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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 124723 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 02, 2010, 08:22:50 am »

2/4/2010 (7:24)  - DEMOCRATICI - DOPO LE REGIONALI

Nichi Vendola alle primarie del 2012

Nichi Vendola, confermato governatore della Puglia

Il governatore pugliese vede Bersani e pensa di iscriversi alla corsa a Palazzo Chigi

FABIO MARTINI
ROMA

In queste ore per lui così complicate, una dei refrain che più irritano Pier Luigi Bersani è quello di una ipotetica Opa di Nichi Vendola sul Pd: «Ma una forza di quelle dimensioni - si è sfogato il segretario democratico - può mai immaginare di lanciare un’Opa su un grande partito come il nostro?». E ieri mattina, sia pure con quel suo approccio pragmatico, Bersani ha parlato di questo e di altro proprio con Vendola. Colloquio tenuto riservato, quello tra il leader del Pd e il personaggio più "trendy" del momento, ma la chiacchierata è servita a misurarsi la palla, a capire in che misura il neo-Governatore della Puglia possa essere interessato al "cantiere" che il segretario del Pd intende aprire a tutte le forze di sinistra.

Certo, Vendola non pensa ad un’Opa sul Pd ma a qualcosa di più realistico e al tempo stesso di più ambizioso, qualcosa che il Governatore si è ben guardato dal confidare a Bersani. Vendola si è imposto un traguardo: partecipare alle Primarie che nel 2012 - o prima se le cose dovessero precipitare - designeranno il candidato del centrosinistra alla guida del Paese. Dunque, Vendola ha deciso: sfiderà il candidato ufficiale del Pd, provando a ripetere il "miracolo pugliese". Stare "dentro" le Primarie nazionali è un obiettivo che Vendola ha deciso e pianificato: già in queste ore, i suoi uomini stanno avviando contatti informali con movimenti e partiti con un obiettivo esplicito, le Primarie del 2012.

Naturalmente le ambizioni di Vendola non rappresentano il primo dei problemi del Pd di Bersani. Certo, il risultato è stato deludente - e comunque così è stato percepito dalla maggioranza dell’opinione pubblica simpatizzante - ma finora la realtà del dopo-elezioni è stata allarmata, ma meno cruenta delle rappresentazioni date dai mass media, che hanno parlato di «assedio» e di «resa dei conti». Sintomatico il documento dei 49 senatori, inviato due giorni fa a Bersani, nel quale si invocava un generico "cambio di marcia". Il documento non è stato firmato dai senatori che da sempre contrappongono una linea alternativa alla segreteria Bersani (i "liberal" Morando, Tonini, Ceccanti, anche se l’aspetto più curioso della vicenda è che diversi dei firmatari ieri si sono fatti vivi col segretario per spiegarsi meglio, ridimensionare.

E la stessa intervista di Walter Veltroni a "la Repubblica" è ben argomentata nella denuncia dell’occasione persa (stavolta «i sondaggi davano in forte declino Berlusconi»), ma nell’invocare «un partito aggressivo e popolare», non si traccia ancora un’idea di partito veramente diversa. Ieri Bersani ha risposto ai critici, inviando una lettera ai segretari di circolo del partito: «Il Pd non è «fermo», ma «in piedi e ora deve accelerare» dopo un voto che ha creato «delusione» e una certa «disaffezione». Per rafforare il progetto del Pd non aiutano «dibattiti autoreferenziali che potrebbero allontanarci dal senso comune dei nostri concittadini».

Per il cantiere che vuole aprire a tutte le forze della sinistra, subito dopo Pasqua, Bersani si incontrerà anche con Riccardo Nencini, segretario del redivivo Psi, protagonista alle recenti Regionali di un exploit inatteso: i socialisti - dimostrando ancora un buon radicamento territoriale - sono riusciti ad eleggere 14 deputati regionali, uno in più della celebratissima Sinistra e Libertà di Vendola, sei in più della Federazione Prc-Pdci, per non parlare dei tre eletti dall’Api del duo Rutelli-Tabacci.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 29, 2010, 10:44:16 am »

29/4/2010 (7:6)  - RETROSCENA

Scatta l'operazione Nichi Vendola

Comincia la volata per le primarie Pd: con De Magistris, Santoro e Marino

FABIO MARTINI
ROMA

Se gli chiedi cosa voglia fare da grande, se un domani gli piacerebbe diventare il leader della sinistra italiana, Nichi Vendola risponde così: «Molti si preoccupano del mio futuro, ma io penso molto al tempo in cui potrò tornare a dedicarmi alla scrittura delle filastrocche e delle poesie». Una risposta alata, che tiene assieme la verità di una personale vocazione poetica, ma anche la bugia su una ambizione politica che c’è e che, per rispetto degli elettori pugliesi, per il momento è bene soffocare. Nichi Vendola lo sa bene: dopo la vittoria in Puglia, regione proverbialmente di destra, lui è l’unico personaggio della sinistra italiana al tempo stesso nuovo, vincente e con qualcosa da dire che non sia il consueto ritornello anti-berlusconiano.

Proprio per questi motivi dietro le quinte - su impulso di Vendola ma anche per iniziativa di personaggi "insospettabili" - c’è un gran tramestio per trasformare il feeling tra il Governatore delle Puglie e una parte dell’opinione pubblica in una vera e propria "Operazione Nichi". L’obiettivo strategico sono le Primarie che il centrosinistra dovrebbe svolgere nel 2012 per scegliere il proprio leader alle Politiche. Ma a prescindere da una competizione popolare che per ora è soltanto molto probabile, intanto si sta lavorando per un primo evento nazionale che dia il là ad una nuova area politica. Nella partita c’è già il professor Ignazio Marino, pericoloso cavallo di Troia in casa Pd, se non altro per la sua capacità di parlare all’area più irrequieta della base democratica. C’è Luigi De Magistris, l’ex pm che si è iscritto all’Idv ma che non perde occasione per distinguersi da Antonio Di Pietro.

Ma soprattutto - ecco la sorpresa - indaffaratissimo a far lievitare l’operazione è Michele Santoro, leader di un cospicuo "partito" di opinione chiamato "Anno Zero". L’idea alla quale si sta lavorando è una "convention" da tenersi a Firenze a fine maggio, con i riflettori puntati su quattro personaggi: Vendola, Marino, De Magistris e Santoro. Certo, il format potrebbe subire qualche modifica, ma attorno al nascente "vendolismo" c’è un grande attivismo. A 59 anni Michele Santoro sta rinfrescando - o travestendo? - la sua inossidabile vocazione a far politica, provando tra l’altro a favorire un "cambio di stagione" al "Manifesto". In redazione raccontano che a Santoro non dispiacerebbe un cambio di direzione - stima molto Norma Rangeri, che infatti è spesso ospite di "Anno Zero" - e che potrebbe favorire l’ingresso di nuovi soci nella cooperativa che edita il giornale.

Tra quelle che potrebbero rivelarsi fantasie di corridoio, c’è anche l’ipotesi di un Santoro editorialista di un "Manifesto" impegnato a sostenere l’"Operazione Nichi". E Vendola? Quanto feeling c’è tra lui e ognuno dei puntuti compagni di strada che lo stanno affiancando? Prima delle Regionali, Vendola aveva accettato l’invito di Luigi De Magistris a presentare il libro dell’ex Pm. E in quella occasione erano emerse serie differenze tra il giustizialismo a tutto tondo di De Magistris e l’approccio anticonformista di Vendola. Soprattutto quando il Governatore aveva sfidato un pubblico di ben altri sentimenti, parlando bene di Bettino Craxi: «Non si può ridurre la sua vita politica ad una vicenda giudiziaria», fece bene a dire di no agli americani a Sigonella, ma anche a «far di tutto per salvare Aldo Moro, perché niente vale di più della vita umana».

E Vendola è personaggio che non si lascia incasellare neppure nell’anticlericalismo di maniera di certa sinistra. Eccolo partecipare l’altro giorno alla processione della Madonna di Terlizzi, ma anche spiazzare tutti quando - nei giorni in cui il Vaticano sopportava lo scandalo pedofilia - Vendola ha confessato al "Corriere della Sera": «E’ stato forse più facile dire la mia omosessualità alla Chiesa che al partito». Ma ciò che lo rende diverso dai suoi compagni di strada è la sua idea-forte: «Il berlusconismo è una egemonia culturale, la capacità di proporre sogni, è stato un errore tragico demonizzarlo. Per batterlo non serve un Berlusconi rosso, bravo a comunicare, ma bisogna indicare al Paese le strade di uscita dalla crisi».

