL RACCONTO

Il duello americano del centrosinistra "Questa volta possiamo cambiare davvero"

Nel confronto in stile "debate", tutti in piedi davanti al leggio trasparente, il favorito era Renzi.

Un confronto serrato e civile, costruttivo e istruttivo fra candidati di uno schieramento che torna a esister.

Il segretario parla da "fratello maggiore", dal sindaco slogan efficaci

di CONCITA DE GREGORIO


MILANO - Che bello spettacolo, la politica che parla delle cose, i candidati che non si insultano, nessuno che grida, qualcuno che si alza dal pubblico e fa domande vere, dirette.

Domande tipo: Vendola, se lei non fosse candidato chi voterebbe? Vendola che risponde: non ce la faccio, scusate, e ride. Ridono tutti. La sostenitrice di Vendola che chiede a Renzi del nucleare e si emoziona, Renzi che le risponde chiamandola per nome  -  "Vedi, Serena..."  -  e lo stile dell'uomo è già tutto qui. Aveva torto chi aveva paura di questo confronto e ha fatto di tutto perché andasse in onda su un canale dove lo vedono in pochi, sia detto per il futuro: sbaglia sempre chi ha paura.

Dalle otto e mezza di ieri sera per due ore si è visto su Sky un confronto serrato e civile, costruttivo e istruttivo fra candidati di un centrosinistra che finalmente torna ad esistere anche fra leader così come esiste fra gli elettori: persone diverse ma affini, preparate, serie, appassionate, con punti di vista diversi ma con un orizzonte comune, in grado di discutere dei destini del Paese e non solo di se stesse. L'idea geniale e feroce di chi ha organizzato il confronto fra i cinque candidati alle primarie del centrosinistra negli studi di X Factor poteva essere l'anticamera della definitiva resa della politica alla grammatica della tv, è stata invece una riscossa. Bersani, Renzi, Puppato, Vendola, Tabacci sono entrati proprio come fanno Simona Ventura e Morgan, Elio e Arisa, persino con la possibilità di confonderli. I giudici-professori universitari che giudicano la veridicità delle loro parole, l'intervento del pubblico. Tutto secondo format. Invece le parole della politica hanno vinto, seppure costrette nel minuto e mezzo a testa di cui ciascuno aveva disponibilità e dunque poco, certo, molto poco ma abbastanza invece per capire di cosa stiamo parlando, di chi.

Nel confronto all'americana, tutti in piedi davanti al leggio trasparente, naturalmente il favorito era Renzi: uomo televisivo per eccellenza, bravissimo nel tempo breve, capace di usare il corpo e lo sguardo diretto in camera "all'americana". E difatti di Renzi sono state forse le battute più efficaci, una per tutte: "dobbiamo dire ai giovani: troverai lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno". Il sindaco aveva una cravatta viola come la sua Fiorentina, una pettinatura da bambino per bene, una bella giacca.

Bersani ha fatto la parte del fratello maggiore, ha chiamato tutti i suoi avversari per nome come fossero vecchi amici e chi segue la politica sa che non tutti sono amici davvero, ha scelto di mostrarsi affidabile e rassicurante, ha parlato con calma usando il suo linguaggio - "è farina del diavolo", tipo - e sorridendo parecchio ogni volta che era il turno di Renzi.

Vendola è arrivato da Vendola, presentato nella bio come "compagno di Eddy": chi dubitava della sua convinzione ha dovuto ricredersi.
Era appassionato e sincero, citava Spinelli, è riuscito persino ad essere sintetico.

Laura Puppato, nuova per la grandissima parte del pubblico e fin qui completamente oscurata come un'improbabile outsider, ha mostrato di essere  -  lei pure  -  quel che è: una donna autentica, francescana come lei stessa si è definita, portatrice di valori e di proposte importanti e profondamente radicate nella sua esperienza di amministratrice. Ha parlato di tutela del suolo, di sprechi, di economia, di donne e di gay, di lavoro facendo riferimento sempre alla sua storia di sindaco, con un linguaggio desueto come quello del veneto contadino, quello di chi dice veicoli anziché macchine quando parla di auto. Tina Anselmi e Nilde Iotti, ha detto, i suoi riferimenti politici. "La mia storia parla per me  -  dice alla fine  -  ed è una storia di coraggio e concretezza".

Tabacci ha scelto come "padrini" De Gasperi e Marcora, uomo della vecchia Dc capace ancora di parlare in modo convincente di "crisi morale ed etica". Sanguigno, competente, "montiano prima di Monti", orfano.

Bersani, alla fine, ha detto che nel suo Pantheon c'è Papa Giovanni, perché "cambiava le cose rassicurando". Vendola ha scelto Carlo Maria Martini. Renzi ha chiuso quasi con un rap, "ho 37 anni sono un ragazzo fortunato". A Marchionne ha quasi scritto una lettera: "Mi hai deluso". Ha parlato ai bambini: "La politica è una cosa bella per la quale vale la pena di impiegare del tempo". Vendola: "Vedo il mio paese sprofondare nel fango, anche in quello del cinismo. Penso ai disabili, ai carcerati, al femminicidio delle donne uccise dai maschi proprietari", ha parlato di solitudine. "Vorrei un'Italia più gentile", quasi una poesia per me che sono un'"acchiappa nuvole". Bersani: "Ho creduto e credo in queste primarie che fanno bene a noi e al Paese. Riavviciniamo i cittadini alla politica. Con la rabbia sola e con l'indignazione non si risolvono i problemi. Ci vuole un cambiamento". Aveva una cravatta rossa come la sua storia. "Non vi chiedo di piacervi, vi chiedo di credermi", ha detto.

È difficile che le due cose vadano separate in questa Italia, in questa politica, in questa tv. Ma il dibattito di ieri sera - due ore in cui si è parlato di tasse, di casta, di lavoro, di privilegi, di diritti - è stato forse il primo atto di un modo nuovo di parlare agli elettori.
Di un linguaggio nuovo, di un nuovo stile. Per sconfiggere la disillusione di chi non va a votare o ci va solo per protesta è questo che serve. Il confronto gentile, direbbe Vendola. La serietà, la competenza, il coraggio. Una bella squadra di persone diverse. Quel che non aiuta è la paura.

(13 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/primarie-pd/edizione2012/2012/11/13/news/centrosinistra_all_americana-46507376/


Titolo: Concita DE GREGORIO Rettili e minerali
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2012, 11:25:08 pm

27
nov
2012

Rettili e minerali

Concita De Gregorio


Anche a non essere lombrosiani, e diventa ogni giorno più difficile, lo spettacolo dei volti dei Riva  padre e figlio  e del loro ufficiale pagatore Girolamo Archinà dice della vicenda Ilva almeno quanto, forse più delle parole. Che l’erede di una fortuna costruita sulla morte per cancro di centinaia di operai dica al telefono ‘Due tumori in piú? Una minchiata’ e’ un’enormità non tanto aggravata quanto illustrata dalla sua faccia. Rettili, questo sembrano i tre affiancati in foto. Archinà, l’equivalente del ragionier Spinelli, come ciascuno in città sa aveva a libro paga non Olgettine ma arcivescovi e cardinali.

Che per 52 anni la chiesa tarantina si sia lasciata zittire con una mancia mensile é della storia il dettaglio più indecente. Con una mano si avvelenavano i lavoratori e con l’altra si costruiva, nel quartiere della morte – i Tamburi – la chiesa di Gesù divin lavoratore con un mosaico in stile socialismo reale dove i dirigenti della fabbrica e gli operai, i pescatori e i padroni, tutti insieme, rendono omaggio al dono del lavoro portato dal Cristo. All’ombra di quel mosaico e in cambio dei denari avuti per altre magnificenti opere di carità i preti hanno per anni consolato le vedove e le orfane, che vuoi ragazza mia, e’ il volere del Signore. Se gli uomini morivano a 40 anni, se i bambini nascevano con la leucemia. Una fatalità, preghiamo.

Saggi, intanto, gli amministratori e i politici che si sono succeduti nelle decadi si sono ben guardati dall’aprire a Taranto un centro pubblico di oncologia pediatrica:  i bimbi  malati meglio mandarli a curarsi e a morire fuori ,così non entrano nel conto in carico alla città e non fanno statistica. I bambini: gli stessi che nei loro disegni dipingono la fabbrica che sputa ‘ minerale’ come un drago. I bambini che tornano da scuola con la faccia che luccica di polvere, i ‘minori’ che secondo l’ordinanza del sindaco è meglio non far giocare per strada, ai Tamburi. Teneteli a casa.

Come al solito le parole sulla tragedia della chiusura dello stabilimento e della perdita del lavoro per una città intera sono fuori luogo. Pare trattarsi  di una catasofe naturale: un terremoto, uno tsunami improvviso, la mano di un giudice dissennato, un imprevedibile accidente. Ma che a Taranto si muore di cancro e che la fabbrica che dà da vivere è la stessa che stermina famiglie intere lo sanno tutti da decenni e lo sopportano: gli ultimi perché non hanno alternative, tutti gli altri perchè gli conviene. Chiunque ti spiega il ‘peccato originale’ quale sia stato: aver deciso di collocare la zona di stoccaggio e di lavorazione a caldo a ridosso della città e non dal lato opposto come sarebbe stato logico. Perché? Per risparmiare qualche metro di nastro trasportatore dei materiali dal porto. Per spendere meno, insomma, e pazienza se le fornaci che sputano veleno minerale stanno a ridosso delle case. Quando? 52 anni fa, nel 1960. Mezzo secolo.

Ce ne sarebbe stato di tempo per chiedere ai padroni dell’acciaio, da ultimo  ai Riva,  interventi di bonifica drastici, per obbligarli con le leggi, per evitare di lasciarsi comprare e per denunciare i corrotti. Per evitare che si arrivasse al punto in cui a pagare sono come sempre quelli che hanno da vendere soltano il loro lavoro,  la vita compresa nel prezzo, e di entrambi restano senza. Le lacrime di coccodrillo, parlando di rettili, sono una pratica ignobile e in tempi come i nostri insopportabile. Suscitano rabbia e furore, legittimi. Se fossi un candidato premier oggi sarei all’Ilva a parlare con gli operai che la occupano: soprattutto sarei lì ad ascoltarli e pazienza se insultano. Hanno ragione loro e bisogna dirglielo. Assumersi le proprie responsabilita, scusarsi senza dar le colpe ad altri che le colpe politiche si ereditano e si scontano, ascoltarli e dire: avete ragione.

da - http://de-gregorio.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Allarme di Save the Children: in Italia brillanti ma sfiduci
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2012, 12:17:01 pm
Più libri meno cellulari per salvare i nostri figli

Allarme di Save the Children: in Italia brillanti ma sfiduciati.

Tra i giovani uno su quattro non studia né lavora e uno su tre non cerca più un'occupazione.

Ma riescono a ottenere risultati anche partendo da condizioni avverse

di CONCITA DE GREGORIO

DI FUTURO parlano tutti. Che non è più quello di una volta, che non c'è eppure è lì che stiamo andando ma insomma poi di cosa parliamo davvero quando diciamo: futuro? Parliamo di dieci milioni e duecentomila persone, in concreto. Persone piccole, che hanno meno di dieci anni, e persone giovani, che ne hanno meno di 18.

Dieci milioni e duecentomila bambini e ragazzi che il rapporto 2012 sull'infanzia italiana di Save the Children descrive così: dieci volte più scoraggiati che in Grecia eppure più bravi a scuola che in Germania, impareggiabili scalatori di condizioni avverse. Senza l'opportunità di aprire un libro, andare al cinema, allenarsi in uno sport, connettersi ad Internet: più di 300 mila di loro in specie da Napoli in giù. Gli stessi, però, tutti col telefonino a 6 anni. Disconnessi, una parte, e iperconnessi, un'altra metà. Davanti al computer ogni giorno, entrambi i genitori assenti da casa. Appassionati di saghe senza adulti, come in "Gone" di Michael Grant, giochi film e fumetti dove i bambini sono orfani, non hanno memoria del passato, devono cavarsela da soli. Delirium, Meto, Feed, Hunger games. Titoli così.

Da questo "Atlante sull'infanzia a rischio", ecco da dove chi si candida a guidare il Paese dovrebbe cominciare a scrivere un progetto per l'Italia. Bambini, ragazzi, scuola, salute, impiego delle loro intelligenze e sostegno alle difficoltà. Il destino dei giovani di seconda generazione - figli di stranieri - che sono già adesso il 10 per cento del totale, la cura dell'ambiente in cui questi ragazzi vivono. E invece. C'è qualcuno che pensi a cosa sarà dell'Italia fra vent'anni? Che misuri quel che è utile non in mesi ma in decenni, non sul suo proprio destino ma su quello di chi verrà? Ecco, questo sì sarebbe rivoluzionario. Questo davvero avrebbe "profumo di sinistra". In questi ambiti tutto il denaro che si impiega non è una spesa ma un investimento. I finanziamenti al Piano per l'infanzia, che ancora oggi in Italia non ci sono, dovrebbero essere scorporati dal debito pubblico esattamente per questa elementare ragione. Non sono una spesa, sono un investimento. Come quando un'azienda compra un macchinario nuovo, proprio così. Sono, inoltre, investimenti capaci di generare lavoro. Persino Confindustria è d'accordo e lo certifica.

I dati del rapporto, qualche spunto. Nel 2012 sono nati 60 mila bambini in meno rispetto all'anno scorso. L'aspettativa di vita, per contro, aumenta di due mesi ogni anno. Fra vent'anni ciascuno vivrà quasi due anni in più e ogni nuovo nato dovrà farsi carico di sei persone anziane e inattive. Mezzo milione di neonati sono venuti al mondo, quest'anno, con 3 milioni e mezzo di debito pubblico a testa. I bambini saranno presto più preziosi del petrolio. Questa la scena. Vediamo cosa accade sul palco.

C'è, specialmente al Sud, un numero impressionante di ragazzi chiamati dal rapporto "disconnessi culturali". Più di trecentomila persone sotto i 18 anni non hanno mai fatto sport, non sono mai andati al cinema, non hanno mai aperto un libro o un pc. Non è vero che i ragazzi sono tutti su Internet: il 33 per cento, uno su tre, non ha accesso alla rete. Accade in Campania, Sicilia, Calabria, in Puglia: un ragazzino su quattro non fa nessuna attività sportiva, uno su cinque non varca la soglia di un cine, quasi la metà non legge libri. Nelle stesse regioni tre bambini su dieci fra quelli che hanno meno di dieci anni possiedono un cellulare. Il telefono è l'unica cosa che hanno. Oltre alla tv, certo, naturalmente.

Le scuole italiane sono tra le più vecchie d'Europa, come edifici, gli insegnanti pure. Tra i giovani sotto i 24 anni uno su quattro non studia né lavora, la disoccupazione cresce soprattutto fra i laureati, siamo il primo paese d'Europa come tasso di "scoraggiamento": un ragazzo su tre rinuncia a cercare lavoro, una media dieci volte più alta di quella greca. La maggioranza degli under 34 vive coi genitori, soprattutto al Sud. 359mila minori sono in condizone di povertà assoluta. I prestiti bancari alle giovani coppie, alle famiglie o ai ragazzi con reddito cosiddetto flessibile - che ipocrita eufemismo - sono più che dimezzati in un anno. Il rapporto parla di distopia, il contrario dell'utopia. Significa nessuna speranza, nessuna attesa, inedia e insieme rabbia.

Più della metà di questi bambini vive in città o paesi ad altissimo rischio di contaminazione ambientale: una cartina dei bambini cresciuti affianco all'Ilva, al quartiere Tamburi, parla per tutte. Il 7 per cento dei nostri figli cresce accanto a impianti chimici, petrolchimici, aree portuali e insediamenti industriali, discariche e zone a rischio non bonificate, illegali rispetto alle normative europee. La loro salute è compromessa alla nascita, le spese sanitarie saranno a loro carico. L'interruzione scolastica è la più alta d'Europa. Il virus della violenza domestica, i padri contro le madri, in aumento, e quello della pressione delle mafie esercita su di loro la forza di un esempio, li costringe reclute.

Nonostante questo i ragazzi italiani hanno il più alto indice di "resilienza": la capacità di ottenere risultati (scolastici, scientifici) nella norma o spesso sopra la norma partendo da condizioni avverse. Un'indole che ha qualcosa in comune con l'ostinazione con cui gli elettori del centrosinistra credono nella forza della democrazia e della rappresentanza nonostante le ripetute delusioni. È lo stesso Paese, quello descritto nelle 77 mappe dell'Atlante, in cui Federico Morello a 13 anni è stato capace di convincere il suo comune in Friuli a dotarsi della banda larga; in cui un professore dell'Itis Majorana di Brindisi ha saputo mettere in rete 800 insegnanti di 70 scuole per realizzare e stampare in classe i libri: un progetto - Book in progress - che fa risparmiare alle famiglie 300 euro di spese per i testi; è il Paese dove gli studenti gestiscono on line la più grande scuola gratuita, Oilproject, lezioni materiali ed esercizi condivisi; dove gli stessi studenti per la prima volta in Italia studiano un piano di mobilità da e verso la scuola (Mobilty manager studentesco) in modo che i bambini e i ragazzi possano muoversi da soli e non, come oggi accade in un caso su tre, essere accompagnati a scuola e persino all'università in auto. Un'Italia due passi avanti a chi la governa.

Ecco, il vero banco di prova di chi si candida oggi a guidare il Paese è questo: investire nei bambini e nei ragazzi, coloro che siederanno domani dove oggi noi siamo seduti, che giudicheranno le nostre azioni e omissioni, che ci chiederanno conto di dove eravamo e cosa abbiamo fatto. Il Piano nazionale per l'infanzia approvato con grande ritardo non è stato mai finanziato ed è rimasto lettera morta. All'investimento sul futuro è destinato l'1,4 per cento del prodotto interno lordo. Niente. Eppure ogni singolo elettore, ogni famiglia italiana vive nell'angoscia del futuro dei suoi figli. Pensa che rivoluzione sarebbe dare una risposta proprio a loro, cioè a ciascuno di noi. Pensa che campagna elettorale, che musica per le orecchie di chi ancora ostinatamente spera, che magnifica sorpresa sarebbe dire: non m'interessa il mio futuro, m'interessa il vostro.

(04 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/12/04/news/piu_libri_meno_cellulari-48025107/?ref=HREC1-5


Titolo: Concita DE GREGORIO Di spalle a Grillo
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2012, 05:02:47 pm

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dic
2012

Di spalle a Grillo

Concita DE GREGORIO

Voltando le spalle a Grillo si vede l’Italia com’è. Fossi un politico, oggi, o un analista o un consigliere di quelli che con notevole autostima e uso di mondo definiscono se stessi spin doctor suggerirei a chi si candida a guidare il Paese di non rifare lo stesso errore commesso nel tentativo di decifrare il successo di Silvio Berlusconi. Di non rifarlo a così breve distanza da allora, per giunta. Suggerirei di non tenere la camera fissa sul leader, insomma, per rivelarne nefandezze delitti politici e grottesche debolezze ma di voltargli le spalle, appunto, e di inquadrare chi lo vota. Berlusconi non ha governato l’Italia da dittatore, è stato più volte eletto dalla maggioranza di coloro che sono andati a votare. Con evidenza quelle nefandezze quei delitti e quelle debolezze grottesche non sono state sufficienti a dissuadere chi lo ha votato. Non fino ad oggi, almeno – la maggioranza in parlamento è ancora la sua. Per il futuro siamo ai sondaggi, alle speranze. Per capire l’Italia e gli italiani conviene osservare il Paese e chi lo abita assai più di chi lo guida. Del resto mille volte abbiamo detto, ed è vero, che gli italiani – quelli che mandano avanti il Paese con generosa ostinazione – sono migliori di chi li rappresenta. Basta pensare al governo della scuola, e poi pensare agli insegnanti. Basta pensare alle maestre di Scampia.

Con Grillo è di nuovo così. Un populista, un demagogo, un comico dispotico, un antieuropeista, uno sciamano del web agitatore dell’antipolitica. Questi i giudizi sull’uomo, in genere, argomentati e pertinenti. Per giunta è in calo nei sondaggi, in specie dopo le primarie del centrosinistra, circostanza che nei medesimi osservatori suscita comprensibile sollievo. Però poi, a dargli le spalle, si possono vedere coloro che ha di fronte e che si riconoscono nell’opportunità che offre loro. Quella di fare un passo avanti e provarci, di impegnarsi non contro la politica ma nella politica: cambiarla. “Rifare l’Italia”, dice una di loro.

I video dei candidati del Movimento Cinque Stelle usciti dalle ‘parlamentarie’ e dunque grosso modo destinati ad essere eletti in Parlamento mostrano un pezzo d’Italia che sarebbe un errore grossolano denigrare o irridere. Al contrario, sono persone quasi sempre molto giovani degne della massima attenzione, di rispetto. Bella gente, e non capisco molto i continui riferimenti al loro essere anime belle, naif. Giulia Sarti, 26 anni, di Rimini, è avvocato e lavora da anni nell’antimafia. Mara Mucci, di Imola, licenziata quando era incinta, si batte per i diritti delle donne precarie. Matteo Dall’Osso, di Bologna, per la lotta alla sclerosi multipla (la ricerca, la sanità). Federica Daga, 36, è una paladina delle battaglie per l’acqua pubblica. Laura Castelli, laureata in economia aziendale, ha lavorato per inasprire le pene contro i crimini ambientali in Piemonte. Fabiana Dadone, 29 anni, di Mondovì, lavora in un’associazione contro la tratta delle donne che – dice – “sono poi costrette ad esercitare qui nel nostro territorio nell’indifferenza della popolazione”. Donata Agostinelli, di Jesi, è laureata in legge e si è battuta contro la speculazione e per la tutela della sua terra. Paola Carinelli, Milano, si occupa di mediazione linguistica in un paese già multietnico a dispetto di chi vorrebbe recintare i confini, delle Alba Dorata nascenti. Dice: “Mi rivolgo ai giovani, il futuro è nelle nostre mani, noi lo possiamo cambiare”. Moltissime sono donne. Insegnanti, infermiere, economiste. Moltissimi, prima di questa esperienza, non avevano mai fatto politica: non erano attratti da ‘quella’ politica. Non andavano neppure a votare, come in molte regioni d’Italia fa quasi la metà dei cittadini. Non si riconoscevano nella proposta dei partiti tradizionali. Per molte buone ragioni, in effetti. Per difetto di democrazia di base, per esempio.

Le primarie, che pure sono nello Statuto del Pd, costa ogni volta moltissimo farle ed ogni volta sembra una sorpresa quanto profitto portino in termini di credibilità e consenso. Le primarie di collegio e di circoscrizione, quelle per scegliere i parlamentari, furono oggetto nel 2010 di una raccolta di firme e di varie insistenze di alcuni giovani dirigenti del partito, insistenze accolte con fastidio dai vertici e cadute nel nulla. Oggi di nuovo si promette che si faranno, dopo aver molto a lungo insistito che si sarebbe fatta piuttosto, prima, la riforma della legge elettorale: in prevedibile mancanza della seconda vedremo se il tempo che resta da qui alle elezioni consentirà di realizzare le prime.

Se le stesse persone che hanno partecipato alle Parlamentarie di Grillo fossero state chiamate al lavoro da Di Pietro, che ha invece riempito le sue liste di personale politico di scarto e di risulta, spesso discutibile. Se fossero state invitate a farsi avanti nelle cento elezioni circoscrizionali o comunali o regionali dai più grandi partiti della sinistra, anziché premiare regolarmente portavoce portaborse e staff nel consueto iter che da segretario fedele o addetto stampa ti trasforma in deputato. Se insomma le competenze, le energie, le istanze, la voglia di fare e di cambiare che si legge nelle parole di quei candidati Cinque Stelle fossero stati, prima, raccolti e messi a frutto dai partiti non saremmo certo arrivati a questi livelli di disamore per la vecchia politica, di astensione, di rabbia. Ma il tempo della semina torna ogni anno. C’è ancora tempo. Serve il coraggio di cambiare le cattive abitudini e la generosità di non aspettarsi profitto immediato per sè. Una nuova generazione, se gli si aprono le porte, crescerà.

Infine. Ogni volta che accostiamo Grillo a Berlusconi, anche con ottimi e fondatissimi argomenti, ricordiamoci di voltare loro le spalle e guardare chi hanno di fronte. Tra la deputata Elvira Savino detta la Topolona selezionata alla Camera in virtù della sua abilità nel reclutamento delle ospiti delle ‘cene eleganti’ a casa Berlusconi e la ragazza di Mondovì che si batte contro la tratta delle schiave c’è differenza. E se la risposta è che la Topolona è più furba perché così va il mondo allora è meglio pensare che il mondo invece può cambiare. Pazienza se vi sembra naif. C’è un’Italia pronta a ripartire, vince chi la ascolta.

DA - http://de-gregorio.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER1-1


Titolo: Concita DE GREGORIO . Mariangela
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2013, 10:40:48 am

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gen
2013

Mariangela


Concita De Gregorio

Ho riletto l’intervista di Gianni Mura a Mariangela Melato. L’avevo messa via nella cartella: stare al mondo. E’ quella dove archivio tutto quello che è molto di più di quello che sembra – un pezzo di sport, un racconto, un fatto di cronaca – quella dove, più di tutto, si impara dagli altri come stare al mondo, appunto. Come fare un’intervista, per esempio, anche, di passaggio. Ho rivisto le foto. Quel modo di tenere la sigaretta, la luce in quella casa. Lei. Se avessi potuto scegliere che aspetto avere avrei voluto il suo. Se avessi potuto scegliere una voce avrei chiesto la sua. Uno sguardo, quello. Le mani, le sue, da uomo. Un’anima dal catalogo, quella.

Tanti anni fa ero a New York a seguire un viaggio di Irene Pivetti, allora Presidente della Camera. Mi cercò Renzo Arbore, era in città anche lui. Mi chiese la cortesia di domandare alla presidente di incontrarla anche solo per qualche minuto. Ci vedemmo a cena da Tavern on the green, neanche quello c’è più. Una strana serata, tutti in leggero imbarazzo. In un momento in cui Pivetti si era alzata per telefonare chiesi ad Arbore, che per tutta la cena l’aveva guardata quasi senza parlare, cosa avesse da dirle. “Niente, è solo che mi ricorda un po’ Mariangela”, rispose. Poi, con un sorriso malinconico. “Le somiglia un poco. In certi momenti. Vagamente. Così volevo vederla da vicino, sentire la sua voce”.

Non ho mai sentito una dichiarazione d’amore così pudica, così bella.

E’ una giornata in cui la malinconia affiora e riaffiora, questa di oggi. Siamo andati a letto ieri sera con la sensazione triste di vivere ancora prigionieri del secolo scorso, incatenati da narcisismi e vittimismi, con quei due in tv. Ci siamo svegliati stamani che la Signora non c’era più. Quando si resta più soli si ha bisogno di voltarsi a guardare qualcosa a cui appoggiarsi anche solo un momento. Una canzone, una persona, un verso. E così, rileggendo le parole di Mariangela Melato che parla di gratitudine, di indipendenza con quella sua grazia ruvida ho pensato che un piccolo antidoto, stasera potrebbe essere quello di condividere qualche regalo recente che tenga tesi quei fili. A proposito di gratitudine, le parole di Lorenzo Jovanotti Cherubini nel suo libro bellissimo, quel che scrive presentando con modestia la sua musica. “Indipendenza”, come una delle canzoni di Niccolò Fabi, un’altra anima da catalogo. Grazia ruvida, come quella delle poesie di Patrizia Cavalli e la sua voce nella canzone “Al cuore fa bene far le scale”, che in un mondo bello da immaginare vincerebbe Sanremo e si suonerebbe in tutte le radio, così da farci alzare la mattina pieni di sensato buon umore. Sì, sono piccole cose. Era solo per dire che bisogna fare con quello che c’è, sempre, e provare a mettere un mattone per quello che manca. O un fiore di carta, in questo caso.

da - http://de-gregorio.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER3-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Andreotti e noi
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2013, 12:16:15 am

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gen
2013

Andreotti e noi

Concita De Gregorio

Nel giorno in cui Giulio Andreotti compie XCIV anni il pensiero corre, si fa per dire, a quella notte del 1948 in cui fu mandato da De Gasperi a fare la spola tra il villino dei Parioli di Carlo Sforza e l’appartamento sulla Tuscolana di Luigi Einaudi. Doveva dire al primo, ministro degli Esteri in carica, che non sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica e di seguito riferire al secondo che sarebbe toccato a lui, invece. Era il 10 maggio, un martedì. Andreotti aveva 29 anni. Arrivò da Sforza nel villino di Via Linneo che era quasi mezzanotte, lo trovò che rileggeva il discorso che avrebbe pronunciato l’indomani, all’insedamento. “Come non detto”, lo ascoltò Sforza ripiegando i fogli del discorso. Poi il giovane Giulio aspettò l’alba, e pochi minuti prima delle sei si presentò in largo Volumnia, da Einaudi. Il Professore obiettò che aveva un difetto di deambulazione, pensava non gli conferisse “la prestanza necessaria a passare in rivista i militari”. Andreotti gli rispose che le rassegne militari si passavano ormai in automobile, fece di seguito una discreta elegantissima allusione di incoraggiamento alla poliomelite di Franklin D. Roosevelt. Einaudi fu il primo presidente eletto dalle Camere (essendo stato De Nicola nominato dalla Costituente, di cui del resto Andreotti faceva parte).

Ne restano tre, di Costituenti. Andreotti (’19) e Colombo (’20) siedono tuttora al Senato, a vita. Teresa Mattei (’21) si è ritirata da tempo dalla politica, circostanza che – di passaggio – conferma la diversa natura del rapporto femminile col potere.

Alla vigilia dell’elezione del prossimo Capo dello Stato Andreotti è dunque l’uomo che ne ha eletti e fatti eleggere undici, tutti, e si accinge a mettersi all’opera per il dodicesimo. Tecnicamente: un’ombra del secolo scorso che si allunga in questo.

Sono del resto, le politiche di febbraio e le presidenziali di primavera, le ultime elezioni del Novecento sconfinate negli anni Duemila. Di formazione politica Novecentesca sono tutti i leader ‘classici’ sulla scena, da Casini a Fini, da Bersani a Monti, da Berlusconi a Pannella, a Napolitano. Non potrebbe essere altrimenti per ragioni anagrafiche, certo. Ma un conto è aver scambiato missive e stilato dispacci per Harry Truman ed Eisenhower, un altro è essere cresciuti in un mondo già dotato di aeromobili di linea, per esempio, essere coetanei della posta elettronica, avere un’idea di rivoluzione che non rimandi sempre e solo a quella bolscevica. Senza nulla togliere alla saggezza dei padri, per carità. Solo che il mondo cambia più veloce di prima, non gli si sta affianco in carrozza. Ci arriva, dal Novecento, anche un’eredità del cabarettismo ciarlatano dell’ultimo ventennio, figlio dell’imbonimento eletto a regola, della truffa come sistema di governo. Nemmeno Totò, per restare al Novecento, avrebbe trovato parole per commentare le doppie pagine dei giornali di stamani che illustrano i 215 simboli di altrettanti partiti e movimenti in gara per le elezioni di febbraio. Una tragedia del buon senso e della logica, un numero da avanspettacolo. Per ragioni che hanno a che vedere con la geometria (quantità di centimetri quadrati sulla scheda elettorale) e con l’opportunismo (i pochi voti di ogni lista minore giovano comunque in questo sistema elettorale ai partiti principali della coalizione) dunque sempre per ragioni che contano sulla presunta dabbenaggine degli elettori siamo in presenza, a centrodestra,  delle liste “Dimezziamo lo stipendio ai politici”, “No alla chiusura degli ospedali”, “Basta tasse”, “Potere ai cittadini”, “Moderati in rivoluzione” che è come dire pianisti monchi, zoppi con Bolt. Poi naturalmente “Liberi da Equitalia”, come se il mezzo fosse la causa, lista capitanata dal ‘minisindaco’ di Scampia Angelo Pisani, il presidente della municipalità che ha organizzato l’assemblea con lo striscione “Scampiamoci da Saviano” e negato le riprese per la serie Gomorra, questi i suoi meriti. Poi “Pensioni minime a 1000 euro” e naturalmente “Forza Roma” e “Forza Lazio”, seguiti da “5 stelle” tanto per confondere le idee a pensionati e tifosi eventualmente sedotti da Grillo. Chiude la “Lista del merito” che si distingue evidentemente dal demerito di tutte le altre.

A sinistra va meglio, quanto a simboli. I caduti in battaglia si registrano qui sul fronte dello scontro fra ‘nominati’ ed eletti alle primarie, anche questa una guerra fra la logica vecchia e la proposta nuova. L’antico sistema ha scalzato dalle prime posizioni in lista molti dei nomi scelti dagli elettori con esiti a volte di incerta presa. Non si capisce bene per esempio in che modo il ravennate Sergio Zavoli, classe 1923, possa contribuire alla causa della vittoria in una regione molto a rischio per il Pd come la Campania, dove per giunta Ingroia sta lavorando alacremente. Sempre col massimo rispetto per un maestro, evidentemente. Un poco di malinconia la suscita anche la notizia che, avendo chiesto Zingaretti che i consiglieri laziali uscenti non fossero ricandidati, si siano trovati per moltissimi di loro posti alla Camera e al Senato (per Esterino Montino, il capogruppo, una candidatura a sindaco di Fiumicino) ma non per Rossodivita e Berardo, i due consiglieri radicali che con la loro denuncia hanno messo a nudo il caso Fiorito e l’andazzo in Regione. Il messaggio che passa è desolante. A destra resta escluso Pisanu, entra Cosentino. Non passa Santo Versace, una caduta di stile, resta Dell’Utri che “è persona perbene, ha quattro figli” ha detto Berlusconi da Santoro. Infine. Da “Amici miei” è quello che i giornali chiamano “il mistero del logo del Pdl”. C’è scritto “Berlusconi presidente”, infatti. Cosa avrà inteso dire? Davvero, ragioniamoci a fondo. Che significato potrebbero avere quel nome e quell’attributo accostati? Mah, è proprio un mistero, dannazione. Chissà se almeno Andreotti ha capito.

da - http://de-gregorio.blogautore.repubblica.it/2013/01/14/andreotti-e-noi/?ref=HREC1-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Cronache dall'Italia in crisi: "Così siamo diventati poveri"
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2013, 05:55:37 pm
Cronache dall'Italia in crisi: "Così siamo diventati poveri"

Otto milioni di italiani vivono con meno di mille euro al mese. L’ascensore sociale è tornato indietro di 27 anni.

La crisi economica ha massacrato la classe media che si ritrova così a fare i conti con le bollette ammucchiate sul frigo, l’assillo
dell’affitto da pagare, la retta dei bambini a scuola. Ecco alcune semplici storie di chi per farcela  compra il pane del giorno prima o divide la casa con altre famiglie. Vite di laureati che fanno i baristi e di mariti mandati sul lastrico dal divorzio

di CONCITA DE GREGORIO


I NUMERI non rendono l’idea. Siamo assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario perché si traducano in un pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre di mezza età, la madre.

Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da una campagna elettorale che discute di pensioni e di tasse, di esodati e di aliquote: un mondo politico che parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al nero, ha redditi sotto i mille euro. La media delle famiglie  italiane guadagna meno di ventimila euro l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo.

C’è differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che genera, in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione. Siamo tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà  relativa.

Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché ormai sono anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi, che il ceto medio è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono in macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, come queste sei semplicissime storie raccontano, è che nell’indifferenza diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa al super di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per trovare un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub, al nero, è diventato assolutamente normale.

Tutto intorno è così. L’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno. Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un destino peggiore dei padri, il giovane laureato in Legge, figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che non sa che farsene del suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui parlare, la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere.

LA CASSIERA
"Vedo tanti pensionati a caccia di super-sconti tra i prodotti in scadenza"
"Può scrivere solo il mio nome? Non vorrei passare un guaio, mi manca solo quello. Giovanna. Faccio la cassiera qui da otto anni, delle prime sono rimasta l'ultima. Ora arrivano tutte ragazze che stanno tre mesi meno un giorno, poi cambiano. Contratti di formazione, li chiamano: ti danno due euro, ti "formano", poi ti mandano a casa e avanti un'altra. Così se ne va la giovinezza e poi dopo a quarant'anni dove lo trovi un impiego? Sì, qui nel nostro "super" facciamo gli sconti last minute. Non li ha visti? Sono quelli con il prezzo in giallo. Se il formaggio, o il latte, o la carne sono a 24 ore dalla scadenza costano fino all'80 per cento in meno. Roba da mangiare subito, la sera stessa, prima che vada a male. Ma ancora buona, eh. Guardi, si fermi a guardare: la comprano tutti. Vede, qui a San Giovanni in Laterano, ci vivono moltissimi pensionati. Vengono col borsellino con la cerniera e dieci euro dentro, la busta di plastica da casa. Che poi uno dice pensionati e pensa agli anziani, ma i pensionati che vedo io hanno anche meno di sessant'anni. A 58 anni non sei vecchio, ma se da un giorno all'altro i duemila euro di stipendio diventano 900 di pensione e se hai ancora i figli a casa... Sapesse quante ne sento. Allora per forza devi comprare la carne che scade. Guardi, guardi. Perché non si direbbe, no? Li vedi ben vestiti, poi arrivano alla cassa e fanno passare tre oggetti. Ormai pagano più in monete che in banconote. Abbiamo anche un accordo con le scuole: i punti della spesa si possono devolvere all'istituto di quartiere per il materiale scolastico. Sì, alla scuola pubblica, perché?"

