Arlecchino
|
|
« Risposta #2 inserito:: Settembre 10, 2022, 11:10:52 pm » |
|
Loredana Semantica
Senza magia non c'è fantasia e, senza fantasia, la realtà è piatta
Paolo Di Paolo
A pensarci, a fissare per un istante nella mente il numero iperbolico di post, tweet, commenti che seguono un evento come la morte di uno degli esseri umani più famosi sul pianeta che abitiamo, vengono le vertigini. Un po’ di angoscia - troppe parole, troppe! - e un po’ di tenerezza - per l’eco che resta di questi io, io, io, io, io, che sussurriamo, urliamo ogni giorno, un’eco destinata a spegnersi in fretta. Per fortuna! Gli storici del futuro faranno meno fatica a capire come l’umanità abbia vissuto certi eventi: pescheranno da questi labili e appassionati e patetici diari in pubblico. Non mi tiro fuori, perché sto aggiungendo parole anche io. Ma posso dire anche (non basta) che lo faccio per mestiere. In verità, c’è una piccola, naturalmente superflua, considerazione che tuttavia vorrei fare. Sia la commozione manifesta, sia i distinguo, sia i cervellotici, capziosi ragionamenti degli studiosi improvvisati tali da qualche ora, suscitano in me interesse. Quello che si dice affranto. Quello che (il più tipico del nostro tempo!) fa il coglione, fa la sua battuta divertente. Quello che giustamente fa risalire come un’eruttazione la sua fede repubblicana e dunque antimonarchica (la condivido senza se e senza ma). Quello che cerca nella figura storica comunque maestosa l’ombra, compreso Alessandro Gassmann che dice che è morta una vecchia signora. Ma sì, sì, come dice quel titolo di Sorrentino, “hanno tutti ragione”. Però manca qualcosa. Manca il lavorio di un muscolo in genere atrofizzato dalla fine dell’infanzia in avanti. Manca l’immaginazione. Quando dispero sul senso del leggere e scrivere romanzi, mi conforto così: l’immaginazione! Ecco a cosa serve: a immaginare. Che è il contrario di tagliare con l’accetta un ragionamento, un’opinione. È il contrario della fretta - sudaticcia e dunque un poco repellente - con cui ci sentiamo in dovere di emettere la nostra sentenza. È il contrario di giudicare. Ma dico, gente, che ci importa in fondo di giudicare una figura, a ogni modo imponente, come una regina rimasta sul trono per sette decenni? Ha il suo posto nella storia del mondo. Era il suo paesaggio un cascame di storia sbagliata e controtempo? Sì, ed è curioso che i cittadini inglesi non se ne persuadano fino in fondo e a vantaggio del loro stesso futuro. Ma vi propongo un’altra prospettiva. Quella del romanzo. Quella che chi legge romanzi dovrebbe saper applicare sempre, a tutto, a tutti, ma ahimè non riesce. E per carità, non fa niente. È solo un dato di fatto. La prospettiva romanzesca su Elisabetta II presuppone che io, per un istante lunghissimo, avverta che la morte di un personaggio celebre - e in questo caso così incredibilmente celebre - contiene anche la mia. È come una gigantografia della mia, della nostra. Un ultimo battito, il silenzio che segue. La scia che mi lascio dietro. Il famoso capezzale. Una platea, nel nostro caso minima, che prenderà parte alle esequie che soffrirà o che avrà anche un imbarazzante respiro di sollievo, chissà. Ma la cosa meravigliosa è che così come il mio amico social dice è una vecchia signora, una stronza, così lo stesso potrebbe essere detto sentito pensato di me. E ancora più meraviglioso è che io posso pensarlo della regina, ma non è detto che qualcuno pensi di me alcunché, né pensieri buoni, né pensieri cattivi, niente, solo un rapidissimo oblio. È una gigantografia della morte di tutti, e in qualche modo anche del cumulo di vicende che l’hanno preceduta, i cazzi familiari, serissimi talvolta, le corna, la tenacia, i figli e i nipoti che crescono e che si incasinano, le nuore e i generi che non ci piacciono, una capacità di resistenza che è pure di zia Maria, di tutte le zie Marie che se ne sono andate e se ne andranno, matriarche dignitose e capaci di silenzi raggelanti e necessari. Il torbido segreto delle stanze da letto, la mascherata qualche volta perfino allegra dei pranzi di Natale. E tutto questo nel flusso della Storia che passa, del modello dei cappotti e dei pantaloni che cambia, come lo spirito del mondo. E questo avanzare a testa bassa nell’uragano, anche se le residenze sono sontuose, e le eredità immotivate. E questo stare male, avere mal di denti, di pancia, comunque, questo dovere resistere, che poi significa vivere, mandare giù amaramente, cucire, ricucire, bestemmiare fra i denti sorridendo, invecchiare, non capire, tenere insieme una banda di debosciati coi cappellini sghembi, e i ricevimenti, le feste in giardino - per un attimo tutto torna a posto -, e Margaret Thatcher e Boris Johnson, e il tè - che poi, mi dico, è tutto quello che rimpiangeremo dell’avere vissuto: un tè alle cinque del pomeriggio, un caffè, niente più di questo. Pensateci un momento: alle tazzine, al tintinnio dei cucchiaini come una musica costante, calma, ai cani che scorrazzano, ai cavalli, ai cieli gonfi e prevalentemente cupi. Sì, quella era una regina, ma questa è la vita! È una specie di romanzo decoroso e insopportabile della Vita Adulta - e dovrebbe fare un po’ di eco, giusto un po’, dentro i piccoli giorni della nostra. Perché avrà lo stesso finale. Cadremo fuori dal tempo. I calendari avanzeranno ancora, qualcuno comprerà dei fiori, suoneranno le campane, e le campanelle di scuola, l’autobus passerà alla fermata, e noi non ci saremo. E saremo, se andrà bene, vecchi signori - più o meno simpatici - che se ne sono andati. Ma in ogni caso, come diceva Barthes, che romanzo!
da Fb del 10 settembre 2022
|