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 17, 2010, 11:33:36 am »

17/6/2010 (7:40)  - INCHIESTA

Il nuovo Partito democratico e la generazione dei giovani-vecchi

Viaggio nella pancia dei Democratici

FABIO MARTINI

A lui ritrovarsi in dote quel cognome così blasonato - Letta - sarà pur servito a qualcosa. A lei è capitato un cognome anonimo - Serracchiani - al quale tuttavia è riuscita a conferire una certa celebrità. Enrico Letta e Debora Serracchiani sono due quarantenni tra loro diversissimi, non solo nei natali, ma per storia politica, carattere, immagine. Eppure c'è qualcosa che li rende uguali come due gemelli, qualcosa che evoca il destino di una intera generazione: due rifiuti a diventare adulti, pronunciati - riservatamente e in tempi diversi - davanti ai propri amici. Un anno fa Debora viveva un momento di grazia: a "Ballarò" il suo mix - viso dolce e battuta tagliente - aveva bucato il video e alle Europee la Serracchiani aveva ricevuto una valanga di preferenze, più di Bossi in tutto il Nord-est. E lei si era presa sul serio, al punto da raccontarsi così su un libro per la Bur: “Era il primo giorno di primavera quando sono salita sul palco del Pd”, “i delegati, stanchi delle chiacchiere della loro nomenclatura, hanno appalaudito fragorosamente proprio me, "è stato un battito d'ali", che si è trasformato "in qualcosa di molto più grande", tale da "generare un'onda d'urto che è riuscita a scuotere dal suo torpore un intero partito".

Bene, era giunta l'ora di dar seguito a quelle parole alate: la sera del 27 giugno al ristorante «Tre galli» di Torino i quarantenni più combattivi, Paola Concia, Pippo Civati, Sandro Gozi chiedono a Debora di «metterci la faccia», di candidarsi alle Primarie del Pd, di sfidare la nomenclatura. Ma lei li aveva freddati: «Vi ringrazio, ma penso che Franceschini voglia rompere con un vecchio modo di far politica, bisogna profittarne» e «provarci la prossima volta». Un mese più tardi sarebbe uscito il libro di Debora. Titolo: «Il coraggio che manca».
Ma lei si riferiva alla nomenclatura. Diverse settimane prima, agli amici che gli chiedevano di candidarsi alla successione di Walter Veltroni, Enrico Letta aveva confidato: «E’ inutile che mi chiedete di andarmi a schiantare. Io non credo alla competizione, in questo partito si va avanti con gli accordi». Serracchiani e Letta, così diversi e così uguali, uniti dalla comune ritrosia a metterci la faccia e le idee. Il destino di una intera generazione di trenta-quarantenni. Ma da 15 anni comandano sempre gli stessi. Basta guardare le foto di gruppo del 1996-98, il biennio del primo governo progressista della storia. Leader e notabili di oggi sono già tutti lì: Bersani, Veltroni e la Finocchiaro erano ministri, D'Alema era segretario del Pds, Letta e Franceschini erano vicesegretari del Ppi. E gli attuali leader progressisti del mondo? Nel 1996 erano dei signor-nessuno. Obama avrebbe dovuto aspettare otto anni prima di diventare senatore dell'Illinois, Zapatero era un anonimo deputato del Psoe, mentre David Miliband (il favorito nella corsa alla leadership laburista inglese) non era ancora entrato nella Camera dei Comuni.

Inseguiti oramai da definizioni caricaturali («fallofori in processione» per il sindaco di Salerno De Luca) e da inviti perentori (il «cacciateli a calci» gli attuali dirigenti di Romano Prodi), i “giovani” del Pd a parole annuiscono: «Il consiglio di Prodi è benvenuto», dice Pippo Civati. Ma il “papà” dell’Ulivo, Arturo Parisi, non ci crede: «Per preservare l’unità dell’azionista di riferimento Ds, il nuovo partito è stato fatto nascere in continuità col passato e sul principio unanimistico. In questo contesto il ricambio è affidato per cooptazione ai vecchi, che riconoscono come affidabili soltanto i giovani-vecchi, individuati per la loro maturità precoce». E dunque i trenta-quarantenni, anche brillanti e preparati, si trovano ad utilizzare tre diversi tipi di ascensore. C’è chi preferisce stare sempre in maggioranza. Il segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina, 31 anni, bergamasco, era veltroniano sotto Veltroni, è diventato bersaniano con Bersani. Andrea Orlando, 41 anni, di La Spezia, era il portovoce del Pd di Veltroni, ma ora è il responsabile (bersaniano) della Giustizia.
Poi ci sono quelli che crescono all’ombra di un leader e non si spostano mai, come Matteo Orfini, 35 anni, romano, braccio destro di D’Alema. Si può diventare politici di razza, restando nella segreteria di un leader? «Lavorare per due anni a palazzo Chigi è stato per me enormemente formativo e lo stesso vale per chi lavora negli enti locali. Prodi? Un po’ superficiale. Diceva Gramsci che non si può accreditare sé stessi, negando il valore della generazione precedente e d’altra parte non è rinnovamento, ma subalternità dire quel che vogliono i giornali e tv».

Ma il terzo ascensore è proprio la tv, andarci e parlare bene, come fanno Civati e la Serracchiani. Ma d’altra parte, in un partito poco strutturato come il Pd, chi trovasse la forza di dar calci, non rischierebbe di trovare il vuoto?

In fondo l’ultima segreteria che ha prodotto giovani tosti non era quella del Pci finale? «E’ così - sostiene un ex come Emanuele Macaluso - Natta volle D’Alema, Occhetto, Fassino, Bassolino, Turco, Mussi. Furono poi loro a mettere in un canto Natta malato e a mettersi loro...».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201006articoli/55970girata.asp
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« Risposta #18 inserito:: Agosto 01, 2010, 11:13:23 am »

1/8/2010 (7:35)  - IL CASO

In Parlamento torna lo spettro di Turigliatto

Con la fuoriuscita dei finiani dal gruppo del Pdl la maggioranza è a rischio al Parlamento

L'ex premier Prodi: «Difficile immaginare che finisse così»


FABIO MARTINI
ROMA

Dall’eremo del silenzio nel quale si è rinchiuso da due anni e mezzo, Romano Prodi non sorride ma annota: «Dopo tutto quello che hanno detto e fatto, era difficile immaginare che si sarebbero ritrovati a questo punto...». Il Professore non aggiunge altro, con la politica attiva ha chiuso, ma anche per lui è difficile restare insensibile al più inatteso dei «déjà-vu»: d’ora in poi il governo Berlusconi - proprio come il governo Prodi nella sua fase finale - sarà costretto ogni giorno a contrattare il voto con singoli e gruppetti. Con una differenza: all’indomani delle elezioni Romano Prodi si trovò a governare, al Senato, con una maggioranza di un solo voto, mentre il governo Berlusconi, anche grazie a un consenso elettorale più largo, si è ritrovato in dote un margine di assoluta sicurezza: 31 voti alla Camera e 18 al Senato.

Ma ora quel vantaggio si è azzerato. I «finiani» sono stati espulsi dal Pdl ma hanno costituito alla Camera un gruppo parlamentare così forte (34 deputati) da risultare determinante: senza i loro voti, il governo va «sotto». E dunque, d’ora in poi, i gruppi parlamentari del Pdl saranno costretti a trattare su ogni singolo provvedimento anzitutto con i «finiani», ma anche con i 5 deputati vicini al Governatore di Sicilia Lombardo, con l’Udc, con l’Api di Rutelli, con gli onorevoli senza fissa dimora che pullulano a Montecitorio. Col risultato che per Berlusconi si profila una paradossale sindrome Turigliatto, il senatore comunista che tre anni fa, manifestando una improvvisa dissidenza dal Prc, diventò il simbolo delle peripezie del governo Prodi.

Ricorda il professor Giampaolo D’Andrea, «sottosegretario al Senato» del governo Prodi: «Per noi, soprattutto nella fase finale, era diventato faticosissimo rincorrere gruppi e gruppetti, Turigliatto e Rossi, Bordon e Manzione, gli amici di Dini. Uno stillicidio dei singoli ma non c’era un dissidio politico organizzato: con Rifondazione era dura, ma fatto un accordo, poi la questione era chiusa. Paradossalmente per il centrodestra si profila più dura: noi dovevamo tenere la nostra risicatissima maggioranza, loro la devono allargare». In effetti la rissosa Unione, tenuta assieme dalla pazienza del premier e dalla cucitura quotidiana degli sherpa, non ebbe mai problemi alla Camera, dove vantava margini più ampi, ma dove non si manifestò mai una dissidenza politica. Al Senato invece al margine risicatissimo (seppur ampliato di volta in volta dai senatori a vita), si sommarono tanti problemi, prodotti dai singoli: la decisione di Franco Marini di non rinunciare alla poltrona di presidente del Senato, abbassando così il «monte» del centrosinistra; il forfait del senatore Sergio De Gregorio; la dissidenza sempre più organica di Franco Turigliatto, già militante della Lega Comunista Rivoluzionaria e poi eletto come senatore nelle liste del Prc; il continuo rialzare il prezzo da parte di Lamberto Dini e di singoli, colpiti da improvvise crisi di coscienza.