L'OPERATRICE DI CALL CENTER
"Tre donne, quattro figli: con una casa in comune arriviamo a fine mese"
"Mi chiamo Antonia L. Ho 57 anni, una figlia di 18 che vive con me. Ho cominciato a lavorare al call center quando mi sono separata, tre anni fa. Il mio ex marito non è in condizione di darci niente. Prendo, come tutti, 80 centesimi lordi a chiamata. Il mensile dipende da quanto lavoro. Se sono in salute, se ci metto gli straordinari posso arrivare a 800 euro. Ne pagavo 400 di affitto, più un centinaio di bollette varie. Con i 300 euro che restavano a vivere in due non ce la facevamo. Come me le altre, che al call center siamo soprattutto donne, e tante sole con figli. Con due di loro siamo andate a vivere insieme, un paio di anni fa: un appartamento a Cinecittà. In casa siamo tre donne, una ragazza, la mia, e tre bambini. Ciascuna dorme in camera coi figli. Facciamo la spesa a turno, una volta alla settimana, al discount. A turno laviamo, cuciniamo e assistiamo quelli che si ammalano così se una ha il figlio con la febbre può andare lo stesso al lavoro. Ci prendiamo anche una serata libera, a rotazione. Abbiamo una macchina sola, una tv, un computer. Dividiamo tutto, per orari e per giorni. È una specie di comune anni Settanta: solo che allora lo facevamo per scelta, ora per necessità. Mio padre era impiegato, mia madre maestra. Hanno laureato tre figli, avevamo una casetta al mare. Io la mia laurea ho dovuto nasconderla, sennò ero troppo qualificata per ottenere il lavoro. Mia figlia dice che l'università non serve, non so più cosa risponderle. Da ragazza facevo politica, sono stata anche iscritta a un partito. Ora no, a votare non ci vado più".

IL PANETTIERE
"Vendo a metà prezzo il pane del giorno prima: c'è la fila per comprarlo"
"Abbiamo fatto mettere un cartello fuori: "Il pane di ieri a metà prezzo". Ho raccomandato ai dipendenti discrezione per non urtare le suscettibilità di nessuno. Sa com'è: siamo tutti benestanti fino a prova contraria, il paese è piccolo, la gente parla, la dignità non ha prezzo. Però vedo che lo chiedono in tanti, il pane di ieri. Mi chiamo Luigi Di Ianni, ho 64 anni. Facevo il commerciante, qui a Sulmona. Quando sono andato in pensione ho rilevato il forno "Profumo di pane", che è anche una pasticceria. Un'attività di medie dimensioni: tre punti vendita, mia moglie e mio figlio piccolo che mi aiutano e nove dipendenti. Questo Natale è stato un disastro. I dolci prima si vendevano tutti i giorni, ora a stento per le feste e la domenica. Il pane da noi siamo abituati a comprarlo in forme grandi, e si butta. Uno spreco che non ci possiamo più permettere. Mia madre faceva il pane con le patate che durava venti giorni. Allora ho pensato: ma perché abbiamo smesso di fare così? Se avessimo fatto attenzione, in passato, se fossimo stati più sobri... Io le vedo le persone a negozio, la conosco Sulmona. Sta morendo. Siamo in provincia dell'Aquila, abbiamo passato tristi giorni. Molti sono in cassa integrazione, molti hanno i figli che sono tornati a casa, e tocca mantenerli. Io stesso, se guardassi solo i conti, farei meglio a chiudere. È un impegno verso gli altri, l'impresa. È buono ancora, sa, il nostro pane di ieri? E poi il pane è sacro. Non si butta. Vedo che lo chiedono, infatti. E magari dicono per giustificarsi: sa, ci devo fare le polpette, i ripieni. Che importa se non è vero".

L'IMPRENDITRICE FALLITA
"Noi strozzati dai debiti, mio padre si è ammazzato e l'azienda non c'è più"
"Ho scritto a Monti, a Napolitano. Volevo solo che sospendessero le ingiunzioni di pagamento. Mio padre si è ammazzato per quello. Per rimetterci in piedi ci voleva un po' di tempo, un po' di liquidità, soprattutto avevamo bisogno di non essere in mora coi pagamenti. C'è una legge per i casi come il nostro, ho controllato. Ma non è successo niente. Passavano i mesi e le ingiunzioni continuavano ad arrivare. 200 mila. 180 mila euro a volta. Ma creditori di chi? Papà si è sparato. L'azienda non c'è più. E lo sa poi cos'è che lo ha rovinato? L'amministrazione pubblica. I lavori fatti e non pagati. Fatti, consegnati, con la mano d'opera e i materiali pagati: e i pagamenti delle municipalizzate, delle Asl che non arrivavano mai. A nove mesi, a dodici mesi. E se protesti è peggio, perché poi non lavori più. Ma come fai ad aspettare e intanto pagare i contributi ai dipendenti? Da dove li prendi i soldi? E se ritardi la stessa amministrazione pubblica che non ti paga i lavori ti nega la patente di legalità, non ti dà le carte che ti servono per accedere ai crediti bancari. E così muori, perché poi ci sarebbe da parlare dell'usura bancaria, l'usura legale che ti strozza e ti mette in ginocchio ma io non ne voglio parlare perché sono stanca e non ne posso più. Ho un figlio piccolo devo pensare a lui. Avevo pensato di andare via dal mio paese, dalla mia regione che è il Veneto, certo, il polmone produttivo d'Italia, come no. Ma poi dove vado. Mi chiamo Flavia, lasci stare il cognome. Sono stanca, gliel'ho detto. Tanto qui da noi lo sanno tutti chi sono e sono stanca anche di questo. Vorrei solo sparire".

IL SEPARATO
"Lo stipendio da grafico se ne va per mio figlio: adesso vivo di carità"
"Cosa vuole sapere che non abbia già raccontato? Ora vengono tutti a intervistarci come se fossimo bestie nello zoo: "Le case dei padri separati", scrivono nei titoli, e poi sotto sempre le stesse storie, tutte uguali. Cosa c'è di interessante? Non è normale? E poi perché tutti ora? Sono anni che va così e nessuno si è mai occupato di come vive un uomo che guadagna 1200 euro e si separa, deve pagare gli alimenti e mantenere i figli piccoli. Come vuole che viva? Con 300 euro al mese, vive. Oppure va per strada. Dorme in macchina. Sì, va bene, scriva. Mi chiamo Umberto, ho 52 anni, da otto mesi sto in una stanza dei Padri oblati di Rho. Mio figlio ne ha 11 e sta con me una settimana ogni due. La casa l'ho lasciata alla madre. Quando viene qui dormiamo nello stesso letto, anche se ormai è grandino. Ma non protesta. Prima, quando giravo per i divani letto degli altri, era peggio. Sono diplomato: grafico. Lavoro in una ditta, faccio il materiale pubblicitario. Ho provato a cercare un secondo lavoro, ma è un miracolo se sono riuscito a tenermi il primo. Per un periodo sono andato in depressione. Dopo l'apatia mi è venuta su una rabbia pazzesca. Ma come è possibile, dico, che si debba campare di carità? Ho smesso di guardare la tv, a sentire i talk show politici mi montava la furia, il resto è schifezza per addormentarsi. La macchina l'ho venduta, mio figlio a scuola lo accompagno coi mezzi. Lui si vergogna, vuole che scendiamo alla fermata prima della scuola. Non bisognerebbe separarsi mai. Resistere, ingoiare ma restare. Io non ce l'ho fatta, e ora pago".

IL LAUREATO
"Avvocato sulla carta faccio il cameriere per 400 euro al mese"
"Mi chiamo Giuseppe Minafro, ho 24 anni, la mia famiglia è di Sala Consilina, una frazione. Siamo di origine contadina, i miei genitori operai. Ho due fratelli, un maschio e una femmina. Non ci è mai mancato niente. Ho visto i miei lavorare sempre, tanto, ma la domenica a tavola c'era la torta e il vino dolce, d'estate si andava in vacanza al mare, stavamo bene, noi figli abbiamo studiato tutti. Certo che i miei hanno fatto i sacrifici, per noi, specialmente per me che mi hanno mandato a Roma e mi hanno pagato i libri, l'affitto della stanza, i biglietti del treno per andare e tornare. Io mi sono laureato, ora: Giurisprudenza, con una tesi in diritto penale. Abbiamo fatto una festa a casa. Una festa bellissima, con mezzo paese. Tutti a dire che orgoglio, che bellezza Peppino, ora che sei avvocato ci devi rendere giustizia. Ma io non lo faccio l'avvocato e non lo farò mai. Non sono parente a nessuno, come si dice da me. Concorsi in magistratura non ce ne sono. Io quello che faccio è lavorare in un pub dietro Campo dè Fiori. Cameriere la notte: entro alle sette e stacco alle tre del mattino, e prendo 400 euro al mese. Senza contratto, macché. Se rinuncio io entra un altro. Ho una ragazza, dividiamo il fitto della stanza. Dovrei essere contento, ho avuto bei voti alla tesi e tanti complimenti. Però ho un'angoscia dentro che mi porta via. Io l'avvocato non lo faccio ma al paese mio non lo sanno, e ai miei genitori gli dico ancora un po', non salite, aspettate che mi sistemo. Perché come faccio a spiegarglielo a loro, che hanno la terza media, che la mia laurea non mi serve a lavorare?"

(24 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/01/24/news/cronache_dall_italia_in_crisi_cos_siamo_diventati_poveri-51171453/?ref=HRER2-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Per la prima volta
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2013, 05:24:10 pm

15
mar
2013

Per la prima volta

Concita de Gregorio


E’ la prima volta, oggi, che alle Camere non si capisce a colpo d’occhio chi ha vinto e chi ha perso. E’ la prima volta che nel Transatlantico di Montecitorio gli umori non scolorano dal sorriso radioso alla malinconia correndo con lo sguardo dal lato corto della buvette – l’area della destra politica  – alla sala di lettura dalla parte opposta – area della sinistra -  o viceversa, dipendendo l’umore dall’esito del voto. Del resto è la prima volta che non si distinguono destra e sinistra, nel senso che nessuno è tornato ad occupare la sua metà campo e i relativi divani. In effetti, a ben guardare, non sono molti quelli che sono “tornati”: per lo più sono nuovi, i parlamentari, e i ‘pentastellati’ – come li chiama compunto un anziano commesso – hanno occupato lo spazio come l’acqua quando entra in cunicolo. Indistinguibili dagli altri neoeletti i parlamentari cinque stelle si sono mimetizzati perfettamente. Delusissimo chi si aspettava ragazze in abito da sera e giovanotti scamiciati con capigliature punkabbestia. Sono tutti in giacca e cravatta, quasi tutti – anche le donne – in abito semplice e scuro. Sorridono, arrivano in bici, rispondono con foto alle foto. Un vecchio deputato ex democristiano ne parla come uno zoologo: “Se non li aggredisci non ti aggrediscono. Se poi per caso ti aggrediscono non devi guardarli negli occhi, non devi reagire”. Fa tenerezza, tanto è evidente la paura. Predatori sconosciuti, una razza ignota. Hanno indossato gli abiti del nemico, oltretutto, come certi incursori: la battaglia sarà più sottile e infida, persino potrebbe essere più efficace.

Per la prima volta, inoltre, non ci sono né D’Alema né Veltroni. Non c’è un partito cattolico democratico, nessun erede dell’antica Dc. Cirino Pomicino incede come un oracolo, continuamente intervistato da spaesati cronisti della sua stessa era politica. Vagheggia un monocolore Bersani appoggiato dal Pdl per due anni, D’Alema al Quirinale o in  subordine  Amato, “se non fosse che questi ragazzini Amato non sanno neanche chi sia”. Poi sorride, si rende conto, manifesta simpatia per i pentastellati che “sono bravi figli”, sospira che della vecchia politica “s’è perso lo stampo” e chissà se è un bene o un male.

Per la prima volta c’è la fila al bagno delle donne, che era stato pensato per quando le signore erano una rarità (quattro o cinque bagni appena, niente al cospetto del servizio reso agli uomini) e oggi dunque decine di parlamentari ragazze stanno in coda fin fuori dalla porta portatrici di una certa urgenza. Per la prima volta i neoeletti bevono alla fontanella come i bambini in piazza, direttamente dall’acqua, perché i bicchieri di plastica – spiega la cittadina Lombardi – non si devono usare, inquinano.

I giornalisti di una certa età stanno per lo più tra di loro, al massimo con Franceschini e Brunetta. Sembrano tutti più vecchi e più stanchi di dieci anni. Ai colleghi giovani venuti a vedere come sono i grillini spiegano che bisogna fare in fretta, bisogna cogliere l’attimo perché questo – il Transatlantico – è un posto che ti ammala. Senti subito mal di testa, mal di stomaco, il tempo corre con un altro ritmo: invecchia. Il rumore del voto, dentro, quel bzzz costante, sembra quello di una tac. Una liturgia ipnotica, vagamente ospedaliera. “Si abitueranno subito, i nuovi. A star qui ti accasci, vai dal parrucchiere, al massimo se ti va bene ti innamori e ti fidanzi. Appena Grillo se ne accorge li ritira”, profetizza una cronista di lungo corso assai ascoltata. In aula intanto procede il rito a vuoto.

Non c’è accordo politico, i presidenti oggi non si fanno. Per il Senato si avanza la candidatura di un esponente del Cinque stelle di origine venezuelana, Orellana, anche il Parlamento potrebbe avere il suo Bergoglio ma non si farà. Nonostante gli auspici di Nichi Vendola (“Vedo solo pugili suonati”) che vorrebbe che alla Camera almeno si votasse un grillino, non si farà. Franceschini non rinuncia, c’è chi dice che sarebbe pronto a ritirare la candidatura a Roma di Sassoli in cambio dell’agognata presidenza della Camera. Logiche che oggi appaiono lunari. Nessuno ha ancora capito davvero, sembra, che l’arrivo dei “bravi ragazzi” a cinque stelle non è l’invasione di una razza aliena, è semplicemente l’irruzione della razza umana nell’acquario termoregolato: cambia tutto e per sempre. “Ma no non per sempre, per qualche mese”, si consola Brunetta in giulivo procinto di diventare capogruppo pdl. Per sempre, invece, e non importa quando si tornerà a votare. Se Napolitano si dimetterà dopo l’elezione dei capigruppo, come dice qualcuno, per favorire l’anticipo dell’elezione del nuovo capo di Stato in costanza di governo tecnico. Se sarà Prodi coi soli voti di centrosinistra e Monti, se saranno D’Alema o Amato come piacerebbe a Berlusconi che ha bisogno di essere nominato senatore a vita per non dover fuggire all’estero come Craxi. Di questo si parla, ignorando del tutto la falange mimetica che ha occupato ogni spazio. Come se non esistessero, come se fossero ospiti. Peccato, perché alcune cose buone si sarebbero potute fare, in effetti, a mettersi in contatto con la realtà declinata dal voto e a farci i conti al netto dei propri destini individuali. Non andrà così, come dimostra con solare evidenza il caso Roma: il prossimo banco di prova che tutti, a sinistra, danno per perso. Giorgia Meloni ragiona se presentare una candidatura alternativa a quella di Alemanno all’ultimo minuto. E’ un’idea. A sinistra invece sono occupati, hanno da fare, Roma è preda di battaglie di corrente e nessuno se ne occupa. Il rumore della Tac, in aula, procede. Il voto è a vuoto. I pentastellati si riuniscono in una sala al piano di sopra, il candidato presidente Fico porta due caraffe d’acqua per tutti. “Sono gentili, sembrano la Terza C”, dice il commesso del piano. Poi aggiunge, sottovoce: “se Bersani accetta i voti di Berlusconi, che sia per il governo o per il Quirinale, la prossima volta fanno il pieno e meno male”. Ha detto ‘meno male’? “No, non ho detto niente. Poi io faccio il commesso, quello che dico io non conta”.

da - http://de-gregorio.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Il presidente e la scelta più difficile del settennato.
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2013, 11:18:15 pm
Governo, la Via crucis di Napolitano: lasciare ore ultima carta contro la deriva

Il presidente e la scelta più difficile del settennato.

L'indisponibilità del capo dello Stato verso un reincarico sembra più frutto della stanchezza che di una schermaglia

di CONCITA DE GREGORIO


Almeno la Via Crucis di Papa Francesco, in diretta mondiale tv, si sa come va a finire. Quella di Giorgio Napolitano no. Quattordici stazioni, colloqui interminabili col solito Berlusconi tracotante e con i due neofiti dell'integralismo a cinque stelle che dondolano da una gamba all'altra mentre ripetono i loro no, con Maroni annoiato e vagamente canzonatorio dietro gli occhiali a colori.

Con Vendola invano appassionato di politica e non di calcoli, con Letta statista, stasera, chè Bersani non è venuto e tocca a Enrico Letta ammainare in conto terzi la bandiera del pre-incarico. Poi le telefonate, intanto, e le consultazioni con gli esperti di cavilli e le agenzie di stampa portate sul vassoio dai commessi, le dichiarazioni e le voci che prendono corpo su carta, nero su bianco, prego Presidente legga questo: Napolitano ha deciso di dimettersi anticipatamente, Napolitano ha richiamato dall'estero Giuliano Amato, Napolitano sarà rieletto giusto per il tempo necessario a sciogliere le Camere, ha in tasca il nome che piace ai cinquestelle. È Rodotà, no c'è Renzi che si scalda a bordo campo, no il Presidente ha in mente il ministro Cancellieri perché l'unica cosa che c'è da fare subito è la riforma della legge elettorale. Non c'è chi non veda, infatti, che andare a votare con questa legge sarebbe un disastro inammissibile, lo dice anche Letta uscendo dalle consultazioni, e poi c'è il mondo che guarda, non si può abbandonare la nave che affonda, non ci si può dimettere nel momento della difficoltà suprema, il fantasma di Terzi quello di Schettino, ma invece è la mossa politica vincente, si vede che non capite la politica, invece dal Pd c'è qualcuno che preme perché il presidente lasci, così si esce dallo stallo e le Camere dovranno trovare un'intesa sul nuovo inquilino del Colle, che poi l'intesa è già trovata, in fondo, ecco, la soluzione è questa, prima il Quirinale poi il governo così si inverte l'ordine dei fattori e si esce dall'impasse in cui Berlusconi ha chiuso il Pd.

Questo, per tutto il giorno. Un impazzimento di voci e di ipotesi ma niente di certo, nessuno che sappia davvero di cosa sta parlando, nessuno che tenga conto del fatto che Napolitano davvero è stanco, che non sembra affatto una schermaglia di diplomazia istituzionale l'indisponibilità a un reincarico, basta ascoltarlo durante l'ultimo dei colloqui del giorno, l'ultima stazione del venerdì di passione.

Stanco, dolente, preoccupatissimo ed esausto, afflitto da dolori non solo metaforici. Così l'hanno trovato gli ultimi a colloquio con lui subito prima che le porte del corridoio alla vetrata si richiudessero, che i corazzieri se ne andassero e che il portavoce dicesse sulla soglia "servirà ancora qualche momento di riflessione". Due giorni, ha sentito dire qualcuno. Una notte, ha sentito qualcun altro. La decisione lunedì di Pasqua, no, no, già domattina, di sabato.

A ciascuno la sua croce. Mentre il nuovo papa porta quella millenaria il capo dello Stato, unica autorità istituzionale in questo momento in grado di guidare in porto la barca allo sbando, porta la sua. Comincia di buon mattino, al telefono e in colloqui informali. Poi con la prima delegazione, alle 11: Brunetta e Alfano, Berlusconi e Schifani. Il compito che Napolitano si è dato è quello di ripercorrere e verificare l'assenza di maggioranza numerica e politica di cui Bersani gli ha riferito il giorno prima. Il segretario del Pd non ha rinunciato, il presidente non ha revocato l'incarico: lo affiancherà, in quello che somiglia a un commissariamento per il buon fine dell'opera.

L'unica cosa certa, a sera, è questa: il supplemento di indagine di Napolitano liquida il tentativo di Bersani, che esce di scena. Materialmente, fisicamente: il segretario Pd non è a Roma, non sale al Colle: è tornato a casa a Piacenza, dicono. Lo cercano, le telecamere piazzate sotto casa, nessuno lo vede. La smaterializzazione di Bersani corrisponde all'avvio di quello che da settimane i cronisti parlamentari chiamano il Piano B.

La situazione però è più complessa del previsto e si tinge di nuove preclusioni, nuovi impedimenti. In sintesi: Berlusconi vorrebbe allearsi col Pd e con Monti per fare un governo insieme, così che poi al momento della scelta del nuovo presidente della Repubblica anche quello si debba scegliere insieme. Il Pd però non vuole allearsi con Berlusconi. Meno di tutti lo vuole Sel giacché, dice Vendola, Berlusconi è tra l'altro protagonista della "cospirazione vigliacca che ha portato alle dimissioni di Terzi". Tra l'altro, e da ultimo. Il Pd e Sel sarebbero forse pronti ad allearsi coi cinquestelle, ma i cinquestelle non vogliono allearsi col Pd. Dicono cose come "legiferare senza governo", Grillo chiama al telefono Napolitano, poi sul suo canale La Cosa insulta tutto e tutti, i suoi capigruppo ondeggiano sulle gambe davanti ai microfoni ripetendo che l'unico governo possibile è il loro ma un nome non lo fanno. L'incarico, come si sa, va dato però a una persona, non a un gruppo politico.

Siamo daccapo a zero, con l'unica interessante novità di giornata: il Pdl non vuole nessun tipo di governo tecnico, piuttosto si vada alle urne. No a un governo del presidente, insomma. Saccomanni, Onida, Cancellieri. No. E' da qui - da quello che Vendola chiama "il pantano" - che si leva la voce delle dimissioni anticipate di Napolitano. Una parte della sinistra sarebbe anche d'accordo, si mormora. Il presidente è molto indispettito, dice per contro la fonte simmetricamente opposta sebbene nella stessa metà campo. Le ore passano, la croce pesa. Si cade, ci si rialza. Entrano per ultimi Letta nipote e i due neocapogruppo Zanda e Speranza. Lungo colloquio, estenuante ma chiaro. Enrico Letta esce diritto come un fuso e dice due cose: primo, con questa legge elettorale non si può tornare a votare. Secondo, esprimiamo profonda gratitudine e fiducia piena nelle decisioni che il presidente prenderà nelle prossime ore, che "non mancheremo di sostenere responsabilmente". La profonda gratitudine sana i dissidi interni degli ultimi giorni. Il sostegno responsabile, qualunque sia la decisione, è una professione di fiducia in bianco.

Sciogliere le camere adesso è impossibile, per ragioni istituzionali (Napolitano in scadenza non può) e di opportunità politica: non con questa legge al voto. Dunque, sarà un governo del presidente. Senza i voti del Pdl ma con quelli del Pd e forse di Monti, forse di una parte dei cinquestelle ma forse persino con una parte di pidiellini, anche: dipenderà dal nome che nella notte di passione Napolitano deciderà di proporre. In alternativa, davvero, restano solo le dimissioni del capo dello Stato. Chi conosce bene Napolitano sa che questa, ora che la barca senza timoniere è alla deriva, è per lui la scelta davvero più difficile da prendere. Lo farebbe solo se fosse l'unica via d'uscita per il Paese, se fosse convinto - dati alla mano, scenari certi all'orizzonte - che sia questa l'unica manovra possibile, per quanto rischiosa e dolorosissima, per condurre in porto la nave. Per chiudere con Pasqua la via Crucis e pensare che una resurrezione, da questo calvario, per la politica italiana - per l'Italia - è possibile.

(30 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/30/news/via_crucis_napolitano-55622418/?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Per l'elezione del presidente ora lo scontro è tra ...
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 11:59:51 pm
Per l'elezione del presidente ora lo scontro è tra poteri deboli

Partiti, Vaticano e diplomazie: la fine dei kingmaker del Colle.

E per la prima volta Andreotti non voterà.

Secondo l'anziano leader Dc per arrivare al Quirinale "non c'è nessun metodo che garantisca la vittoria, solo errori da non commettere"

di CONCITA DE GREGORIO


ROMA - Dei vecchi non è rimasto più nessuno. È un bene, diranno in molti. Non del tutto, però, se si son portati via insieme all'indecenza dell'antico malaffare anche le chiavi della più misteriosa delle alchimie politiche lasciando i nuovi  -  i barbari, gli ignari  -  davanti a una gigantesca porta chiusa. Tutto può cambiare, nella geografia e nella grammatica della politica passata attraverso mutazioni d'epoca ciclopiche e arrivata fin qui al tempo nuovo, il tempo in cui tutto è diverso. Ma c'è una cosa - una sola - che non cambia. Come si fa un Presidente. Cosa governa il gioco, quali sono le regole che portano alla nomina più ambita: quella che dura sette anni, un'eternità quando l'unità di misura del potere sono i giorni. Il segreto, quello, è intatto. Non c'è tsunami che possa violarlo. Il varco per entrare nella porta si trova all'incrocio fra il calcolo e il caso, fra l'esperienza e l'ignavia.

Lo conosce Giulio Andreotti, venti volte ministro e sette presidente del consiglio, che aveva 29 anni quando all'alba dell'11 maggio 48 bussò alla porta di Luigi Einaudi, una villetta sulla Tuscolana, per convincerlo che il suo essere zoppo non gli avrebbe impedito di fare il presidente: "Del resto anche Roosevelt", gli rammentò con discrezione... Ma per la prima volta, questa volta, Andreotti non ci sarà. Se avesse potuto votare, fra qualche settimana, avrebbe eletto il suo dodicesimo presidente. L'unico politico vivente insieme ad Emilio Colombo ad essere arrivato sin qui dalla Assemblea Costituente: Teresa Mattei se n'è andata pochi giorni fa ed era da molto fuori dalla politica, delusa e lontana. Ma Andreotti sta molto male, la sua famiglia non lascia che nessuno lo avvicini.

E' ancora alle sue ultime parole, tuttavia, che bisogna ricorrere per decifrare il primo degli enigmi che portano al Colle. "Non c'è nessun metodo che garantisca la vittoria: ci sono solo errori da non commettere". Sorride, a riascoltare queste parole, Paolo Cirino Pomicino: l'ultimo dei democristiani attivi della vecchia scuola, Forlani essendosi da tempo, dopo il pegno pagato ai lavori socialmente utili cui la giustizia l'aveva destinato, chiuso in un riserbo inviolabile. Dice Cirino: "Com'è noto il vuoto in politica non esiste. Nel tempo in cui gli uomini contano più dei partiti le carte le dà il Quirinale, e Napolitano è lì a dimostrarlo. Il nostro tempo, il tempo in cui i partiti scrivevano la storia, è finito. Non esiste più. Alla supremazia della politica si è sostituito il leaderismo proprietario di cui Berlusconi ha il copyright e che tutti, purtroppo, hanno imitato".

Nel tempo dei leader la selezione della classe dirigente avviene in senso cortigiano: ne deriva la mediocrità della classe dirigente. Nessuno ha più la stoffa né la possibilità di indicare il nome di un presidente come fecero millenni fa Fanfani e Dossetti seduti su una panchina dei giardinetti: ah, poi ci sarebbe da decidere il Presidente.
Nessuno dei nuovi - i giovani neoeletti nel Parlamento che scriverà la prossima pagina di storia - ha memoria e a volte neppure nozione dei lunghi e tortuosi processi le cui minute sono custodite dagli anziani funzionari del Colle. Uno di loro, da tempo fuori dai giochi, sorride alla domanda impertinente - il segreto, per favore, il segreto - e dice così: "I presidenti che ho visto eleggere nelle mia lunga vita sono arrivati al Colle per caso, per obbligo, per sbaglio o per dispetto".

E' così, è una corsa al buio. E' come uno slalom di cui non sia indicato il tracciato. Non ci si candida, al Quirinale. Oggi si dice che Romano Prodi sia il nome che Berlusconi teme, che il centrosinistra cova. Ma non si candida, non può farlo e non deve, sarebbe un errore fatale. La via del Colle è lastricata di cadaveri eccellenti e nobilissimi. "E' una presa in giro molto ben organizzata", diceva Merzagora che ne fu vittima. Emma Bonino, che il 13 maggio '99 quando fu eletto Ciampi prese 15 voti, dice sarcastica che "ci si ritrova eletti per una forma di telepatia collettiva: nessuno pronuncia mai nessun nome ad alta voce a meno che non voglia bruciarlo, poi nella notte - una certa notte - tutti vengono raggiunti nel sonno dall'informazione decisiva e, in trance, votano la stessa persona".
Non è così, naturalmente, ma è anche così. Molti, moltissimi anni fa al nome giusto si arrivava per accordi tra i grandi blocchi di potere: i partiti, che allora c'erano. La Dc, il Pci. "Il metodo del Pci - dice Achille Occhetto ricordando gli anni in cui di quel partito era dirigente, poi segretario - era quello di lasciare che i candidati democristiani si elidessero a vicenda, poi individuavamo l'uomo che rompeva il sistema e all'improvviso convergevamo su quello. Così andò con Gronchi, con Saragat, con Scalfaro per quanto sull'elezione di Scalfaro abbia giocato l'imprevisto, che sempre è in agguato. Lì ci fu la strage di Capaci".

Che si elidessero a vicenda. I verbi che portano al Quirinale sono tutti indicatori di sottrazione: si diventa capo dello Stato per reciproco abbattimento, per evitare l'elezione d'altri, per togliere, per non urtare, per evitare. Nel segreto dell'alta politica spiegato ai profani questo è l'arcano: bisogna lavorare molto, sì, serve un kingmaker ma non è detto che l'ambizione vinca sull'ingenuità, il calcolo sull'errore. Anzi. L'astuzia non paga. Sono stati eletti sempre, quasi sempre presidenti candidati all'ultimo da chi li aveva bocciati prima, accettati in estrema battuta da chi aveva finto al principio di proporli.

Dice Gennaro Acquaviva, che ai tempi di Craxi è stato l'uomo di collegamento col Vaticano, che "oggi gli interessi hanno preso il posto dei partiti".

Vediamoli dunque questi "interessi". Quelli che tradizionalmente hanno orientato la scelta sono la Chiesa, l'America, una volta la Russia, i grandi poteri economici internazionali, le banche. Per questo, dice Cirino Pomicino, "Amato e Prodi sono oggi sulla carta e ai nastri di partenza i candidati forti". Perché a questo bisogna non dispiacere, e in quest'ordine: le grandi banche d'affari e poi l'America ivi compresa la postazione mediterranea d'Israele, infine la Chiesa. "Quando vedo l'interesse dell'ambasciata americana per i Cinquestelle, quando vedo che vanno a rapporto e rispondono penso: quando mamma chiama picciotto risponde".

L'euro debole, il dollaro forte: questo l'interesse Usa oggi, dice il vecchio notabile dc, già consigliere di Berlusconi. E tuttavia non basta questo. Il quadro è mutato e l'imprevisto in agguato. La figura del Presidente della Repubblica, dal principio degli anni Novanta in poi, ha cambiato profilo. Non basta che garantisca le "agenzie esterne", non basta che sia gradito ai santi protettori d'oltreoceano e d'Oltretevere. Deve anche rispondere a una formula - oggi si potrebbe dire laico, condiviso, centrista, di garanzia - che parli allo scenario interno. Deve essere nuovo, dice qualcuno con buoni argomenti, perché nuova è la stagione. Dovrebbe essere donna, dice qualcun altro, è maturo il tempo: ad Amato, che per primo auspicò una donna alla vigilia dell'elezione di Ciampi, toccò precisare, viste le reazioni: "Ho detto una donna, non un coleottero".

Chissà se il nuovo papa Francesco potrebbe essere per Emma Bonino, eterna candidata, meno ostile di quanto non lo siano stati i suoi predecessori. "Certo se mi chiamassero non direi che ho da coltivare tulipani - dice lei stessa - ma credo che non accadrà: tra i mille elettori tende a prevalere lo spirito di conservazione". Sì, tende a prevalere. Disse Giorgio Amendola, poco prima dell'elezione di Pertini, che i candidati - Nenni, La Malfa, Pertini stesso - "parevano una riedizione del Cln, il comitato di liberazione nazionale".

I candidati di oggi - Prodi, Amato, Marini, D'Alema e numerose altre declinazioni di una stagione politica estinta - sembrano una riedizione del mondo di allora. Ma dei vecchi non è rimasto più nessuno, tra i kingmaker sono al lavoro in questi giorni di Pasqua Letta Gianni per il centrodestra, Letta Enrico suo nipote per il centrosinistra: insieme agli auguri si saranno scambiati certo qualche opinione. Il nuovo ambasciatore americano ha ricevuto i Cinque stelle e papa Francesco viene dalla fine del mondo, ha molto altro a cui pensare. Mai come questa volta la posta più alta è stata così incerta. Mai le forze in campo così deboli e variabili, mai il segreto così ben custodito.

(1-continua)
 

(03 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/03/news/elezione_presidente-55831309/


Titolo: Concita DE GREGORIO (Inchiesta 2) Peones, illusioni e piccole grandi vendette.
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2013, 10:51:50 am


Il rogo che brucia i candidati per il Quirinale

Peones, illusioni e piccole grandi vendette.

E' il più indecifrabile  dei giochi, una palude  di sabbie mobili da cui compaiono mostri. Le ragioni di una caduta o di un'ascesa non sono mai quelle che sembrano

di CONCITA DE GREGORIO

ROMA - VELENO, pugnale o franchi tiratori. È così che si uccide un candidato sicuro. Lo spiegò Donat Cattin ai suoi il giorno in cui decisero di far fuori Leone in favore di Saragat, era il 1964 e moltissimi dei parlamentari oggi eletti alla Camera non erano ancora nati. "Moro mi ha detto di usare mezzi tecnici. Io di mezzi tecnici conosco solo questi tre". Sono passati cinquant'anni e siccome nessun candidato è mai stato eliminato col veleno e col pugnale si può star sicuri di quale sia l'arma letale, ancora oggi: i cecchini dell'aula. Lo sanno bene tutti quanti, chi non lo sa  -  chi ancora pensa che sarebbe bellissimo eleggere al Colle un'alta e nobile personalità libera, una donna o persino un uomo di cultura e di pensiero  -  sarà bene che si affretti al ripasso.
LA PRIMA PARTE DELL'INCHIESTA

C'è una ragione semplice per cui il candidato ufficiale, concordato, condiviso alla vigilia non è stato mai eletto, con due sole eccezioni, al Quirinale: quella ragione si chiama voto segreto.

Dal decalogo delle non-regole di Giulio Andreotti ("Non ci sono regole, ci sono solo errori da non fare"): "Il candidato ufficiale non viene eletto mai o quasi mai perché nel voto segreto c'è la reazione dei peones contro le segreterie di partito". Contro
le segreterie quando c'erano i partiti, contro gli interessi ora che ci sono questi, contro un leader prepotente, contro uno sgarbo ricevuto anni prima, contro un processo subito in conto d'altri, contro un collega che ti ha rubato il seggio o la fidanzata quando avevate vent'anni e ora che ne avete sessanta il rancore è ancora tutto lì, armato di truppe di devoti reclutate nei decenni. D'Alema, Amato, Marini e tutti i reduci delle antiche stagioni facciano i loro conti, ripensino alle loro biografie.

"Temo che possano incontrare più dissenso a casa loro che altrove", osserva Cirino Pomicino. "Avvantaggiato, in questo caso, è chi una 'casa proprià non l'ha più". Intende Amato, certo. E' un'opinione avveduta. Sa bene, il vecchio Cirino, che si possono mettere in campo tutte le strategie più raffinate, lavorare alle intese giorno e notte. Si può stabilire, poniamo oggi, che il lavorìo sotterraneo fra Pdl e Pd per raggiungere una candidatura condivisa converga infine sui nomi che fin dal principio Silvio Berlusconi ha messo in campo per evitare che si ripeta ciò che accadde per la prima volta con Napolitano, cioè che sia il centrosinistra da solo a votare il suo candidato. Potrebbe, anche questa volta dopo il terzo scrutinio - quando basteranno i 504 voti della maggioranza semplice - il centrosinistra potrebbe. Tuttavia la partita è delicatissima, c'è un governo da fare, una fiducia da trovare: l'intesa sul Quirinale è la posta grande, il resto ne deriva. Amato o D'Alema, ha detto Berlusconi al Pd. In subordine si scaldi Marini. Ma non basta, quand'anche si stringesse l'accordo: non basterebbe.

Come mai, ci si deve chiedere, nessuna altissima personalità della cultura è stata mai eletta al Quirinale? Perché rinunciò Benedetto Croce, scrivendo a Nenni no grazie, perché non fu mai Toscanini? Perché nessun leader di partito, nessun potente, nessun padre della Patria? Non sono stati eletti Nenni, De Gasperi, Moro, Andreotti, Fanfani, Spadolini, La Malfa, neppure Forlani né De Mita. Non-regola andreottiana numero tre: "Al Quirinale non può andare un leader di partito, né tanto meno di corrente". E perché mai?

Perché in un altro tempo, un tempo diverso da questo, la politica dei partiti era più importante del Colle e lo manovrava. Perché servivano uomini in fondo grati. Il Quirinale non aveva tanto peso quando a decidere la politica erano le segreterie. De Gasperi non volle andarci mai: "Al Quirinale mi sentirei già morto". E però le cose sono cambiate almeno due volte: la prima con Scalfaro, eletto all'alba di Tangentopoli. Una mutazione genetica, quella del '92-'94. La scomparsa delle culture di riferimento dei grandi partiti della tradizione europea (socialisti, cattolici, liberali, verdi) sostituita dal programmismo e dal leaderismo. Un leader, un programma. È così che inizia il trasformismo parlamentare, sconosciuto o quasi nei primi 40 anni di vita della Repubblica. La seconda rivoluzione oggi: ora che la politica si scrive (anche) sul web e che il leaderismo si trasforma in settarismo dal sapore, in qualche caso, autoritario. Ora che c'è nebbia e nessuno vede più l'orizzonte, ora che il Quirinale rischia di diventare l'ultima trincea su cui si arroccano i vecchi poteri. Se ci riescono ancora, se possono. Se il tempo nuovo si distrae e non fa in tempo a decifrare i geroglifici delle vecchie regole. O non-regole, peggio.

E' il più indecifrabile dei giochi, questo. E' una palude di sabbie mobili da cui compaiono mostri mai visti prima. Le ragioni di una caduta o di un'ascesa non sono mai quelle che sembrano. Raccontano che Fanfani, per esempio, non arrivò mai al Colle "anche perché si temeva molto la moglie, donna quanto mai energica e paladina di buone cause, dispensatrice di premi". Una concausa, certo, ma ci fu anche questa: troppi premi da dare, troppo protagonismo difficile da disinnescare.

Racconta anche Gaetano Gifuni, per molti anni segretario generale del Senato e poi del Quirinale con Scalfaro e con Ciampi, che chi chiuse la partita su Saragat fu Moro e lo fece ad una condizione mai sin qui censita: che richiamasse in servizio alla segreteria generale il barone Picella, detto 'baron glacèe', uomo freddissimo e di grande sapienza istituzionale in cui Moro riponeva la massima fiducia, cerniera essenziale nel caso di ascesa di un socialdemocratico al Colle.

Poi certo, hanno pesato le faide, i risentimenti, i calcoli, le ingenuità. Andreotti: "Merzagora pensava di essere eletto perché pranzava spesso col comunista Scoccimarro. Aveva confuso la cortesia con i voti". Merzagora, bruciato in tre giorni: "Mi fecero giocare a mosca cieca. Vennero in delegazione alle dieci di sera a garantirmi voti che non avevano. La notte mi affondarono". E' sempre la notte, che affonda.

Morì di notte la candidatura di Sforza, "cacciatore di gonnelle in attività". Per Pertini Giancarlo Pajetta telefonò di notte a Zaccagnini: "Ricorda che mi hai dato la tua parola di partigiano". Ricordo, rispose lui. Morì tre volte quella di Fanfani e fu lì che si perfezionò il controllo dei franchi tiratori, l'arma letale: si controllavano i cecchini facendo scrivere loro il nome a penna rossa o a matita, a qualcuno si chiese di anteporre un titolo, certi dovevano scrivere professore, altri senatore, altri ancora presidente. Si potevano contare, così.

Quarta e quinta non-regola: giocare d'anticipo, disinnescare gli avversari. Di Pertini dicevano che era vecchio, aveva 82 anni. Lui chiamò i cronisti e dettò alle agenzie: "Mio fratello è morto a 94, mio padre ha superato i novanta e anche mia madre, a 90, è morta perché è caduta dalla sedia".

Bisogna poi saper organizzare una fronda, come ha spiegato bene Ciriaco De Mita ripercorrendo l'elezione di Cossiga, unico insieme a Ciampi a passare al primo scrutinio. Fu una resa dei conti in casa Dc appoggiata dall'opposizione, ma in segreto e proprio all'ultimo minuto. Serve qualcuno che lavori per te facendo finta di lavorare contro. Serve qualcuno che ti avvisi quando è il momento di sfilarsi: Andreotti aveva avvisato Fanfani, "non farti buggerare". Fanfani, con le stesse parole, aveva avvisato Nenni. Contro Fanfani e per Gronchi si era schierato Pertini, complice l'eterno Andreotti. Fanfani però ci aveva sperato fino all'ultimo, fino a quanto gli toccò leggere su una scheda "nano maledetto non sarai mai eletto". Era lì, in piedi, accanto al presidente della Camera.

I suoi lo avevano avvertito: lascia perdere, è una trappola. Era vero, ma vai a sapere di chi ti puoi fidare. Certo non degli amici, questo è sicuro.

(2 - continua)
 

(04 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/04/news/candidati_quirinale-55902941/


Titolo: Concita DE GREGORIO Il Colle del potere proibito alle donne (3 - continua)
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2013, 10:53:39 am
Il Colle del potere proibito alle donne

L'inchiesta /3.

Dalla baronessa alla Iotti, l'elezione alla presidenza della Repubblica è sempre stato un gioco da uomini.. La distanza tra i reduci della politica di un tempo e lo tsunami che monta sul web è insieme millimetrica e abissale: è come un mostro fuori dalla porta chiusa a chiave. I grandi elettori uomini che fra dodici giorni voteranno il prossimo capo dello Stato non ci credono. Le donne fanno gesti come a dire "sarebbe bello, ma tanto è impossibile" 

di CONCITA DE GREGORIO

RIDONO, sbuffano, fanno l'aria di quelli che gli stai facendo perdere tempo. Poi tornano seri e fanno finta, perché lo capiscono  -  da qualche parte, nel corpo o nella testa  -  che non possono mostrarsi insofferenti, non sta bene, e allora dicono cose come: "In fondo le donne non sono adatte al potere. Sono pratiche, invece il potere è un gioco tutto astratto. È obliquo, le donne sono dirette".

Cioè: si mettono nei loro panni, per così dire, e le liquidano da lì. Parlare oggi, aprile 2013, coi grandi elettori che fra dodici giorni voteranno il prossimo Presidente della Repubblica dell'eventualità che possa essere una donna è un'esperienza di interesse antropologico. Non ci credono: le donne fanno gesti come a dire "sarebbe bello, ma tanto è impossibile", i vecchi non capiscono la domanda, ti parlano delle mogli e ti raccontano con sguardo sognante di quella volta che donna Vittoria Leone, che tempra, che capelli. I leader e i kingmaker, per altre ragioni in notevole affanno, ti dedicano cinque minuti giusto perché hanno l'occhio ai social network e vedono l'onda che monta in rete. La distanza tra i reduci della
politica di un tempo e lo tsunami è insieme millimetrica e abissale: è come un mostro fuori dalla porta chiusa a chiave.

Nel mondo reale, là fuori, gli elettori dicono Emma Bonino, Cancellieri o Severino, Finocchiaro se non fosse che talmente tante volte, troppe volte Anna Finocchiaro ha di buon grado, "come un soldato" - dice sempre - accettato candidature al massacro. Emma Bonino, che sì è una donna pratica come concreto deve essere chi vuol cambiare le cose, dice che "se il posto non te lo prendi da sola finisce che ti cooptano nei consigli di amministrazione, magari, e poi ti chiedono di portare il caffè". Margherita Boniver, sua sponsor nel '99: "Quando Giuliano Amato propose Bonino i capoclasse della politica dissero che era provocatorio, ma si guardarono bene dallo spiegare in cosa consistesse la provocazione. Non potevano". Nel mondo dietro la porta chiusa - quello dei grandi giochi cifrati e coperti - siamo fermi al '46, quasi a settant'anni fa. Non è un'esagerazione, state a sentire.

Nel mese di giugno del '46 Guglielmo Giannini propose per il Quirinale una donna come "condanna di un mondo politico incancrenito". La cancrena, oggi si usa dire il cancro. Lei era Ottavia Penna da Caltagirone, nata baronessina Buscemi. Antifascista, eletta alla Costituente nella città culla della Dc: Mario Scelba se ne lamentò per lettera con Luigi Sturzo. C'erano 21 donne, 556 uomini in quell'Assemblea. La baronessa da ragazza si aggirava con un coltello, di notte, a tagliare i sacchi di grano che i baroni della sua terra destinavano illegalmente al mercato nero anziché all'ammasso. Altre notti prendeva le carni macellate dalle sue fattorie e le portava agli indigenti. Aveva studiato al Poggio Imperiale, poi a Trinità dei Monti.

Anticomunista, monarchica. Giannini la candidò contro De Nicola, che ebbe l'80 per cento dei voti: gli mancarono quelli del partito repubblicano e i 32 andati ad Ottavia Penna. Dal Giornale di Sicilia del 29 giugno 1946: "Molto commentati i voti che escono dall'urna in favore della deputata qualunquista siciliana. Guglielmo Giannini, con la sigaretta spenta tra le labbra, rientra nell'aula e salito al banco dove siede la candidata del gruppo s'inchina a baciare la mano della signora, per una singolare affermazione di qualunquismo designata alla presidenza". Una 'singolare affermazionè che il leader dell'Uomo qualunque spiegava così: "Una donna colta, intelligente, una sposa, una madre. L'abbiamo scelta per opporla alla tirannia dei tre arbitri della cosiddetta democrazia: costituisce per noi la condanna di un mondo politico incancrenito".

Superfluo sottolineare i rimandi con la cronaca. Ottavia Penna lasciò la politica delusa "dai compromessi", sul finire dei suoi anni esprimeva la contrarietà a "questa repubblica" incollando sulle lettere i francobolli a testa in giù. Si devono aspettare 32 anni perché un'altra donna, la dc Ines Boffardi, prenda un voto per il Quirinale: uno di numero, battute beffarde in aula. E' il 29 giugno del 1978, non proprio il Medioevo. Primo scrutinio dell'elezione che dopo dieci giorni porterà all'elezione di Pertini. Battute sarcastiche in aula, di nuovo. Pertini: "C'è poco da ridere, onorevoli colleghi. Anche una donna può diventare presidente, lo sapete?". Già, lo sapete? Pajetta aveva battezzato Boffardi la 'pasionaria bianca': decima di undici figli, famiglia operaia, presidente dell'Azione cattolica, due volte sottosegretario con Andreotti con delega alla 'questione femminile', ferrea antiabortista e presidente dei consultori di ispirazione cristiana voluti dalla Cei. Voleva la pensione per le casalinghe, la parità di retribuzione, più donne nelle liste europee. "Incontrai una evidente opposizione", dice, ancora vigile. Una evidente opposizione.

In quell'elezione - Pertini, luglio '78 - quattro voti per il Quirinale vanno a Camilla Cederna, la giornalista che aveva appena dato alle stampe "La carriera di un presidente", libro inchiesta che aveva avuto grande parte nelle dimissioni recentissime di Giovanni Leone. Tre voti a Eleonora Moro, la "dolcissima Noretta" delle lettere dalla prigionia, a un mese e venti giorni dall'assassinio del marito. Camilla Cederna, Eleonora Moro: messaggi in bottiglia, a chi doveva intendere. Punture di spillo. Nel 1985 passa al primo scrutinio Francesco Cossiga. Nell'urna di vimini ci sono ancora otto voti per Cederna, tre per Tina Anselmi. Classe 1927, staffetta partigiana nella brigata Cesare Battisti, veneta. Prima donna ministro in Italia, nell'Andreotti terzo. Dall'81 all'86 presidente della commissione P2. Anche quei tre voti per la presidente della P2 sono un messaggio: ai massoni, ai golpisti. Un buffetto, un pizzicotto.

Il maggio '92, elezione di Scalfaro, è il momento del fuoco breve di Nilde Iotti. 183 voti al primo scrutinio, 245 al terzo. Passa in testa al quarto: 256. Fra il quinto e il senso combatte con Forlani. Scalfaro, che risulterà poi eletto, è a 6 voti. Iotti è di nuovo in testa al settimo scrutinio, 233 voti, e all'ottavo. Poteva sembrare vero. Sparisce al nono, 3 voti e 200 bianche. È eletto Scalfaro due giorni dopo la strage di Capaci. In quell'elezione presidenziale, nel '92, ebbe un voto Sophia Loren ma erano tempi in cui lo star system era considerato inessenziale: quel voto non risulta agli atti, fu conteggiato come nullo.
Nel 1999, il 13 maggio, Ciampi passa al primo scrutinio. Rosa Russo Jervolino ha 16 voti: un modo per dire non ci avete convinti, non siete voi i depositari del nuovo. Emma Bonino, sostenuta dal comitato Emma for president con lo slogan "l'uomo giusto al Quirinale", ne prende 15.

Nel 2006 nasce il comitato "Tina Anselmi al Quirinale": l'8 maggio iniziano le votazioni, in tre giorni e quattro scrutini è eletto Napolitano. Prendono 24 voti Franca Rame, 2 Lidia Menapace, partigiana femminista e cattolica, fondatrice del 'manifesto'. Al secondo scrutinio 3 voti vanno a Maria Gabriella di Savoia figlia di Umberto, per gli addetti ai livori e per i goliardi 'un'altra figlia del Re', 3 voti vanno a Giuva nel senso di Linda, moglie di D'Alema. Tre, per equilibrio sapiente, alla giornalista Barbara Palombelli. Tutti messaggi cifrati, e chi ha orecchie per intendere intenda. Tutti pizzini di un linguaggio da iniziati.
Poi se chiedi oggi, di una donna al Quirinale, i vecchi ti rispondono di quella volta che JFK disse a Vittoria Leone, vedendola per la prima volta e facendole un leggero inchino: "Ora capisco il successo di suo marito". Un po' l'equivalente, fatte le debite proporzioni, delle gote gonfie e della mano rotante di Silvio Berlusconi al cospetto di Michelle Obama. Belle, sì. Però non è questo il tema. Nemmeno la storiella che Peppa Cossiga toglieva il piatto da tavola se il marito non arrivava a cena alle otto, che Carla Voltolina non si trasferì mai a Roma da Genova e che Marianna Scalfaro era la più ascoltata del padre. No, quando si dice una donna al Quirinale non si parla di questo. Ma ridono, sbuffano. Non capiscono, o imbarazzati fanno finta.

(3 - continua)
 

(06 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/06/news/il_colle_del_potere_proibito_alle_donne-56043634/


Titolo: Concita DE GREGORIO Quirinale, un gioco di burattini e burattinai: quando...
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2013, 11:49:28 pm

Quirinale, un gioco di burattini e burattinai: quando le forze oscure guidano l'elezione

L'inchiesta / 4.

I segretari generali e la lotta di potere che condiziona i candidati. Come diceva Francesco Cossiga: "Il potere ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regala sintonia. E' più importante chi manovra l'audio di chi parla" di CONCITA DE GREGORIO


I BURATTINAI, le salamandre, gli spioni. C'è un mondo sopra, ombre semivisibili nella nebbia che sempre prelude al conclave del Quirinale, e un mondo sotto, un mondo dietro. Ancora più impalpabile, ineffabile, innominabile.
 
Nomi che non si leggono mai, quasi mai sui giornali. Una battaglia silenziosa di manovre felpate, coi buoni e i cattivi che somigliano  -  per dirlo a chi ha meno di trent'anni  -  a certi eserciti delle saghe fantasy. Sono tutti tessitori di trame ma alcuni difendono l'Impero, altri lo insidiano. Portano maschere, cambiano aspetto. Chi ha vinto lo si capisce sempre dopo, a guerra finita. "Perché il potere è fatto così  -  disse Francesco Cossiga durante un viaggio in cui era molto di buon umore, andava nei Paesi Baschi ad incontrare di nascosto alcuni fiancheggiatori dell'Eta, una sua passione  -  il potere ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regola la sintonia della radio. Io ora faccio tutt'e due le cose, ma se dovessi scegliere direi che è certo più importante quello che manovra l'audio di quello che parla. Chi parla è un burattino, chi manovra è il burattinaio".

Cossiga, eletto presidente al primo scrutinio per uno dei rari patti efficaci fra Pci e Dc, aveva altre passioni, oltre alla consuetudine con terroristi ed ex terroristi di varie latitudini - li chiamava "resistenti". Era pazzo per la massoneria, per i servizi segreti, per i militari. Appena eletto, Pertini ancora in carica, si era presentato al ministero della Marina ed aveva aperto la porta del Capo di stato maggiore Marulli, incredulo: "Capitano di fregata Francesco Cossiga ai suoi ordini", gli aveva detto mettendosi sull'attenti. Riceveva generali e semplici spalloni dei Servizi al Quirinale, l'ammiraglio Fulvio Martini presenza costante, costoro gli portavano in dono soldatini per la sua collezione. Una volta  -  c'era una cronista, di fronte a lui  -  telefonò chiamandolo "carissimo" al colonnello Tejero, golpista di Spagna, da anni irreperibile per chiunque. Un'altra volta ricevette un giornalista seduto a terra fra i suoi "baracchini": passava le giornate così. Parlava alla radio in frequenze speciali, il suo nome in codice era Andy Capp. Stava in maniche di camicia seduto sul tappeto e smanettava i grandi apparecchi assistito dall'elettricista di palazzo, l'amico Pascucci. In stanza aveva quattro telefoni, tre tv e sempre una scatola di cioccolatini Baratti. Francesco d'Onofrio andava spesso a riferirgli le cose della politica. Di più gli piacevano però i retroscena dei massoni, di cui il Parlamento  -  diceva  -  era colmo. Sarebbe stato entusiasta, oggi, di manovrare e decifrare le primarie per l'elezione del prossimo Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Raffi scade nel 2014 e i giochi sono aperti. Avere un massone al Quirinale è sempre stata l'ambizione suprema, per i fratelli. Cossiga aveva in materia una biblioteca e un'agenda sterminata.

Fu con il Picconatore presidente che si vide l'ultima volta Licio Gelli passeggiare sotto i portici del Cortile d'onore. Aveva conservato, da tempi remoti, qualche buon amico. Gelli, sia detto sempre per chi ha meno di trent'anni, è stato a capo (o al microfono, per meglio dire. Altri alla sintonia delle frequenze) della loggia massonica deviata chiamata P2 che ha innervato di sé per decenni il destino del Paese arrivando in più di un'occasione a un passo dal prenderlo, ammesso che si possa dire che non lo abbia preso. Una sorta di Gollum della saga fantasy. Golpista, era entrato al Quirinale con Saragat complice la passione del Presidente per la caccia. Gelli lavorava per Giovanni Pofferi, padrone della Lebole di Arezzo che aveva anche un'azienda di materassi. Questo Pofferi desiderava molto essere nominato Cavaliere: mandò a Roma Gelli, che in poche settimane riuscì ad agganciare un paio di funzionari del Quirinale, il ministro plenipotenziario Raffaele Marras e il colonnello dell'aeronautica Otello Montorsi, attraverso di loro fece giungere al segretario particolare del presidente Costantino Belluscio un invito per il Presidente nella tenuta di caccia in toscana di Pofferi. Invito accettato. Nel corso della presidenza Saragat Licio Gelli partecipò come ospite  -  risulta agli atti  -  a sedici ricevimenti al Quirinale anche in occasione di visite di capi di Stato. Era registrato alla voce: "altri ospiti". Il giorno dell'elezione di Giovanni Leone, era il dicembre del '71, mandò un telegramma a doppia firma col gran Maestro Lino Salvini: il messaggio era per il presidente, rivendicava il merito di aver concorso alla sua elezione con le decine di parlamentari che diceva di controllare. Chiedeva udienza, perciò, al nuovo capo di Stato.

In quel periodo Licio Gelli alloggiava all'Excelsior di via Veneto. Vedeva per consuetudine una volta alla settimana Andreotti, faceva spesso colazione con Forlani, due volte al mese era invitato a cena dal presidente del Senato Fanfani, la moglie Maria Pia gli serviva sformatini di verdure che  -  annota nei suoi diari  -  gli provocano costanti attacchi di stomaco. L'incontro con Leone gli fu accordato qualche tempo dopo la richiesta dal Segretario generale Nicola Picella, che aveva ricoperto quel ruolo anche con Saragat. Più avanti Gelli provò a far ricevere al Quirinale il generale argentino Massera, questa volta per buona sorte senza successo. Il 15 giugno '78, all'alba, lo chiamò uno dei suoi informatori dal Colle: il Presidente sta per dimettersi, gli disse. Informazione corretta. Leone se ne andò alle dieci di sera, sotto il diluvio. La mattina dopo Gelli disse a Franco Picchiotti, ex capo di stato maggiore dei Carabinieri: "Troppo presto e a sorpresa. Si vota fra 15 giorni. Se avessi avuto un mese il prossimo presidente lo avrei fatto eleggere io". Millantava spesso, ma non sempre e non del tutto.

Sono passati quasi quarant'anni e sono cambiati i nomi, i volti, la natura e la ragione delle pressioni. Non è cambiato però il ruolo di chi quelle pressioni può favorirle o respingerle, di chi può servire le istituzioni o tradirle. Sergio Piscitello, antico funzionario del Colle, racconta che grande è il potere delle "salamandre", coloro che riescono a cambiare colore restando al loro posto, così come immenso è il potere delle "vestali", i devoti del servizio, custodi della Presidenza addetti a respingere gli attacchi.

La figura del Segretario generale del Quirinale è strategica nella battaglia. Può aprire o chiudere la porta. Per dirne solo una: tutti gli atti alla firma del Presidente  -  tutti - passano dalla sua scrivania. In molti casi le forze politiche che hanno determinato l'elezione del Capo dello Stato hanno posto al candidato come condizione la scelta del segretario generale. Moro andò da Saragat a dirgli: ti votiamo, ma devi richiamare in servizio Nicola Picella. Saragat eseguì. Il barone Picella, nobiluomo di origini liberali, era stato segretario generale sul finire della presidenza Einaudi. Entrambi zoppi  -  Einaudi a destra per un incidente giovanile, Picella a sinistra per la poliomelite  -  avanzavano nei corridoi del Colle affiancati, le due gambe sane al centro, tirando uno da un lato l'altro dall'altro. Li chiamavano, per questo, gli sciatori. Di Picella si ricordano le telefonate laconiche: "Hai avuto quella carta? Perfetto. Mettila via". Dopo Gronchi e Segni Moro volle che Saragat, di cui non si fidava fino in fondo, fosse sotto la tutela del gelido Picella, il "Baron Glacèe". Allo stesso modo molti anni dopo la permanenza di Antonio Maccanico al Colle fu una delle condizioni che De Mita, Chiaromonte e Andreotti misero all'elezione di Cossiga a suggello del patto Pci-Dc. Come De Mita, Maccanico  -  che aveva assistito da Segretario generale l'esuberante settennato di Pertini  -  era irpino. La geografia in politica ha il suo peso. Difatti Cossiga accettò la condizione fino a che la "brigata Sassari" non fece prevalere la pretesa che nel posto chiave andasse il sardo Sergio Berlinguer, cugino del presidente. In una catena di scale mobili fuori sincrono  -  i presidenti passano, i segretari generali restano  -  Cossiga provò a sua volta a vincolare l'elezione di Spadolini, indicato come probabile suo successore, alla permanenza di Berlinguer al Colle. Il patto fu stretto ma la strage di Capaci cambiò la rotta della storia e fu eletto, all'indomani dell'assassinio, Scalfaro.

Con Oscar Luigi Scalfaro, presidente imprevisto, le "forze oscure" subiscono un colpo mortale. Con la stessa intransigenza con cui in gioventù schiaffeggiava le signore scollate dal momento esatto della sua elezione l'uomo del "No, io non ci sto" smette di aprire le buste con lo stemma cardinalizio, cessa di rispondere al telefono. Siamo nel pieno di Tangentopoli, '92-'94. Agli antipodi da Silvio Berlusconi ("Mi dava, coi suoi modi, fastidio persino fisico", diceva l'ex presidente solo pochi mesi prima di morire) chiama accanto a sè dal Senato Gaetano Gifuni, che era stato con lui ministro nel breve governo Fanfani. Le porte del Quirinale restano impermeabili, in quegli anni, agli spioni ai generali e ai burattinai. A molti leader politici, persino, che difatti iniziano a considerare Scalfaro un problema. Pochissimi i consiglieri, sempre filtrati dall'annuire della figlia Marianna. Solo il capo della Polizia Parisi è ammesso, tra gli esperti di pericoli, a riferirgli cosa accada nel Paese ivi comprese le minacce di stragismo mafioso. Se in questo senso Scalfaro ha preso decisioni, come qualcuno ha sussurrato a proposito della "trattativa" fra Stato e mafia, si può star certi  -  assicura oggi chi gli è stato vicino  -  che anche in quel caso ha deciso da solo. D'ora in avanti  -  da Ciampi in poi - saranno la grande finanza, il mondo degli affari, gli "agenti sovranazionali" e insieme i piccoli corrotti e le camorrìe degli appalti che muovono ogni cosa a pretendere di fare da burattinai. Non ci sono più i materassai: il mondo cambia, comincia un'altra storia.
 

(08 aprile 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/08/news/quirinale_un_gioco_di_burattini_e_burattinai_quando_le_forze_oscure_guidano_l_elezione-56165798/?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Quando l'America vota per il Quirinale
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2013, 11:50:54 pm
Quando l'America vota per il Quirinale

L'INCHIESTA / 5.

Da Lockheed a Bilderberg: senza le credenziali degli americani e in specie delle grandi banche d'affari oggi nessuno può pensare di aspirare seriamente al Quirinale. L'ambasciatore Usa negli anni di Scalfaro: "I dc erano tristissimi per Mani Pulite, sembrava di essere a un funerale".

di CONCITA DE GREGORIO

L'ombra dell'America è verde come il colore dei dollari. Tuona come le armi che varcano l'oceano in perpetuo e spesso illecito commercio. Parla la lingua dei banchieri, la sola lingua degli affari. Si affaccia sull'Italia dalla postazione mediterranea di Israele, si ammanta del velluto della diplomazia quando riunisce a convegno i potenti del mondo, a centinaia e a porte chiuse, in esclusive dimore in cui confortati da coppe d'argento colme di praline si discute di come "favorire le relazioni economiche fra blocchi".

Di soldi, in pratica. Di soldi e di chi li gestisce. C'è un momento esatto della storia in cui tutto questo, di solito materia per complottisti appassionati della letteratura di genere, diventa chiaro e inconfutabile. È un discorso pubblico. Quello che il senatore Frank Church fa al Senato degli Stati Uniti mentre esibisce le prove  -  trascrive il New York Magazine, siamo nel 1976 - che "la Lockheed corporation ha pagato tangenti in almeno 15 paesi e in almeno sei ha provocato crisi di governo". Uno di quei Paesi è l'Italia. Il presidente in carica è Giovanni Leone. La Lockheed, colosso dell'industria aeronautica usa, paga uomini di stato e di governo per piazzare i suoi aerei. Il loro delegato in Italia si chiama Antonio Lefebvre. Compare tra le carte uno scambio di assegni per 140 milioni fra Lefebvre e la signora Leone. Il nome in codice del destinatario di quel denaro è  -  si dice a voce alta nelle aule del Senato Usa  -  Antelope Cobbler. Ma forse c'è un errore di trascrizione, è gobbler non cobbler. In questo caso sarebbe: chi mangia l'antilope. Una disdetta chiamarsi proprio in quel momento Leone. I giornali deducono, è un massacro.

Più o meno negli stessi anni, a partire da un decennio prima, i soldi della Lockheed avevano cominciato ad arrivare copiosissimi al principe consorte dei Paesi Bassi, Bernardo, in cambio dell'acquisto di forniture di Starflighter e altre cortesie. Il Principe Bernardo è stato  -  per coincidenza - il primo presidente della Bilderberg, associazione di finanzieri, banchieri, politici e uomini di Stato fondata nel '54 allo scopo di "favorire la cooperazione economica fra Stati Uniti ed Europa". I membri del gruppo, circa 130, si riuniscono ogni anno in un conclave a porte chiuse. Sempre in un paese diverso, ogni 5 anni in America, sempre in primavera inoltrata. La prossima riunione sarà forse vicino a Londra, forse la prima settimana di giugno. E' un segreto. Pochissimi gli italiani ammessi. Tra gli ultimi John Elkann, Gianni Letta, Franco Bernabè. Negli anni e nei decenni precedenti Tremonti, Monti, Draghi, Padoa Schioppa, Siniscalco, Prodi, finché erano in vita naturalmente gli Agnelli, l'ex ministro Ruggiero, prima ancora Giorgio La Malfa Claudio Martelli Virginio Rognoni. Ogni tanto qualche giornalista, una volta Veltroni, una Emma Bonino. Ai grandi gruppi economico-politici internazionali, alla finanza e dunque alla politica nordamericana interessa molto e moltissimo chi governa, chi comanda, chi ha influenza in Europa, e in subordine in Italia. Gli ambasciatori sono per loro missione di questo curiosi, prediligono le anticipazioni. Ricevono politici in ascesa, annusano l'aria che tira. L'attuale ambasciatore Thorne ha per esempio grandissimo interesse per Beppe Grillo e per il suo movimento, interesse decuplicato dalla prospettiva eventuale di un referendum anti-euro che, come si capisce, non arrecherebbe alcun danno alla supremazia del dollaro come moneta di riserva. Reginald Bartholomev, ambasciatore dal '93 al '97, gli anni di Scalfaro, ha raccontato poco prima di morire a Maurizio Molinari, era l'agosto del 2012, delle relazioni del consolato di Milano con il pool di Mani pulite e delle sue con i leader politici: "Venne una delegazione dc, erano tristissimi, sembrava un funerale". Prodi voleva essere ricevuto subito da Clinton, ma non si poteva. Con Massimo D'Alema si sviluppò "un rapporto che sarebbe durato nel tempo".

Gli ambasciatori sondano, fanno ricevimenti, conoscono i nuovi, coltivano l'interesse del loro Paese. Sono in stretta relazione coi gruppi di affari e di discussione politica dove nascono intese. Uno è il gruppo Bilderberg, un altro è l'entourage della banca d'affari Goldman Sachs che si è avvalsa nel tempo dei consigli di Prodi, Draghi, Monti, Gianni Letta. Uno è l'Aspen, che in Italia conta su Amato Prodi e D'Alema, un altro ancora è la Trilaterale fondata da Rockefeller nel giugno del '73 con lo scopo di "favorire le relazioni fra Europa, Usa e Giappone". Monti l'ha presieduta fino al 2011. La frequentano la consulente per la politica estera di D'Alema Marta Dassù, il giovane Elkann, Enrico Letta, Carlo Pesenti, Guarguaglini, Sella di banca Sella, Sala di Intesa San Paolo, vari esponenti di Confindustria. Molti anni fa Kissinger e Agnelli, oggi i loro eredi.

"Giulio Andreotti era amico personale di Rockefeller, il fondatore della Trilaterale. Moltissime volte il banchiere lo ha pregato di fargli l'onore di partecipare ai loro incontri, posso testimoniarlo  -  racconta Paolo Cirino Pomicino, vecchio dc  -  Andreotti non ha mai accettato perché, diceva, la politica e i banchieri fanno mestieri diversi, è bene che non si mescolino". Non è vero, non è questa la ragione. Questo era quel che Andreotti diceva, certo, ma ciò che gli ebrei d'America non gli perdonavano era in realtà la sua attenzione alla causa palestinese  -  tra le altre il suo essere filoarabo in nome di una ricerca del dialogo fra i popoli che nella tradizione dc ha avuto un campione in La Pira. Il suo sguardo a un'altra parte di mondo, ad altri interessi e, in Europa, ad altro tipo di famiglie che in quanto a potere e liquidità potevano competere con i banchieri americani. Altre banche, in un certo senso, che gli consentivano di dire agli Usa: no, grazie. Non è del resto un caso che Andreotti non sia mai stato eletto al Quirinale. Dice ancora Pomicino, in procinto di presiedere al Parco dei Principi di Roma, il 12, un convegno su "politica ed economia nel nuovo quadro politico": "Senza le credenziali degli americani e in specie delle grandi banche d'affari oggi nessuno può pensare di aspirare seriamente al Quirinale. Del resto nessuno dei presidenti italiani è stato mai davvero sgradito all'America. Anzi. Tutt'al più, quando era irrilevante, è stato ignorato".

Nessuno può farcela senza le credenziali giuste. E' sempre stato così. Il primo pensiero di Einaudi, appena insediato nel maggio '48, fu di mandare un telegramma amichevolissimo a Truman. Quello di Gronchi di farsi perdonare dell'essere stato eletto coi voti del Pci, e pazienza se la visita ad Eisenhower fu funestata da un'improvvida intervista preventiva in cui Gronchi diceva che sarebbe stato utile riconoscere la Cina popolare e ammetterla all'Onu. Henry Luce, proprietario del Time, ne riferì sul suo giornale. Sua moglie Claire Booth, ambasciatrice in Italia, se ne lagnò con parole vivaci. Fu il Washington Post a liquidare la questione: il presidente italiano non conta nulla, è solo decorativo. Con Segni comincia la stagione del golpismo, sul fondo sempre sfuggente e viva l'ombra della rete atlantica. Prima il tintinnar di sciabole del "Piano Solo", ordito per la "tutela dell'ordine pubblico" allo scopo di incarcerare "esponenti politici pericolosi". Poi Saragat, tanto amato dal presidente Johnson, compagno di battute di caccia di Licio Gelli e capo dello Stato al tempo del tentato golpe del principe nero Junio Valerio Borghese. E' nel settennato di Leone, s'è visto, che le reti di intelligence iniziano a lasciare spazio alla più moderna legge degli affari. Scoppia lo scandalo Lockheed, armi e tangenti. Le Br in Italia rapiscono Moro, Cossiga è ministro dell'Interno. Quando sarà eletto presidente, dopo il settennato di Pertini, si ricomincerà a parlare di reti misteriose e di oscuri finanziatori: il piano Stay Behind, conosciuto come Gladio, doveva armare una rete di incursori pronti a respingere un eventuale tentativo di invasione sovietica. Siamo alla fine degli anni Ottanta. Alla fine di quel decennio arrivano Gorbaciov e la sua Perestroijka, la Russia non è più quella di prima, nessuno sbarco in armi sembra più possibile. C'è Scalfaro, ora, al Quirinale. C'è il ciclone di Mani Pulite che spazza via una stagione di politica corrotta per lasciare spazio ad una generazione nuova. Più avvezza all'uso di mondo, alle relazioni internazionali, alla lingua degli uomini d'affari. E' dal denaro adesso, dalla finanza che passano gli interessi politici. Cresce l'influenza delle agenzie di brain storming, i conclave a porte chiuse, avanzano i tecnocrati. E' ai banchieri che si ricorre quando la politica tace o sobbolle di sue interne diatribe. Ciampi, una traiettoria politicamente specchiatissima culminata in Bankitalia, è eletto all'unanimità e al primo scrutinio, salutato nel '99 come salvatore della patria. Napolitano è a Monti che pensa quando deve tenere ferma la rotta del Paese in un momento di crisi economica gravissima. Per la successione più d'uno dice Draghi. Ma poi anche i banchieri finiscono, o hanno altro di più importante da fare. Ed è sempre alla politica, alla fine, che bisogna tornare.
(5-continua)

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Titolo: Concita DE GREGORIO Quirinale, veti incrociati e contropartite: quando ...
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2013, 11:52:25 pm
Quirinale, veti incrociati e contropartite: quando l'elezione arriva al primo colpo

Così il metodo De Mita portò ai voti record di Cossiga.

Natta andò da solo a casa di Agnes per trattare col leader democristiano.

Tra gli altri propose i nomi dei cattolici Elia e Lazzati

di CONCITA DE GREGORIO


Riducendo la questione all'osso: quando si chiede qualcosa bisogna avere qualcos'altro da dare in cambio. Il potere negoziale che serve a trovare un accordo politico per il Quirinale non è molto diverso dal criterio che adottano i bimbi di sei anni quando si scambiano le carte Pokemon a ricreazione: io ti do questo se tu mi dai quello, oppure me ne dai due piccoli che valgono uno intero.

Se non ce li hai oggi me li porti domattina. Se non me li porti, mi riprendo il mio e intanto per sicurezza tengo la tua penna. Funziona così, dall'asilo in poi.

L'accordo sui Presidenti si è trovato, nella storia, dando qualcosa indietro a chi aveva i voti che servivano. Tu mi dai i voti per il Quirinale e io ti assicuro la presidenza del Senato e il prossimo governo. Poi quando il mio candidato sarà eletto nominerà senatori a vita almeno tre dei tuoi che valgono quanto uno dei miei. In garanzia, intanto, teniamo le commissioni di controllo e manteniamo in carica tutti i funzionari di massimo livello: se non va come deciso non ve li restituiamo. Con Cossiga, l'esempio più fulgido di accordo politico perfetto, è andata esattamente così (diamo il Senato a Fanfani, il governo ad Andreotti, il neo eletto nominerà per le minoranze tre senatori a vita) ed è stato infatti eletto il primo giorno al primo scrutinio con una maggioranza impressionante, 752 voti. 45 in più di Ciampi che molti anni dopo - in tutta un'altra epoca - è stato per ragioni molto diverse il secondo ed ultimo capo di Stato deciso al primo tentativo dai due terzi delle Camere.