Quel «corpo a corpo» è replicabile? Su singoli provvedimenti, come avvenuto con la rutelliana Api sulla riforma universitaria, il governo può immaginare di ottenere appoggi ogni volta diversi? Insomma, sono praticabili maggioranze a geometria variabile? Bruno Tabacci - capofila dell’Api alla Camera, da anni uno dei pochi leader parlamentari trasversali - non lascia spazi: «Noi stiamo all’opposizione e non siamo disponibili a giochetti. Casini? Non credo che voglia fare il Mastella della situazione, con tutto il rispetto per Pier e per Clemente. In questi giorni è accaduto qualcosa di importante: la golden share della maggioranza è passata dalla Lega al gruppo di Fini e dunque quello che potrà accadere è l’esatto contrario di quel che sperano a Palazzo Chigi: gruppi come il nostro e come l’Udc tenderanno a cercare un raccordo parlamentare con Fini, ma non con un governo che sembra entrato nella sua fase conclusiva».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57235girata.asp
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 03, 2010, 08:58:03 am »

3/9/2010 (7:25)  - LA STORIA

Gianfranco torna a casa per ritrovare il suo popolo

A Mirabello, dove nacque sua madre e Almirante lo designò

FABIO MARTINI
ROMA

Mirabello, paesino dal nome panoramico, è rimasto anche l’ultimo luogo dell’anima per la destra italiana. Per trenta anni in questo piccolo centro nell’entroterra Ferrarese, intere generazioni di camerati sono venute a far festa, a prendere ordini, a cullare nostalgie.
Qui, si sentiva a casa sua Giorgio Almirante, il più carismatico dei duci missini, che quando si sentì mancare le forze, volle venire alla festa del 1987: senza alzarsi, restando seduto, con la mano destra tremante, designò come suo delfino uno spilungone di 35 anni, l’emiliano Gianfranco Fini.

A Mirabello, per più di venti anni, si sono sentiti a casa loro capi e capetti che ogni anno facevano un bagno di militanza alla festa tricolore che segnava il riavvio della stagione. Per tutti gli ex An, il legame è rimasto così forte con la tradizione e con la memoria che qualche settimana fa, quando i finiani locali hanno preteso di appropriarsi della festa, un vecchio frequentatore di Mirabello come Ignazio La Russa ha fatto di tutto perché la kermesse restasse in casa Pdl. Invano: Mirabello, al via due giorni fa, oramai è diventata la festa di Futuro e libertà.

Ma qui, più di tutti, si è sempre sentito a suo agio Gianfranco Fini. Perché Mirabello è casa sua, qui ci sono le sue radici. In questo paesino, ottantacinque anni, fa era nata sua mamma, Danila Mariani. Diventata grande, la Danila si era sposata con Sergio Fini ed è proprio con la nascita del loro primo figlio, il 3 gennaio del 1952, i due compiono una scelta simbolica. I genitori decidono di chiamare quel bimbo in fasce Gianfranco, in ricordo di un giovanissimo parente, sette anni prima inghiottito senza un perché nelle vendette partigiane del triangolo rosso.

Nel 1945, l’Emilia era restata spezzata in due dalla linea Gotica, pezzi di famiglie da una parte, brandelli dall’altra. Finita la guerra, il ventenne Gianfranco Milani parte da Bologna verso Monghidoro alla ricerca dei parenti dispersi, li ritrova, torna felice verso casa, ma prima di rientrarvi - sospettato di essere parente di fascisti - viene fatto scomparire. Mai più ritrovato. Gianfranco Fini deve il suo nome a quel ragazzo.

Negli anni dell’infanzia il futuro leader missino cresce tra Bologna, Rivabella, una località balneare a buon mercato vicino Rimini e la campagna di Mirabello, dove spesso lo riporta la mamma, «una emiliana a sangue freddo», come ricorda il figlio, per via di quella misura nelle parole che la facevano così diversa dal marito. Il padre di Fini era invece un bolognese gioviale, corpulento, un vero mangiapreti, volontario della “X Mas”, ma che nel corso degli anni si era moderato. Nel bel libro «Duce addio», raccontò di aver votato socialdemocratico e di essere stato amico di Luigi Preti, che mandava a casa Fini «lettere scritte con la stilografica e l’inchiostro verde». Ma in quegli anni a Bologna, missino o socialdemocratico poco cambiava, papà Sergio, in casa era «la pecora nera», perché la famiglia Fini era una famiglia di comunisti.

Come lo zio Aurelio, iscritto al Pci bolognese dal 1959. Per dirla alla Pennacchi, quella di Fini è stata, a suo modo, una famiglia «fasciocomunista». Un tratto che ritorna anche nel racconto di Enrico Brandani, capogruppo Pdl a Ferrara, uno che c’era dall’inizio: «Oggi sembra tutto facile, ma 29 anni fa era durissima fare una festa nell’Emilia rossa. E poi quelli erano gli anni di piombo, mica si scherzava. Poi, ci siamo organizzati e, quest’anno devo riconoscerlo, una mano ce l’ha data l'amministrazione comunale di centrosinistra».

E le radici emiliane di Mirabello, Fini non le ha mai tagliate. Qui, a partire dal 1981, veniva Almirante ad aprire la stagione politica, qui Fini è tornato ogni anno e l’anno scorso ha pronunciato un discorso auto-profetico. Erano i giorni in cui "Il Giornale" di Feltri tambureggiava contro il direttore di "Avvenire" e Fini, dalla tribuna di Mirabello, dopo essersi scagliato contro il Pdl ridotto «ad una casermetta», parlò di «clima da killeraggio», perché se si tenta di demolire la persona si arriva all’ordalia, agli Orazi e Curiazi». E dal palco di Mirabello, dopodomani alle 6 della sera, Fini pronuncerà un discorso che forse è diventato il più atteso della sua lunga carriera. Ieri sera, uscendo da Montecitorio, uno dei suoi uomini più fidati aveva ritrovato il sorriso: «Dopo i giorni difficili e anche un po' deprimenti di Ansedonia, Gianfranco è tornato aggressivo e in palla, come ai bei tempi».

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« Ultima modifica: Settembre 04, 2010, 09:31:35 am da Admin » Registrato
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 04, 2010, 09:32:09 am »

4/9/2010 (7:22)  - CENTRO-DESTRA

Fini pronto al nuovo partito

Domani alle 18, da Mirabello, l'atteso discorso di Fini
   
Il giornale dei vescovi rimanda la Gelmini: ricetta da verificare

FABIO MARTINI
ROMA

Scrive. Rilegge. Corregge. Riscrive. Cancella. E’ tormentata la stesura del discorso che Gianfranco Fini, tra casa e ufficio, sta preparando per la conclusione della festa di "Futuro e libertà", fissata domani alle sei della sera in uno spiazzo di Mirabello, paesino a due passi da Ferrara. All’età 58 anni, dopo 35 trascorsi intensamente a far politica, colui che per la storia resterà l’ultimo duce della destra italiana, si ritrova a preparare l’esternazione più attesa e forse più importante della sua vita. Ieri il presidente della Camera è tornato nella villa presa in affitto ad Ansedonia per proseguire un lavoro destinato a durare rispetto alle abitudini: Fini appartiene alla scuola dei grandi oratori di piazza, il suo maestro resta Giorgio Almirante, ma stavolta cesellerà fino all’ultimo istante i passaggi più delicati.

Il metodo, quello di sempre. Fini ha ascoltato in silenzio i consigli e le sensazioni degli amici (Italo Bocchino, Silvano Moffa, Adolfo Urso), degli intellettuali di cui si fida (Alessandro Campi), dei collaboratori più stretti (Fabrizio Alfano), di chi lo aiuta nella stesura dei discorsi (Aldo Di Lello). Ha chiesto qualche contributo a chi se ne intende di diritto (Giulia Bongiorno), di economia (Mario Baldassarri), ma poi sarà lui a mixare il tutto. E ad aggiungere lo spin, l’effetto speciale capace di muovere le emozioni. Perché Fini lo sa bene: la cifra politica dell’evento sarà un’alchimia, una miscela tra le sue parole e la reazione della sua gente sui temi cruciali: Silvio Berlusconi e la legalità. Per l’effetto finale, fischi e applausi potrebbero pesare più di tante parole.