Naturalmente per fare questo gioco, nel cortile di scuola come nei partiti politici, bisogna avere le carte. La ragione della paralisi oggi è tutta qui: nessuno ha abbastanza da dare per pretendere qualcosa in cambio, e delle ipoteche sul futuro - delle garanzie delle promesse - non c'è più chi si fidi. Un sistema di poteri spaventati e deboli, spaventati perché deboli, in cui nessuno ha la forza di essere altruista nè lungimirante. Un sistema in cui si è smarrito il coraggio. Gennaro Acquaviva, socialista di quando c'era il Psi, 78 anni, di presidenti ne ha fatti e visti fare parecchi: "Il problema oggi è che nessuno muove niente. Non ha la forza di spostare nulla. E' un sistema spappolato in cui l'unica forza superstite è quella di paralizzarsi a vicenda. I kingmaker che lavorano all'accordo sono fragilissimi: cos'hanno da offrire in cambio a coloro a cui chiedono? E come possono controllare parlamentari che fra un mese o forse fra tre potrebbero non avere più il posto? Perché dovrebbero, costoro, rispondere ai capi? Solo in virtù della paura di sparire?". Non basta, la paura da sola non è bastata mai. Genera, anzi, ancora più confusione e sperdimento. "D'altra parte questo penso quando vedo che le riunione di direzione, nei partiti, durano mezz'ora e nessuno fiata: sono tutti fermi e muti ad aspettare. Ma cosa aspettano?". Già, cosa aspettano. Il tema del "perdere tempo" è diventato il tormentone dei giorni.

Dei vecchi superstiti, di quelli cioè che hanno memoria del gioco grande della Politica, Paolo Cirino Pomicino è il più giovane. 74 anni, al cospetto di De Mita e di Andreotti un ragazzino. Il giorno dell'insediamento delle nuove Camere, mentre i cinquestelle chiedevano indicazione per i bagni e occupavano i divani di destra e di sinistra, stava in un corridoio con vista sul cortile interpellato come un oracolo. Parlava del '76 - Napolitano lo evoca oggi - già più di un mese fa: il governo monocolore di Solidarietà nazionale nato dal compromesso storico. "In due anni e mezzo facemmo la riforma sanitaria, ci occupammo di ospedali psichiatrici e di contabilità di Stato, scrivemmo le leggi speciali antiterrorismo. Lo facemmo perché non potevamo mandare il paese alla malora e lo facemmo perché avevamo la forza di farlo. Oggi si è smarrito il minimo comun denominatore della responsabilità nazionale. I partiti sono deboli e pensano di fortificarsi prendendo tutto. E' un grave errore. Chi è forte di un'identità, chi ha un orizzonte sa dare, seminare e aspettare. Quando Bersani dice che l'accordo col Pdl farebbe crescere il consenso dei cinquestelle dimostra di non credere lui per primo nella sua forza di governo". Moro non fece così. Ciriaco De Mita, dall'82 all'89 segretario della Dc, intanto anche presidente del Consiglio: "Nel '76 la pubblica opinione era contrarissima al governo Andreotti appoggiato dal Pci. Moro disse: 'Mi prendo la responsabilità di questo processo, se mi dovessi accorgere che non funziona sarei io ad interromperlo'. I leader veri sono quelli che hanno la testa, non quelli che hanno l'età".

De Mita di anni ne ha 85. Il 18 aprile, mentre alla Camera si inizierà a votare per il nuovo presidente, sarà a palazzo Venezia a ricordare il comunista Luciano Barca padre di Fabrizio, oggi ministro. "Con lui discutevamo del valore del mercato. Che anni". Di questi che viviamo adesso dice invece: "Per la prima volta nella vita mi fanno paura. Non vedo chi possa e sappia guidare. Tutti i protagonisti della politica sono paralizzati dal pregiudizio verso gli altri, nessuno ha il coraggio di rischiare. Hanno dimenticato che in politica vince sempre chi rischia".
C'è un solo metodo censito, dal dopoguerra, che abbia portato con successo un candidato concordato - Cossiga, appunto - al Quirinale. Si chiama "metodo De Mita".

Non è molto diverso da quello dei bimbi a ricreazione ma a sentirlo raccontare da lui sembra un romanzo a chiavi. Vediamo. "Il criterio ispiratore fu una lettura del pensiero di Togliatti che operava una distinzione: il capo del governo rappresenta la maggioranza parlamentare, il capo dello stato incarna l'unità nazionale". Cioè non è detto che debba essere un uomo espresso dall'area che ha la maggioranza in parlamento: deve anzi essere una personalità il più largamente possibile condivisa. "Non è che chi ha la maggioranza indica un nome e pretende di imporlo. Non si fa così. Si concorda. La funzione del Presidente è istituzionale, non importa chi lo esprime. Lo spiegai a Spadolini, che mi disse 'perfetto, ma non si è mai realizzato'. Risposi: nessuno lo ha mai proposto". Provarono. "Bisognava prima di tutto parlarsi. Chiaromonte e Napolitano insistevano molto perché incontrassi Natta. Non sapevano che ci eravamo già visti, ma eravamo d'accordo nel non dirlo. Ci eravamo incontrati a casa di Biagio Agnes. Natta era venuto da solo, non si fidava dei suoi: 'non capisco cosa pensano', mi disse". De Mita propose Andreotti, Natta rispose: "Non siamo in condizione di votarlo".

Il problema era la persona, non l'obiettivo. Bisognava trovare un nome condiviso. "Così usai il sistema della rosa. Ogni gruppo doveva dare i suoi nomi. Agivo mai pretendendo di convincere e mai essendo già convinto. Nella rosa di Natta c'erano Elia e Giuseppe Lazzati. Zanone e Malagodi non avevano liberali da proporre, indicavano solo democristiani. L'area laica diceva Baffi. Il nome di Cossiga emerse in modo abbastanza casuale. Era in rose diverse. Andai da Andreotti, gli dissi: i comunisti non ti votano. Lui mi rispose non importa: procediamo con Cossiga. Alla fine risultò l'unico nome, scartati gli altri. Alla vigilia del voto, all'assemblea dei gruppi, lo proposi per il Quirinale. Ci fu il gelo. Prese la parola Andreotti e disse: se fosse vivo De Gasperi sarebbe contento. Quindi andai da Cossiga a comunicargli la decisione: gli proposi, una volta eletto, di fare senatori a vita Elia Malagodi e Baffi". Il candidato del Pci, il liberale, l'uomo dei laici. Tre carte nello scambio. Cossiga non li nominò mai, si rammarica ancora De Mita 28 anni dopo. "Gli chiesi anche di confermare Maccanico come segretario generale. Ma non perché fosse irpino come me. Perché era un uomo intelligente. Del resto le due condizioni possono convivere nella stessa persona".

Sorride un sorriso breve, chè c'è subito l'ombra dell'oggi. "Dopo il risultato elettorale, da leader di partito mi sarei posto il problema di trovare il punto di svolgimento della legislatura. Non si torna a votare, no. L'errore del leader del Pd è stato mettere come condizione il suo ruolo: ha paralizzato lo svolgimento dell'azione politica. Bersani avrebbe potuto fare un monocolore sostenuto da un dissenso manifesto e da un consenso di fatto". Un dissenso manifesto, un consenso di fatto. "Non esattamente come nel '76, il quadro non è quello, ma con un accordo su alcuni provvedimenti avrebbe dovuto cercare l'accordo di tutte le forze in parlamento. Tutte. Non si può dire che un terzo delle Camere è estraneo ai processi politici in atto. Non si può dire: con Berlusconi non tratto. Tra l'altro: non è vero che chi sta a sinistra sia onesto e incorrotto, chi sta a destra disonesto e corrotto. Tutti potenzialmente sono l'uno e l'altro". Quello che conta, in questa "democrazia rappresentativa logorata e davvero a rischio", è che ci sia ancora chi sa mettere avanti l'istituzione al suo personale interesse. Le regole del gioco al suo gioco. Un esempio, legato alla figura di un Presidente che la giustizia ha assolto in ritardo e la politica riabilitato post mortem: Giovanni Leone.

Sono le sette meno dieci di sera del 6 maggio 1962, domenica. Ottavo scrutinio: a Segni mancano solo 4 voti per il quorum. Il nono scrutinio è agitato da uno scambio di schede, urla in aula, la seduta è sospesa per mezz'ora fra le accuse di brogli e camarille. Togliatti va da Leone, presidente della Camera, nel suo studiolo al piano terra di Montecitorio. Gli chiede di sospendere la seduta e rinviarla al mattino seguente. Gli dice che il nuovo candidato sarebbe stato lui, Leone: Togliatti gli garantiva il sostegno e i 330 voti fin lì andati a Saragat, i dc avrebbero dato i loro. Leone avrebbe solo dovuto usare a suo vantaggio le prerogative di presidente della Camera che gli consentivano di rinviare la seduta. Avrebbe dovuto farlo nel suo interesse. "Come potrei? Non posso", e congedò Togliatti. Non rinviò la seduta, si precluse la strada al Quirinale, fece votare di nuovo che era già notte di domenica. Fu eletto Segni con 443 voti.

Dopo Napolitano De Mita vede ancora Napolitano. "Nella storia tutti i presidenti in scadenza hanno sperato nella riconferma, Pertini più degli altri. Napolitano non vuole, e gli credo. Ma ha senso delle istituzioni, sarebbe in condizione di organizzare un percorso politico. E' l'unica strada che vedo. Se glielo chiedesse il parlamento all'unanimità non potrebbe sottrarsi. L'età poi non conta, e il settennato non è detto debba essere condotto a termine". Anche Cirino si congeda con un pensiero che risuona con questo. "E' un momento in cui gli interessi tribali e personali si devono mettere da parte. Cinquestelle è un intreccio di protesta e utopia rivoluzionaria nato dalla crisi economica. Una specie di setta, e ogni setta porta dentro di sé le ragioni della sua fine. Le persone oggi contano più dei partiti ma è dall'organizzazione della politica che si deve ripartire per rimettere in piedi il Paese. Serve tempo, e qualche intelligenza. Non ne vedo moltissime in giro. Non mi pare una grande idea fare a meno di quelle che ci sono".
(6-continua)

© Riproduzione riservata (12 aprile 2013)

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Titolo: Concita DE GREGORIO Le ombre vaticane sui grandi elettori (inchiesta/7 fine).
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2013, 11:53:56 am
Le ombre vaticane sui grandi elettori

L'inchiesta/7.

Nel '64 tre alti prelati da Fanfani per dirgli di non candidarsi. E lui: "Allora io verrò a insegnarvi a dir messa".

Siri ricevette De Mita quando al Quirinale c'era Pertini. E gli confidò: "Più dei comunisti ci preoccupano i socialisti".

Ma con Papa Francesco la politica italiana è più lontana

di CONCITA DE GREGORIO

Le ombre vaticane sui grandi elettori

L'inchiesta in sette puntate di Concita De Gregorio su tutti i retroscena delle elezioni dei presidenti della Repubblica è stata raccolta in un ebook in uscita


IL BACIO dell'anello è una questione di geografia, l'Italia essendo l'unica nazione al mondo che custodisce la Città del Vaticano all'altezza dello stomaco. Di storia, che da millenni intreccia dei due governi i due destini. Di soldi, poiché da sempre e molto strettamente i bilanci dell'uno dipendono dalle decisioni dell'altro. È grosso modo per questo che non c'è paragone tra il livello di attenzione che il Vaticano dedica alla politica italiana, anche minuta e minutissima - i consigli regionali, per dire, i candidati sindaci, persino - e l'interesse che riserva alle presidenziali francesi, alle elezioni andaluse, alle lotte di potere messicane. È per le stesse ragioni - di vicinanza, di confidenza con la materia, di interesse economico diretto - che la Curia romana destina la massima attenzione alla formazione dei governi, un'ancora stretta ma meno severa vigilanza all'elezione del capo dello Stato. I governi decidono: di scuole private, di sanità, di tasse sui beni immobili, di diritti in materia di famiglia, libertà della persona. I presidenti no. Almeno, non direttamente.

Lo ha spiegato in estrema sintesi, una decina di parole, Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio: "L'attività di governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa", ha detto il 6 giugno del 2008 reduce da un lungo e cordialissimo colloquio col Pontefice, presente come sempre Gianni Letta. Non può che compiacere. Di più, sempre da presidente del Consiglio, in un telegramma per gli 80 anni del cardinale Ruini: "Auspico che continui ad essere con la sua saggezza ed esperienza fonte di riflessione e di guida per tutti noi". Il presidente della Conferenza episcopale guida del capo del governo italiano e, per estensione, di tutti noi.

Gennaro Acquaviva è stato a metà degli anni '80 l'uomo che per conto di Craxi ha portato a termine la revisione del Concordato, assiduo sherpa tra le due sponde del Tevere: "Montini, Siri, Silvestrini facevano politica direttamente con grande intelligenza. Negli ultimi trent'anni la classe dirigente della chiesa è progressivamente decaduta. Ha fatto campagne elettorali, certo, ha sostenuto i suoi interessi attraverso i suoi candidati. Ma da molto tempo non è più decisiva nell'elezione di un presidente della Repubblica: almeno dai tempi di Pio XII". Dalla fine degli anni Cinquanta, dice Acquaviva. In realtà qualcosina dev'essere successo anche dopo, di certo almeno fino al pontificato di Paolo VI se - ha raccontato il corrispondente di Le Monde dell'epoca, Jacques Nobecourt - fra il 17 e il 22 dicembre 1964, cinque giorni, andarono in tre a casa di Fanfani per tentare di dissuaderlo dalla tentazione di fare il Presidente. Nell'attico di via Platone arrivò prima Angelo Dell'Acqua, sostituto della Segreteria di stato vaticana, poi il segretario particolare del Papa monsignor Macchi, infine l'assistente generale dell'Azione cattolica Franco Costa. Esasperato, l'impulsivo Fanfani rispose: "Riferisca a chi la manda che se lui continua a pretendere di insegnare a me come regolarmi in queste faccende verrò tra breve a prendere la parola in concilio per insegnargli come si deve dire messa". In ogni caso, passato il momento di comprensibile fastidio, Fanfani rinunciò. Preferì trasformare - come si usa in questi casi - il sacrificio in un credito.

Il bacio dell'anello, o per i più atletici la genuflessione fino alla pantofola, è rimasto nei decenni successivi un gesto simbolico relegato alle personali inclinazioni e sensibilità. Oscar Luigi Scalfaro, che pure era un terziario francescano ed andava col Papa ad Assisi in visita al Sacro convento, aveva nei confronti di Giovanni Paolo II una devozione pari all'indifferenza con la quale si divertiva ad ignorare i cardinali. Consegnava chiuse ai suoi collaboratori le buste con gli stemmi dorati che arrivavano dal Vaticano - racconta il Segretario generale del tempo - in occasione dei conferimenti di incarico per i governi: "Ti do due buste, conservale. Le apriamo dopo", sorrideva.

Dice Ciriaco De Mita che la Curia romana ha sempre avuto molta miglior disposizione di quanto non si creda verso i comunisti, erano semmai i socialisti a impensierirla. "Ricordo che appena eletto segretario Dc andai a Genova, mi dissero che Siri voleva vedermi. Avanzava maestoso, pareva un principe rinascimentale. 'Hanno fatto bene a scegliere lei, che è un birbante', mi disse. Feci qualche osservazione a proposito delle dinamiche verso il Pci. 'Ma no, è la cultura socialista, piuttosto, a darmi pensiero', mi rispose". Era in carica Pertini, in quegli anni. E anche in questo caso i rapporti del presidente (socialista) con la Curia erano tanto ruvidi quanto disinvolta era la relazione con Papa Wojtila, col quale andava sull'Adamello a sciare. Quando il presidente fu ricoverato all'Umberto primo per un malore, nel 1987, Wojtyla andò in ospedale da lui e rimase mezz'ora fuori dalla porta senza poter entrare. "E' stato mio amico fin dal primo incontro - disse alla moglie - se domanderà gli dovete dire che il Papa era qui ma l'ha trovato in sonno e non l'ha voluto disturbare".

Con Ratzinger che - dice Acquaviva per raccontare della sua estraneità alle lotte di potere - "era un papa che suonava il pianoforte" la pratica della gestione degli affari correnti è passata del tutto nelle mani delle seconde linee. "Se ne occupava Bertone, salesiano molto operativo al quale dovrei anche essere grato: ha inventato l'8 per mille, il Concordato me l'ha risolto lui". L'ha risolto con una percentuale sulla dichiarazione dei redditi, tanto per essere chiari e capire di cosa si tratti davvero. "Bertone era ed è grande amico di Tremonti. Si intendono e si assistono sulle questioni di loro pertinenza. Non dico che siano tutte questioni di conti ma in prevalenza, diciamo, potrebbero". Bertone è l'uomo dello Ior, la banca vaticana nella black list del sistema di vigilanza mondiale, il grande pozzo da cui transitano denari della cui provenienza da decenni procure d'ogni dove chiedono invano di sapere. Lo Ior è al centro della vicenda - Vatileaks - che ha portato alla rinuncia di Benedetto XVI, il papa del pianoforte. De Mita: "Ratzinger aveva una dimensione molto religiosa. Ad essere presenti sulla scena politica erano altri. Ruini per esempio. Molto presente. Direi troppo presente".

Ma d'altra parte, passa in rassegna la storia Acquaviva, "non c'è mai stato nessun Ruini che abbia mosso ciò che non poteva, o che in fondo non interessava. Dossetti voleva Sforza presidente e non lo ebbe, dissero che era donnaiolo e massone, liquidarono la faccenda così. L'elezione di Gronchi fu un piccolo golpe contro la Dc ordito dai socialisti che volevano rientrare in gioco. L'ascesa di Leone una partita tutta interna alla Dc contro la sinistra. Sì, Silvestrini interveniva, consigliava. Montini avrebbe voluto Moro. Ma il peso della Chiesa è andato negli anni indebolendosi insieme alla consistenza intellettuale e in qualche caso morale degli uomini". Sono sul tavolo questioni sempre più pratiche, sempre meno ideali. Anche quando lo sembrano - quando hanno l'aria di battaglie etiche - nascondono interessi d'altro tipo. La gestione dell'immenso patrimonio immobiliare. Dell'istruzione e delle cliniche private. La sanità, la scuola, le tasse. "Oggi, poniamo, monsignor Crociata segretario generale della Cei può fare campagna elettorale per opporsi alla Bonino alla Regione Lazio, trovando magari complicità inaspettate a sinistra. Ma quanti voti sposta, in un sistema sempre più disgregato? Qual è davvero la compattezza della falange politica che risponde al mondo cattolico e soprattutto: quali sono le ragioni che la muovono?".

"Il dramma dei divorziati esclusi dalla comunione", era il titolo di un editoriale del Giornale di Berlusconi qualche anno fa: seguì fitto e pensoso dibattito tra i massimi esponenti delle gerarchie e del credo religioso. Persino in un ambito come questo, non immediatamente misurabile in termini di cassa né di primaria urgenza per le sorti del Paese, si fa tuttora qualche fatica a non rilevare una sovrapposizione di interessi: personale, pastorale, elettorale. Nei giorni del recente conclave c'era chi diceva che sarebbero bastati "sei mesi di pontificato di Carlo Maria Martini per cambiare il destino della Chiesa, molto in subordine anche quello dell'Italia". E' stato eletto Papa Francesco, che di Martini era il candidato nel 2005. "C'era un cardinale in più, in cielo, a votare per Bergoglio", sorride don Virginio Colmegna che di Martini a Milano è stato il braccio destro: "Francesco sarà un Papa capace di cambiare la storia della Chiesa e certo dell'Italia non con le parole ma coi fatti. Col tempo, e coi gesti che sono anche omissioni". Il non dire, il non fare. In questa vigilia di conclave laico, a pochi giorni dal voto per il Colle, non c'è chi senta - neppure tra i suoi uomini più fidati - la voce del Papa. Un silenzio che rovescia gli animi e svapora le intenzioni. Che molti rende inquieti, nella Roma dei Papi e dei Re, molti altri rincuora.
(7 - fine)

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Titolo: Concita DE GREGORIO Boldrini: "Io, minacciata di morte ogni giorno...
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2013, 05:54:07 pm

   
Boldrini: "Io, minacciata di morte ogni giorno. Non ho paura ma basta all'anarchia del web"

La presidente della Camera: sulla Rete campagne d'odio, è tempo di fare una legge.

In Italia le donne continuano a morire per mano degli uomini e per molti è sempre e solo una fatalità, un incidente, un raptus

di CONCITA DE GREGORIO


ROMA - Laura Boldrini, seduta alla sua scrivania di Presidente della Camera dei deputati, legge attentamente i messaggi che la sua giovane assistente Giovanna Pirrotta le porge. Sono minacce di morte, di stupro, di sodomia, di tortura. Accanto al testo spesso ci sono immagini. Fotomontaggi: il suo volto sorridente sul corpo di una donna violentata da un uomo di colore, il suo viso sul corpo di una donna sgozzata, il sangue che riempie un catino a terra. Centinaia di pagine stampate, migliaia di messaggi. A ciascuna minaccia corrisponde un nome e un cognome, un profilo Facebook, l'indirizzo di una pagina Internet. Le minacce - tutte a sfondo sessuale, promesse di morte violenta - si sono moltiplicate nel giro di due settimane con il tipico effetto valanga che la Rete produce: al principio erano una decina, qualche sito le ha riprese e rilanciate, i siti più grandi le hanno richiamate dai siti più piccoli con la tecnica consueta: dichiarare in premessa l'intenzione di denunciare l'aggressione col risultato, in effetti, di divulgarla ad un pubblico sempre più ampio. In principio, quasi all'indomani della sua nomina, aveva preso a circolare una foto che a questo punto della vicenda pare addirittura innocente: una donna nuda, in spiagga, indicata come Laura Boldrini e affiancata da commenti machisti. Poi le prime minacce, altre e altre ancora sempre più gravi fino ad arrivare alle ultime, pochi giorni fa: una donna sgozzata, uno stupro. Siti di destra, razzisti e xenofobi, pagine Facebook, di seguito l'effetto macchia d'olio, incontrollabile.
Dunque cosa fare?, è l'intatto quesito che si ripropone ogni volta che ci si trova di fronte a messaggi, comunicati, rivendicazioni di una minoranza violenta. Dar loro visibilità e amplificarli, facendo il loro gioco, o tacere, subire, reagire sul piano della denuncia individuale senza offrire un più largo palcoscenico a quelle miserevoli gesta.

"Io non ho paura", mormora la presidente della Camera mentre ascolta questa discussione, i suoi collaboratori attorno a lei. "Nel senso che certo, sì. Ho paura quando i fotografi inseguono mia figlia di 19 anni in motorino, ho paura che possa spaventarsi e avere un incidente, mi si gonfia in cuore. Ho paura quando si appostano sotto casa di mio fratello Enrico, il più piccolo dei miei fratelli, che soffre di una forma grave di autismo. Non capisco come possano farlo, e ho paura per lui. Ma non ho paura io, adesso, di aprire un fronte di battaglia, se necessario. Daremo visibilità a un gruppo di fanatici? Sì, è vero. Ma non sono pochi, sono migliaia e migliaia, crescono ogni giorno e costituiscono una porzione del Paese che non possiamo ignorare: c'è e dobbiamo combatterla. Non posso denunciarli tutti individualmente: è un'arma spuntata, la giustizia cammina lentamente al cospetto della Rete, quando arriva la minaccia è già altrove, moltiplicata per mille. E poi non è una questione che riguarda solo me. Ci sono due temi di cui dobbiamo parlare a viso aperto. Il primo è che quando una donna riveste incarichi pubblici si scatena contro di lei l'aggressione sessista: che sia apparentemente innocua, semplice gossip, o violenta, assume sempre la forma di minaccia sessuale, usa un lessico che parla di umiliazioni e di sottomissioni. E questa davvero è una questione grande, diffusa, collettiva. Non bisogna più aver paura di dire che è una cultura sotterranea in qualche forma condivisa. Io dico: un'emergenza, in Italia. Perché le donne muoiono per mano degli uomini ogni giorno, ed è in fondo considerata sempre una fatalità, un incidente, un raptus. Se questo accade è anche - non solo, ma anche - perché chi poteva farlo non ha mai sollevato con vigore il tema al livello più alto, quello istituzionale. Dunque facciamolo, finalmente".

Sul tavolo della presidente le pagine in cui uomini con nome e cognome, dati a cui corrispondono persone reali, scrivono "ti devono linciare, puttana", "abiti a 30 chilometri da casa mia, giuro che vengo a trovarti", "ti ammanetto di chiudo in una stanza buia e ti uso come orinatoio, morirai affogata", "gli immigrati mettiteli nel letto, troia". Accanto alla foto della donna sgozzata: "Per i Boldrini in rete ecco l'Islam in azione".

La seconda questione è se possibile ancora più delicata, riguarda i reati commessi via web. Ogni volta che si interviene a cancellare un messaggio, ad oscurare un sito - dice Roberto Natale, portavoce della Presidente - c'è una reazione fortissima della rete che invoca la libertà e parla di censura. Valentina Loiero, responsabile comunicazione: "Al principio abbiamo individuato un sito, di cui è titolare Antonio Mattia, che aveva diffuso la foto di una nudista spacciandola per Laura ed aveva dato il via ai commenti sessisti. Abbiamo informato la polizia postale. La reazione dell'uomo alla visita delle forze dell'ordine è stata una denuncia di violazione della privacy a cui hanno fatto seguito in rete accuse di abuso di potere, subito riprese da esponenti politici della destra".

Boldrini: "Abbiamo due agenti della polizia postale, due, che lavorano alla Camera, distaccati qui a vigilare sulle moltissime violazioni di cui un luogo istituzionale come questo può essere oggetto. C'è stato il caso della parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui è stata violata la posta personale. C'è il caso di una deputata oggi ministra che non ha più potuto accedere ai suoi social network e teme che a suo nome si possano divulgare messaggi non suoi. Poi ci sono le minacce di morte nei miei confronti. Tutte donne, lo dico come dato di cronaca. So bene che la questione del controllo del web è delicatissima. Non per questo non dobbiamo porcela. Mi domando se sia giusto che una minaccia di morte che avviene in forma diretta, o attraverso una scritta sul muro sia considerata in modo diverso dalla stessa minaccia via web. Me lo domando, chiedo che si apra una discussione serena e seria. Se il web è vita reale, e lo è, se produce effetti reali, e li produce, allora non possiamo più considerare meno rilevante quel che accade in Rete rispetto a quel che succede per strada". C'è in questi giorni la discussione sulla scorta. "Io ho chiesto di non essere scortata. Non ho paura di camminare per Roma, non ho paura di andare da casa in ufficio. Può accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, certo, ma questo vale per chiunque. Piuttosto mi pare molto più grave, molto più pericoloso che si diffonda in rete una cultura della minaccia tollerata e giudicata tutt'al più, come certi hanno scritto, una "burla". Mi sento molto più vulnerabile quando penso che chiunque, aprendo un computer, anche mia figlia, anche i suoi amici, anche i ragazzi giovanissimi che vivono connessi al computer possono vedere il mio volto sovrapposto a quello di una donna sgozzata. Mi domando che effetti profondi e di lungo periodo, fra i più giovani, un'immagine così possa avere".

La campagna contro Laura Boldrini si è impennata all'indomani della sua visita alla comunità ebraica, il 12 aprile scorso. In quell'occasione, incontrando i dirigenti della comunità, ha parlato della necessità di "ripristinare il rigore della legge Mancino" a proposito dell'incitamento al razzismo e all'odio razziale su web. È infatti dell'8 aprile la sentenza di condanna dei quattro gestori di Stormfront, sito web neonazista, condannati per antisemitismo. È la prima sentenza che riconosce un'associazione a delinquere via web: a quella si richiamava Boldrini nel suo discorso alla comunità. Da quel giorno è partita la valanga. Il sito "Tutti i crimini degli immigrati" associa il volto del presidente della Camera alle notizie di reati commessi da cittadini stranieri. "Resistenza Nazionale", "Fronte Nazionale", "MultiKulti" e altri indirizzi web diffondono. Poi i fotomontaggi, e le minacce. Dal 28 aprile, dopo la sparatoria davanti a palazzo Chigi, hanno iniziato a circolare centinaia di messaggi che dicono "Dovevano sparare a te", "la prossima sei tu", "cacati sotto, a morte i politici come te". La magistratura è avvertita, le denunce sono partite. "Ma è come svuotare il mare con un bicchiere. Credo che ci dobbiamo tutti fermare un momento e domandarci due cose: se vogliamo dare battaglia - una battaglia culturale - alle aggressioni alle donne a sfondo sessuale. Se vogliamo cominciare a pensare alla rete come ad un luogo reale, dove persone reali spendono parole reali, esattamente come altrove. Cominciare a pensarci, discuterne quanto si deve, poi prendere delle decisioni misurate, sensate, efficaci. Senza avere paura dei tabù che sono tanti, a destra come a sinistra. La paura paralizza. La politica deve essere coraggiosa, deve agire".
 

(03 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/03/news/boldrini_intervista-57946683/?ref=HRER1-1


Titolo: Concita DE GREGORIO. Radio Maria "Fate testamento in favore dell'emittente"
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2013, 06:47:00 pm
Lettere da Radio Maria agli ascoltatori anziani: "Fate testamento in favore dell'emittente"

Sotto forma di questionario, il testo spiega come disporre lasciti e donazioni. "Danno consulenza a domicilio: chissà quanti accettano in cambio di un po' di compagnia"

di CONCITA DE GREGORIO


MARCO arriva all'appuntamento con i fogli del questionario e la lettera in mano. Li posa sul tavolino del bar. Tre pagine, e un bollettino di conto corrente postale. Ecco, indica. Sono questi i fogli che ha sfilato con dolcezza dalle mani di sua madre, 92 anni. Adele li aveva compilati meticolosamente, chissà quanto tempo aveva impiegato a leggere tutte le domande, aveva messo la sua firma in fondo.

Aveva scritto tutti i suoi dati e indicato che sì, avrebbe parlato volentieri con un gentile operatore per capire meglio come fare quel lascito, il testamento olografo o come si chiama. Che le telefonasse pure, la persona di Radio Maria, per prendere appuntamento. Tanto lei sta sempre a casa. Doveva solo ripiegare i fogli, Adele, quando Marco ha suonato al campanello ed è salito per il saluto quotidiano. Come va, mamma? Bene devo solo mettere questi fogli in busta non serve il francobollo me la porti tu alla posta per favore? Certo, che lettera è mamma? Mi ha scritto il prete di Radio Maria, guarda c'è la sua foto accanto alla firma, che bel giovane vedi? Dice che hanno bisogno del mio aiuto per far conoscere la parola di Maria in tutto il mondo che basta solo che compili il questionario poi ci pensano loro, se voglio fare una donazione mi aiutano loro a fare quello, come si chiama, leggi un po', ah ecco sì: il testamento olografo.

La lettera ricevuta da Adele è in realtà finita nella cassetta della posta di migliaia di persone, anziani soprattutto. La gran parte della platea degli ascoltatori (oltre un milione e mezzo al giorno) dell'emittente cattolica diretta da don Livio Fanzaga, la più pervasiva radio privata italiana, quella che conta oltre 850 ripetitori.

Marco, che è l'ultimo dei tanti figli di Adele, dice con gli occhi lucidi di rabbia che lui a sua madre del testamento non aveva parlato mai fino a quel giorno. Per delicatezza, per amore, per non evocare neppure l'ombra del pensiero della sua morte, non con lei. Dice che nemmeno sua madre l'aveva mai fatto con loro, coi figli. Neppure da quando è rimasta vedova, mai. Che poi non è che ci sia chissà che cosa in ballo. Due lire, un pezzetto di terra nell'Agro, il nulla che si è fatta bastare per vivere. È che di queste cose non si parla, che sembra che uno se lo auguri. Non si dice: mamma, e il testamento? Non so come spiegarti - si ostina Marco - ma non si fa, capisci? Dunque si sono trovati a parlarne per la prima volta, lui e Adele, l'altro giorno al tavolo del tinello davanti a quella bella lettera firmata da padre Livio Fanzaga, inviata da Erba. Dice ad Adele, padre Fanzaga, che "milioni di persone come te e come me ogni giorno sperano gioiscono e si consolano ascoltando Radio Maria", vuoi che lo facciano ancora in tanti, vuoi aiutare a portare nelle case la parola di Dio? "Un lascito testamentario, anche piccolo, è un atto d'amore". Allega, il padre, un questionario in sette punti. Punto uno: condividi l'idea che Radio Maria ti informi sui lasciti testamentari? domanda mentre in effetti lo sta già facendo. Punto due, tranquillizzante: non danneggi i tuoi familiari, non temere, a loro spetterà comunque una quota. Punto tre, decisivo: sai che per fare un testamento olografo basta un foglio bianco, scritto di tuo pugno, datato e firmato? E quali dubbi potresti avere rispetto alla decisione di fare testamento in favore di Radio Maria?, si domanda al punto cinque. Segue breve elenco: pensi che costi, non hai un notaio, non hai chi ti aiuti? Allora, punto sei, possiamo inviarti una Guida ai lasciti testamentari, uno snello opuscolo. Oppure, punto sette, una persona di Radio Maria può contattarti direttamente. Dicci a che numero di telefono e a che ora. Lascia i tuoi dati anagrafici, spedisci tutto mettendo questi fogli nella busta allegata e preaffrancata, non costa nulla. Grazie della tua preziosa collaborazione, Adele. Il bollettino di conto corrente è in più, se volessi fare una donazione subito.

Dice Marco, che ha chiesto al suo amico Andrea Satta di raccontare questa storia sul suo blog, che magari è tutto normale. Che non c'è niente di strano e che la Chiesa vive anche di donazioni, certo, lo sa. Ma che inviare un questionario così alle persone molto anziane gli fa pensare a una specie di circonvenzione d'incapace soave. Che sua madre per esempio non ha capito benissimo cosa stesse facendo, e chissà quanti vecchi inviano la busta e poi sono raggiunti dalla persona che li aiuta a fare testamento in loro favore. Dice anche che il punto sette è il più insidioso, perché se sei da solo magari hai anche voglia che una persona gentile ti "contatti direttamente" e passi un po' di tempo con te. E chissà quanti lo fanno. E chissà se è un problema suo, che a sua madre di quando sarà morta non gli voleva parlare, o se è un problema loro, che vanno a bussare ai vecchi per chiedergli i soldi che hanno messo da parte alle Poste o nel barattolo in cucina. Se poi c'è qualcosa di più, da donare, tanto meglio. Gliene sarà resa gloria nel regno dei cieli. Un foglio bianco, una firma e tranquilli: nessuno fra i parenti se ne avrà a male se avete fatto un'opera buona, se avete fatto testamento a favore della vergine Maria.

(07 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/06/07/news/radio_maria-60545254/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_07-06-2013


Titolo: Concita DE GREGORIO Firenze "Non stupitevi, qui così fan tutti".
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2013, 05:25:54 pm
Assessori, escort e coop: i segreti hard di Firenze "Non stupitevi, qui così fan tutti".

Pettegolezzi e intercettazioni, viaggio nella città investita dallo scandalo.

Una studentessa racconta: "Te lo insegnano quando arrivi da matricola, se ti servono soldi, un modo è quello. Poi una si regola come crede"

di CONCITA DE GREGORIO


FIRENZE - Non c’è chi non conosca uno che conosce uno che gli ha detto che. Fra Borgo Allegri e via delle Belle donne non c’è chi non sappia di sicuro che anche la Maria Grazia, sì quella del negozio di intimo, te l’avevo detto che l’altro giorno è entrata da Gucci e si è comprata tre borse senza nemmeno chiedere quant’è?

Me l'ha raccontato la commessa che è un’amica di mia sorella. Non c’è uno che non sia sicurissimo che da Franchino, l’orologiaio bianco di capelli pettinato da paggio attempato, non sia passata anche la Mara, che è la segretaria del consigliere comunale tale e certo che lui lo sapeva, eccome se lo sapeva, hai voglia. Lo sapeva per esperienza diretta, diciamo, che a certe ore si chiudono le porte delle stanze, in Comune, e a volte non si chiudono nemmeno e non mi far dire altro che qui si va in galera. «Io comunque non lo capisco cosa volete sapere, cosa cercate, se vi scandalizzate per davvero o fate finta», dice Cristiana T. che prepara la tesi in Lettere su Niccolò Soldanieri e vive in via Guelfa, a due passi dalla Facoltà. «Lo sappiamo benissimo tutti, te lo insegnano appena arrivi da matricola, che se c’è una difficoltà a pagare l’affitto o se ti servono i soldi per un viaggio un modo è quello, e si sa da chi andare a bussare. Poi una si regola come crede. Una mia compagna di corso l’hanno interrogata per via di questa storia.
Mi ha detto guarda Cristiana io non sono una puttana e lo sai. L’avrò fatto tre volte e quello che mi ha fatto schifo non è stato quella mezz’ora ma sentirli parlare al telefono dopo, con le mogli o con gli amici, ci credi?».

Le mogli, gli amici. Sentirli parlare. C’è una moglie offesa, al principio di questa storia che arroventa Firenze alle porte di luglio. Ma non è lei la protagonista, e non è nemmeno Adriana “la regina”, Poljna la bambina, non sono la barista l’infermiera l’avvocato e l’assessore, Franchino l’orefice che vende Rolex e mi paghi quando puoi, i fratelli tenutari dell’albergo di lusso dove alla reception ti prendono il documento ma non ti registrano, lo sa tutta la città. Protagonista è Firenze, dirlo sarebbe stucchevole se non fosse letteralmente, materialmente così.