Per questo motivo il toto-discorso che tanto agita giornali e tv è un esercizio in buona parte sterile. Certo, Fini ha già fissato gli assi portanti del suo discorso. Dirà il presidente della Camera: io rivendico di essere uno dei due co-fondatori del Pdl; sono stato e, da presidente della Camera, resto il vice-leader del centrodestra. Ma mi sono battuto e - ecco il punto centrale del suo discorso - continuerò a battermi, con le mie idee su alcuni temi: la legalità ma non solo. E ancora: da laico mi rivolgo al mondo cattolico perché condivido l’idea di una politica pulita, la centralità della persona, l’attenzione agli ultimi. E gli schiaffi ricevuti da Berlusconi e dal suo giornale di famiglia? Su questo piano Fini ha già fatto sapere che sarà «molto netto».

Ma alla fin fine, l’attesa ruota attorno all’enigma: il presidente della Camera annuncerà la nascita di un partito diverso dal Pdl? Quanto durerà l’ipocrisia di un gruppo parlamentare che aderisce solo formalmente ancora al Pdl? Il professor Alessandro Campi, direttore scientifico del finiano think-tank "Farefuturo" (che è cosa diversa dallo scoppiettante giornale on-line) fa queste previsioni: «Fini ribadirà, una volta per tutte, la diversità della sua impostazione su questioni di metodo, contenuto e stile politico. E esponendo la sua idea di Italia chiarirà i contorni della "destra nuova" cresciuta in questi mesi. E avvierà un percorso. L’annuncio della nascita di un partito è un fatto organizzativo, ma per come si sono messe le cose, il partito verrà da sè». Italo Bocchino, braccio destro di Fini, è altrettanto chiaro: «Fini farà chiarezza, non annuncerà la nascita di un nuovo partito, ma non tornerà indietro. Un intervento rilevante, non traumatico ma dopo il quale il Pdl non sarà più uguale a quello di prima». Come dire: fra qualche settimana, o mese, accanto al Pdl, ci sarà anche il partito di Fini.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58211girata.asp
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« Risposta #21 inserito:: Settembre 07, 2010, 12:30:11 pm »

7/9/2010 (7:40)  - OPPOSIZIONE, LE STRATEGIE

Insieme alle urne, Pd e comunisti cercano l'accordo

Ma in caso di vittoria niente esecutivo per Prc e Pdci

FABIO MARTINI
ROMA

Una stretta di mano tra compagni vale più di un accordo sottoscritto davanti al notaio. Venerdì 27 agosto poche ore dopo aver lanciato la proposta del “Nuovo Ulivo”, il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha avuto due colloqui. Con Paolo Ferrero, leader della Rifondazione comunista e con Oliviero Diliberto, segretario del Pdci e ad entrambi ha spiegato come ha in mente di rimetterli in gioco: nel caso molto probabile in cui la legge elettorale non dovesse cambiare, il Pd è pronto a stringere una alleanza elettorale con i due partiti comunisti, che a loro volta però dichiareranno di non voler partecipare ad un (eventuale) governo di centrosinistra.

Una proposta che Ferrero e Diliberto hanno sottoscritto immediatamente: per il loro elettorato tornare al governo è vissuto come uno spauracchio, ma rientrare il prima possibile in Parlamento è invece una sorta di panacea per due partiti che finanziariamente sono sull’orlo del collasso. Quasi tutti i funzionari sono stati messi in cassa integrazione, il quotidiano «Liberazione» è a rischio di chiusura a breve, Paolo Ferrero si è autosospeso il contributo-stipendio e si è rimesso a lavorare alla Regione Piemonte. E che i due partiti comunisti gradiscano assai il patto proposto loro dal Pd lo dimostra il fatto che, senza fare accenno al patto con Bersani, Paolo Ferrero abbia subito diffuso una dichiarazione favorevole: «Condividiamo la proposta di dar vita ad un’Alleanza democratica per sconfiggere Berlusconi».

Un’intesa che non è stata formalizzata e non lo sarà fino a quando non si entrerà nella stagione elettorale. Soltanto allora si entrerà nei dettagli e si studieranno gli escamotages, a cominciare dal più serio: i comunisti, ammesso e non concesso che la sinistra vinca le prossime elezioni, pur stando fuori, appoggeranno l’eventuale governo? Per ora una ideale stretta di mano è sufficiente, ma l’effetto di questo patto informale equivale ad una piccola rivoluzione copernicana: rimette in gioco due partiti con i quali il Pd aveva deciso di non allearsi più in nome della opzione riformista e dell’abbandono di ogni tentazione massimalista.

Una scelta assunta prima delle Politiche del 2008 e dopo la quale i partiti comunisti hanno subito tre batoste elettorali consecutive. Ma Bersani, letti e riletti i dati elettorali, si è deciso a fare la prima mossa. In base ad un calcolo pragmatico. Certo, Prc e Pdci (ora riuniti nella Federazione della Sinistra) negli ultimi 4 anni hanno drasticamente ridotto il proprio peso elettorale. Nel 2006, anno della vittoria dell’Unione di Prodi, il Prc era stato votato da 2 milioni e 300mila elettori (pari al 5,8%), mentre al Pdci erano andati 884mila suffragi, il 2,3%. Totale l’8,1%.

Ma nel 2008, dopo una partecipazione al governo vissuta con senso di colpa e senza mai rivendicare i risultati ottenuti (ritiro delle truppe dall’Iraq, abolizione dello «scalone»), si era determinato un tracollo elettorale e il cartello della Sinistra Arcobaleno (Verdi compresi) aveva ottenuto 1 milione e 124 voti, tutti assieme precipitando al 3,1%. Subito dopo, Nichi Vendola aveva lasciato Rifondazione, fondando la Sel, mentre i comunisti più radicali avevano proseguito la discesa elettorale, ottenendo il 3,4% alle Europee 2009 e il 2,7% alle Regionali 2010. Ma al Pd hanno fatto i conti: la somma dei voti dei comunisti «buoni» e di quelli «cattivi» supera il 6% e persino nel terribile 2008, soltanto con metà di quella percentuale, il centrosinistra avrebbe conquistato diverse regioni andate al centrodestra, compreso il Lazio, col suo ricco «premio».

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« Risposta #22 inserito:: Settembre 23, 2010, 10:18:42 am »

23/9/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Esplode la rabbia di Fini "Complotto contro di noi"

«Stop al dialogo sul Lodo Alfano», e sospetta il ruolo dei servizi

FABIO MARTINI
ROMA

I suoi lo guardano angosciati. Raramente lo avevano visto così nero. Sono le 10 del mattino, Gianfranco Fini ha riunito nel suo studio di Montecitorio i deputati a lui devoti per decidere il da farsi sul caso-Cosentino, ma la lettura mattutina del “Giornale”, quotidiano della famiglia Berlusconi, ha cambiato l’umore del capo e stravolto l’ordine del giorno. Non si parla più di Cosentino, ma della casa di Montecarlo e dell’ultima puntata proposta dal giornale. Fini è meno gelido del solito, l’ira è calda: «Ma avete letto? Questo è un falso! Ma è un falso fatto così bene che... queste cose le fanno soltanto i Servizi!», «è una porcheria». E da queste premesse, la conclusione politica è drastica: «Ora basta!». Nella sua requisitoria, pronunciata in piena libertà nel chiuso di uno studio, Fini ripeterà più volte il concetto della “patacca” e del dossieraggio organizzato, ma, a sostegno della sua tesi nessuno dei presenti gli sentirà pronunciare il nome di almeno un personaggio altolocato che gli abbia indicato la prova di un’operazione costruita a tavolino. E d’altra parte, per quanto informalissima, non è certo quella la sede per rivelare le proprie fonti. Eppure, quella sfuriata di Fini contro i “Servizi” cambierà il corso della giornata. E forse anche della legislatura.

Nello studio del Presidente, anzitutto, viene ribaltata una precedente decisione sul caso-Cosentino. La sera prima dopo una discussione con i suoi nuovi “colonnelli”, Fini aveva deciso che l’indomani ci si sarebbe astenuti sulla richiesta dei magistrati. Un modo per tenere unito il gruppo: diversi deputati avevano storto la bocca davanti all’ipotesi di votare sì assieme all’opposizione. Ma ieri mattina, anche quella decisione presa la sera prima, viene travolta dalla lettura del “Giornale”. Che pubblica un articolo, basato su fonti di Santo Domingo, che cerca di dimostrare come Giancarlo Tulliani, il “cognato” di Fini, non sia soltanto l’affittuario ma il vero padrone della casa di Montecarlo. Il presidente della Camera è furibondo e dunque propone il “contrordine compagni”: la sua proposta ai deputati lì convenuti, è quella di rinunciare all’astensione e di votare sì alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni di Cosentino. Tra i presenti i mal di pancia restano sotto il tavolo, ma non mancano. E qualche ora più tardi quelle incertezze si scaricano nel segreto dell’urna. Impossibile stabilire quanti finiani abbiamo votato no alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni, ma alla fine la stima più accreditata - sentendo gli stessi finiani - è che siano stati in 5-6 a disattendere le indicazioni del capo.

E i malumori si concretizzano all’ora di pranzo, quando i “futuristi” (senza Fini) si rivedono. Italo Bocchino dà la linea: «Con Berlusconi è rottura totale, fino al suo discorso del 29 settembre si interrompe ogni trattativa sulla giustizia», anche se le trattative per accelerare l’approvazione del lodo Alfano erano a buon punto. E’ come dire che da oggi fino a nuovo ordine, i “futuristi” non sono più in maggioranza. In pubblico e in privato alcuni finiani - Silvano Moffa, Pasquale Viespoli - spiegano le proprie perplessità, la linea della rottura totale non li persuade. Anche perché, sostengono le “colombe”, c’è un salto logico, lo stesso che fa notare Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl: «Condizionare il confronto sulla giustizia alla cessazione di inchieste giornalistiche è ricattorio».

Ma Fini è convinto: se il governo ha organizzato un’azione di dossieraggio, ogni rappresaglia politica è lecita. Assieme ai suoi fedelissimi, il presidente della Camera ha riassunto i punti oscuri della vicenda che compariranno nel numero di oggi del “Secolo d’Italia”, a firma di Flavia Perina. «E’ vero o no che, come ha scritto “Libero”, c’è un rapporto personale tra Berlusconi e il primo ministro di Santa Lucia “che deve far tremare Fini”? E’ vero, come ha scritto il Giornale che agenti dei Servizi sono stati inviati a Santa Lucia?». Ma che si siano esaurite le scorte di reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini lo conferma anche una frase arrivata alle orecchie del premier e che il presidente della Camera avrebbe pronunciato sul volo di ritorno da Zagabria: «Anche se fosse la mia ultima legislatura, io devo liberare l’Italia da questo personaggio».

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« Risposta #23 inserito:: Settembre 23, 2010, 05:06:40 pm »

23/9/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Esplode la rabbia di Fini "Complotto contro di noi"

«Stop al dialogo sul Lodo Alfano», e sospetta il ruolo dei servizi

FABIO MARTINI
ROMA

I suoi lo guardano angosciati. Raramente lo avevano visto così nero. Sono le 10 del mattino, Gianfranco Fini ha riunito nel suo studio di Montecitorio i deputati a lui devoti per decidere il da farsi sul caso-Cosentino, ma la lettura mattutina del “Giornale”, quotidiano della famiglia Berlusconi, ha cambiato l’umore del capo e stravolto l’ordine del giorno. Non si parla più di Cosentino, ma della casa di Montecarlo e dell’ultima puntata proposta dal giornale. Fini è meno gelido del solito, l’ira è calda: «Ma avete letto? Questo è un falso! Ma è un falso fatto così bene che... queste cose le fanno soltanto i Servizi!», «è una porcheria». E da queste premesse, la conclusione politica è drastica: «Ora basta!». Nella sua requisitoria, pronunciata in piena libertà nel chiuso di uno studio, Fini ripeterà più volte il concetto della “patacca” e del dossieraggio organizzato, ma, a sostegno della sua tesi nessuno dei presenti gli sentirà pronunciare il nome di almeno un personaggio altolocato che gli abbia indicato la prova di un’operazione costruita a tavolino. E d’altra parte, per quanto informalissima, non è certo quella la sede per rivelare le proprie fonti. Eppure, quella sfuriata di Fini contro i “Servizi” cambierà il corso della giornata. E forse anche della legislatura.

Nello studio del Presidente, anzitutto, viene ribaltata una precedente decisione sul caso-Cosentino. La sera prima dopo una discussione con i suoi nuovi “colonnelli”, Fini aveva deciso che l’indomani ci si sarebbe astenuti sulla richiesta dei magistrati. Un modo per tenere unito il gruppo: diversi deputati avevano storto la bocca davanti all’ipotesi di votare sì assieme all’opposizione. Ma ieri mattina, anche quella decisione presa la sera prima, viene travolta dalla lettura del “Giornale”. Che pubblica un articolo, basato su fonti di Santo Domingo, che cerca di dimostrare come Giancarlo Tulliani, il “cognato” di Fini, non sia soltanto l’affittuario ma il vero padrone della casa di Montecarlo. Il presidente della Camera è furibondo e dunque propone il “contrordine compagni”: la sua proposta ai deputati lì convenuti, è quella di rinunciare all’astensione e di votare sì alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni di Cosentino. Tra i presenti i mal di pancia restano sotto il tavolo, ma non mancano. E qualche ora più tardi quelle incertezze si scaricano nel segreto dell’urna. Impossibile stabilire quanti finiani abbiamo votato no alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni, ma alla fine la stima più accreditata - sentendo gli stessi finiani - è che siano stati in 5-6 a disattendere le indicazioni del capo.

E i malumori si concretizzano all’ora di pranzo, quando i “futuristi” (senza Fini) si rivedono. Italo Bocchino dà la linea: «Con Berlusconi è rottura totale, fino al suo discorso del 29 settembre si interrompe ogni trattativa sulla giustizia», anche se le trattative per accelerare l’approvazione del lodo Alfano erano a buon punto. E’ come dire che da oggi fino a nuovo ordine, i “futuristi” non sono più in maggioranza. In pubblico e in privato alcuni finiani - Silvano Moffa, Pasquale Viespoli - spiegano le proprie perplessità, la linea della rottura totale non li persuade. Anche perché, sostengono le “colombe”, c’è un salto logico, lo stesso che fa notare Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl: «Condizionare il confronto sulla giustizia alla cessazione di inchieste giornalistiche è ricattorio».

Ma Fini è convinto: se il governo ha organizzato un’azione di dossieraggio, ogni rappresaglia politica è lecita. Assieme ai suoi fedelissimi, il presidente della Camera ha riassunto i punti oscuri della vicenda che compariranno nel numero di oggi del “Secolo d’Italia”, a firma di Flavia Perina. «E’ vero o no che, come ha scritto “Libero”, c’è un rapporto personale tra Berlusconi e il primo ministro di Santa Lucia “che deve far tremare Fini”? E’ vero, come ha scritto il Giornale che agenti dei Servizi sono stati inviati a Santa Lucia?». Ma che si siano esaurite le scorte di reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini lo conferma anche una frase arrivata alle orecchie del premier e che il presidente della Camera avrebbe pronunciato sul volo di ritorno da Zagabria: «Anche se fosse la mia ultima legislatura, io devo liberare l’Italia da questo personaggio».

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« Risposta #24 inserito:: Settembre 27, 2010, 09:26:25 am »

27/9/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Dimissioni spontanee la tentazione di Fini

Per marcare la differenza dal rivale e tenere uniti i suoi

FABIO MARTINI
ROMA

Per ora è un rovello, uno di quei pensieri che ronzano in testa, senza prendere concretezza. Il tarlo di Gianfranco Fini si riassume in una serie di domande. Che il leader di Montecitorio si è fatto l’altra sera assieme ai suoi più stretti collaboratori, prima e dopo aver registrato l’ormai celebre videomessaggio: «E se mi dimettessi io, autonomamente? Anche se non ho colpe, non sarebbe la prova provata di uno stile profondamente diverso da quello di Berlusconi? E a quel punto, non sarei più libero?». Un rovello interiore che potrebbe diventare una decisione, un annuncio clamoroso, spiazzante: le dimissioni di Gianfranco Fini da presidente della Camera. Ma non perché il "cognatino" il vero padrone della casa di Montecarlo, ma perché il quadro politico è cambiato dall’inizio della legislatura e un nuovo partito sta per spuntare all'orizzonte. Certo, il presidente della Camera non ha deciso ancora nulla. Ma in queste ore lo preoccupa sentire i suoi parlamentari inquieti sul da farsi. Divisi - ma per davvero - su come comportarsi quando Silvio Berlusconi si presenterà alle Camere a fine mese. Tanto è vero che un personaggio come Giuseppe Consolo, vicino al presidente della Camera, non si fa scrupolo di annunciare: «Io personalmente voterò i 5 punti che presenterà il Presidente Berlusconi». Ma i "falchi" finiani la pensano in modo opposto.

Il Presidente della Camera intuisce che serve un colpo d’ala: «Io - ha spiegato - sono diverso da Berlusconi e un’assunzione di responsabilità lo dimostrerebbe una volta di più davanti al Paese». Ma ci sono anche ragioni di convenienza che consiglierebbero la svolta. Certo, tenere uniti i parlamentari, ma soprattutto riprendersi la libertà di iniziativa politica, «decidendo in prima persona i tempi» del redde rationem, «senza farsi logorare». Sostiene Alessandro Campi, direttore scientifico di "Farefuturo", intellettuale poco organico ma che ha dato molti buoni consigli a Fini: «Lui deciderà quel che crede, ma certo eventuali dimissioni da presidente della Camera risulterebbero comprensibili nel momento in cui annunciasse la nascita di un nuovo partito. A quel punto Fini aprirebbe un nuovo fronte di lotta politica e correttamente, per non creare problemi, potrebbe rinunciare all’incarico istituzionale».