La città intera recita la parte principale della “Bella vita”, il titolo in fondo triste che gli inquirenti hanno dato al fascicolo di quattromila pagine dopo mesi di intercettazioni e di indagini, di interrogatori, di appostamenti. La “bella vita” che si dipana dal Lungarno del Tempio all’Impruneta, che passa la mattina da Palazzo Vecchio il pomeriggio sonnecchia al bar dei Viali e si prepara, nelle botteghe del centro, per l’aperitivo a piazzale Michelangelo.

Quando le macchine dotate di permesso per la zona blu passano a prendere i clienti e li portano dalle ragazze del catalogo Escortforum, reclutate con un sms e assegnate con un messaggino di ritorno: alla tale ora, nel tal posto, Miriam ti aspetta. Nella stanza con le losanghe verdi e azzurre dell’hotel Mediterraneo, ascensore laterale, quello in fondo a sinistra, quello con la moquette macchiata d’olio che come fa un quattro stelle ad avere un ascensore così, e la donna delle pulizie che la domenica alle otto di mattina passa l’aspirapolvere in corridoio ed entra in stanza senza bussare. «Oh, scusi. Non pensavo». Qui di solito alle otto di mattina i clienti in stanza non ci sono.

Poi i comprimari, certo. Il professore universitario che ti accoglie in biblioteca e ti racconta che Nicolò Machiavelli aveva la Riccia, favorita fra le cortigiane, e che Filippo Lippi era un frate e aveva avuto Filippino da una monaca per cui “siamo nel solco della tradizione” va così da che mondo è mondo, una volta le delazioni si mettevano anonime nei “tamburi”, cassette di pizzini a tema quasi sempre sessuale, nel 500 c’erano le tamburazioni oggi la moglie tradita fa la denuncia in procura. Dov’è la differenza? Ai tempi dell’indagine sul Mostro i faldoni erano pieni di testimonianze sui centinaia di guardoni appostati ogni sera alle Cascine, e le coppie che andavano lì a fare l’amore certo che lo sapevano, andavano lì a farsi guardare — assicura il prof con grande scioltezza sul finale, di certo consuetudine accademica. E poi certo che all’Adriana gli avevano dato una casa, povera ragazza, ci mancherebbe altro che alla cortigiana di palazzo non venisse assegnato un alloggio consono. L’ospitalità è una virtù.

Ora il problema è l’insaputa, perché anche Massimo Mattei, assessore del Pd alla mobi-lità, giunta Renzi, non sapeva — garantisce — che la sua amica Adriana (“una mia amica da anni”), romena, attualmente disoccupata, in anni remoti dipendente della cooperativa il Borro di cui l’assessore è stato negli stessi anni presidente, non sapeva insomma che Adriana facesse “quel tipo di mestiere”. Lo ignorava, non era un’amicizia abbastanza solida per questo tipo di confidenze perciò le ha assegnato un alloggio a titolo gratuito come si fa con le persone in difficoltà, non tutte certo che altrimenti sai che fila ci sarebbe al Borro ma con alcune sì, e Adriana era fra queste. Poi è stato colto completamente di sorpresa — dice — quando un dipendente comunale suo collaboratore è stato trovato dalla donna delle pulizie in un ufficio pubblico proprio con Adriana, e non facevano fotocopie. Può succedere, ci si distrae. Uno può non accorgersi. Mattei si è dimesso, comunque, per motivi — reali — di salute. Più tranquille adesso sua moglie e sua figlia, leggerissimamente più tranquillo il sindaco nonostante il leggendario sarcasmo fiorentino di quelli che «a Renzi gli mancavano solo Frisullo e una decina di escort per fare Berlusconi». Non dicono escort, in effetti. A Firenze non si dice così.

«Non mi fa schifo cosa fanno ma come parlano, cosa dicono», raccontava la studentessa. Come si nominano le cose. «Quando ci si vede si fa a scambio di figurine», «a quella gli piace così tanto che ci dovrebbe pagare lei a noi», «ho la nausea delle puttane, ho l’albergo pieno». Il fidanzato dell’infermiera («fatti pagare meglio »), l’avvocato che non ha tempo («una cosa in macchina, mezz’ora, con la bimba di ieri »), la “bimba” che mezz’ora ci va perché «mi devo comprare le catene da neve». A Firenze nevica poco, sarà stato per andare a Cortina.

Come parlano al telefono i fratelli Taddei, titolari dell’hotel Mediterraneo terminale fiorentino del sito slovacco Escortforum. Cosa dice l’orologiaio Franchino, per gli amici al telefono «il capo puttaniere», alle ragazze quando le chiama. Come le tratta, come le recluta. Con quali parole e con che tono spiega alla barista, alla benzinaia, alla ragazza dell’uscio accanto cosa deve fare e come. Con una lingua dove la passera, che del resto in città dà il nome a una piazza antica sede di bordelli, è il termine più alto: pura poesia.

Dalle migliaia di pagine di intercettazioni esce l’affresco di una città sotterranea e invisibile alle fiumane di turisti che la percorrono con le bandiere del capocarovana levate, una città postribolo amorale e bacchettona insieme, scandalizzata con la mano sulla bocca a fare oh, nel fresco delle corti, e impegnata al piano di sopra a cambiare lenzuola per il prossimo avventore. In vendita, alla fine. Cinquecento euro la cena, la stanza con ragazza e la macchina per andare all’Impruneta, più o meno quanto una gita di due giorni con visita agli Uffizi. «Ma poi che c’entrano la bellezza, la città d’arte, Michelangelo — dice un procuratore di calcio anche lui sentito nell’inchiesta — tutti lì a riempirsi la bocca con Boccaccio, bravi. Fate pure filosofia. Ma io giro il mondo e una cosa la so: non è Firenze, guardatevi intorno a casa vostra. È la regola. Dove vai vai, è così».

(20 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/06/20/news/assessori_escort_e_coop_i_segreti_hard_di_firenze-61471007/?ref=HREC1-3


Titolo: Concita DE GREGORIO Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2013, 08:28:49 am

Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli

di CONCITA DE GREGORIO


NON sono venuti. La prima a salire sul palco per dare un’occhiata portandosi la mano alla fronte come si fa davanti ad orizzonti di folla oceanici è Daniela Santanchè, già candidata alla vicepresidenza della Camera nel governo di larghe intese e miti pretese, oggi qui impegnata a dire che la grazia dal Quirinale deve arrivare e che lei di Napolitano non ha paura, «è un uomo come noi», che lei è pronta a fare la rivoluzione a marciare sul Colle. Già questo dettaglio indice di quanto la “manifestazione spontanea” possa impensierire il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Napolitano caro come un figlio, circa le sorti di un governo di cui il pregiudicato Silvio Berlusconi è azionista di riferimento e Santanchè cupa cheerleader. Purtroppo non sono venuti. I 500 pullman attesi, tutto pagato per tutti, devono aver avuto un intoppo che non è solo, come dice Fabrizio Cicchitto col consueto senso delle istituzioni, l’ostinazione di «quel cretino di Marino», sindaco di Roma, a dire che la manifestazione non è stata autorizzata, che nessuno ha chiesto il permesso di bloccare via del Plebiscito e di deviare gli autobus dal centro dellaCapitale.

Di usare la città come se fosse il suo personale salotto e pazienza per chi da piazza Venezia doveva passare ieri per esempio per andare in ospedale, o a un appuntamento d’amore o a prendere il treno, in fondo è domenica, è agosto e chissenefrega degli altri. “Il Popolo della Libertà per la libertà di Silvio”, dice uno striscione. Il senso della mesta messa in scena è tutto qui: un partito al servizio della personale vicenda privata del suo duce.

Ed è difatti dal Balcone, che ci si aspetta che si affacci. In un gioco di specchi nei balconi di Palazzo Venezia sono invece assiepati oggi i fotografi, il dirimpettaio sul suo terrazzino ha messo su la bandiera tricolore, è un uomo di Stato intende dire, l’una volta missino Gasparri si protende dall’alto del balcone verso i militanti e li incita a cantare. “Meno male che Silvio c’è”, intona qualcuno memore del “Silvio ci manchi” su cui Francesca Pascale, fidanzata dell’ex premier, ha investito fin dai tempi di Telecafone con successo. Arrivano insieme a Palazzo Grazioli, lei col barboncino Dudù, lui impegnato a infilarsi la giacca con un gesto che le foto impietose immortalano insieme alla nudità dell’ampio ventre.
Il tempo di cambiarsi, Pascale ha scelto il tubino nero in altri contesti celebre, ed eccoli. Sulle note dell’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia. Entrambi in nero, vestiti come a lutto. Lui in maglietta girocollo che ringiovanisce, devono avergli detto. E anche di usare prudenza, devono avergli suggerito dal Colle e da Palazzo Chigi, di fare molta attenzione alle parole giacchè la “guerra civile” evocata dal fidato Bondi ha indispettito non poco il Presidente. Perciò il discorso è lento, e mesto.

Sono le sei e un quarto di pomeriggio quando, in una giornata torrida insolentita dai gesti di scherno di Alessandra Mussolini legittima nipote e dal ribollire dell’asfalto, il Nostro non dal balcone si affaccia ma dal portone, e sale sul palchetto replicato da un paio di schermi. Qualche migliaio di persone sventolano bandiere opportunamente fornite agli angoli della via dall’organizzazione, bandiere di Forza Italia giacchè è da lì, dal suo personale partito e non dal Popolo delle libertà, che il condannato B. intende ripartire. «Sono qui, resto qui, non mollo», dice, e dunque boia chi molla.

Gli autobus che hanno portato i manifestanti — molte coppie di anziani, parecchi giovanotti con occhiali scuri a goccia, una grande maggioranza di signore in età che si ripetono commenti sul suo charme — sono parcheggiati sul Lungotevere, a qualche centinaio di metri. Quelli arrivati
dall’Umbria sono alla fermata Anagnina, quelli da Reggio in piazza Venezia dove però purtroppo non possono sostare, sempre per via di “quel cretino” del sindaco, dunque gli autisti stanno in moto girano in tondo. Matteoli e Micchichè raggiungono il retropalco, Franco Carraro è già in prima fila, Anna Maria Bernini e Mara Carfagna arrancano fra i sudati annaffiati da bottigliette d’acqua fornite dal servizio d’ordine. È chiaro che chi è dentro al Palazzo ha maggior rango rispetto a chi è fuori, segnali di dispetto di alcuni esclusi che, platealmente — Carraro fra questi — se ne vanno.

Dal palco, con la maschera del volto atteggiata ad un pianto senza lacrime, Berlusconi deve dire due cose: che il governo vive, questa è la più importante e la prima, la più deludente per quelli che erano arrivati coi cartelli “Basta larghe intese”, “Ora condannateci tutti”. Vive, il governo, perché la libertà dell’ex premier per cui il suo Popolo è venuta a manifestare prevede che ci sia qualcuno che gliela garantisce, e il cinico calcolo dice che solo tenendo in vita questo governo Berlusconi può sperare. Se poi sarà il Pd a volere le elezioni faccia pure, lui per parte sua, sia chiaro, resta. Condannato in ultima istanza, ma resta. Ed è questa la seconda cosa che ha da dire, a proposito della condanna: che lui è innocente. Ovazione, boato. Innocente condannato da giudici comunisti, tristi impiegatucci dello Stato — sventolare di bandiere — che non lo fermeranno, certo che no, perché lui di quel 7 milioni e rotti che doveva allo Stato negli anni in cui di quello stesso Paese era alla guida, mica qualche migliaio di eu-ro di Imu saldati in ravvedimento come la Idem, di quei 7 milioni frodati al fisco ha già ripagato tutto, perciò cosa vogliono da lui.

Si capisce che Enrico Letta sia in apprensione, sì, in specie quando pensa a una campagna elettorale eventuale. E si capisce anche la prudenza di un discorso breve, inconcludente, che lascia perplessa la minoranza di manifestanti venuta da casa senza bus che si aspettava invece — dice la signora Gemma, romana — che “Silvio mandasse tutto a monte, perché Silvio è il numero uno e se si va a votare domani vince lui”. Questo un po’ il rischio, in effetti, visto da altre dimore politiche. In piazza gridano “libero, libero” a un uomo che con ogni evidenza è libero già: di fare della pubblica via il suo teatro e di dire che la Cassazione è comunista e antidemocratica. Tre o quattro ragazzi di passaggio intonano Bella Ciao, vengono aggrediti da una selva di voci che gridano “in Siberia” e cacciati dalla strada. Una donna dice che nessun pregiudicato dovrebbe stare al governo, le lanciano monetine.

Per chi deve tornare a Gallipoli in bus s’è fatta una cert’ora, la sparuta pattuglia in occhiali scuri comincia a defluire. Carfagna era già stata scortata via mezz’ora fa. Le finestre di palazzo Venezia si chiudono, quelle di fronte di casa Berlusconi si accostano. Era questo, solo questo. Un piccolo intermezzo agostano ad uso delle tv, con parecchi figuranti e il protagonista a difendere se stesso, come sempre. Ricordava un po’ le antiche manifestazioni dell’ultimo Msi, pochi ma molto convinti. Letta ha seguito in diretta tv. Napolitano è stato costantemente informato.
Poteva andare peggio, in fondo, dal loro punto di vista. E’ stato breve, ma triste.

(05 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/05/news/quella_maschera_triste_in_scena_a_palazzo_grazioli-64294202/?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO DI' QUALCOSA DI SINISTRA
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2013, 05:25:10 pm

Pubblicato il 03 agosto 2013

DI' QUALCOSA DI SINISTRA

Michela Murgia "Scrivere è fare politica per questo mi candido"

L'autrice oggi ufficializza la sua corsa alla Regione Sardegna "I partiti hanno paura e non ascoltano i veri bisogni della gente"

di CONCITA DE GREGORIO


"Per me scrivere e fare politica sono la stessa cosa. Cominciare a raccontare è stato un gesto violento di reazione. Come fa il topo quando è nell'angolo, ha mai ucciso un topo? Nelle case di paese quando c'è un topo in casa le donne sanno che bisogna stancarlo. Allora cominciano a battere per terra con la scopa, e lui scappa, e loro battono, e lui scappa, e loro battono ancora finché non si stanca. Quando si stanca rallenta, e finisce in un angolo. Proprio un momento prima di essere colpito il topo, vinto, fa una cosa in apparenza insensata, l'unica che può fare: attacca.

Non importa se tu sei cento volte più grande di lui e stai per ucciderlo: lui ti si avventa contro, attacca. Io ero quel topo. La mia storia è quella della mia generazione. Ho lavorato in una centrale termoelettrica e ho fatto il portiere di notte, ho insegnato a scuola e ho venduto aspirapolveri al telefono in un call centre. Ti dicono che è flessibilità, diventi un saltimbanco del precariato. Scadeva un contratto e loro battevano, compromessi, battevano, umiliazioni e ricatti, battevano e battevano. Allora ho fatto l'unica cosa che potevo ancora fare. La scrittura come ribellione, un gesto politico. Se non puoi fare più niente almeno dillo. Poi sono stata fortunata, certo. Ho trovato chi ha letto, ho potuto scrivere ancora".

Michela Murgia ha 41 anni, da sette anni scrive. Da venti cerca un posto nel mondo e un senso a quella frase che ha scritto nella sua biografia: sono una donna di sinistra.
"Dire sono di sinistra ha senso nel mio ordine interiore, in quello esteriore no. Non trovo più il posto che la sinistra si è data, non lo vedo. Scrive una storia senza trama. Ha perso il coraggio, vuole accontentare chiunque. Dovrebbe essere il luogo dei diritti ed è sovente su questo terreno superata a sinistra dalla destra. Dovrebbe portare la bandiera della liberazione: dai poteri, dal controllo. Lo dico semplice, non bisogna avere paura di sembrare ingenui: il controllo del mercato, per esempio, sulle nostre vite. Chi indica un'altra strada, oggi, alla dittatura del mercato? Chi dice che legare il destino delle aziende a quello dei lavoratori è un errore? Perché le aziende falliscono ma le persone no".

È nata e cresciuta a Cabras, in Sardegna. Era nell'Azione cattolica. Dopo il call center ha scritto un libro, Il mondo deve sapere, da cui Paolo Virzì ha tratto un fortunato film. "Arrivavano dalle segreterie dei partiti politici i fax coi nomi delle persone da assumere. Il sindacato era colluso". Con Accabadora, il primo romanzo, ha vinto il Campiello. Poi Ave Mary, un saggio sulle donne e l'educazione cattolica.
"Mi dicevano sei pazza, scrivi un racconto, capitalizza il successo. Ma a me del mio successo personale non m'importa niente. È un principio di necessità, la scrittura. È un modo per occupare uno spazio pubblico e dire cosa c'è che non va. Ora con Loredana Lipperini ho scritto L'ho uccisa perché l'amavo. Questo, per me, è dire qualcosa di sinistra. Non avere paura dell'impopolarità, avere il coraggio di indicare una rotta. Se penso a cosa è stato Berlusconi in questi anni, l'ottimismo fasullo, la realtà finta e rosa. E all'epilogo, ammesso che lo sia: era tutto già scritto, già noto. Che ipocrisia fingere indignazione adesso senza aver reagito prima allo scempio. La destra ha fatto il suo lavoro. Compito della destra è non spostare equilibri, mantenere i poteri in mano a chi li stringe. In questo senso anche il Pd è stato di destra. Forse è stato anche più grave perché non te lo aspetti da lì. In Sardegna la coincidenza di interessi Pd-Pdl è impressionante. Gli stessi orizzonti. Significa che destra e sinistra sono uguali? No. Significa che Pd e Pdl hanno interessi comuni. È evidente dal governo attuale, del resto".

Michela Murgia stasera a Nuoro dirà della sua decisione di candidarsi a governatrice della Regione con una lista indipendente. Rappresenterebbe la terza possibilità davanti a cui le segreterie politiche sono molto in apprensione.
"Ho ascoltato e girato molto e ho cercato soprattutto di capire i bisogni veri delle persone. Mi dicono che i partiti hanno paura e lo vedo dalle loro scelte. Il consiglio regionale sardo ha votato lo sbarramento al 10 per cento. Pd e Pdl dentro e fuori tutti gli altri. Nella stessa legge è stavotata col 94 per cento di voti la doppia preferenza uomo donna. A voto segreto, 94 per cento: tutti. Perché hanno paura, lo sanno che le donne  -  certe donne  -  sono il cambiamento. Penso a Paola Natalicchio sindaco di Molfetta a 34 anni, nonostante i partiti. Quando vinci è così: nonostante i partiti, devi farli dimenticare. In Sardegna il Pd ha preferito perdere con Cappellacci che vincere con Soru. C'è una mediocrità delle classi dirigenti alla quale ci siamo arresi e che grida vendetta, invece".

Bisognerebbe raccontarla, dice. Lo storytelling politico è un genere letterario.
"Lo è. Il Pd ha smesso di scrivere la sua storia da tempo. Ricordo quando Bersani disse agli industriali veneti: la Lega vi ha promesso il federalismo fiscale ma non ve lo ha dato, lo faremo noi. Ricordo quando Rutelli, per reagire alla campagna sulla sicurezza imbastita da Alemanno, fece i manifesti che dicevano "Né quartieri alti né quartieri bassi solo quartieri sicuri". "E mo' te svegli", gli ci scrissero sopra. Questo ha fatto la sinistra, usare le storie degli altri. Il problema è che non si fidano delle persone. Non si fidano, hanno paura. Il consenso si costruisce sulla consapevolezza degli individui, e nelle persone ci devi credere. C'è una formazione di popolo da fare, la devi fare. Una pedagogia di popolo. Non puoi delegarla alla tv, che è di Berlusconi: è una resa totale. Ad Arborea, da noi, c'è un comitato di cittadini compatto e motivato contro la trivellazione della piana che i Moratti vorrebbero fare per cercare il gas. La Saras, un'azienda privata. Il Pd regionale cosa fa? Ascolta le popolazioni, indica un'idea di mondo e di futuro? No, sta con gli interessi dei privati. Dice trivelliamo la piana. Ha paura di perdere l'appoggio economico che lo tiene al potere ".

Poi certe volte la vita cambia in un minuto, e allora capisci che non c'è tempo da perdere.
"La mia vita è cambiata, sì, per ragioni molto personali. Ne ho una nuova davanti e non voglio sprecarla. Per un certo periodo ho pensato che scrivere romanzi fosse inutile. Non posso perdere tempo con la finzione mentre intorno tutto crolla, pensavo. Però Gomorra ha ridato nerbo alla figura dello scrittore che parla della realtà usando la sapienza narrativa. D'altra parte penso anche che Kafka, col Processo, ha cambiato il mondo più di quanto possa fare Bauman. Abbiamo permesso che la parola intellettuale diventasse un insulto, è vero. Abbiamo lasciato crescere una generazione di intellettuali che non stanno nella realtà. Però raccontare per me resta l'unico modo di dire quel che non puoi spiegare. Bisogna accettare di essere transitori. Di essere utili per il presente. Senza l'ambizione narcisistica di dire ma io, fra cento anni, sarò ricordato. A me basterebbe che fra cento anni dicessero c'era da assumersi una responsabilità e l'ha fatto. Sì, Pasolini ha saputo fare le due cose insieme ma non siamo tutti Pasolini".

E poi c'è il tema dell'eredità da portare. Il più importante di tutti.
"In Sardegna la nostra tradizione è di racconto orale. Da secoli abbiamo affidato ai narratori e ai poeti il compito di portare la voce della gente. Chi scrive ha un mandato anche politico, io mi sento in quel posto. Qui nell'isola non mi chiedono mai quando scrivi un altro libro, mi chiedono perché non parli di questo? Mi dicono tu che hai voce per farti ascoltare, dillo. In Italia se ho lavorato bene mi dicono brava, in Sardegna mi dicono grazie. I popoli devono riconoscere i loro narratori, noi abitiamo le loro storie. Ora che la politica non ha più una trama la gente va ai festival letterari a chiedere risposte. Ma il compito degli scrittori non è dare risposte, è tenere aperto lo spazio delle domande. Ecco, alla fine è questo. C'è un'eredità di responsabilità da raccogliere. Una eredità di responsabilità. Fare un gesto di sinistra è prendersela in carico e portarla. L'Italia si salverà da sola, nonostante la politica. A dispetto della politica. Lo sta già facendo".

da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/societa/2013/08/03/news/michela_murgia_scrivere_fare_politica_per_questo_mi_candido-64211525/


Titolo: Concita DE GREGORIO Il cinismo a cinque stelle
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:23:18 pm
Il cinismo a cinque stelle

di CONCITA DE GREGORIO

È LA LEGGE del mare. È la legge di Dio. È la legge degli uomini da prima che ogni legge sia mai stata scritta. Salvare un uomo in mare. Non c'è nemmeno da spiegarlo, mancano le parole. Provate solo ad immaginare che succeda a voi.
Siete in barca, vedete qualcuno che sta annegando e che vi chiede aiuto. Un ragazzo, una donna che annega a pochi metri da voi. Sareste capaci di lasciarlo morire sotto i vostri occhi? Gli chiedereste  -  di qualunque religione, partito politico, di qualunque razza voi siate  -  da dove viene e a fare che cosa o gli gettereste prima un salvagente? Vi buttereste voi stessi, quasi certamente. Non è una regola, è istinto. È ineludibile afflato di umanità. È quel che distingue gli essere umani dalle bestie, e non sempre ché spesso la lezione arriva dagli animali. Ecco. Si fa moltissima fatica a dare un giudizio politico della censura di Beppe Grillo e dell'ideologo Casaleggio ai parlamentari cinque stelle che al Senato hanno proposto e poi votato un emendamento che dice questo: chi trova una persona in mezzo al mare può soccorrerla senza rischiare di commettere reato.
"Non li lasceremo più morire. Più sicurezza e umanità", hanno scritto Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi, i senatori cinque stelle poi sconfessati con durezza dal Capo. Si fa fatica a dare un giudizio politico su chi pensa ai suoi elettori  -  al suo consenso attuale ed eventuale  -  prima che ai morti. "Se avessimo proposto di abolire il reato di clandestinità avremmo ottenuto dei risultati elettorali da prefisso telefonico ", si legge nella risoluzione pomeridiana del blog sovrano, la voce del Padrone. Non ci sarebbe convenuto, non ci conviene.
Quindi ora scusate se ai cinici sembrerà demagogia ma provate a pensare ai trecento morti in fondo al mare di Lampedusa, al morto "numero 11, maschio, forse anni 3", che se fosse stato vivo sarebbe stato clandestino anche lui, e perseguibile chi avesse salvato quel bambino di tre anni dal mare. Provate a dire se vi sembra degna di un essere umano una legge che sanziona chi soccorre un bimbo in mare, chiunque quel bambino sia perché questo e solo questo è: un bambino. Provate adesso a dare un giudizio politico a due leader politici che pretendono di rinnovare la politica e il Paese e intanto dicono questo: soccorrere uomini e donne in mare "è un invito ai clandestini di Africa e Medio Oriente ad imbarcarsi, ma qui un italiano su otto non ha i soldi per mangiare ". Quindi non vengano, o se vengono affoghino. Servirà da lezione agli altri.
La Lega ha applaudito Grillo con osceno entusiasmo. Il Pdl, in una sua buona parte, si è accodato. L'emendamento è passato coi voti di altri Pdl, di Scelta civica di Sel e del Pd, oltre che dei quattro senatori cinque stelle in commissione. Niente affatto pentiti, questi ultimi. Immediata assemblea del gruppo, questa volta stranamente non in streaming. Giornalisti e militanti fuori dai piedi. Il tema immigrati non era nel programma, è l'argomento del fedelissimi al capo: gli eletti devono attenersi al mandato e non prendere iniziative personali. Ma, domandiamoci, ci sarà una ragione se non c'era una parola, neanche una, sul tema dell'immigrazione e delle leggi sui clandestini nel programma di Grillo, molto netto invece nel proporre  -  per esempio -  un referendum sull'uscita dall'euro.
Poco a poco si delinea un profilo politico che pure era chiaro, ma che ha confuso una buona parte dell'elettorato di sinistra attratto dai temi sacrosanti del rinnovamento e dello strapotere corrotto della casta. Questa roba con un'Italia migliore non c'entra. È un calcolo, una strategia di marketing elettorale di ambigua origine e di sempre più nitido approdo. Ma di nuovo: dare un giudizio politico, in un caso come questo, è troppo onore. "Non li lasceremo più morire", non è una posizione politica, è la declinazione di un essere umano. Chi preferisce che anneghino faccia i conti con se stesso e certo poi, se crede, anche col suo elettorato.
(11 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/11/news/il_cinismo_a_cinque_stelle-68347261/?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO - Hanno ucciso il mestiere più bello
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2014, 06:22:03 pm
Hanno ucciso il mestiere più bello

di CONCITA DE GREGORIO

C’è stato un tempo, incredibilmente recente, in cui si diceva che fare il sindaco fosse il mestiere più bello del mondo, ed era vero. E' successo così pochi anni fa che se ci sforziamo ce lo ricordiamo ancora. Nelle piccole città, per esempio, nei paesi: nei luoghi dove eravamo nati e dove certe domeniche tornavamo. C’era qualcuno che era stato a scuola con noi, in un’altra sezione di un altro anno, o che era stato vent’anni fa fidanzato/a con qualcun altro che conoscevamo bene, o che era il figlio dell’Amelia la collega di nostra madre, ti ricordi l’Amelia?, e questo qualcuno adesso era il sindaco. Lo si incontrava per strada la mattina, buongiorno sindaco, si sorrideva con allegra ironia come a dire “sindaco, chi l’avrebbe detto…”, e lei o lui sempre, sempre passava mezz’ora a rispondere non puoi capire la bellezza di questo mestiere, il contatto con la realtà, la prossimità con le persone, la soddisfazione di essere utile, la certezza di poter davvero cambiare le cose, guarda la politica alla fine non c’entra, è un’altra storia questa, se ti ci metti davvero puoi fare, cambiare i destini. Fare bene, il bene. In buona fede, provando e magari sbagliando, ma fare.

Qualcuno se lo ricorda? Io sì. Mi ricordo anche che era vero. Che un sindaco, il sindaco di una piccola o media o persino grande città, poteva davvero rovesciare il guanto e cambiare la storia. Potrei fare esempi, nomi. Quello che assegnò le case popolari. Quello che salvò la fabbrica dalla chiusura. Quello che fece il parco. Quello che si inventò il lungomare che non c’era. Quello che si gemellò con Chernobyl. Quella che riscattò le terre alla mafia. Ma sono storie di ieri, l’altro ieri. Qui parliamo di adesso. Adesso, oggi, in un lasso di tempo infinitesimale, fare il sindaco è diventata una condanna. Una sciagura. Sono passati gli anni, siamo cresciuti e poi invecchiati: non sono più i figli degli amici, ora. Sono gli amici. Sono loro ad aver affrontato campagne elettorali a dispetto dei partiti e averle vinte. Sono gente della nostra generazione, della nostra età che chiama e dice: è un inferno. Hanno scommesso tutto, hanno sgominato la diffidenza e il disincanto, hanno vinto. Bene, no? Malissimo, invece.

Vi racconto un segreto. Ho un’amica cara, carissima, che quando le hanno chiesto – come a molti di noi nei paesi è successo – ti candidi? Ha detto sì, va bene provo. Ma guarda che c’è il ras della camorra (o delle tessere, degli affari, della massoneria, fate voi) ha detto va bene, provo. Ha vinto a dispetto di ogni previsione, perché la capacità delle persone di sperare ancora è illimitata e per meraviglia irragionevole. E' stata felice, ha fatto una grande festa, si è messa al lavoro. Due mesi dopo le hanno messo sotto sequestro i mutui bancari. Un importante leader politico da Roma l’ha chiamata per consigliarle di cercare un accordo con i mafiosi. Non l’ha fatto. Hanno minacciato suo figlio, a scuola: lo hanno isolato e deriso. Non l’ha fatto comunque. Hanno licenziato suo marito con l’occasione degli esuberi. Ha resistito ancora. Hanno fatto chiudere il negozio di suo padre triplicando l’affitto dei locali. Pazienza. Poi l’hanno messa nelle condizioni di non poter spendere un euro, perché per avere libertà di investire in nuovi progetti devi avere una disponibilità economica e se non hai il credito da Roma – dunque se non hai i favori di quel leader che ti consigliava come fare con la mafia – la spending review ti impedisce di fare la mensa all’asilo. Di conseguenza: rivolta dei genitori. Ti impedisce di sbloccare un pignoramento. Di conseguenza: rivolta degli abitanti del quartiere. Non puoi assumere chi merita. Di conseguenza: rivolta dei precari. Non puoi mettere a norma gli alloggi. Di conseguenza: rivolta di popolo. A sei mesi dalle elezioni, vinte a maggioranza assoluta, le hanno recapitato – i concittadini che, chissà, l’avevano votata – una busta piena di sterco. Le lettere anonime di minaccia arrivano ogni giorno a casa. Chiede: cosa rispondo, come reagisco. E' una trappola: ci mettono a fare qualcosa che poi ci impediscono di fare. E' un orribile inganno. E' vero, è così.

E' questa l’origine ultima del disincanto verso la politica. Chiunque vada al governo, oggi, deve ricominciare da qui: i sindaci sono il primo bersaglio, il più prossimo, dei cittadini. Fare il sindaco non è solo un trampolino di lancio per la politica grande, non per tutti. Fare il sindaco è stare alla pari fra pari. Se non date loro i mezzi, voi che avete le mani sul quadro di comando, se vi approfittate della loro credibilità per avere voti e poi chiudete l’ossigeno state uccidendo la fiducia – l’ultima – nella politica. E' questo che state facendo? E poi cosa? Attenti, scherzate con l’ultimo fuoco.

Da - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/03/04/news/vita_da_sindaci_chiusi_in_trincea-80163087/index.html?ref=HREC1-16#Hanno-%20ucciso-il-mestiere-pi%C3%B9-bello


Titolo: Concita DE GREGORIO La finzione della parità
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2014, 09:05:45 am
La finzione della parità
di CONCITA DE GREGORIO
   
Sarà interessante vedere il governo Renzi passare dalle parole ai fatti, ora che tutti sono a bordo. Ora che, pazienza per l'overbooking, si è trovato un posticino per tutti - incerti, ex nemici, ultimi arrivati e pecorelle smarrite nella stiva. A decollo avvenuto il primo nodo al pettine, chi l'avrebbe detto, riguarda le donne.

Sempre lì s'inceppa il meccanismo della propaganda. Una piccola cosa: che volete che sia al cospetto della soglia di sbarramento, del modello strutturale di riferimento, del ruolo del Senato e dei vincoli costituzionali, per esempio. Eppure, ogni volta daccapo, è lì che alzano le mani i professionisti di meccanica elettorale: quando davvero, ma davvero, bisogna garantire che uomini e donne abbiano la stessa possibilità sostanziale di essere eletti. Sostanziale oltreché formale.

Dunque succede che, di fronte ad un emendamento sulla parità di genere firmato da parlamentari di molti gruppi e partiti politici, il relatore esprima parere negativo, il governo taccia un momento di troppo e l'agognata riforma, il cosiddetto Italicum, interrompa la sua marcia trionfale e vada in stallo per mezza giornata. Allarme nel pannello di comando, pericolo di caduta, i calcoli di aula fanno temere il peggio, meglio riprendere quota e aspettare. Il voto slitta a lunedì.

Combinazione vuole, è proprio un caso ma si sa che il caso è un mistero trasparente e luminoso, che la tre giorni di sosta attraversi l'8 marzo. Una festa, la Festa della Donna, che molti - persino molte donne - hanno ormai in uggia, la giudicano più o meno sottovoce stantia e retorica: a cosa serve un giorno all'anno, la vita è tutti i giorni, il merito prescinde dal sesso eccetera. Benissimo, ammettiamo che. Andiamo a vedere però le ragioni reali per cui una richiesta semplice e sensata come quella della parità fra uomini e donne nelle liste elettorali (cinquanta per cento di capolista, alternanza uno a uno e non a blocchi perché è chiaro, e noto per esperienza, e reso manifesto dal buon senso che se in una circoscrizione elettorale un partito ha la forza di eleggere due parlamentari mettere una donna al terzo posto è un esercizio di stile, salvo sorprese) dunque vediamo perché no. La voce del Transatlantico è molto chiara, tutti sanno perché: perché chi fa le liste - i Denis Verdini, gli uomini neppure tanto ombra dei partiti - vogliono avere le mani libere. Vogliono essere loro a decidere, ancora una volta, chi sarà eletto e chi no. Certo, con un margine di rischio perché l'elettorato può essere imprevedibile. Ma con un margine minimo, diciamo. Vogliono garantire chi deve essere garantito: i fedeli, i devoti, quelli che poi saranno grati e obbedienti. Anche le donne possono essere fedeli e non leali, certamente. Tutto attorno abbiamo fior di esempi. A maggior ragione quindi - anche nell'antica ottica della concessione dall'alto - non dovrebbero esserci problemi. Invece ci sono.

È una vecchia storia. Renzi ha fatto un governo 50 e 50 (ci sarebbero anche i sottosegretari, ma quelli sono meno vistosi dunque si contano meno) e ha abolito il ministero delle Pari Opportunità, che per un momento alla vigilia aveva pensato per Ivan Scalfarotto, gay e paladino dei diritti delle minoranze. Poi Giovanardi in pubblico e Alfano in privato hanno avuto da ridire. È pur sempre un governo di larghe intese, questo, per quanto - rispetto al precedente - di più aggressive e meno miti pretese. Perciò il gruppo di parlamentari Pd, Ndc, Sel, Scelta civica e vari altri minori - le firmatarie dell'emendamento che ha provocato lo stallo, non sono fra loro Forza Italia e Cinque Stelle - non possono contare sul sostegno istituzionale di un ministro. Ci fosse stata, per dire, Iosefa Idem, la volta scorsa si sarebbero rivolte a lei. Ma la volta scorsa la legge elettorale non era all'ordine del giorno. La palla non si trova mai col piede. Ora che tutto marcia, manca il referente. Laura Boldrini, presidente della Camera, ha ricevuto le deputate (video) facendo presente che ben due articoli della Costituzione, il 3 (uguaglianza) e il 51 (pari opportunità) sono dalla loro. I senatori del Pd hanno sottoscritto un appello. Sel chiede il voto palese, non si vede perché sull'uguaglianza di genere ci debba essere libertà di coscienza da tutelare. Eppure non basta. è il governo che deve parlare. È Renzi che deve mettere dentro i fatti l'abilità che manifesta a parole.

Si dice spesso che la vera parità sarà raggiunta quando ci saranno nei posti di comando tante donne incapaci quanti uomini inetti solitamente ci sono. È una ben triste battuta. È purtroppo già spesso vero che anche gli uomini ricoprono incarichi di prestigio in quanto "uomini di" - di corrente, di riferimento, di un leader - quanto accada alle donne che di rado, anche a questo giro di governo, possono essere identificate non solo in base ai loro meriti ma per essere piuttosto "donne di". Indicate da. Volute da. In confidenza con. Negli stessi giorni in cui si discute la legge elettorale si chiude a Roma un magnifico incontro di Women in diplomacy, convegno di giovani diplomatiche del Mediterraneo voluto da Emma Bonino, ottimo ministro degli Esteri non sponsorizzato da alcuna frazione di corrente per la conferma. Nei medesimi giorni in cui si osserva la pausa di riflessione, 8 marzo compreso, la Lego manda in produzione tre figurine che rappresentano una chimica, un'astrofisica e una paleontologa. Le affianca alle tradizionali signora col gattino, alla cuoca e alla giardiniera col grembiule. Anche in questo caso c'è voluta una potente raccolta di firme, in azienda non gli era venuto in mente. Strano. Perché le scienziate (anche quelle italiane, buongiorno Fabiola Gianotti) sono parecchie, cucinano anche e a volte hanno un gatto. Magari a Renzi questa cosa della Lego interessa. Magari, domani sabato 8, pensando al pupazzetto dell'astrofisica (ne ha avuta una eccelsa Firenze, un saluto Margherita Hack) butta un occhio all'emendamento sulla parità. Aspettando Godot, lunedì.

© Riproduzione riservata 07 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/07/news/de_gregorio_8_marzo-80403020/?ref=HREC1-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Brasile 2014. "Ho costruito lo stadio, ma non vedrò la gara.
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2014, 10:38:51 pm
Brasile 2014. "Ho costruito lo stadio, ma non vedrò la gara. Mi sono venduto i biglietti"
Reportage. Ney, 32 anni, ha lavorato tre anni al cantiere dell'Arena das Dunas, dove domani gioca l'Italia.   
"I soldi li metto da parte per comprare la lavatrice a mia moglie, che fa la cameriera nel resort dei turisti ricchi".
"Voi del primo mondo non state andando bene: l'Europa è stanca?"


Di CONCITA DE GREGORIO
23 giugno 2014
   
NATALE - Venga, l'accompagno. Ney Da Silva, 32 anni, nome completo Wildgledney Geherlykley Da Silva, dice che conosce una scorciatoia per andare allo stadio. "Se passiamo dalla strada ci mettiamo tre ore. Dalle dune in 45 minuti si arriva. L'ho fatta tutti i giorni per due anni. Posso dire che l'ho costruito io, lo stadio. Anche io, diciamo meglio", ride. Trenta chilometri ogni mattina alle quattro, quando i turisti dei resort sulle spiagge più belle del mondo vanno a dormire.

Gruista, Ney è uno dei due milioni di operai brasiliani che hanno lavorato agli stadi del mondiale. Questo, il suo, si chiama "Arena Das Dunas" e per la verità non è proprio finito. È un coleottero bianco al centro di una rete di cavalcavia e di case diroccate, di strade di terra, baracche appoggiate a grattacieli, transenne voragini e tangenziali sopraelevate al centro di Natal. Una metropoli e un campo nomadi, insieme. Nella stessa foto, grandhotel e capanne di stracci. Lo stadio è pronto, ma per arrivarci bisogna guadare rigagnoli di liquami, camminare un passo avanti all'altro su tavole di legno marcio, sperare. Ruspe, montagne di terra sabbiosa, non una luce che illumini il buio attorno, la sera. "Abbiamo dovuto correre, ma l'importante è che dentro sia finito, no? Tanto dopo il Mondiale chi vuole che ci vada in uno stadio da 40mila posti? Qui da noi quando a una partita vanno in tanti sono 900. Con calma, poi lo finiamo. Prima ci sarà da ricostruire il bairro di Mae Luiza che è venuto giù la settimana scorsa con l'ultima alluvione. Ma insomma ci penserà la governatrice che questo è lavoro suo. Allora, andiamo?".

La governatrice dello stato di Rio Grande do Norte, Rosalba Ciarlini, italiano il nonno Pietro Ciarlini fondatore della prima squadra di calcio della regione, è un medico. Eletta nel Partito democratico, ce n'è uno anche qui, è andata personalmente all'aeroporto a ricevere Balotelli di cui è tifosa con vigore: purtroppo i giornali hanno colto l'occasione per pubblicare la foto del suo fulgido sorriso alla vista del campione accanto a quella della frana di 70 metri cubi, appunto, che ha travolto un quartiere intero della città costruita sulla sabbia, molti feriti, centinaia di famiglie senza tetto. Andiamo.

Ney sale in macchina, una vecchia Ford il cui cofano è foderato dalla bandiera brasiliana. Linda, vero? Muito linda. Però il tifo ha tardato tanto a decollare. Molte proteste alla vigilia. Ora però i sondaggi dicono che a una settimana dal fischio d'inizio il consenso dei brasiliani per il Mondiale è salito di dodici punti, dal 54 al 66 per cento, e la contestazione è scesa di altrettanto, dal 39 al 27. Aveva ragione Dilma a dire che i pessimisti sono già sconfitti. "Non so dei sondaggi, so che alla fine bisogna stare con la Selecao e basta. Quelli che protestano hanno ragione, si guardi intorno: qui non c'è niente. Ma Dilma fa il suo meglio, ha fatto tanto. E poi se ci tolgono anche l'allegria della torcida cosa ci resta?". Non c'è niente. Dune, spettacolari dune patrimonio dell'umanità, montagne di sabbia alte come palazzi che i tour operator propongono ai turisti di attraversare in cammello, animale non esattamente indigeno. Il recinto dei cammelli eccolo, compare come un'allucinazione nel deserto. "Io non ci sono mai salito, costa troppo. Però a mio figlio Samuel che ha 3 anni ho promesso che una volta lo porto. Ci vuole lo stipendio di un mese, ma lo porto". Nel cantiere "Consorzio Arena das Dunas" Ney ha lavorato otto ore al giorno, straordinari frequenti e forfettizzati, per 900 real al mese, circa 300 euro. Lo stadio è costato 450 milioni di real. Dei 900 mensili che vanno a Ney per pagare l'affitto della casa dove vive con la madre due fratelli la moglie e due figli ne spende 500. 400 real, 130 euro, restano per vivere. "Così quando sono venuti Bebeto, Ronaldo, la governadora e tutte le autorità al cantiere, qualche mese fa, a dire che ci avrebbero regalato due biglietti per andare allo stadio, a noi operai, ho pensato subito: li vendo. Poi alla fine ce ne hanno dato uno solo, non so perché. A me è toccato quello di Stati Uniti-Ghana. L'ho venduto per 250 real e li ho dati a mia moglie Mariana, sennò mi scappano di mano e spariscono. Lei mette via i soldi per comprare una lavatrice, lavora tutto il giorno e non ce la fa a lavare i panni di tutti. È cameriera a chiamata nel resort più grande di Praia de Ponta Negra, lavora a giornate, 30 real al giorno". 10 euro. Il resort dove lavora Mariana è quello a cui il quotidiano O Globo dedica oggi un'inchiesta. Le stanze costano fino a 20mila reais, il kit offerto sottobanco ai clienti "sexo droga e forrò" ne costa 30. Sempre dieci euro, alla ragazza che fornisce i tre generi di conforto menzionati: il forrò è una danza tipica del Nordeste. "Che peccato è, bella Maria, farsi un po' di compagnia", canta Vinicius dagli altoparlanti.

Ney dice che non si lamenta perché un lavoro ce l'ha, per arrotondare fa il barbiere a casa, ha due figli sani. Dice che è una buona cosa che il governo abbia pensato di regalare i biglietti delle partite agli operai, mica tutti ci pensano. Però poi certo, la lavatrice è più importante della partita che tanto quella si vede in tv. Siamo quasi arrivati quando indica all'orizzonte un edificio basso, orizzontale, lontano. "Quello è il posto degli scienziati. Qualcosa di buono per il mondo arriva anche da Natal, non abbiamo mica solo le dune". Il posto degli scienziati è il centro di neuroscienze fondato da Miguel Nicolélis, gloria nazionale, da 20 anni direttore del centro della Duke University negli Usa. Nicolélis è nato qui e ci lavora. Dal suo progetto "Camminare ancora" è nato l'esoscheletro che muoveva l'uomo paralizzato che ha dato il calcio d'inizio al Mondiale, sorretto da un robot che traduce in gesti le intenzioni.

"La tv ha detto che lo hanno fatto coi cervelli delle scimmie". Più o meno, infatti. Lavorando con le scimmie, quelle che qui la notte se non chiudi bene le finestre vengono a rubare dentro casa. Siamo arrivati, ecco il coleottero bianco. Ney racconta per filo e per segno come lo ha montato, spiega che per grazia di Dio in questo stadio non è morto nessuno, solo un suo compagno, Lucas, è caduto dalla gru e ancora non può camminare ma c'è quel robot, qui lo sanno tutti, e poi speriamo che non gli serva neanche quello. Dice scusi un momento, tira fuori dal borsone una maglia dell'Italia, si cambia e la indossa. Ha il numero 9. Balotelli? "No, è quella del 2006, è Toni. Noi tifiamo tutti Italia, qui, perché è vero che l'Uruguay è fratello ma ci ha già fatto male una volta e ora basta". Quella volta, certo. "Però sa cosa penso? Che voi del primo mondo non state giocando bene. È un po' stanca forse l'Europa? Il terzo mondo ha sempre fame, allora escono il coraggio, la forza, la ilusao". La speranza, che non è sempre sinonimo di illusione. Primo mondo contro terzo mondo, dice Ney, gruista a Natal. È un po' stanca forse l'Europa, non ha più fame? Beviamo un'acqua di cocco, che fa caldo. Grazie della gita, Ney. Ma no, grazie a voi che siete venuti. Tornate, e buona fortuna.

© Riproduzione riservata 23 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/mondiali/brasile2014/2014/06/23/news/operaio_arena_das_dunas-89755238/


Titolo: CONCITA DE GREGORIO Il Ragazzo e la Ditta, due partiti in uno.
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:44:31 pm
Il Ragazzo e la Ditta, due partiti in uno. Il futuro dei democratici alle prove d’autunno
Renzi scardina la tradizione, Bersani e D’Alema resistono. Ma i “figli” dei vecchi big sono attratti dal leader. Civati e la scissione: “Tanti la chiedono”

Di CONCITA DE GREGORIO
05 ottobre 2014
   
LA DITTA, il Ragazzo. La luna di miele era per i fotografi, in verità una tregua armata. Estranei erano ed estranei sono rimasti. Al Partito (quello novecentesco, quello delle tessere che non ci sono più) il Ragazzo non è mai piaciuto: un'altra tradizione politica, tutta quella spregiudicatezza, occhiolino alle telecamere e nessuna gratitudine verso i padri. Alle Frattocchie lo avrebbero messo a rilegare atti del congresso, così si calma. Ma il Ragazzo le Frattocchie sa a malapena cosa siano, e poi quello era il Pci. A Renzi, d'altra parte, la Ditta è servita soprattutto come mezzo di trasporto: capolinea Palazzo Chigi. Come legittimazione, anche: vuoi mettere l'aura che ti dà essere alla guida del primo partito del centrosinistra europeo in confronto, mettiamo, a una lista civica. Difatti pazienza se non si iscrive più nessuno, "contano gli elettori", ha ripetuto venerdì. Pazienza se nemmeno in Emilia vanno più a votare alle primarie, "nessuno ha interferito", se la Ditta è in liquidazione perché "un partito senza iscritti non è più un partito", parola di Bersani. Renzi: "Io parlo agli italiani, non ai dirigenti del Pd. Ogni volta che D'Alema apre bocca mi regala un punto". Ecco, questo.

Dall'ultima direzione Pd è cambiato il mondo: ora è finalmente chiaro a tutti. Esistono due partiti dentro il Pd, anzi tre. Il partito di Renzi, la vecchia Ditta, la sinistra di Civati. Guardate i video su Youtube. Osservate come si muovono, ascoltate cosa dicono. La velocità, la quantità di parole per minuto. Lo schema di gioco: i vecchi in difesa, il Ragazzo all'attacco. I verbi al passato, i verbi al futuro. Bersani, D'Alema, i dirigenti venuti dal Pci hanno patito, irriso, combattuto Matteo Renzi  -  un boy scout scaltro e ambizioso, un democristiano 2.0 fissato con Twitter, ridevano  -  fino a che non ha vinto: le primarie prima, le europee dopo con un risultato da lasciare tutti muti. Il 40, e zitti. In mezzo la partita del Quirinale, che senza i 101 e rotti "traditori" avrebbe potuto davvero cambiare le sorti del Paese, ma non è accaduto e ancora resta da spiegare come, perché, per mano di chi. Ora preparano la fronda. D'Alema riunisce i suoi parlamentari a cena, Bersani parla con Pippo Civati il quale a sua volta parla con Vendola. Ieri erano insieme in manifestazione in piazza Santi Apostoli: Vendola, Civati, Landini. Un'altra sinistra possibile, ancora una. La scissione è il tema del momento. Subito? A dicembre? Non appena mancheranno i voti al Senato, magari per la legge di Stabilità?

Ora: a chi vive nel mondo reale è piuttosto chiaro che quel che accade dentro il Pd interessa ormai solo a chi lo abita. Agita curve sempre più esigue. Interessa pochissimo anche Renzi, infastidito dalle diatribe delle minoranze interne almeno quanto Berlusconi lo era dal dibattito parlamentare. Una zavorra: "Se decidono di uscire fanno il 5, e andiamo più veloce", ha detto l'altro giorno a uno dei suoi tre uomini di fiducia  -  di tre persone sole si fida davvero. Fanno il 5, dice di Civati e del possibile "nuovo soggetto politico" che si è affacciato ieri dal palco di Sel.

"E' troppo presto, ora, per rompere", dice rientrando verso casa Felice Casson, senatore civatiano e possibile candidato sindaco per Venezia. "Con l'articolo 18 in aula si andrà per le lunghe. Lo stesso governo non ha chiesto, in conferenza di capigruppo, di contingentare i tempi del dibattito: segno che il governo per primo non ha fretta". Il governo non ha fretta di arrivare al voto finale. Civati ragiona sui tempi: "Mi chiedono di uscire dal Pd per strada, in treno, al bar mentre prendo un caffè". Ma è presto, ripete. "Non prima di dicembre di sicuro, deve passare dicembre".

Dicembre è il mese chiave. Perché se il riposizionamento dei Giovani turchi e le strategie di Area democratica (se Roberto Speranza in Direzione si astiene, se Andrea Orlando vota a favore e D'Attorre contro) sono ghiottonerie solo per i feticisti della materia è anche evidente che si tratta di segnali che annunciano una partita più grande. Fuori dal Pd c'è il campo esteso del centrosinistra, il destino del governo e delle istituzioni supreme, presidenza della Repubblica in testa. Civati guarda allo spazio politico di Sel, vampirizzata alle europee dalla lista Tsipras. Lavora intanto al fianco dei 'movimentì storicamente diffidenti verso la Ditta, diffidenza ampiamente ricambiata, e cerca sponda nel sindacato pronto a scendere in piazza il 25 ottobre. Un'area che va da Landini a Rodotà, Zagrebelsky, Libertà e Giustizia, Sel, i verdi rimasti. "Più o meno un dieci per cento dell'elettorato", stima Civati raddoppiando la valutazione di Renzi. Quanti siano nel Paese si vedrà al momento del voto: intanto è interessante sapere quanti sono al Senato, e se per caso la loro defezione al momento di votare le riforme possa portare, appunto, al voto anticipato e quel che ne consegue.

Ecco il nodo di dicembre. I sondaggi danno il Pd in lieve crescita rispetto al 40 e la fiducia in Renzi in ascesa. Al Presidente del Consiglio  -  che non è passato da un voto politico ma ha avuto una legittimazione per così dire postuma, con le europee  -  converrebbe andare a votare al più presto, lo sa e lo dice. Per liberarsi dalla zavorra del dissenso interno e ricalibrare le forze rispetto a Forza Italia e a Berlusconi, in declino  -  quest'ultimo  -  personale e di consensi. C'è tuttavia il vincolo del patto del Nazareno che prevede, tra l'altro, un accordo per l'elezione del prossimo Presidente da farsi con questo Parlamento. Giorgio Napolitano ha fin dalla rielezione immaginato di dimettersi per i suoi 90 anni, a giugno. Renzi vorrebbe "che fosse lui ad inaugurare l'Expo 2015". Ma neppure il presidente del Consiglio sa con certezza se a maggio ci sarà questo o un altro Parlamento. Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme, renziano: "Ai dissidenti non conviene andare a votare, parecchi metterebbero a rischio la propria rielezione. E' piuttosto triste, inoltre, assistere ad un'alleanza fra D'Alema e Civati in chiave anti-renziana. D'Alema e Bersani incarnano una sinistra conservatrice: operaista fuori tempo massimo, tutta schiacciata a garantire un mondo in estinzione, il loro mondo. Non li abbiamo mai visti in piazza a difendere le finte partite Iva dei giovani senza garanzie, né dei precari. Hanno governato, non hanno fatto quel che potevano e dovevano.

Civati, mi duole dirlo, finisce per ingrossare le fila di quella sinistra minoritaria e identitaria, quella che sta sempre e solo all'opposizione felice di occupare una riserva indiana in cui tutti sono puri e sono amici, si conoscono. La polemica lessicale dell'altro giorno in direzione  -  se gli imprenditori siano 'padronì o 'datori di lavorò  -  sembrava una riedizione dello scontro fra Occhetto e Berlusconi". Padroni che sfruttano i lavoratori, diceva Fassina. Datori di lavoro che partecipano al destino dei loro dipendenti, insisteva al contrario Renato Soru. Pippo Civati: "Partirei da Soru, che ha avuto problemi col fisco e siede al Parlamento europeo mentre i lavoratori dell'Unità di cui era editore sono in cassa integrazione: fossi in lui parlerei d'altro, non di rapporti societari e aziendali.


Quanto al rischio scissione: certo che esiste. Oggi è il lavoro, domani sarà la legge di stabilità: che cosa facciamo, continuiamo a votare contro, restiamo dentro in dissenso dalle scelte fondamentali? Non mi pare possibile".

Sull'altro fronte, quello della Ditta, due sono i livelli di frattura con Renzi. Quello evidente della vecchia guardia, D'Alema e Bersani ostili. Poi quello generazionale e "ministeriale": i giovani ex dalemiani, figli di quegli anziani padri, oggi al governo del paese e del partito  -  ministri, capigruppo, presidenti  -  che proiettano su Renzi la loro personale traiettoria politica. Orfini, Orlando, Speranza, Martina. Il Ragazzo e la sua capacità di vincere trascinano nell'orbita renziana i più giovani della Ditta.

Queste le divisioni cellulari interne al Pd. Più seria e più grave, tuttavia, è l'unica divisione di cui Renzi dovrebbe aver timore: il solco che si è creato fra il vertice del partito che dirige e la sua base, quel che ne resta nell'emorragia di iscritti. Esiste il mondo della direzione del Pd, esiste il mondo di Twitter e Facebook, poi esiste il mondo fuori. C'è un'Emilia in cui vanno a votare alle primarie solo i politici di professione, una Puglia che fa accordi con il centrodestra incomprensibili ai militanti. Una Toscana che ha lasciato Livorno ai Cinquestelle, c'è Venezia commissariata, il sindaco eletto dal Pd travolto dagli scandali. C'è un Pd che si sfalda, sul territorio, una disillusione che cresce nell'ironia feroce e nella rabbia. Renzi parla al Paese, non al partito. In questo senso l'unico che davvero, per ora, ha mostrato di potere e volere "uscire dal Pd" è stato lui.

© Riproduzione riservata 05 ottobre 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/05/news/il_ragazzo_e_la_ditta_due_partiti_in_uno_il_futuro_dei_democratici_alle_prove_dautunno-97358701/?ref=HRER2-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Non è successo nulla
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:13:41 pm
Non è successo nulla
Di CONCITA DE GREGORIO

01 novembre 2014
   
QUINDI non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, "visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta".

Perché la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c'è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c'era un giovane uomo di 31 anni e non c'è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente.

Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un'altra, una cella di sicurezza poi un'altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d'altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno.

Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace. Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l'esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice "se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie". Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, "ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi".

Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero "scivolose", le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev'essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così.


Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un'imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto.

Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un'omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l'ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l'ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all'appello l'umanità e l'intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.

© Riproduzione riservata 01 novembre 201

DA - http://www.repubblica.it/cronaca/2014/11/01/news/non_successo_nulla-99490047/?ref=HREC1-1


Titolo: CONCITA DE GREGORIO. Così è finito il Pd romano
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2015, 05:21:28 pm
Soldi, corruzione, potere: tutto in cinque regole.
Così è finito il Pd romano

Nel partito capitolino c'è un filo trasversale che lega le correnti. Ma tutto nasce con la vittoria di Alemanno

di CONCITA DE GREGORIO
15 giugno 2015

ROMA. L'incredibile e triste storia del Pd romano, a raccontarla a chi vive per esempio a Gallarate o Ragusa e di Mirko Coratti e Daniele Ozzimo non ha mai sentito parlare, si riduce ad una pozza di reciproci risentimenti, ritorsioni e ricatti fra i per così dire vertici - qui di alto non c'è nulla, solo alcuni conti in banca  -  del piccolo potere politico locale a cui è sfuggito di mano un poderoso gioco di ruolo. Il cui obiettivo, come in ogni gioco, è quello di conquistare il potere con ogni mezzo. Lecito e illecito, in questo caso. Dell'illecito si occupano con grande solerzia le procure. Ci sono i reati, i guerci e gli infiltrati, gli sprovveduti e i lestofanti. Poi c'è un sistema politico  -  il campo di gioco  -  che non è molto diverso da quello di tanti altri luoghi che non sono Roma, un sistema collaudato su base nazionale. Cambiano i nomi, ma le regole sono quelle. Cinque, le regole. Tre i livelli di difficoltà. Vediamoli.

Uno. Si sta sempre con chi vince. Delle famose correnti, cordate, filiere di potere è impossibile ricostruire nel tempo 'chi sta con chi'. Fare le squadre, insomma. Cambiano secondo la convenienza. Le due grandi famiglie, veltroniani e dalemiani, hanno generato nel tempo bettiniani, marroniani, orfiniani, montiniani, bersaniani (dai nomi dei leader locali di riferimento, a Roma). Ora, per esempio, la maggioranza è renziana, nel senso di orfinian-renziana perché Matteo Orfini, una volta dalemiano, è oggi renziano: da Renzi infatti incaricato di bonificare il partito che assai ben conosce. Due anni fa erano tutti bersaniani, prima bettiniani, o veltroniani. L'impressione  -  disse e ripete il ministro Marianna Madia, tra le prime a denunciare due anni fa il Pd romano come "associazione a delinquere"  -  è che le divisioni siano solo di facciata. Ci sono, per carità: controllano pacchetti di iscritti e di voti sul territorio. Ma al momento delle decisioni si riuniscono "in camera di consiglio" e si spartiscono la torta. Tutte le cariche elettive, tutti i centri di spesa. Ti può capitare di vederli uscire, alla vigilia delle elezioni, dalla stessa stanza. Cinque o sei persone, sulla carta correnti rivali ma in realtà pronti a concordare cosa tocca a chi. Una camera di consiglio, per usare un'espressione soave. Si sta con chi conviene, con chi comanda, e al momento di decidere si decide insieme.

Due. Segui i soldi. Follow the money, diceva la gola profonda del Watergate in "Tutti gli uomini del presidente". E' molto semplice. Dove ci sono molti soldi e non si sa da dove vengano c'è qualcosa che non va. Pierpaolo Bellu, segretario dello storico circolo San Giovanni, anno di fondazione 1949, oggi 250 iscritti da rinnovare, perché il tesseramento è stato dai commissari azzerato: "No, davvero non lo so quando è cominciato tutto. Io ti direi che è sempre stato così. Ma lo sapevano tutti: quando in un quartiere c'è un candidato che invita a cena al ristorante cento persone, paga lui, e un altro che porta la pasta fredda da casa nel cortile del circolo. Quando uno mette cinquemila manifesti e un altro cinquecento. Quando all'improvviso da un circolo che non fa attività compaiono 200 tesserati". Le cene, i manifesti, le tessere nei circoli fantasma. I paesi dove vota più gente di quanti siano i vivi. Una tessera su cinque è falsa, hanno detto i commissari. 16 mila nel 2013. 9 mila nel 2014. "Anche Marco Miccoli, quando era segretario cittadino, poteva indagare, volendo". Miccoli ora è parlamentare. Non c'era bisogno di Barca, insomma. Volendo.

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15 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/15/news/soldi_corruzione_potere_tutto_in_cinque_regole_cosi_e_finito_il_pd_romano-116877547/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_15-06-2015


Titolo: Concita DE GREGORIO Le anime perse del Pd romano: "Ora rischiamo di essere azzer
Inserito da: Arlecchino - Novembre 09, 2015, 05:16:37 pm
Le anime perse del Pd romano: "Ora rischiamo di essere azzerati"

 Circoli spesso chiusi, militanti sconcertati per la cacciata del sindaco, Orfini assediato su Fb: "Fateci parlare".
E l'accusa di una ex assessora: "I capibastone ancora tutti lì, vivi e vegeti"

Di CONCITA DE GREGORIO
09 novembre 2015

ROMA. Anticorpi no, però c'è il sole. Un sindaco no. Le sedi del Partito democratico chiuse, però si sta in maglietta e c'è il mercatino biologico, stamani. Molte coppie, bimbi in monopattino, anziani in panchina vicino alla fontana. Scusate, la sede del Pd? "E' tanto che è chiusa". Sì ma quella nuova? "Non so, chieda a loro". Due operai fumano una sigaretta davanti al cancello dove in un tempo ormai remoto lo studente Matteo Orfini, oggi presidente del Partito democratico, uscito da scuola andava ad ascoltare Massimo D'Alema: la storica sezione Mazzini, quartiere Prati. Al posto del circolo c'è il magazzino di una farmacia, "ma è tanto". Sì. Ma quella nuova? "Dice che ora l'hanno accorpata a Trionfale, come le scuole quando restano vuote". Trionfale, a piedi, sono venti minuti a passo svelto. Chiuso. Sul portoncino del circolo Pd (l'anta di sinistra, quella di destra è di Sel) c'è un cartello: "Aperto il martedì dalle 18 alle 20, o su appuntamento". Segue numero di telefono urbano. Squilla a vuoto. Il circolo Pd Trionfale-Borgo ora anche Mazzini-Prati copre un'area che va dal Vaticano allo Stadio Olimpico, dalla collina dei grandi alberghi alla sede della Rai. E' come se Pisa, tutta, avesse un solo circolo Pd. Chiuso però. Riceve su appuntamento. Se chiami non risponde.

E' cambiato tutto, dall'estate, e non è cambiato nulla. C'è il sole, sempre. Quel che è successo negli ultimi cinque mesi, da quando Fabrizio Barca ha consegnato la relazione sullo stato del Pd romano, è difficile da spiegare a chi non viva a Roma. A chi cioè non la sappia tiepida distratta e accogliente come il dehor di un grand hotel: porte girevoli e prego accomodatevi in giardino, cosa possiamo offrire. C'è posto per il papa argentino, per il presidente fiorentino, per Daniel Craig di passaggio sul set, per Marino che esce e per il prefetto di Milano che entra, per la scuola in gita scolastica e per i vecchi potenti al solito tavolo, il loro tavolo, invisibili alla luce del sole. "I capibastone sono tutti lì, vivi e vegeti" dice Marta Leonori, ex parlamentare pd ex assessore capitolino avvilita per essere stata trattata "dopo due anni e mezzo di lavoro durissimo come un'imbecille in un branco di imbecilli. Ma non ne faccio un fatto personale. Prima che ingiusto è stato un errore politico. Ora aspettiamo il dream team di Malagò, meno male. Scusi, la devo lasciare, sto entrando al cinema". Cosa va a vedere? "Un cartone, mi distraggo. Comunque ha ragione Barca: è un favore fatto al 'Pd cattivo'. A quelli del 'potere per il potere', come diceva la sua relazione. Quelli non hanno mai mollato, sono al loro posto. Ora Renzi ha detto che a Roma di politica non si deve più parlare fino a marzo. Mah. Lo ha detto a Porta a Porta. Orfini ha postato l'ultimo messaggio su FB il 31 ottobre. Per sapere che succede devi guardare Vespa o controllare Facebook".

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E REPUBBLICA+

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09 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/09/news/le_anime_perse_del_pd_romano_ora_rischiamo_di_essere_azzerati_-126937853/?ref=HREC1-2


Titolo: Concita DE GREGORIO Intervista a Gelli: "Guardo il Paese, leggo i giornali e ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2015, 07:20:01 pm
Intervista a Gelli: "Guardo il Paese, leggo i giornali e dico: avevo già scritto tutto trent'anni fa"
"Giustizia, tv, ordine pubblico è finita proprio come dicevo io"


Dal nostro inviato CONCITA DE GREGORIO

AREZZO - Son soddisfazioni, arrivare indenni a quell'età e godersi il copyright. "Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa". Tutto nel piano di Rinascita, che preveggenza. Tutto in quelle carte sequestrate qui a villa Wanda ventidue anni fa: 962 affiliati alla Loggia. C'erano militari, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. C'era l'attuale presidente del Consiglio, il suo nuovo braccio destro al partito Cicchitto: allora erano socialisti.

Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del paese. "Se le radici sono buone la pianta germoglia. Ma questo è un fatto che non ha più niente a che vedere con me". Niente, certo. Difatti quando parla di Berlusconi e di Cicchitto, di Fini di Costanzo e di Cossiga lo fa con la benevolenza lieve che si riserva ai ricordi di una stagione propizia. Sempre con una frase, però, con una parola che li fissa senza errore ad un'origine precisa della storia.

Quel che rende Licio Gelli ancora spaventosamente potente è la memoria. Lo si capisce dopo la prima mezz'ora di conversazione, atterrisce dopo due. Il Venerabile maestro della Loggia Propaganda 2 è in grado di ricordare l'indirizzo completo di numero civico della prima casa romana di Giorgio Almirante, l'abito che indossava la sua prima moglie quel giorno che gli fece visita a Natale, i nomi dei tre figli di Attilio Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che vide coinvolto uno dei tre, ricorda il numero di conto corrente su cui fece quel certo bonifico un giorno di sessant'anni fa, la targa della camionetta di quando era ufficiale di collegamento col comando nazista, quante volte esattamente ha incontrato Silvio Berlusconi e in che anni in che mesi in che giorni, come si chiamava il segretario di Giovanni Leone a cui consegnò la cartella coi 58 punti del piano R, che macchina guidava, se a Roma c'era il sole quella mattina e chi incontrò prima di arrivare a destinazione, che cosa gli disse, cosa quello rispose.

Questo di ogni giorno dei suoi 84 anni di vita, attualmente archiviata in 33 faldoni al primo piano di villa Wanda, dietro a una porta invisibile a scomparsa. "Ogni sera, sempre, ho scritto un appunto del giorno. Per il momento per fortuna non mi servono, perché ricordo tutto. Però sono tranquillo, gli appunti sono lì".

Il potere della memoria, ecco. Il resto è coreografia: il parco della villa che sembra il giardino di Bomarzo, con le statue le fontane i mostri, la villa in fondo a un sentiero di ghiaia dietro a un convento, le stanze con le pareti foderate di seta, i soffitti bassi di legno scuro, elefanti di porcellana che reggono i telefoni rossi, divani di cuoio da due da tre da sette posti, di velluto blu, di raso rosa, a elle e a emiciclo, icone russe, madonne italiane, guerrieri d'argento, pupi, porcellane danesi, un vittoriano buio con le imposte chiuse al sole di settembre, scale, studi, studioli, sale d'attesa coi vassoi d'argento pieni di caramelle al limone. Ma lei vive qui da solo? "Sì certo solo". E questi rumori, le ombre dietro le porte di vetro colorato? "La servitù".

Commendatore, gli sussurra una segretaria pallida porgendogli un biglietto: una visita. "Mi scusi, mi consente di assentarmi un attimo? E' un vecchio amico".

Gelli è in piena attività. Riceve in tre uffici: a Pistoia, a Montecatini, a Roma. Oltre che in villa, naturalmente, ma fino ad Arezzo si spingono gli intimi. Dedica ad ogni città un giorno della settimana. A Pistoia il venerdì, di solito. A Roma viene il mercoledì, e scende ancora all'Excelsior. Le liste d'attesa per incontrarlo sono di circa dodici giorni, ma dipende. Per alcuni il rito è abbreviato. Al telefono coi suoi segretari si è pregati di chiamarlo "lo zio": "La regola numero uno è non fare mai nomi - insiste l'ultimo di una serie di intermediari - Lei non dica niente, né chi la manda né perché. La richiameranno. Quando poi lo incontra vedrà: è una persona squisita. Solo: non gli parli di politica". Di poesia, vorrebbe si parlasse: perché Licio Gelli da quando ha ufficialmente smesso di lavorare alla trasformazione dell'Italia in un Paese "ordinato secondo i criteri del merito e della gerarchia", come lui dice, "per l'esclusivo bene del popolo" ha preso a scrivere libri di poesia, ovviamente premiati di norma con coppe e medaglie, gli "amici" nel '96 lo hanno anche candidato al Nobel.

"Vorrei scivolare dolcemente nell'oblio. Vedo che il mio nome compare anche nelle parole crociate, e ne soffro. Vorrei che di me come Venerabile maestro non si parlasse più. Siamo stati sottoposti a un massacro. Pensi a Carmelo Spagnolo, procuratore generale di Roma, pensi a Stammati che tentò di uccidersi. E' stata una gogna in confronto alla quale le conseguenze di Mani Pulite sono una sciocchezza. In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima? Prima si prendeva facciamo il 3 per cento, ora il 10. Io non ho mai fatto niente di illegale né di illecito. Sono stato assolto da tutto. Le mie mani, eccole, sono nette di oro e di sangue".

Assolto da tutto non è vero, dev'essere per questo che lo ripete tre volte e s'indurisce. Indossa un abito principe di Galles, cravatta di seta, catena d'oro al taschino, occhiali con montatura leggerissima, all'anulare la fede e un grosso anello con stemma. Questo avrebbe detto dunque a Montecatini, a quel convegno a cui l'hanno invitata e poi non è andato? Dicono che Andreotti l'abbia chiamata per dissuaderla. "E' una sciocchezza. Andreotti non è uomo da fare un gesto simile. Si vede che lei non lo conosce".

Senz'altro lei lo conosce meglio. "Se Andreotti fosse un'azione avrebbe sul mercato mondiale centinaia di compratori. E' un uomo di grandissimo valore politico". Come molti della sua generazione. "Molti, non tutti. Cossiga certamente. Non Forlani, non aveva spina dorsale. Naturalmente Almirante, eravamo molto amici, siamo stati nella Repubblica sociale insieme. L'ho finanziato due volte: la seconda per Fini. Prometteva molto, Fini. Da un paio d'anni si è come appannato". Forse un po' schiacciato dalla personalità di Berlusconi. "Può darsi. Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni".

Vi sentite ancora? "Che domanda impertinente. Piuttosto. L'editore Dino, lo conosce? Ha appena ripubblicato il mio primo libro: Fuoco! E' stata la mia opera più sofferta, anche perché ha coinciso con la morte di mio fratello nella nostra guerra di Spagna. E' un edizione pregiata a tiratura limitata, porta in copertina il mio bassorilievo in argento. Ci sono due altri solo autori in questo catalogo: il Santo padre, e Silvio Berlusconi". Anche Berlusconi col bassorilievo d'argento? "Certo, guardi". Il titolo dell'opera è "Cultura e valori di una società globalizzata". Pensa che Berlusconi abbia saputo scegliere con accortezza i suoi collaboratori? "Credo che in questa ultima fase si senta assediato. E' circondato da persone che pensano al "dopo". Non si fida, e fa bene.

E' stato giusto bonificare il partito, affidarlo a un uomo come Cicchitto. Cicchitto lo conosco bene: è bravo, preparato". Il coordinatore sarebbe Bondi in realtà. "Sì, d'accordo. Credo che anche Bondi sia preparato. E' uno che viene dalla disciplina di partito". Comunista. "Non importa. Quello che conta è la disciplina e il rispetto della gerarchia". Ha visto il progetto di riordino del sistema televisivo? "Sì, buono". E la riforma della giustizia? "Ho sentito che quel Cordova ha detto: ma questo è il piano di Gelli. E dunque?

L'avevo messo per scritto trent'anni fa cosa fosse necessario fare. Leone mi chiese un parere, gli mandai uno schema in 58 punti per il tramite del suo segretario Valentino. Pensa che chi voglia assaltare il comando consegni il piano al generale nemico, o al ministro dell'Interno? Ma comunque non è di questo che vogliamo parlare, no? Vuole anche lei avere i materiali per scrivere una mia biografia? Arriva tardi: ho già completato il lavoro con uno scrittore di gran fama". Su una poltrona è appoggiato l'ultimo libro di Roberto Gervaso. La scrive con Gervaso? "Ma no, ci vuole una persona estranea ai fatti. Se vuole le mostro lo scaffale con le opere che mi riguardano, le ho catalogate: sono 344". Certo: il burattinaio è un soggetto affascinante. "Andò così: venne Costanzo a intervistarmi per il Corriere della sera. Dopo due ore di conversazione mi chiese: lei cosa voleva fare da piccolo. E io: il burattinaio. Meglio fare il burattinaio che il burattino, non le pare?".

Sembra che ce ne siano diversi di burattinai in giro ultimamente. "Il burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi". E adesso chi è? "Adesso? Questa è una classe politica molto modesta, mediocre. Sono tutti ricattabili". Tutti? Mettiamo: Bossi. "Bossi si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato 80 parlamentari è stato bravo. Ma aveva molti debiti... Per risollevare il Paese servono soldi, non proclami. Ho sentito che Berlusconi ha invitato gli americani a investire in Italia: ha fatto bene, se qualcuno abbocca?