Una tentazione che forse non diventerà mai realtà, ma che è stata alimentata da due giornate memorabili. Venerdì 23 e sabato 24 settembre, quelli che hanno preceduto il videomessaggio, sono stati due tra i giorni più difficili nella vita politica di Gianfranco Fini. La sfera privata e quella pubblica si sono intrecciate fino a stringersi in un nodo così soffocante da costringere il presidente della Camera a rinviare la registrazione del videocomunicato. Per diverse settimane Fini aveva cercato, invano, di parlare direttamente con Giancarlo Tulliani, il "cognato" acquisito, cercando di chiarire con lui, e definitivamente, la questione della proprietà della casa di Montecarlo. Ma per Fini il dovere di raccontare, dopo tanto silenzio, la sua "verità" sulla casa nel Principato si è scontrato con la reticenza del "cognato" e da quel che se ne sa neppure due giorni fa il presidente della Camera è riuscito ad ottenere prove certe sull’"innocenza" del giovane Tulliani.

Ne è venuto fuori un messaggio segnato da toni di grande sincerità, insoliti nella politica italiana, ma anche l’immagine di un leader raggirato nella sua «buona fede», come ha detto lo stesso Fini. La sensazione, diffusa tra i finiani, di un messaggio "dimezzato", oltretutto pronunciato senza il piglio baldanzoso di Mirabello («Fini dimesso», titolava a tutta pagina "Il Tempo", il più tradizionale quotidiano della destra romana) hanno indotto diversi colonnelli delusi a farsi sentire dal capo. E ha preso quota la suggestione del colpo d’ala

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« Risposta #25 inserito:: Settembre 29, 2010, 11:45:06 am »

29/9/2010 (7:20)  - SPETTRO-CRISI. IL DUELLO

La doppia partita di Fini nel giorno della sfida cruciale

Il presidente della Camera Gianfranco Fini oggi presiederà il dibattito dopo il quale il premier Berlusconi chiederà la fiducia

Il presidente è convinto che il premier non sia "autosufficiente"

FABIO MARTINI
ROMA

Per parlare, si parlano. Pur detestandosi ogni giorno di più, i duellanti Berlusconi e Fini continuano a tenere un pur piccolo canale di comunicazione. Ieri sera Andrea Ronchi, ministro finiano ultramoderato, è andato a far visita al Presidente del Consiglio per sincerarsi che nel suo odierno discorso alla Camera il premier eviti attacchi sgradevoli a Fini. E, come se non bastasse, oggi, subito dopo il discorso del premier, senza darne annunci preventivi, è però già fissato a palazzo Grazioli un incontro informale tra Berlusconi e una delegazione finiana. Ma siamo al «minimo sindacale» nei rapporti tra i due fronti, perché la sostanza è ben altra: nel durissimo scontro che da 5 mesi divide gli amici di un tempo, il 29 settembre sarà una giornata cruciale, forse decisiva. E infatti la sfida è stata preparata giocando con tutte le armi, compresa una perfida guerra dei nervi. Dal mondo editoriale berlusconiano trapelano boatos roboanti, il preannuncio di materiali «pesanti» - foto, video poco gratificanti per il presidente della Camera - che verrebbero distillati nei prossimi giorni, secondo necessità. Difficile capire se trattasi di realtà o di annunci diffusi con intenti «terroristici». E alla stessa, inafferabile logica appartiene la voce, circolata per tutto il giorno a Montecitorio, e che parlava di imminenti dimissioni da parte del presidente della Camera. Voce neppure smentita ma che è servita a tener alta la tensione. Non sono ore semplici per Fini, in qualche modo costretto a giocare una partita doppia: quella interna, con l’irriducibile cognato e quella politica. Il presidente della Camera, che davanti ai suoi mostra una rassicurante freddezza, ha dovuto dedicare quasi tutta la giornata nel tentativo di tenere compatto il manipolo dei parlamentari, divisissimi tra falchi e colombe. Ma non è stato facile trovare un minimo comun denominatore: durante un pranzo negli uffici della Camera sono volate parole taglienti tra i maggiorenti delle due anime, ma al termine Fini è riuscito a ricompattare i suoi, motivandoli con una convinzione: «Berlusconi non ha i numeri, non ha la certezza dell’autosufficienza, per questo ha chiesto il voto di fiducia. Che appare come un segno di debolezza». Ma è davvero così? Certo, né Fini né i finiani sanno quanti deputati sia riuscito a «convincere» il presidente del Consiglio. Ma la partita era - e resta - sempre la stessa: stasera alle 19 quanti deputati voteranno la fiducia al governo? Se poco prima del voto, si saprà che Berlusconi avrà superato il traguardo dell’autosufficienza, per Fini e i suoi la strada si presenterà in salita: il loro voto di fiducia risulterà aggiuntivo e con tratti paradossali se si pensa alla violenza dello scontro che c’è stato fino ad oggi. Se invece Berlusconi non avrà conseguito l’autosufficienza, Fini proverà a giocarsi la partita secondo il canovaccio messo a punto nelle lunghe chiacchierate con i suoi. «Noi - sostiene Adolfo Urso, viceministro allo Sviluppo Economico - non siamo figli di un Dio minore e dunque, se il discorso del presidente del Consiglio sarà condivisibile, vogliamo pari dignità politica». In soldoni significa che i «futuristi» chiederanno, come dice il capogruppo dei senatori Pasquale Viespoli, di «firmare la risoluzione della maggioranza della quale facciamo parte». Dunque, Fini chiede che in calce al documento, accanto alla firma del capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto e a quella del leghista Marco Reguzzoni, ci sia anche quella di Italo Bocchino. Per dirla in politichese, il riconoscimento formale che la maggioranza si regge non più su due, ma su tre gambe. Ma la giornata di oggi potrebbe dispiegarsi secondo un canovaccio meno prevedibile di quanto non abbiano previsto Fini e i suoi nuovi «colonnelli». E diverse circostanze - il discorso di Berlusconi, la contabilità parlamentare - potrebbero interpellare le diverse anime dei finiani. Oramai costantemente divisi in due gruppi: da una parte gli «autonomisti» di Italo Bocchino, Fabio Granata, Carmelo Briguglio, Flavia Perina che mettono nel conto (e alla fine auspicano) un divorzio cruento con Berlusconi; dall’altra i «lealisti» di Silvano Moffa, Pasquale Viespoli, Mario Baldassarri, Roberto Menia, convinti che sarebbe meglio non separarsi dal centrodestra. Due approcci finora compressi, ma di portata strategica, che potrebbero venire in superficie proprio nel giorno più difficile.

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« Risposta #26 inserito:: Novembre 12, 2010, 10:45:10 pm »

12/11/2010 (7:24)  - RETROSCENA

Per Fli e Casini mai più Berlusconi a Palazzo Chigi

Idea trasversale: salvacondotto al premier se è disposto a lasciare

FABIO MARTINI
ROMA

E’ l’ora della “siesta” e davanti a “Giolitti” - la gelateria degli onorevoli e dei turisti stranieri - c’è un affollamento eccitato, segno che da Montecitorio sta per uscire qualche pezzo grosso. Eccolo, finalmente, Umberto Bossi, col suo Renzo. E davanti all’assalto di folla e microfoni, il capo della Lega diventa decisamente più loquace di due ore prima, quando era uscito dall’attesissimo incontro con Gianfranco Fini. A chi gli chiede se Berlusconi potrebbe dimettersi, avendo la garanzia di un reincarico, Bossi risponde che, sì, potrebbe farlo perché «altre volte è accaduto». Eccolo, lo spiraglio che tanto inquieta Berlusconi («Se mi dimetto, poi non torno più a Palazzo Chigi») e che Bossi invece prende in considerazione.

In quello spiraglio, aperto con nonchalance, si condensa tutta l’incertezza di una crisi che si sta aprendo a scenari tra di loro molto diversi ma tutti plausibili, sia pure con probabilità diverse. E sullo sfondo, in pourparler riservatissimi che rimbalzano tra Roma e Milano, si sta cominciando a ragionare su un ragionevole e legale “salvacondotto” per favorire un’uscita “indolore” di Berlusconi, una via d’uscita che eviti una caccia all’uomo, una replica di altri accanimenti vendicativi che la storia italiana ha già conosciuto. Ma intanto la prossima mossa tocca, una volta ancora, a Gianfranco Fini.
Chi ha parlato con lui in queste ore lo ha trovato più «teso» del solito, «preoccupato dall’incertezza di una situazione» nella quale si giocano i destini del Paese, ma anche determinato ad affondare, una volta per sempre, Berlusconi. Due sere fa, Fini, Casini e Rutelli si sono riservatemente messi d’accordo proprio su questo: Berlusconi-bis neanche a parlarne.