Ma la situazione è molto seria. L'economia va malissimo, l'Europa è stata una sventura. Non abolire le barriere, bisognava: moltiplicarle. Fare la spesa è diventato un problema, il popolo è scontento. Serve un progetto preciso". Per la Rinascita del Paese. "Certo". C'è il suo: certo forse i 900 affiliati alla P2 erano pochi. "Ma cosa dice, novecento persone sono anche troppe. Ne bastano molte meno". Allora quelle che ci sono ancora bastano, tolti i pentiti. "Nessuno si è pentito. Pentiti? A chi si riferisce? Costanzo, forse. L'unico. Con tutto quello che ho fatto per lui. Guardi: io non devo niente a nessuno ma tutti quelli che ho incontrato devono qualcosa a me. Ci sono dei ribelli a cui ho salvato la vita, ancora oggi quando mi incontrano mi abbracciano". Ribelli? "Sì, i ribelli che stavano sulle montagne, in tempo di guerra. Io ero ufficiale di collegamento fra il comando tedesco e quello italiano. Ne ho salvati tanti". Intende partigiani. "Li chiami come crede. Eravamo su fronti opposti, ma quando sei di fronte ad un amico non c'è divisa che conti.

L'amicizia, la fedeltà ad un amico viene prima di ogni cosa". L'amicizia, sì. La rete. Cossiga l'ha citata giorni fa, in un'intervista. Ha detto: chiedete a Gelli cosa pensava di Moro. "Da Moro andai a portare le credenziali quando ero console per un paese sudamericano. Mi disse: lei viene in nome di una dittatura, l'Italia è una democrazia. Mi spiegò che la democrazia è come un piatto di fagioli: per cucinarli bisogna avere molta pazienza, disse, e io gli risposi. Stia attento che i suoi fagioli non restino senz'acqua, ministrò". Anche in questo caso tragicamente profetico, per così dire. Lei cosa avrebbe fatto, potendo, per salvare Moro? "Non avrei fatto niente. Era stato fascista in gioventù, come Fanfani del resto, ma poi era diventato troppo diverso da noi. Lei ha visto il film sul delitto Moro?" Quello di Bellocchio? "No, l'altro. Quello tratto dal libro di Flamigni.

Ma le pare che si possa immaginare un agente dei servizi segreti che con un impermeabile bianco va a controllare sulla scena del delitto se è tutto andato secondo i piani?". Gli agenti dei servizi sono più prudenti? "Lei conosce Cossiga? Proprio una bravissima persona. E poi un uomo così colto, uno capace di conversare in tedesco. Un uomo puro, un animo limpido. Dopo la morte di mia moglie mi mandò un biglietto: "Ti sono vicino nel tuo primo Natale senza di lei", capisce che pensiero? Vorrebbe farmi una cortesia? Se lo incontra, vuole porgergli i miei ricordi, e i miei saluti?".

(28 settembre 2003)

http://www.repubblica.it/2003/i/sezioni/politica/gelli/gelli/gelli.html?ref=HREA-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Quasi mai chi attacca sa davvero di cosa parla.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2016, 05:10:43 pm
Gli insulti del web a "mamma" Meloni
Quasi mai chi attacca sa davvero di cosa parla.
Lo fa per il gusto di tirare un sasso insieme agli altri.
Il branco si muove così

Di CONCITA DE GREGORIO
02 febbraio 2016
   
NON c'entrano destra e sinistra, uomini e donne, gay o etero. C'entra la logica del branco. La violenza e l'ignoranza, sorelle gemelle: forze deboli, le prepotenze. Un rumore di fondo incessante spacciato per libertà che della libertà è l'esatto contrario, invece.

Porterebbe lontanissimo, a volerci andare, un momento di attenzione sull'ultima esibizione muscolare dei 'commentatori' della Rete. Un'altra volta, magari. Oggi non facciamo fatica. Restiamo seduti qui al bar di Facebook, diamo un'occhiata alle scritte sui bagni di Twitter. Giusto per farsi qualche domanda, il tempo di un caffè. La vittima oggi è Giorgia Meloni, leader della destra di Fratelli d'Italia, molto nota anche perché molto assidua in tv. Un'esponente politica che conosce i meccanismi della comunicazione, non esattamente un ragazzino di terza media aggredito dal gruppo su Whatsapp per i suoi pantaloni lilla. Dunque Giorgia Meloni annuncia la sua gravidanza mentre partecipa al Family day, lo fa nel corso di un'intervista video parlando di politica con molti giornalisti. Una notazione personale, che lei ritiene in quel momento di condividere. La quantità e il tenore di commenti che suscita sui social network sovrasta quasi subito la notizia, di per sé non così interessante e comunque comune a milioni di donne in questo preciso istante. Giorgia Meloni viene coperta di insulti, la maggior parte dei quali violentissimi e irriferibili, volgari e spesso penosi per chi li fa più che per chi li riceve. Decide di sospendere la sua attività sui social. Il meccanismo mediatico prevede a questo punto che si commenti la valanga di insulti, disapprovandola - naturalmente. Dunque c'è chi attacca la sinistra illiberale che difende i diritti dei gay e non quelli delle madri, le femministe che scendono in campo solo a difesa delle donne di sinistra e giù giù fino alle formule passe-partout: il popolo del web, gli squadristi del web, le lobby gay, i radical chic e il resto del repertorio. La cui caratteristica è di usare formule completamente vuote e sempre insensate capaci tuttavia di scatenare, al contatto, reazioni nucleari.

Chi parla degli squadristi del web sarà attaccato il giorno dopo dai libertari del web. Chi parla di lobby gay sarà fulminato. Così si potrà fare il giorno dopo un nuovo commento, e usare altre formule. Il caso dell'attacco - schifoso, per restare nel clima lessicale e dirlo chiaro - a Giorgia Meloni potrebbe essere però una piccola buona occasione per lavare e asciugare le parole, vederle pulite. Non è vero che solo le donne di destra restano indifese di fronte agli attacchi, ricordo per tutti il caso degli auguri massicci di decapitazione a Laura Boldrini appena insediata che le valsero la prima seria ondata di astio mediatico di ritorno, con l'accusa di voler censurare il libero web. Non è vero che solo le donne celebri, anche - vado a memoria - Gianni Morandi Fiorello e Muccino, di recente. Non è vero che solo le donne, il corpo delle donne. Prevalentemente, certo. Ma questo non accade solo sul web: anche a casa, in ufficio, sull'autobus. Non è vero che solo i famosi. Centinaia di ragazzini sono vittime di cyberbullismo. È vero, piuttosto, che fa molta impressione che ad attaccare Giorgia Meloni si siano subito uniti i paladini delle nuove libertà e dei nuovi diritti: chi le augura di avere figli gay fa un torto gravissimo alla causa delle libertà, plurale, di tutti e alle proprie. Trasforma inoltre in una sorta di malaugurio una condizione che vorrebbe riconosciuta come naturale, neutra, con questo rinsaldando e confermando il pre-giudizio. Non si può pretendere il diritto proprio negando quello altrui, siamo all'abc. E però anche qui, per restare alle parole: c'è differenza fra satira, ironia, insulto. Quando Luciana Littizzetto dice che "andare al Family day in lode della famiglia tradizionale" esibendo una gravidanza senza essere sposati "è come partecipare a un festival vegano e dire di amare la fiorentina" fa satira.

Può far ridere o no, ma fa il suo mestiere. Quando qualche blogger ironizza sul nome del bambino, un quotidiano di destra lancia un referendum: è la Rete, bellezza. C'è di tutto. Gli insulti, invece - i cattivi auspici, la ferocia - hanno la caratteristica della crudeltà e dell'ignoranza che si autoalimentano a valanga. Fateci caso: quasi mai chi attacca sa davvero di cosa parla. Lo fa per il gusto di tirare un sasso insieme agli altri: su una frase sentita dire, su un film non visto, un libro non letto. Il branco si muove così. Dice: basta non dargli peso. Non ascoltare. Difficile. Viviamo tutti perennemente on line, capaci solo di attenzione parziale, vittime di incidenti anche pedonali da sguardo fisso sullo smartphone, le assicurazioni non li censiscono ma non li risarciscono. Il flusso incessante ti chiama a stare dentro, o ti spinge a stare ai margini. Reagire, rispondere a tono, stare al gioco o andarsene. Ecco, un commento interessante da leggere sarà quello sulla libertà di essere off line, sempre più diffusa anche - inaspettatamente - tra i ragazzi. Provate a chiedere a figli e nipoti, provate ad ascoltarli. I primi a reagire saranno loro. Intanto, molti auguri a Giorgia Meloni. Coraggio e figlie femmine. Smile. Cuoricino.
 
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02 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/02/news/gli_insulti_del_web_a_mamma_meloni-132524253/?ref=fbpr


Titolo: Concita DE GREGORIO La favola del chirurgo che fermò l'attimo fuggente
Inserito da: Arlecchino - Aprile 21, 2016, 05:18:27 pm
La favola del chirurgo che fermò l'attimo fuggente
Paul Kalanithi, il chirurgo che ha scritto il libro "Quando il respiro si fa aria", pubblicato postumo negli Usa e ora anche in Italia da Mondadori. In vetta alle classifiche Usa il libro postumo in cui un chirurgo, Paul Kalanithi, racconta se stesso dopo la diagnosi di cancro ai polmoni. Un inno alla vita “qui e ora”

Di CONCITA DE GREGORIO
19 aprile 2016
   
QUANDO vi sentite opprimere dalla mancanza, di qualcuno o qualcosa, quando pensate che la fatica dei giorni sia al di sopra delle vostre forze, ingiusta per giunta, e comunque vana. Quando non trovate il coraggio o ne avete avuto troppo, e pensate — ho sbagliato, osando: ecco, è questo il momento in cui il libro di cui parliamo sarà il vostro alleato segreto. Un vero amuleto. Ed è questa la ragione per cui, credo, “Quando il respiro si fa aria” di Paul Kalanithi è da settimane in vetta alle classifiche negli Stati Uniti: un mercato infernale e impietoso che macina non di giorno in giorno ma di ora in ora migliaia di titoli di una sterminata produzione. Cosa ci fa tra un libro di ricette e uno di diete (ingrassare e dimagrire, le due stelle polari dell’editoria: la metà del lettori vuole mangiare, l’altra anela a non farlo)?

Cosa ci fa tra un libro su come addormentare i bambini e uno su come svegliare dall’inerzia gli adolescenti, cosa ci fa in questa bipolare selva di manuali di vita quotidiana un’autobiografia sulla malattia e la morte di un medico di origine indiana? Non un celebre medico, non una star tv: un trentaseienne specializzando in neurochirurgia, brillante, promettente, che da un giorno a un altro — è sempre così, no? Ricordate “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion? «La vita cambia in un istante» — scopre di avere un tumore ai polmoni e un orizzonte che si avvicina come un temporale portato dal vento anziché, come sempre ci sembra quando rincorriamo i propositi, allontanarsi. Cos’ha di magnetico questo racconto?

Nella forma ha l’eleganza, l’austerità e la serenità della prosa: è un semplice, musicale e poetico scritto che chiunque può leggere senza sentirsi inadeguato, non abbastanza colto, impreparato. Al contrario: nei silenzi della voce narrante, frequenti come le pause di una ballata o di una favola, ciascuno può sentire la propria voce, i propri pensieri. Entrare dentro, riconoscersi e vedersi. È un medico che parla: qualcuno che conosce la vita la malattia e la morte, qualcuno a cui ci si affida — quando serve — per sperare, per guarire. Perché ci dica come si fa. Ma ci sono volte in cui non si fa.

Tutti lo sanno: ci sono volte in cui non si può far altro che guardare negli occhi il proprio destino, che non è affatto sempre e tutto nelle nostre mani. Un neurochirurgo, per giunta: qualcuno cioè in grado di illuminare come funziona la macchina più strabiliante e misteriosa mai vista in azione, il cervello degli uomini. Come nascono i pensieri, le intenzioni, la memoria e le emozioni. Dove abitano, come si formano, che direzione prendono e come si guastano, quando accade, perché accade. Si guastano, spesso.

"Feci scorrere le immagini della Tac, la diagnosi era chiara". La storia inizia così. Il dottor Kalanithi, tranquillamente, ci porta nella stanza di ospedale in cui insieme alla moglie Lucy, medico anche lei, osserva una lastra. "Negli ultimi sei anni avevo esaminato decine di scansioni analoghe. Ma quella era diversa: era la mia". La osserviamo con loro, quella Tac sullo schermo luminoso. Conosciamo l’apprensione con cui si attende un verdetto. "Lucy chiese sottovoce, come se stesse leggendo un copione: 'Secondo te c’è anche solo una possibilità che sia qualcos’altro?'. 'No', risposi".

Da questa stanza, nei mesi che precedono la nascita di Cady, la loro bambina, e di poco la morte di Paul ci trasferiamo sulla poltrona davanti alla vetrata che dà sul parco di Stanford. Da qui vediamo bene, piano, come sono andate le cose in questi 36 anni: l’infanzia con due fratelli maschi nel deserto dell’Arizona, dove il padre cardiologo ha deciso di trasferirsi da New York per avere un ambulatorio solo suo. La madre, che in India aveva studiato per diventare fisiologa, preoccupata che i figli, in provincia, perdano opportunità negli studi.

Gli studi. L’amore per la letteratura e di pari passo quello per la medicina, poesia e scienza, tanto spesso tante volte passioni gemelle negli esseri umani illuminati. L’amore, il matrimonio, la semplice vita coniugale: bella e difficile, come quella di chiunque. La vita in corsia e la dedizione ai pazienti. «In fondo, uno dei primi significati di paziente è “colui che sopporta le avversità senza lamentarsi”». Come dire a chi sta morendo che sta morendo e come essere davvero certi di poterlo dire, perché la vita scappa dalle previsioni e dalle statistiche, tante volte lo fa. Si ostina. La malattia: ospite sgradito dentro di te, ma un fatto, una presenza. Qualcosa (qualcuno?) con cui entrare in confidenza, dialogare e combattere come con chiunque altro al mondo, fuori dal tuo corpo. Qualcuno o qualcosa che però, al contrario di chiunque altro, dà misura e peso al tempo e al valore dell’esistenza. Fino a qui, ti dice. Probabilmente fino a qui e non oltre.

Sono precise e struggenti le pagine dedicate alla forma verbale dei tempi: posso dire, sapendo che non tornerò al lavoro, "sono", o "ero", o "sono stato" un neurochirurgo? Adesso, da vivo: in quale punto sono nella grammatica dei verbi? A mia figlia, pensando al ricordo che non ha, adesso, non può averlo, ma che avrà di me, un giorno.

Una neonata che è solo futuro. Cosa posso dirle di quello che un giorno sarà il suo passato, qualcosa che sta accadendo nel presente. "Nella tua vita ti prego — le scrive — di non tralasciare un giorno, quando dovrai dare descrizione di te, il fatto di aver riempito le giornate di un moribondo con una gioia appagata, una gioia che non avevo mai conosciuto prima, una gioia che non è perennemente insaziabile ma si riposa, soddisfatta. Ora, in questo preciso istante, è qualcosa di immenso".

In questo preciso istante. Perciò, lettore. Non esitare, se hai qualcosa di importante da dire a qualcuno: fallo, non rinviare. Non dolerti di ciò che non sia davvero essenziale. Metti a fuoco, trova il coraggio. Decidi, scegli. È in definitiva, questa lente d’ingrandimento sul senso della vita, un racconto sul tempo. Fin dal titolo, che comincia con “quando”. Dopo aver scritto, nel 2014, un articolo sul New York Times intitolato Quanto tempo mi resta, condiviso e commentato da migliaia di lettori, e prima di iniziare questo libro, completato dalla moglie e uscito postumo, Kalanithi ha scritto un saggio breve, sulla rivista Stanford Medicine, sul concetto di tempo. Bellissimo: un testo scientifico e letterario insieme.

Cos’è ciò che noi chiamiamo tempo, cosa è prima e cosa dopo. Cos’è l’attesa, cosa la memoria, e cosa invece il presente, adesso. Quando il respiro si fa aria, fra un manuale di cucina e uno di pediatria, sta lì in vetta alle classifiche a dire a tutti una cosa semplicissima: la vita non ti aspetta. Chiede che tu sia qui con lei, ora.
 
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19 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/19/news/la_favola_del_chirurgo_che_fermo_l_attimo_fuggente-137963531/?ref=HRER2-1


Titolo: Concita DE GREGORIO Fortuna, il palazzo delle bugie
Inserito da: Arlecchino - Aprile 30, 2016, 05:08:10 pm
Fortuna, il palazzo delle bugie

Di CONCITA DE GREGORIO
30 aprile 2016

TUTTO è bugiardo, in questa storia, a cominciare dai nomi delle cose. In un posto che si chiama Parco Verde e che non è un parco ma un serpente di palazzi e non è verde - di verde ha solo i calcinacci dell'intonaco sbrecciato - una bambina di sei anni a cui hanno messo nome Fortuna viene spinta giù dal terrazzo condominiale, otto piani, perché ha detto di no, questa volta, all'incredibile serie di violenze "croniche e reiterate", si legge nelle carte del tribunale, di un uomo di 44 anni: il padre della compagna di giochi e di pianerottolo da cui passava i pomeriggi. Quali giochi, che pomeriggi.

Tra i primi a piangere il cadavere scende un altro inquilino dello stabile, accusato mesi prima insieme alla moglie di violenza su minori. Quali lacrime. Così dunque passavano i giorni, nel palazzo: almeno due coppie, ma forse di più dice oggi chi indaga, violavano i bambini. Tutti sapevano: la donna che ha nascosto una scarpina di Fortuna "per proteggere dalle accuse il figlio agli arresti domiciliari" - documentano le intercettazioni - , la convivente poco più che ventenne di Raimondo Caputo, arrestato solo ieri e in passato già accusato del medesimo tipo di violenze. Sospettati di pedofilia e violenza su minori, indagati, accusati e poi di nuovo a casa. Di nuovo lì, con i bambini, nella stanzetta coi cuscini a forma di cuore. Dall'isolato 3 del Parco Verde i bambini volavano dai balconi e dai terrazzi: prima Antonio, 3 anni, un anno dopo Fortuna, 6. Incidenti. Silenzio. Antonio, figlio della convivente di Caputo, è volato nel 2013. Fortuna a giugno del 2014. Ieri, due lunghissimi anni dopo, Raimondo Caputo è stato arrestato con l'accusa di omicidio. Una rete di omertà e di complicità lo ha protetto sinora. Sono stati i bimbi a parlare alla fine. Gli altri bimbi del palazzo. Una bambina, in particolare. Un'amica di Fortuna.

Siamo a Caivano, cintura di Napoli, terra dei fuochi. Questo è un posto dove le esalazioni tossiche dei rifiuti bruciati dalla camorra ammalano di tumore donne e bambini prima ancora di nascere. Il prete del quartiere, don Patriciello, è l'unica voce che si sente: dal pulpito, sui giornali, in tv. Aiutateci, dice.

Nascere a Caivano è una condanna a morte. Ci sono anche tante persone perbene in mezzo a questa discarica di rifiuti e di umanità invisibile. Venite a vedere, scrive sui libri e predica il prete. Silenzio. Parole perse. Nessuno che abbia responsabilità di governo, nazionale o locale, si è visto. Non una visita ufficiale di quelle con le foto e i pranzi nel tinello del presidente del comitato di quartiere, non un cenno. Niente. Eppure è Italia anche questa, anche a Caivano dovrebbero arrivare la buona scuola e gli incentivi alle start up per i nativi digitali, anche qui una bambina di sei anni con i ricci biondi dovrebbe poter diventare astronauta come Samantha Cristoforetti, il bell'esempio dell'Italia che vola. Nello spazio, non dal tetto.
Degli abusi e delle violenze su bambini in età da asilo non si può dir niente. Non si riesce. Sarebbe facile chiedere a chi volta la testa dall'altra parte e si dirige verso un importante impegno istituzionale di immaginare che Antonio e Fortuna siano figli suoi. Proprio di provare ad immaginare come hanno vissuto i loro pochi anni, vedendo e sopportando che cosa. Sarebbe demagogia pretendere che chi governa un territorio, una regione, un Paese andasse di tanto in tanto, per qualche tempo, ad abitare quei luoghi. Immaginate: per i prossimi tre mesi il presidente del Consiglio, della Regione, del municipio trasferisce la sua residenza al sesto piano dell'isolato 3. Così, tanto per capire e per testimoniare. Un gesto simbolico, i simboli sono importanti. Lo Stato è assente, dice il prete. Si faccia presente, dunque. Venga a salvare la vita di questi bambini volanti.

Poi, certo. Le colpe sono individuali e i criminali ne portano la responsabilità. Però è più facile che restino impunite, e addirittura coperte e protette, le colpe, in luoghi dove non c'è altro che tutto quello che manca: dove si respira veleno, non si va a scuola, non si lavora, dove il capo bastone della famiglia di camorra comanda e qualche volta si candida, eletto. "Bisognerebbe decretare lo stato di calamità criminale per minori", ha detto ieri l'avvocato della famiglia Fortuna. Qualcuno, intanto, tirava una molotov alle persiane della finestra dove Marianna Fabbozzi, 26 anni, compagna dell'arrestato Raimondo Caputo (e madre di Antonio, il bambino morto tre anni fa, di una ragazzina dodicenne vittima di violenze e di altri due figli, una delle quali amica di Fortuna) è agli arresti domiciliari. Anche la vita di Marianna, solo a fare i conti dell'età dei figli e della sua, si immagina come un inferno. Una mano anonima, la molotov. Vile, in fondo, dopo tanto silenzio. Un fuoco che comunque si è subito spento da solo, diversamente da quelli perpetui delle discariche all'orizzonte.

"Stato di calamità criminale per minori" è una formula spaventosa. Non si potrebbe dire più precisamente cosa sia la sventura di nascere a Caivano. Come vittime di una catastrofe, un'alluvione un terremoto. Solo che non è la natura, qui: sono gli uomini a portare la morte. Non è meno colpevole di chi violenta e uccide un bambino chi, mentre quel bimbo muore, si volta altrove e parla d'altro. Non si può essere fieri di un Paese in cui esiste, come se non esistesse, Caivano. Prato Verde, isolato 3.

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30 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2016/04/30/news/il_palazzo_delle_bugie-138756984/?ref=HREA-1


Titolo: CONCITA DE GREGORIO. Da Rifondazione agli ex dc, il mondo progressista è diviso.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2017, 12:17:14 am
La nebulosa della sinistra: sigle, nomi e tribù
Da Rifondazione agli ex dc, il mondo progressista è diviso. Ecco come

Di CONCITA DE GREGORIO
19 febbraio 2017

CHI STA con chi. Per andare dove. Per fare cosa. Il disorientamento dei lettori di questo giornale e degli ostinati elettori del centrosinistra è lo stesso di tutti quelli, fra noi, che non siano cultori della materia o interessati a un seggio, spesso entrambe le cose. Nel giorno in cui si chiude il congresso di Sinistra Italiana e il Pd si riunisce in assemblea proviamo a fare una mappa, certamente in difetto di distinguo. La trasformazione dei partiti novecenteschi di sinistra in nebulosa mediatica prevede una certa approssimazione, ce ne scusiamo. Da sinistra verso destra.

Rifondazione comunista. Esiste, resiste e si avvia al decimo congresso: a Spoleto dal 31 marzo al 2 aprile. La guida ostinato Paolo Ferrero: piemontese, ex Democrazia proletaria, ministro della Solidarietà sociale nel secondo governo Prodi. Nel periodo della campagna per il No ha riconquistato visibilità, ricontattato settori del sindacato di base e associazioni storiche come l'Anpi. Conta sull'energia di Eleonora Forenza, europarlamentare barese, eletta con più di 20 mila preferenze ai tempi della lista Tsipras. Riferimento di movimenti universitari, ricercatori precari. Completamente assente da alcuni territori, ne governa altri. Ha una filiera istituzionale di consiglieri e assessori. A Palermo, per esempio, è forza di governo a sostegno di Leoluca Orlando.

Dema. Il movimento del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si ispira al manifesto delle città ribelli: capofila Barcellona di Ada Colau. Joan Subirats, ideologo del neo-municipalismo: "Gli Stati sono finiti. Saranno le città ribelli a cambiare l'Europa". In collegamento col movimento di Varoufakis, ambisce a diventare la Podemos italiana o almeno il riferimento della sinistra civica: comitati per la casa, ambientalismo, beni comuni. Stefano Rodotà sarà il 21 febbraio all'istituto per gli studi filosofici di Marotta. Molto seguito da Micromega, coniuga effervescenza giovanile e intellettualità. Nuovo meridionalismo. Neopopulismo antisistema che mostra capacità di governo. Interessante il rapporto fra De Magistris e Michele Emiliano, spesso insieme nelle foto. Per Emiliano una sorta di ‘certificazione di sinistra', all'opposto di quello che fu la foto di Vasto per Vendola e Di Pietro.

Sinistra Italiana. A congresso a Rimini. SI (ex Sel) è stata finora un gruppo parlamentare senza partito, rischia di uscire dal congresso come partito senza gruppo parlamentare. A contendere la segreteria al delfino di Vendola, Nicola Fratoianni, c'era infatti Arturo Scotto che fino a fine gennaio ha fatto tesseramento con il suo gruppo: Ciccio Ferrara, Marco Furfaro Michele Piras, Massimiliano Smeriglio. A fine gennaio il contrordine compagni: il gruppo è uscito per unirsi al movimento di Pisapia che, insieme a quello di D'Alema, potrebbe formare un gruppo parlamentare e comunque assicura in caso di elezioni un maggior numero di seggi. Pontiere con Pisapia è Ciccio Ferrara, napoletano, storico uomo macchina di Vendola, in ottimi rapporti con Bersani. All'uscita del gruppo Claudio Fava ha scritto "not in my name". Attivi al congresso Cofferati, Mussi, Landini, D'Attorre e Tomaso Montanari. Da seguire, oggi, l'intervento dell'ex sindaco di Molfetta Paola Natalicchio in una foto altrimenti per soli uomini, con la notevole storica eccezione di Luciana Castellina.

Possibile. Di Pippo Civati, antesignano del dissenso al renzismo. A fine gennaio affollata assemblea a Parma, in prove di dialogo con Pizzarotti. Molto attiva e amata Beatrice Brignone, Senigallia, subentrata in Parlamento a Enrico Letta. Luca Pastorino, sindaco ligure, ha ottenuto un eccellente risultato alle regionali portando tuttavia alla vittoria di Toti.

Campo Progressista. Tandem Pisapia-Boldrini, raggiunto dalla porzione di SI traghettata da Ferrara e Smeriglio, braccio destro di Zingaretti, ex Rifondazione, ex Sel, sinistra laziale post veltroniana presente in quasi tutte le assise del momento, siano D'Alema Pisapia o Emiliano. Una confluenza, questa, che porta al gruppo una quindicina di parlamentari. Inoltre: Maria Pia Pizzolante dai giovani di Tilt, Simone Oggionni, 1984, da Esse Blog. Dalla Puglia Dario Stefàno, dalla Sardegna Luciano Uras in singolare coincidenza di destinazione col suo antagonista Michele Piras. I rapporti del gruppo Pisapia con Renzi sono buoni, ottimi quelli con D'Alema, sospesi quelli con SI. Decisivo capire se si farà il gruppo parlamentare con quelli di ConSenso, in caso di scissione Pd.

Campo aperto. Gianni Cuperlo. La voce ferma, coerente della sinistra Dem. Per il Sì al referendum, contro la scissione del partito.

ConSenso. I comitati per un nuovo centrosinistra lanciati da D'Alema il 28 gennaio scorso sono il fulcro della galassia. Scissione o no passa da lì. La forza di D'Alema e quella di Pisapia possono formare subito un gruppo parlamentare e contano su almeno venti seggi in caso di elezioni, dice chi fa i conti. D'Alema era ieri alla riunione di Emiliano ma non sarà oggi all'assemblea Pd.

Democratici socialisti. Triangolo di opposizione a Renzi: Enrico Rossi Michele Emiliano Roberto Speranza. Emiliano, presidente Puglia, è motivato alla scalata. Si presenta da sinistra, su scala nazionale, dopo aver praticato le larghe intese in Puglia: la stagione post-Vendola è cresciuta sul bilico post ideologico caricando pezzi organici e storici del centrodestra locale. Una sinistra marsupiale, che tiene dentro e nutre - così zittisce - l'opposizione. Negli enti, nei consorzi, nelle partecipate.

Giovani turchi/1. Andrea Orlando. Ligure, radici nel Pci. Da tenere molto d'occhio nel suo lavoro di tessitura silenzioso. In dialogo con gli ex popolari e con l'area Dem di Dario Franceschini. Orlando, ministro di Giustizia sia con Renzi che con Gentiloni, è uno dei più quotati antagonisti per il dopo Renzi, in alternativa a Emiliano.

Giovani turchi/2. Matteo Orfini, ex braccio destro di D'Alema ora renzianissimo, dal gruppo Rifare l'Italia alla presidenza del partito passando per l'operazione Roma, affossamento di Marino e consegna della città al M5S. Con Francesco Verducci, in ascesa, vengono dal gruppo della fondazione Gramsci. Scuola Vacca. Studiosi, strutturati, prudenti.

Area Dem. Dario Franceschini dà le carte, e da molto tempo. Ora in asse con Gentiloni e Mattarella, radici cattoliche. Istituzionali. Con Debora Serracchiani sono l'ossatura di un possibile Pd post-renziano e centrista, il vero ostacolo all'operazione D'Alema. Il vero nemico di chi tenta di scalare il partito da una, vera o presunta, sinistra.

Movimento lombardo. Il Pd di Milano e lombardo, snobbato dalle cronache, è il più vitale. Esprime pezzi di governo. Maurizio Martina, renziano ma non troppo, bergamasco, ex segretario cittadino poi regionale. Cristina Tajani, Milano In, appena entrata nel Pd da Sel/Si. Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran hanno governato e governano le politiche della mobilità, migranti e urbanistica. Lia Quartapelle, deputata. Un pd che parla inglese, coworking e startup, e dialoga coi piani alti e lavora in basso. Capoluogo politico della sinistra che ha vinto e governa in Comune. La parte viva del Pd.

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/19/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_6089046-158655580/


Titolo: Concita DE GREGORIO. Referendum Catalogna: la fragilità e la paura di chi ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 04, 2017, 11:39:35 am
Referendum Catalogna: la fragilità e la paura di chi alza scheda bianca
Quella del voto per l'indipendenza della regione autonoma spagnola è la storia di uno scontro politico sfuggito di m
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Di CONCITA DE GREGORIO
01 ottobre 2017

BARCELLONA - Fragilità, paura. Dietro al frastuono delle urla di piazza, dei trattori e degli spari che occupano la scena, amplificati e replicati all'infinito dalle immagini su Internet e in tv, c'è una maggioranza di cittadini disorientata, spaventata dalla via senza ritorno che ha preso lo scontro. Costretta, in un certo senso, a schierarsi. Incredula di fronte all'incapacità di una classe politica che ha fatto di una palla di neve una pericolosissima slavina.

Una classe politica che passerà alla storia per aver trasformato un dosso stradale in un muro, e di aver guidato bendata allo scontro. Per insipienza? Per mala fede? Per nascondere più gravi questioni? Arrivo in centro su un autobus guidato da un cittadino spagnolo di origine peruviana di nome Riccardo: vive e lavora a Barcellona da 14 anni, i suoi figli sono nati qui. Mi dice che andrà a votare scheda bianca. "Pensavo di non andare, l'indipendentismo non mi interessa, ma per come si sono messe le cose: vado". Posso registrare le sue parole? Certo. "Siamo liberi di esprimere la nostra opinione, no? Siamo una democrazia".

In via Laietana (dove sfila oggi un migliaio di catalani sovranisti: Catalogna è Spagna dicono gli striscioni) incontro un avvocato sulla sessantina, esponente della borghesia delle professioni - la colonna dorsale di questa città. Non è indipendendista, non lo è mai stato. Tre mesi fa, in estate, mi aveva tenuta una serata intera a spiegarmi l'insensatezza della causa. Lui, i suoi colleghi, sua moglie, i loro amici: autonomia sì, indipendenza no. Ora, mi dice, bisogna andare a votare. Guarda il corteo: "Ci costringono, non ci si può tirare indietro ". Anche Ada Colau, sindaca della città espressa da En Comù Podem, una costola di Podemos - la novità politica più rilevante degli ultimi anni, arrivata a un passo da governare i Paese - voterà scheda bianca.

L'autista peruviano, l'avvocato borghese, la sindaca venuta dai movimenti. Non tutti i catalani sono indipendentisti, né tutti gli spagnoli sovranisti. Non è un derby, per quanto il Barça sia schierato. E' una storia politica scappata di mano, e bisogna avere la pazienza e l'attenzione di decifrarla. Quando qualcosa accade è perché è già successo. "Niente comincia davvero, tutto è il proseguimento di qualcos'altro", scriveva Martin Caparròs sul New York Times lunedì scorso nella più equilibrata analisi letta fino a oggi. Caparròs, scrittore argentino, fondatore di Pagina 12, vive da anni in Spagna e lavora per il NYT.

Spiega come meglio non saprei dire, provo a riassumere. Nessuno fino all'altro giorno ha mai parlato di indipendenza. Neppure i partiti che oggi la invocano. Il tema è sempre stato l'autonomia - fiscale, culturale, amministrativa: Catalogna ha sempre chiesto lo stesso regime di autonomia dei Paesi Baschi. Perché i Paesi Baschi l'hanno avuta e Catalogna no? Detto male, ma per capirsi: per via dell'Eta, la guerra civile che ha insanguinato la Spagna. Il Paese Basco ha ottenuto uno statuto autonomo quasi da stato federale, Catalogna no. Dopo decenni di lavoro politico nel 2006 si arriva a un accordo: Maragall (l'ex sindaco delle Olimpiadi, amatissimo) presidente della regione e Zapatero al governo, entrambi socialisti, trovano l'intesa per lo Statuto autonomo. Una legge regionale catalana ratificata dallo Stato centrale. La soluzione.

Quattro anni dopo, nel 2010, il nuovo governo di destra guidato da Rajoy, Partito Popolare, porta lo Statuto alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina politica) che lo cassa. Fine dei giochi, inizio della storia che ci porta a oggi. Nel 2010 in Catalogna c'era la stessa destra catalanista di adesso: non aveva mai parlato di indipendenza, sempre di autonomia. Irrompe però la crisi economica. Tagli alla scuola, alla salute, ai diritti. Casse vuote, corruzione alle stelle. Spiega Miguel Mora, che dirige la rivista Contexto, vive a Madrid ed è stato per anni corrispondente del Pais dall'Italia: "L'indipendentismo è una cortina di fumo delle élites che serve a nascondere la corruzione enorme sia del Partito popolare che di Convergencia e Uniò. Del Partito di Rajoy e di quello di Pujol.

Mentre la gente impoverita scende in piazza, nasce Podemos, le classi politiche tradizionali ugualmente corrotte non trovano di meglio che agitare la facile bandiera della Patria. Le Patrie. Un diversivo. Il sistema economico controlla i media, il Psoe vira verso destra incalzato da Podemos. Il governo di Madrid prova a nascondere gli scandali della sua guerra sporca, una guerra di Stato fatta di dossieraggi contro i catalani e di servizi deviati". La Catalogna, regione ricca, dà a Madrid la colpa dell'impoverimento. La destra catalana per governare si allea a Esquerra repubblicana, forza cattolica borghese di sinistra. Nessun rivoluzionario all'orizzonte. Gli indipendentisti sono una esigua minoranza, ancora, sotto il 20 per cento: tra loro i giovani dei Cup, area centri sociali, necessari al governo catalano. Scrive Caparròs: "La maggioranza dei catalani non può immaginare la sua regione fuori dall'Europa, il suo tenore di vita impoverito e il Barça giocare fuori dalla Liga". Chiaro.

Artur Mas nel 2014 convoca un referendum consultivo: va a votare la minoranza dei catalani. E' il segnale per avviare una trattativa, ma Rajoy si nega. Miguel Mora: "La cocciutaggine e la miopia di Rajoy, accecato dal pericolo di soccombere sotto gli scandali del suo governo, è lampante. Se poi mandi 15 mila poliziotti, arresti funzionari, chiudi i siti internet costringi tutti a scendere in piazza persino per una causa non loro". È pur sempre un paese la cui classe dirigente, a destra, è nipote della dittatura. "Arrivano in piazza le bandiere, che hanno la caratteristica di scappare di mano. Ora l'82 per cento vuole l'indipendenza. È la fine della stagione della classe politica che ha portato alla Costituzione del '78.

Fino a pochi mesi fa non c'erano rivoluzionari, non c'erano indipendentisti. C'era una regione che chiedeva autonomia. Ora siamo sull'orlo di una guerra civile". Nessuno saprà mai cosa avrebbero votato i catalani se li avessero lasciati votare. Non era l'indipendenza la posta in palio. "Io credo che gli stessi dirigenti catalani abbiano paura di vincere, delle conseguenze". Paura, di nuovo. Carles Puidgemont, giornalista pubblicista di Girona, diceva a questo giornale a giugno: "Sono costretto ad arrivare in fondo, ormai". Costretto. Un Simon Bolivar suo malgrado, dicemmo allora. Conservatori cattolici di destra iscritti al ruolo dei rivoluzionari. Conservatori e cattolici anche a Madrid, iscritti alla repressione. La violenza spinge all'illegalità. Doppio fallo, speculare. Il re tace. Podemos si chiama fuori. Astenuti dalla finta contesa, perché non è l'indipendenza la posta, ma chi governerà il Paese nei prossimi anni. Un gioco politico di potere che chiama in piazza il popolo "col vecchio trucco delle Patrie", scrive Martin Caparròs sul New York Times.
Il vecchio pericolosissimo trucco.

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Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/10/01/news/referendun_catalogna_la_fragilita_e_la_paura_di_chi_alza_scheda_bianca-177025054/?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: Concita DE GREGORIO «Noi, tutte sorrisi nei selfie pieni di like. Senza più ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 27, 2017, 12:03:47 am
Concita De Gregorio: «Noi, tutte sorrisi nei selfie pieni di like. Senza più sapere chi siamo»

Reputazione e identità sono due storie ben diverse. Ma è sempre più difficile distinguerle, nell'epoca dell'auto-rappresentazione sui social tutta tesa al consenso.
La giornalista e scrittrice, dopo avere raccontato le «ragazze del secolo scorso» nel documentario "Lievito madre", passa alle «ragazze di questo secolo» nel libro "Chi sono io?"

C’è una domanda che su tutte ci accompagna da che iniziamo a crescere a che finiamo di vivere. Ed è Chi sono io? Qualcuno ci è sprofondato dentro, non sapendola sostenere. Altri l’hanno lasciata correre nei giorni, finché – presto o tardi – è comunque arrivata. Concita De Gregorio ci ha intitolato il suo ultimo libro (edizioni Contrasto, 2017).
Dove attraversa un momento storico – questo – in cui «mostrarsi agli altri è diventato più rilevante che mostrarsi a se stessi». E la risposta a quell'interrogativo si fa sempre più vaga, rimandante, come nel gioco degli specchi.

Perché nell’ambizione di consenso da selfie condivisi, la già difficile ricerca della propria identità personale in un niente si confonde, si annebbia, si perde. Fatica a definirsi, indirizzarsi, ritrovarsi.

Ne parliamo in un bar di Milano poco lontano dallo Spazio Oberdan, dov’è in corso la proiezione del film documentario che ha girato con Esmeralda Calabria ispirandosi ai Comizi d’amore di Pierpaolo Pasolini: Lievito Madre – Le ragazze del secolo scorso, una ricognizione sulle donne del tempo prima di noi, ritratto di com’erano, «conservative, sì, ma in modo spregiudicato, perché a tratti già così straordinariamente libere, eversive, rivoluzionarie. Noi apparteniamo invece alla generazione di Carlo d’Inghilterra: ci è affidato il compito di mantenere le grandi conquiste, non di farle».

E intanto «le ragazze di questo secolo» scattano i selfie.

«Da qui (ri)parto. Cosa ci porta a rivolgere lo sguardo e l’obiettivo verso noi stesse? Perché – per quale bisogno o desiderio – ruotiamo di 180 gradi il cellulare e ci fotografiamo, ci filtriamo, ci condividiamo, vediamo l’effetto che fa, come va, quanto valiamo nell’impero del piacere, nella tirannia dei like? Volevo capire».

Ci è riuscita?

«In parte: la fotografia resta materia, tempo e luce ma fa il testacoda. La usiamo non più per indagarci, conoscerci, come poteva succedere con l’autoritratto, ma per aumentare la nostra popolarità: vogliamo essere graditi, giudicati bene, dimenticando che non sempre quel giudizio è consapevole, e utile».

Qual è la prima cosa che si vuole suscitare con un selfie, secondo lei.

«Ammirazione. Per questo ci auto-rappresentiamo perlopiù sempre in situazioni di benessere – posti belli, compagnia di persone importanti – e il ritratto non è mai una posa a perdere, non ci si offre cianotiche, tristi e struccate. In Sicilia, sulla spiaggia di Mondello, arriveremmo a preferire al mare vero un finto paesaggio delle Seychelles dipinto dietro alle cabine. Perché l’importante è che il contesto in cui ci mettiamo sia più invidiabile possibile. E sorridere, buttando baci all’indirizzo di una platea anonima».

A cui assolutamente piacere.

«Piacere al maggior numero di estranei, per l’esattezza, che pare essere diventata la strada obbligata per piacersi. E così avere la conferma di esistere perché all’altezza delle aspettative degli altri. Solo che gli altri fino a un decennio fa erano la classe, la scuola, il quartiere. Oggi sono centinaia di follower. E come dimostrano le cronache, se hai 16/20 anni il rischio boomerang è altissimo, quando non sai più chi sei e finisci a credere di essere solo quello che gli altri pensano tu sia. Quando la reputazione (chi sono io per gli altri) prende il posto dell’identità (cosa vedo io di me) come una cugina cattiva, invidiosa, che le fa i dispetti».

Che cos’ha imparato in questo «viaggio»?

«Che non ci si mette mai in polemica con la realtà e possiamo al massimo provare a comprenderla. Che esistono pochissimi autoritratti maschili, e che invece in tutte le epoche ogni donna – da Vivian Maier ad Anna di Prospero – ha iniziato il proprio lavoro di fotografa fermando prima lo sguardo su se stessa e poi sugli altri, come soluzione a una ferita interna, un tornare sul proprio luogo del delitto, su quella sofferenza – la madre, il figlio, il sesso, il corpo, la paura, il tempo, la sua assenza – che da un certo punto in poi l’ha resa unica, diversa, nell’imperativo categorico di un sistema che invece ci vorrebbe tutte uguali e se non gli aderisci soffri».

Lei come si risponderebbe alla domanda “Chi sono io?”?

«Danilo Dolci scriveva che ciascuno cresce solo se sognato. Io sicuramente non sono la persona che la maggior parte crede che io sia. Quando mi incontrano, spesso mi dicono: “Sei diversa”. “Diversa da cosa?”, mi chiedo allora. “Diversa dal pre-giudizio che sempre pensa di già sapere, nella mancanza della conoscenza diretta dell’altro”».

Chi è lei?

«Chi non sono io. Per esempio non sono una militante, se non del dubbio, unica religione a cui sono devota: la domanda del perché delle cose, della ragione delle cose è la mia preghiera, non ne ho altre. Poi: non sono benestante, come mi descrivono, non faccio parte dei salotti dorati dei privilegiati. Sì, un privilegio enorme ce l’ho, è vero, ed è potere fare il lavoro che volevo fare. Dopo di che, la mia vita è semplicissima, faticosa, anche, non appartengo ad alcun gruppo, se sono chic come pare è tutto involontario, viene da sé, nei molti difetti che fanno il resto. Ah, neanche sono una radicale. Piuttosto, il mio è il partito della mitezza, della non separazione, della pazienza, della costanza, della curiosità, dell’invisibilità. Vorrei potere guardare in pace senza essere vista, non dovere essere chiamata a rispondere ad attacchi. Trarmi in salvo. Perché non c’è battaglia più stupida di una battaglia inutile».

Che ricordo ha dell’esperienza da direttrice dell’Unità? Era il 2008, e la prima volta per una donna.

«La grandissima responsabilità addosso: avere la guida di un giornale è significato murarmici viva, dalle sette di mattina alle due di notte. Più dell’interesse, più del potere del comando, da lì partì piuttosto un’inversione fondamentale dei meccanismi della popolarità. Oggi so che il fuori campo è la posizione migliore per chi è strumento che porta il racconto, senza però farne parte. Si è concentrati meglio sul mondo».

Le donne come le sembrano, da fuori campo?

«Un bell’oggetto di discussione. Forse per storia, struttura e cultura, più determinate e determinanti degli uomini. Forse per i famosi neuroni specchio che ci si attivano fin da piccole, più orientate a rispecchiarsi, a mettersi nei panni dell’altro, ad avere un certo sguardo sulle cose e a portarle a compimento. Pensiamo alla legge sul fine vita: è stata guidata interamente da loro, se non fosse stato per Mina Welby e Emma Bonino in lacrime in tribuna, chissà se ci sarebbe stata».

Nel libro scrive: «Le donne partoriscono figli mortali, e lo sanno».


«Io con i miei cerco di mimetizzarmi: dai loro modi, nella loro dipendenza ormai assoluta dalle connessioni e dalle chat, cerco di capire dove stiamo andando. Non mi sembra un posto particolarmente bello. Anzi, ho il timore sarà così brutto che toccherà proprio a loro doverlo sovvertire, doverlo rivoluzionare».

La politica le interessa ancora?

«Nella misura in cui lei torni capace – proprio com’è il femminile – di ascolto, condivisione, cura. Senza mai generalizzare, che è sempre un’insidia, anche qui ho però come l’impressione che tutti parlino più di quanto ascoltino, e tutti vogliano essere guardati, più che guardare».

Se l’Italia avesse un selfie stick a portata di mano, ora, su che cosa dovrebbe zoomare?

«Sul cibo. Può puntare solo su quello. Per il resto è tutta in crisi. Roba da fare impennare il lipstick index: è noto che più tutto va in rovina, più aumentano le vendite – e quindi il consumo – di rossetti rossi. Perché il rossetto rosso è una piccola cosa che costa poco, ma appena lo indossi ti fa subito bella. E ti restituisce quella porzione di benessere possibile. In un benessere impossibile».

Da - https://www.vanityfair.it/people/italia/2017/12/23/concita-de-gregorio-intervista-selfie-autoritratto-libro-vita-privata-foto


Titolo: Concita DE GREGORIO: CHI SONO
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 02, 2018, 06:49:28 pm
CHI SONO
A Repubblica dal 1990 al 2008, poi direttore de L’Unità dal 2008 al 2011, è rientrata a Repubblica come editorialista.

Laureata in Scienze Politiche all'Università di Pisa, ha iniziato la carriera nelle radio e TV locali toscane. È autrice di numerosi libri tra cui "Non lavate questo sangue" (Laterza, 2001), "Una madre lo sa" (Mondadori, 2006), "Così è la vita"(Einaudi, 2011), "Io vi maledico" (Einaudi, 2013).

Nel 2014 è uscito "Un giorno sull'isola", scritto con il figlio Lorenzo. Nel 2015 ha pubblicato “Mi sa che fuori è primavera” (Feltrinelli), mentre nel 2016 sono usciti “Cosa pensano le ragazze” (Einaudi), legato al progetto omonimo che appare su Repubblica.it, e "Non chiedermi quando. Romanzo per Dacia" (Rizzoli).

Per tre anni ha condotto su Rai Tre la trasmissione televisiva "Pane quotidiano" dedicata ai libri. Dall'autunno scorso va in onda, sempre su Rai Tre, "Fuori Roma", programma da lei ideato e condotto.

Da - http://invececoncita.blogautore.repubblica.it/articoli/2018/01/02/perche-gli-infermieri-ci-chiamano-per-nome/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1


Titolo: invececoncita.blogautore.repubblica.it - Noi che conosciamo il senso della lotta
Inserito da: Arlecchino - Marzo 24, 2018, 11:27:37 am
Noi che conosciamo il senso della lotta

Antonio e di Maria Bonarda in una foto di 15 anni fa. I ragazzi si chiamano, in ordine decrescente di età, Emanuele, Giaime, Raffaele, Gianvittorio, Violetta. Emanuele ha in collo Lilla che ora non c'è più
Grazie ad Antonio Pinna, che ha cinque figli e vive in Sardegna

La lettera di Antonio ha un sapore antico e familiare. I miei nonni, i miei genitori: mi ha fatto ricordare e ripensare.

“Non avrei mai pensato di scriverti se non avessi letto la lettera intitolata ‘Noi che non conosciamo il senso della lotta’. Ti scrivo dalla Sardegna. Ho 67 anni, sono sposato ed ho cinque figli. Sono pensionato ed ho fatto il preside sino a sette anni fa. Mia moglie ha fatto l'impiegata e s'è laureata, mentre lavorava, da adulta. Io a 64 anni ho preso la seconda laurea solo per il gusto di studiare. I miei figli? Quattro, diciamo pure, son sistemati".

"La prima s'è laureata nella Penisola e dopo un master e alcuni lavoretti, chiamiamoli cosi, lavora stabilmente presso un ente molto qualificato che si occupa di mobilità studentesca. Il secondo ha una laurea breve e lavora in un piccolo hotel dove si occupa di ricevimento e di collaborazione alla direzione. Il terzo, dopo il diploma in una scuola superiore, ha lavorato per dieci mesi come cameriere in un bar in Germania. Poi ha preferito rientrare a casa".

"Ha fatto l'apprendista elettricista e ora fa l'operaio in una piccola azienda. Non ha perso da nove anni un giorno di lavoro. Questi tre hanno già un bel gruzzolo di anni di contributi previdenziali. Veniamo al quarto figlio. Ora lavora a Barcellona come receptionist in un hotel a quattro stelle, anche lui. Ha viaggiato tanto. Conosce quasi tutti i Paesi europei. Ha vissuto due anni in Inghilterra, prima della Brexit".

"Vicino a Londra ha lavorato nel settore della ristorazione. Ha fatto Erasmus in Spagna. Parla correntemente inglese e spagnolo. Ha una laurea breve. Ha tentato anche di studiare in Svezia, dove ha vissuto per due mesi. Come dire, tutti si son costruiti un futuro. Edora il quinto. A 23 anni ha preso la laurea in Scienze Diplomatiche e Internazionali a Torino con una tesi sulla gestione collettiva delle terre civiche in Sardegna. Ha mandato il testo di un possibile intervento a Trento, dove esiste un centro studi universitario su questo tema".

"Un paio di mesi fa, unico neolaureato, ha fatto il suo intervento alla ventitreesima riunione scientifica presso la sede universitaria trentina. Ora, dopo aver vagamente pensato di tentare la carriera diplomatica o lavorare in una ong, vorrebbe lavorare nel settore della agricoltura sostenibile. Strada molto ardua...".

"Noi apparteniamo tutti alla categoria di quelli che conoscono il senso della lotta, ci siamo nutriti per anni di questo senso. Non ho scritto per autoglorificare la mia famiglia, ma penso e conosco tante persone che hanno creduto soltanto nei sogni, grandi o piccoli, nel coltivarli e provarci, farsi un bagaglio giorno per giorno, anno per anno, per realizzarli. Coltivare sogni, anche non particolarmente alti e ambiziosi, visto che purtroppo, come diceva Gramsci, viviamo in un mondo grande e terribile. Quanto a me ne coltivo non uno, ma due, che conto di realizzare a breve: un documentario ed un libro sui malati di SLA. Due lavori in quattro anni di volontariato”.

Da - http://invececoncita.blogautore.repubblica.it/articoli/2018/03/24/noi-che-conosciamo-il-senso-della-lotta/


Titolo: Concita racconta il Mondiale sfottendo Calenda
Inserito da: Arlecchino - Giugno 30, 2018, 05:03:59 pm
LA SINISTRA, I MONDIALI, CARLO CALENDA

Oggi ho fatto il brunch ai Parioli con Carlo Calenda.
Carlo anima il più grande laboratorio di pensiero della sinistra italiana, che ospita molteplici personalità (le sue), dialoghi (tra sé e sé): il suo profilo Twitter.

All'indomani di una sconfitta dolorosa per la sinistra italiana, tante roccaforti perdute, tra cui Siena che tutti dovreste visitare per la sola ragione del viaggio e di un relais a Castelnuovo Berardenga a bere del Chianti squisito. Scusate, ho perso il filo.
Con Carlo parliamo di sinistra, di mondiali, di fronte repubblicano. M'invita a non sottovalutare il valore estetico della politica: il PD ha dato nuova linfa vitale all'espressione "terra bruciata di Siena". Il PD ha vinto a Teramo. Ripartiamo da Teramo. Apriamo un circolo del fronte repubblicano a Teramo: aperitivo vigoroso con arrosticini e Montepulciano biologico di Emidio Pepe. Squisito, tutti i sinceri repubblicani dovrebbero conoscerlo, parimenti alle fondanti opere che costituiscono la base del pensiero della sinistra secondo Carlo Calenda. Gramsci, Topolino, Ezra Pound, Montanelli, Macron, Ennio Doris, Marx, Zacapa: il generale Zacapa, quello del rum. Delizioso, Carlo spera che voi plebei lo conosciate e possibilmente lo snobbiate altresì per dedicarvi a piccole produzioni ancor più di nicchia e pregiate. Se la sinistra non riparte dal sapere scegliere il rum e da Gentiloni, qua stiamo freschi Concita mia: questo mi dice Carlo.
Il rum. Lo zucchero che si distilla. Questo forse è proprio il senso della sinistra. Distillare, istillare, distillare, istillare, mi sublima pensare al moto circolare delle onde, lavorare lavorare preferisco il rumore del mare sulla spiaggia di Capalbio. Che fine intellettuale che è Calenda, capisco il suo impegno riluttante per il PD. Capisco la timidezza, il timore di donare la parte migliore di sé alla politica, la politica che ti prende, ti usa e poi ti butta via come una direttrice de L'Unità ingolfata di debiti.
Con Carlo, parliamo infine di calcio e delle partite di oggi: mi dice che la Spagna è una buona squadra, ma dovrebbe liberarsi di quel premier che si ostina a essere parte di un partito che si inquadra nella ridotta identitaria della sinistra novecentesca. Lo stesso vale per il Portogallo, non ci spieghiamo come si possa uscire a sinistra da una crisi economica, senza Macron, senza buttare nell'umido decenni di cultura politica e organizzazione. Non sono cose da paese incivile che si rispetti, come il nostro per fortuna è.
Ma è quando arriviamo a parlare di Russia che Carlo si scalda: comprende la fascinazione per l'uomo forte, che ha reso Putin il re della scena politica mondiale. Tutte le mattine, mentre si fa la barba, Carlo si ripete di essere il nuovo Putin, pronto per scendere in campo a suon di leadership vigorosa, machismo ostentato, allenamento fisico esasperato. Mentre mi affascina con la sua brillante oratoria putiniana da uomo forte, Carlo si stira un tendine per essersi sporto troppo verso le ostriche che stavamo mangiando in onore al fronte repubblicano.
Una madre lo sa che le ostriche fanno male se le mangi senza stile.

Da - Concita racconta il Mondiale



Titolo: Governo anticostituzionale sui migranti. L'appello degli intellettuali contro...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2018, 05:40:28 pm
"Governo anticostituzionale sui migranti".
L'appello degli intellettuali contro Salvini e Di Maio
Dopo la lettera di una studentessa a Concita De Gregorio in polemica contro il silenzio degli intellettuali, la risposta di docenti universitari, scrittori e ricercatori.
E una raccolta di firme da inviare a Mattarella

Di SERENA RIFORMATO
27 giugno 2018

ROMA. “Denunciamo come anticostituzionale, moralmente inaccettabile e contraria ai più elementari diritti umani la politica sull’immigrazione del governo Salvini-Di Maio”. Comincia così la lettera con cui più di 200 intellettuali prendono posizione contro i porti chiusi dall'esecutivo gialloverde. L'appello è ancora aperto, raccoglie una lunga lista di firmatari in crescita e solo al raggiungimento di un numero definitivo verrà inviata al capo dello Stato. Ma i professori coinvolti hanno sentito il bisogno di renderla pubblica subito per non rimanere in silenzio davanti a un'altra lettera, pubblicata il 26 giugno su Repubblica, questa volta di una studentessa a Concita De Gregorio. “Io mi domando e dico”, scrive Margherita Ciancio, “che cos’altro stanno aspettando personaggi pubblici e intellettuali di ogni ambito ordine grado a schierarsi in massa, in prima linea, per sostenere duramente e inequivocabilmente la libertà d’espressione?”. E il mondo a cui la studentessa si rivolge fa sapere che si sta già muovendo. “Raccogliere le firme di tanti colleghi per questo Appello sul tema delle politiche sui migranti ha richiesto svariati giorni – e ancora ne stanno pervenendo per l’invio successivo al Presidente della Repubblica Mattarella”, spiega Elena Gagliasso, a nome di tutti gli atri. “Tuttavia pensiamo sia giusto risponderle subito con quel che abbiamo: far sentire a questa studentessa (e ai tanti che sottoscriverebbero le sue parole) che ci siamo, che un collegamento di pensiero critico c’è, ed è in marcia”.

La lettera di Margherita Ciancio a Concita De Gregorio: "Intellettuali, schieratevi"
Di seguito, il testo integrale della lettera e i nomi dei 215 firmari:
 
Presa di posizione pubblica contro la politica in tema di migrazioni del governo Salvini-Di Maio
Siamo insegnanti, docenti universitari, scrittori, artisti, attori, registi, economisti, membri della società civile. Denunciamo come anticostituzionale, moralmente inaccettabile e contraria ai più elementari diritti umani la politica sull’immigrazione del governo Salvini-Di Maio. Nel futuro non assisteremo senza opporci con tutti i possibili mezzi legali al respingimento di navi umanitarie, alla minaccia di “censimenti” di tipo etnico-razzista o ad altri fatti di questa gravità. Denunciamo come ugualmente pericoloso, incostituzionale e inaccettabile l’intero asse politico europeo di orientamento razzista e nazionalista cui questo governo guarda ideologicamente. Da sempre i flussi migratori sono naturali ed essenziali per le civiltà umane; il rispetto della diversità culturale, del diritto d’asilo e del diritto all’integrazione, principi duramente conquistati dall’Europa con la sconfitta del nazifascismo, sono l’unica strada che è necessario regolare e percorrere, naturalmente a livello europeo. Chiediamo al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di impedire come anticostituzionale ogni provvedimento ispirato a discriminazione etnico-razzista o lesivo del diritto d’asilo.

Tra i firmatari: Giancarlo Consonni (Prof. Emerito, Politecnico Milano) Marta Fattori (Prof. Emerito, Univ. Roma La Sapienza) Lia Formigari (Prof. Emerito, Univ. Roma La Sapienza) Sergio Givone (Prof. Emerito, Univ. Firenze) Guido Martinelli (già Dir. SISSA, Univ. Roma La Sapienza) Giorgio Nebbia (Prof. Emerito, Univ. Bari) Giorgio Patrizi (Univ. Campobasso, Premio Flaiano per la letteratura 2015) Francesco Remotti (Prof. Emerito Univ. Torino).

Firmatari [215 al 26/6/18]
1. Velio Abati, insegnante (GR) 2. Michele Abrusci (Univ. Roma Tre) 3. Ilaria Agostini, 4. Vittorio Agnoletto (Univ. Degli Studi, Milano La Statale) 5. Nadia Alba Agustoni (scrittrice) 6. Luca Alberti, Impiegato comunale 7.Myriam Alcalay (Univ. Milano La Statale) 8. Carla Maria Amici (Univ. Salento) 9. Nadia Andrea Andreani (Univ. of Lincoln) 10. Antonella Anedda (scrittrice), 11. Livia Apa (CESAC, Univ. Napoli l’Orientale) 12. Bruno Apolloni (già Univ. Milano La Statale) 13. Giuseppe Aragno (storico) 14. Luca Archibugi (scrittore) 15. Gennaro Avallone, 16. Damiano Baldassarre (Univ. Milano La Statale) 17. Anna Baldinetti (Univ. Perugia) 18. Ivan Bargna (Univ. Milano-Bicocca) 19. Vincenzo Bavaro, 20. Luca Bernardini (Univ. Milano La Statale) 21. Maria Grazia Betti (Univ. Roma La Sapienza) 22. Dario Bevilacqua, funzionario amministrativo del Min. Politiche agricole 23. Piero Bevilacqua (Univ. Roma La Sapienza) 24. Francesca Biancani (Univ. Bologna e Cedej/IFAO, Cairo) 25. Alessandro Bianchi (Univ. Bari) 26. Nadia Boaretto, 27. Vittorio Boarini, 28. Costanza Boccardi, 29. Olivia Bonardi (Univ. Milano La Statale) 30. Luca Bonardi (Univ. Milano La Statale) 31. Luca Boniardi (Univ. Milano La Statale - PhD) 32. Rossella Bonito Oliva, (Univ. Napoli l’Orientale) 33. Sara Borrillo (Univ. Napoli l’Orientale) 34. Sergio Botta (Univ. Roma La Sapienza), 35. Caterina Botti, (Univ. Roma La Sapienza) 36. Giuseppina Brunetti (Univ. Bologna), 37. Mario Cacciola, 38. Silvia Caianello, (Cnr. Napoli) 39. Chiara Calabrese (ècole Des Hautes ètudes En Sciences Sociales Parigi) 40. Roberto Cammarata (Univ. Milano La Statale) 41. Lucio Capoccia (Pontificia Universitas Urbaniana, Roma) 42. Paolo Caporali (Associazione Centro Orientamento Educativo) 43. Piero Caprari, 44. Sergio Cardone (artista) 45. Lorenzo Casini (Univ. Messina) 46. Giovanna Cassano, 47. Paola Causin (Univ. Milano La Statale) 48. Stefania Cavaliere, 49. Paolo Cavallari (Univ. Milano, La Statale)

50. Federica Letizia Cavallo (Univ. Ca' Foscari Venezia) 51. Mariacristina Cavecchi (Univ. Milano La Statale) 52. Marco Celentano, (Univ. Cassino) 53. Carlo Cellamare (Univ. Roma La Sapienza) 54. Martina Censi, 55. Claudio Cernesi (già Univ. Modena e Reggio) 56. Iain Chambers (Univ. Napoli l’Orientale) 57. Raffaella Chiaramonte (Univ. Milano, La Statale) 58. Francesco Chirico, 59. Silvana Citterio (già dirigente scolastico, Milano) 60. Emanuele Coco, (Univ. Catania) 61. Amalia Collisani (Univ. Palermo) 62. Raffaella Colombo (Univ. Milano La Statale) 63. Giancarlo Consonni (Prof. Emerito, Politecnico Milano) 64. Roberto Cornelli (Prof. Università di Milano-Bicocca) 65. Angelo Corrado, 66. Francesco Correale (CNRS-Universitè de Tours) 67. Riccardo Corsi, 68. Carlo Cosmelli, (Univ. Roma La Sapienza) 69. Luca Crescenzi, 70. Federico Cresti, Univ. Catania 71. Xheni Dani, Libera professionista - ONG diritti umani 72. Francesca Davoli, 73. Marina De Chiara, (Univ. Napoli L’Orientale) 74. Gregorio De Paola, 75. Sara de Simone, (Univ. Trento) 76. Giovanni Destrobisol, (Univ. Roma La Sapienza) 77. Donatella Di Cesare (Univ. Roma La Sapienza) 78. Patrizia Di Paola, insegnante 79. Valentina Dorato (Univ. Roma La Sapienza) 80. Christiana Elevati (Consulente per il Terzo Settore e la Cooperazione Internazionale - MI) 81. Maria Cristina Ercolessi (Univ. Napoli L’Orientale) 82. Paolo Falzone (Univ. Roma La Sapienza) 83. Bernardo Fantini, (Univ. Ginevra) 84. Stefano Farris (Univ. Milano La Statale) 85. Aldo Femia (ISTAT), 86. Cristiana Fiamingo (Univ. Milano la Statale) 87. Gentile Francesco Ficetola (Univ. Milano La Statale)

88. Sara Forcella (Univ. Roma La Sapienza - PhD) 89. Elena Gagliasso (Univ. Roma La Sapienza) 90. Gianluca Gaias (Univ. Cagliari – PhD) 91. Elisabeth Galvan (Univ. Napoli l’Orientale) 92. Alfonso Gambardella, già dirigente scolastico (SA) 93. Alice Garbagnati (Univ. Milano La Statale) 94. Elena Gardenghi (Servizio internazionalizzazione, Univ. Bologna) 95. Sonia Gentili (Univ. Roma La Sapienza) 96. Gennaro Gervasio (Univ. Roma Tre) 97. Riccardo Ghidoni (Univ. Milano La Statale) 98. Federica Giardini, (Univ. Roma Tre) 99. Sergio Givone (Prof. Emerito, Univ. Firenze), 100. Piero Graglia (Univ. Milano La Statale) 101. Hykel Hosni (Univ. Milano La Statale) 102. Clelia Iacobone (insegnante, BA) 103. Teresa Iaria (Accademia di Belle Arti, Brera) 104. Francesco Indovina (Univ. Sassari) 105. Giorgio Inglese (Univ. Roma La Sapienza) 106. Ombretta Ingrascì (Univ. Milano La Statale) 107. Addolorata Intini, 108. Luca Jourdan (Univ. Bologna) 109. Cristina Lavinio (già Univ. Cagliari) 110. Luigi Lay (Univ. Milano La Statale) 111. Flaminia Lenti (insegnante di italiano L2, Caritas di Roma) 112. Gaetano Lettieri (Univ. Roma La Sapienza) 113. Eugenio Lombardi (Presidente Ecomuseo Urbano del Nord Barese e del Laboratorio Urbano, Bari) 114. Aurora Loprete - (PTA Univ. Milano La Statale) 115. Emanuele Lupo (attivista Cosenza) 116. Gianfrancesco Lusini, 117. Maria Immacolata Macioti (già Univ. Roma La Sapienza) 118. Noemi Magugliani (National Univ. of Ireland Galway – PhD) 119. Giuseppe Maimone (CoSMICA- Univ. Catania) 120. Massimo Mamoli (Univ. Milano) 121. Franca Mancinelli (scrittrice) 122. Laura Marchetti (Univ. Foggia) 123. Carlo Mariani (Univ. Roma La Sapienza) 124. Enzo Marinari, 125. Lucia Martines (Univ. Genova)

126. Pietro Masina (Univ. Napoli l’Orientale) 127. Jari Mazzoleni, 128. Severino Meloni, 129. Beatrice Mezzacapa, 130. Silvano Milani (Laboratory of Medical Statistics, Biometry and Epidemiology “G.A. Maccacaro”, Univ. Milano La Statale) 131. Carmela Morabito, (Univ. Roma Torvergata) 132. Rosanna Morabito, (Univ. Napoli L’Orientale) 133. Silvia Morgutti (Univ. Milano La Statale) 134. Giuseppe Moricola, 135. Silvio Morigi, Univ. Siena e Milano La Statale) 136. Maurizio Maugeri (Univ. Milano La Statale) 137. Giuseppe Molteni (Univ. Milano La Statale) 138. Giorgio Nebbia (Prof. emerito, Univ. Bari) 139. Noemi Negrini (Univ. Milano La Statale) 140. Caterina Nocella, 141. Giuseppe Notarbartolo di Sciara (Fondatore e presidente onorario Istituto Tethys) 142. Francesco Novelli (insegnante) 143. Assunta Nigro, 144. Roberto Oberti (Univ. Milano La Statale) 145. Paolo Oddi (Avvocato, socio ASGI) 146. Stefano Ossicini, 147. Salvatore Pace, 148. Silvana Palma (Univ. Napoli L’Orientale) 149. Anna Pasolini, 150. Paola Pastorino (insegnante) 151. Giorgio Patrizi (Univ. Campobasso, Premio Flaiano per la letteratura 2015) 152. Maura Pazzi (Medici senza Frontiere) 153. Cinzia Daniela Pieruccini (Univ. Milano La Statale) 154. Sandra Petrignani,(scrittrice) 155. Daniele Petrosino (Univ. Bari) 156. Antonio Pezzano (Univ. Napoli l’Orientale) 157. Giulia Piccolino (Loughborough Univ. - UK) 158. Gian Piero Piretto (Univ. Milano La Statale) 159. Antonio Pirillo (Impiegato Univ. Milano La Statale) 160. Rita Pizzi (Univ. Milano La Statale) 161. Patrizio Ponti (Univ. Milano la Statale e Save the Children) 162. Antonio E. Pontiroli già Univ. Milano La Statale) 163. Romeo (Bruno) Portesan (regista e attore - MI) 5
164. Elisa Postinghel (Loughborough University - UK) 165. Ida Regalia (Univ. Milano, già Dir. Dip. Studi del Lavoro e del Welfare) 166. Olga Rickards (Univ. Roma Tor Vergata) 167. Ivo Rigamonti (Univ. Milano La Statale) 168. Sandro Rinauro (Univ. Milano la Statale) 169. Gabriella Rossetti (già Univ. Ferrara) 170. Katherine Russo (Univ. Napoli L'Orientale) 171. Gaetano Sabetta (Pontificia Università Urbaniana di Roma) 172. Francesco Salsano (Univ. Milano la Statale) 173. Matteo Salvalaglio (Univ. College London) 174. Francesco Santopolo, 175. Giuseppe Saponaro, (già Univ. Roma La Sapienza) 176. Alba Sasso, (già Univ. Roma La Sapienza) 177. Enzo Scandurra (già Univ. Roma La Sapienza) 178. Christian Schlitt (International Centre for Pesticides and Health Risk Prevention – Az. Ospedaliera Luigi Sacco) 179. Rocco Sciarrone (Univ. Torino) 180. Simone Sibilio (Univ. IULM) 181. Angelo Sironi (Univ. Milano La Statale) 182. Isabella Soi (Univ. Cagliari) 183. Anna Solimini, insegnante (Trani) 184. Edgardo Somigliana (Univ. Milano La Statale) 185. Anita Sonego (Cons. Comunale Milano) 186. Claudia Spadaro, 187. Anna Sparatore (Univ. Milano La Statale) 188. Lucina Speciale (Univ. Salento) 189. Paolo Spinicci (Univ. Milano La Statale) 190. Paolo Stellari (Univ. Milano La Statale) 191. Alba Rosa Suriano (Univ. Catania) 192. Maria Suriano (Univ. Witwatersrand, Johannesburg - RSA) 193. Flavien Tchamdjeu, Univ. Bocconi 194. Tiziana Terranova (Univ. Napoli l’Orientale) 195. Alberto Toni (scrittore), 196. Ida Toscano (architetto - NA) 197. Francesco Trane, 198. Emanuele Troisi (insegnante) 199. Luigi Trucillo (scrittore), 200. Raffaele Urselli (Univ. Napoli l’Orientale) 201. Giorgio Valentini (Univ. Milano La Statale) 6
202. Luigi Valvalà (insegnante) 203. Michela Venditti, 204. Armando Vitale (già dirigente scolastico - CZ) 205. Augusto Vitale, (Istituto Superiore Sanità Roma) 206. Claudia Vitali (Univ. Pavia - studente) 207. Angelo Vulpiani, (Univ. Roma La Sapienza) 208. Josè Pablo Werba, Responsabile Unità Prevenzione Centro Cardiologico Monzino, Milano) 209. Raùl Zecca Castel (Univ. Milano-Bicocca - PhD) 210. Alberto Ziparo (Univ. Firenze) 211. Elisa Veronica Zucchi (attrice) 212. Flavia Zucco (già Cnr Roma)

© Riproduzione riservata 27 giugno 2018

Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/06/27/news/_governo_incostituzionale_sui_migranti_l_appello_degli_intellettuali_contro_salvini_e_di_maio-200170173/


Titolo: Concita DE GREGORIO Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto, ...
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2020, 11:45:34 pm
Siamo negativi ma non guariti

Morena ha avuto i primi sintomi del Covid a febbraio e sta ancora male

Morena Colombi, 59 anni, residente in provincia di Milano, ha fondato un gruppo Facebook

“Sono amministratrice del gruppo Facebook ‘Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto’, ad oggi abbiamo oltre 600 iscritti. Ci occupiamo di tutte quelle persone che nonostante l'infezione l'abbiano superata (i cosiddetti negativi) ancora non stanno bene. Siamo in tanti a manifestare gli stessi sintomi anche a distanza di mesi dalla negatività: stanchezza cronica, affanno, mialgia generale, dolori muscolari, rush cutanei, perdita di capelli, alterazione alla tiroide e altro".

"Purtroppo non se ne parla e anche a livello sanitario non siamo seguiti, dobbiamo provvedere da soli per sollecitare indagini mediche, esami del sangue, tac e quant'altro senza beneficiare dell'esenzione Covid, che viene applicata solo alle persone certificate da un ospedale. Molti però sono stati curati a casa e una volta che il tampone è negativo ci dichiarano guariti, ma guariti non siamo. Gli effetti  collaterali del Coronavirus meritano attenzione, le domande che poniamo dovrebbero guidare il trattamento di questo nuovo gruppo di pazienti e le ricerche sulle conseguenze a lungo termine del virus".

"Io mi ero fatta tre giorni in degenza all'ospedale Papa Giovanni di Bergamo, nessuna terapia, alla dimissione diagnosticata polmonite interstiziale al polmone destro da Covid 19. Isolamento domiciliare. Il 17 marzo tamponi negativi quindi donazione di plasma iperimmune sempre all'ospedale Papa Giovanni, dopo di che silenzio assoluto nessun controllo medico. Stanchezza cronica, affanno e dolori muscolari non riescono a farmi riprendere il mio lavoro".

"Il medico di base non sa darmi una terapia: ‘Ci vuole tempo, passerà’. Il tempo passa ma sto sempre male, affanno solo a fare una scala in più. Mi sottopongo a una serie di esami tutti nella norma tranne i valori ormonali tiroidei. A fine luglio vado al FollowUp dell'ospedale di Bergamo (finalmente si erano ricordati di me). Il virologo mi suggerisce una visita dall'endocrinologo (ovviamente senza esenzione D97, perché non è collegabile al Covid dicono). Peccato che io non avevo mai avuto problemi di tiroide prima. L’endocrinologo dice: ipertiroidismo, quindi pillolina a vita. ‘Dottore può essere causato dal Covid?’ ‘Non diamo tutte le colpe al virus’. Sarà, sto ancora male, mialgia, dolori, affanno. Ma per quelli nessuna cura. Intanto siamo ad agosto. Starò bene per Natale? Comincio a dubitare".

da repubblica.it