Fini ha anticipato ai suoi sodali terzopolisti che ritirerà la delegazione “futurista” «lunedì mattina dopo il ritorno di Berlusconi da Seul», che voterà «a favore della Finanziaria», che i suoi «non parteciperanno più a voti di fiducia sul governo perché si è rotto il rapporto di fiducia col governo» e che già dalle prossime ore continueranno le dissociazioni parlamentari. E il percorso di guerriglia è già pronto: questa mattina nella Commissione Bilancio saranno presentati emendamenti Fli-Udc alla Finanziaria, sui quali si conta di rimettere “sotto” il governo.
La crisi vera e propria? «Dopo la Finanziaria». Con quali prospettive? Primo scenario: Berlusconi-bis. In cuor suo va bene al premier e va bene anche ai leghisti, perché «a noi - dice uno dei loro capi - interessano i decreti attuativi del federalismo e dopo, a maggio, si potrebbe anche andare a votare».

Si potrebbe ma senza sbracciarsi, «perché la Lega non è più tifosa sfegatata del voto anticipato», rivela il numero due dei futuristi Italo Bocchino, reduce da un colloquio col presidente della Camera. Il secondo scenario sul quale si sta silenziosamente lavorando, dentro il Fli e dentro il Pdl, è un governo di centrodestra con un premier diverso da Berlusconi. Candidati possibili, Giulio Tremonti, Gianni Letta ma anche un presidente giovane, come l’attuale Guardasigilli Angelino Alfano.
Il terzo scenario, il più difficile, è quello del “governo istituzionale” (premier ipotetico Beppe Pisanu), ma chi ci pensa sa che la condizione per realizzarlo sarebbe una «consistente secessione nella Lega e nel Pdl». E infatti Massimo D’Alema (che ne è il massimo sponsor, assieme a Fini), quando invoca il «governissimo», dice che dovrebbe essere sostenuto da una base parlamentare «la più larga possibile». Ma centrodestra-bis e “governissimo” sono due scenari destinati ad accendere una reazione fiammeggiante da parte di Berlusconi.

E’ per questo motivo che in diversi ambienti - di maggioranza, di opposizione e fuori della politica - si sta studiando un pacchetto che possa evitargli un accanimento fuori misura, come la possibile reintroduzione della immunità parlamentare, ovvero forme “aggiornate” di prescrizione. Dice un uomo di mondo come Bruno Tabacci, un anti-berlusconiano che ha vissuto il crepuscolo della Prima Repubblica: «Questo è un Paese crudele, che per mondarsi delle proprie colpe, una volta che Berlusconi è caduto, è capace di accusarlo di nefandezze inaudite.
Certo, si può ragionare su una uscita senza vendette, ma dopo che lui abbia abbandonato il campo. Senza equivoci».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201011articoli/60370girata.asp
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 26, 2010, 05:29:44 pm »

Politica

26/11/2010 - DEMOCRATICI: CERCANDO L'UNITÀ

Arriva Prodi E il Pd prova a rincuorarsi

Il Professore: un ritorno? Ma va', faccio il nonno

FABIO MARTINI

Eccolo, anzi rieccolo. Alle cinque della sera di una giornata scivolosa, si schiude la porta in un'abbazia medievale e ricompare il Professore. La stessa faccia. Gli stessi capelli quasi neri a dispetto dei 71 anni. La stessa cravatta lenta sul collo. Gli stessi occhi socchiusi mentre si concentra. Lo assaltano come ai tempi belli e Romano Prodi sorride a chi gli chiede se potrebbe tornare alla politica, se il Paese glielo domandasse: «Ma lasci stare il Paese...». Ride e spiega: «Mi hanno chiesto di fare una comunicazione di politica estera, ma questo non cambia minimamente i miei programmi e la mia vita, non c'è nessun ritorno. Faccio il nonno e il professore». Continuano a fargli domande, ma lui pensa che basta così e con uno scatto sull'erba scivolosa, lascia sul posto cameraman e giovani cronisti. E' bastato che il gruppo Pd della Camera lo invitasse per tenere una conferenza su «Globalizzazione e crisi» per far parlare di «ritorno di Prodi», «francamente, una assoluta invenzione», per dirla con Arturo Parisi, che Prodi lo conosce meglio di tutti.

Semmai la notizia è un'altra. Quassù, in questo isolato convento, ad ascoltare una delle tante conferenze di politica estera di Prodi, sono venuti tutti i capi del Pd, ma proprio tutti, anche quelli che da quando il Professore ha lasciato la politica, lo hanno un po' snobbato. Quando Prodi inizia a parlare, Massimo D'Alema è seduto nella prima fila centrale, Walter Veltroni invece se ne sta più laterale, mentre Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini e Anna Finocchiaro sono seduti alla presidenza. Sono venuti in centocinquanta, lo chiamano tutti «Romano», Bersani dice che «l'arrivo di Prodi è una festa», lo salutano tutti con grande calore, lui fa altrettanto anche con quelli (quasi tutti, tranne Pier Luigi Bersani e Rosy Bindi) che nel corso degli anni lo hanno danneggiato nelle più diverse forme.

E in quell'omaggio corale da parte dei notabili di un partito in affanno, in qualche modo c'è l'inverarsi di un formidabile sketch di Corrado Guzzanti, che è andato forte su Youtube. Quello nel quale Prodi, resta per mesi e mesi dietro la linea gialla della stazione di Bologna, «sto qui con la mia bella coerenza, non faccio polemiche», non si scompone quando i teppisti lo molestano. Ma lui sa che alla fine i politici che lo hanno scaricato, torneranno, gli chiederanno «perdono», lo chiameranno «sire», lui dirà «inginocchiatevi» e si vendicherà, «zac», tagliandogli la testa con uno spadone. Professore, è andata proprio così? E lui scoppia a ridere.

Lo hanno invitato nell'abbazia vallomborosiana di Spineto sulle colline senesi, ennesima replica di una moda sempre verde, quella della convegnistica conventuale, adottata dalla sinistra, ma inventata nel 1959 dai dc che da Santa Doretea in poi, si scannavano nel chiuso di luoghi spirituali. Prima di tenere la sua alata conferenza sul mondo che cambia, Prodi ha fatto quattro chiacchiere con Dario Franceschini e con Pier Luigi Bersani, col quale peraltro parla spesso. Il Professore condivide la ricetta bersaniana e lo ha ripetuto al leader del Pd: «Berlusconi non ce la fa più», «elezioni anticipate sarebbero rischiose» e dunque la panacea sarebbe «un governo di transizione». Dopodiché Prodi ha raccontato ai parlamentari del Pd ciò che ha capito in questi due anni e mezzo nei quali ha girato il mondo, con due punti di appoggi strategici: la Cina (il Professore fa il commentatore per la «locale» Tv) e gli Stati Uniti, dove tiene lezioni all'Università.

Una lezione ricca di testimonianze in presa diretta con i potenti del mondo, battute, dati. Anzitutto, il cambio dei rapporti di forza nel mondo: «Il G8 ormai lo trascinano, ma non esiste più, ora conta il G20». Il crollo dell'Occidente: «Nel 1950 il Pil degli Stati Uniti era la metà di quello del mondo, oggi è il 22%», anche se gli americani coprono il «50% delle spese militari del mondo». Gli astri crescenti? «La nuova assertività russa», ma soprattutto la Cina, «unico Paese nella storia economica del mondo capace di esportare merci, persone, finanza e tecnolgia». Il Brasile «unico Paese al mondo nel quale diminuiscono le diseguaglianze». E il governo italiano? Soltanto una battuta: «Te lo dicono a Bruxelles: non ci siete, ci manca l'Italia». E ancora: «Un vero leader non sceglie in base ai sondaggi». Poi parla, eloquentemente, Giuliano Amato. E Prodi commenta: «Con Giuliano organizziamo presto un convegno sui vecchi che non sono vecchi!». Un parlamentare scherza: «Presiede Matteo Renzi!».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/377540/
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« Risposta #28 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:36:12 pm »

30/11/2010 - RETROSCENA

E tra i futuristi si fa largo la tentazione dell'astensione

Il presidente della Camera e leader di Fli, Ganfranco Fini

A porte chiuse con Fini alcuni deputati trasmettono al capo tutti i loro dubbi

FABIO MARTINI

ROMA
Fino a una settimana fa i futuristi l'avrebbero considerata una parolaccia. Eppure, da qualche giorno, nelle chiacchierate fitte e riservate tra Gianfranco Fini e i suoi nuovi colonnelli, la parola più nominata è diventata «astensione». E non più «sfiducia», come subito dopo la fiammeggiante convention di Futuro e libertà dei primi di novembre, durante la quale era stato chiesto al presidente del Consiglio di salire al Quirinale e dimettersi. In altre parole, Fini e i suoi - ragionando su tutti i possibili scenari in vista dell'attesissima votazione del 14 dicembre, decisiva per le sorti del governo Berlusconi - hanno iniziato a ragionare sull'ipotesi di astenersi. Tenendo così in vita il governo e il suo presidente. Ieri sera Fini ne ha parlato a lungo in una riunione a porte chiuse: non ci sono ancora decisioni formali e, anzi, per il momento, l'ipotesi più quotata tra i futuristi resta quella di presentare una mozione di sfiducia e di votarla assieme ai partiti di opposizione.

Ma il solo fatto che dentro la plancia di comando del Fli si stia discutendo l'ipotesi di astenersi la dice lunga sulle tensioni che dividono il fronte finiano. A prendere l'iniziativa sono stati i moderati, l'ex ministro Andrea Ronchi, il presidente dei senatori Pasquale Viespoli, il presidente della commissione Lavoro Silvano Moffa, l'ex sottosegretario Roberto Menia, l'avvocato Giuseppe Consolo. Con parole diverse ma convergenti, i moderati hanno detto a Fini: caro presidente, dopo Bastia lo scenario interno e internazionale è cambiato e si è fatto più pericoloso, le ipotesi di governi tecnici o di solidarietà nazionale non stanno in piedi, per noi le elezioni anticipate sono un azzardo. E anche se noi non lasceremo mai il Fli, alcuni faticheranno molto il 14 dicembre a votare la sfiducia al governo. Anzi, ci sono «almeno quattro deputati» - Gianfranco Paglia, Catia Polidori e altri due coperti - che hanno trasmesso al capo tutti i propri dubbi. E con i dubbi, il rischio concreto di un'emorragia nel gruppo futurista e proprio nel giorno del giudizio.

Gianfranco Fini, un leader che ha proverbiali capacità di ascolto, ha sentito tutte le campane. Anche quelle dei suoi rompighiaccio, Italo Bocchino, Carmelo Briguglio, Flavia Perina, Fabio Granata. Loro sono tutti per tirare dritto con la sfiducia. Ieri sera, in Transatlantico, scherzava Italo Bocchino: «Ma certo, dodici dei nostri hanno già passato le linee, anzi no, sono tredici! Tutte fantasie: siamo compatti e il 14 il governo cadrà». Ma il capo, dopo aver ascoltato destri e sinistri, non ha escluso nessuno scenario. Certo - questa è l'idea di Fini - se Berlusconi continua a insultarci e a parlare di tradimenti, non ci sono alternative alla sfiducia. Ma se invece il premier lanciasse segnali corposi - molto più concreti del rinvio del dossier giustizia - allora il quadro potrebbe cambiare. Spiega Adolfo Urso, coordinatore di Fli, il più centrale tra i colonnelli: «I segnali che arrivano dal governo non sono incoraggianti, anzi. Non solo ci si continua ad accusare di tradimento, ma non sembra ci sia la consapevolezza del deteriorarsi grave della situazione interna e internazionale. Certo, se da parte del presidente del Consiglio ci fosse un'assunzione di responsabilità forte, un segno chiaro di discontinuità, allora potremmo anche valutare l'ipotesi di un'astensione, ma tutto questo non c'è. Anzi. E dunque per noi nulla cambia: siamo pronti a presentare la nostra mozione di sfiducia».

Parole chiare. La palla, più che mai, torna nelle mani del presidente del Consiglio e nella sua capacità di far politica. «Anche perché - dice Silvano Moffa, uno dei capifila dei moderati - le notizie che arrivano dall'Europa sono veramente drammatiche, per la prima volta c'è il rischio-euro e andare ad elezioni anticipate sarebbe veramente una follia». Ma anche se il presidente del Consiglio restasse inerte e andasse alla prova del 14 senza apprezzabili cambi tattici, per Fini resterebbe il problema di tenere unito il proprio gruppo. Il presidente della Camera sa che gente come Moffa, Menia e Viespoli resterà nel Fli anche in caso di dissenso, ma il paradosso è che una emorragia tra i futuristi, anche se di piccola entità, potrebbe risultare decisiva per garantire a Berlusconi una, sia pure effimera, fiducia.

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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:28:57 am »

Politica

04/12/2010 -

La scommessa di Fini e Casini Il big bang del centrodestra

Il terzo Polo punta sullo smottamento dei berlusconiani

FABIO MARTINI

ROMA

Oramai sempre più svestito dei panni istituzionali, Gianfranco Fini non si fa scrupolo di fare previsioni sempre più lapidarie sulla decisiva votazione che il 14 dicembre si terrà nell'aula parlamentare che lui stesso presiede: «Credo che il Parlamento fra qualche giorno testimonierà quello che tutti sanno e cioè che il governo non c'è più o non è in grado di governare». Nel suo intervento ad un convegno della Confartigianato di Mestre, Fini è lapidario anche sulla sua permanenza alla guida della Camera: «Se la legislatura continuerà - e io auspico che duri - continuerò a fare il presidente della Camera». Affermazione secca che implicitamente contiene due notizie. La prima è che, se la legislatura dovesse avviarsi a conclusione traumatica, Fini lascia intendere che lascerebbe sì la presidenza della Camera ma in zona Cesarini, per poter giostrare liberamente in campagna elettorale. La seconda notizia è già nota ma Fini non lascia passare 24 ore senza ribadirla: lui - e i suoi sodali del Terzo polo - faranno di tutto perché lo scioglimento anticipato non ci sia.

Ma per scongiurare elezioni anzitempo le strade, sulla carta, sono tre. Tutte accidentate. C'è il governo di unità nazionale, invocato da Massimo D'Alema, con tutti dentro e che sul fronte destro, per ora, è condiviso soltanto da Alessandro Campi, direttore della finiana fondazione “Farefuturo”. C'è il governo del ribaltone (tutta l'attuale opposizione, più Fli, Udc e transfughi del centrodestra), scenario che col passare dei giorni perde sempre più quota. E poi c'è la terza ipotesi, quella di un governo nuovo di centrodestra (Pdl più Lega), allargato al Fli di Fini, all' Udc di Casini e all'Api di Rutelli e guidato da una personalità diversa da Berlusconi. E' proprio questa - con buona pace del Pd - l'opzione su cui punta il neonato Terzo polo, tanto è vero che Pier Ferdinando Casini lo dice senza tante perifrasi: «Berlusconi indichi lui il nome del nuovo premier, a noi va bene».

Ma poiché appare a tutti improbabile che Berlusconi scelga spontaneamente l'abdicazione (come fece Craxi nel 1992 quando per Palazzo Chigi suggerì Giuliano Amato al Presidente Scalfaro), la vera scommessa di Casini, Fini e Rutelli è un'altra: il big bang della galassia berlusconiana. Fini lo fa capire: «Non si andrà a votare, perché il cambiamento ha una forza tale che spazzerà tatticismi e meline. Non dico più per motivi di riservatezza». La vera scommessa dei terzopolisti è lo scenario tanto volte evocato, mai concretizzato, ma che stavolta potrebbe prender corpo: la caduta di Berlusconi e il conseguente, immediato smottamento di quel che fu Forza Italia. A cominciare da tre personalità significative nella storia del centrodestra italiano: l'ex presidente del Senato Marcello Pera, l'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu, l'ex ministro della Difesa Antonio Martino.

Annuisce Pino Pisicchio, vicepresidente dell'Api: «E' proprio così. Il rompete le righe sarà determinato da due fattori. Primo, i parlamentari, non essendo più radicati sul territorio e dipendendo totalmente dal capo, saranno indotti a fuggire non appena il capo cadrà. Secondo: con un bipolarismo rigidamente bloccato, il salto della quaglia era più difficile. Ora, con la nascita del Terzo Polo, questa trasmigrazione è più facile». E dunque, uno smottamento tornerebbe utile ai “terzisti” soprattutto se si provasse a ricostituire un governo di centrodestra senza Berlusconi. Per ora è soltanto un gioco, ma già si manifestano opzioni diverse. Per Casini «Gianni Letta andrebbe benissimo», mentre per Bruno Tabacci (il più argomentato oppositore del Tremonti ministro), proprio lui sarebbe il miglior successore di Berlusconi. E proprio il ministro dell'Economia era stato gratificato, il 19 novembre, da una esternazione che parse estemporanea di Roberto Maroni: «Giulio Tremonti? Se si decidesse di candidare, lui sarebbe un ottimo premier».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/378616/
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