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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 127269 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Novembre 22, 2014, 05:44:38 pm »

Chi ostacola le riforme
E ora Renzi faccia i nomi

Di Ernesto Galli Della Loggia

È giunta l’ora, mi sembra, che Matteo Renzi compia un gesto che in Italia è sempre rivoluzionario: e cioè faccia nomi e cognomi. Solo una tale novità, infatti, può rappresentare quel salto di qualità nella comunicazione del premier con il Paese che la gravità della crisi e l’urgenza dei suoi possibili rimedi richiedono.

Non è più possibile e non ha più senso continuare a indicare gli avversari del governo e delle sempre annunciate riforme evocando genericamente «gufi e rosiconi». «Gufi e rosiconi» - ce lo consenta il presidente del Consiglio - insieme ai «selfie», al «cinque», ai «Twitter», agli hashtag , hanno fatto parte di un ambito comunicativo ormai oggettivamente superato: quello in cui egli si è impegnato a «farsi un’immagine» e costruire consenso intorno alla sua persona. Sono serviti a sottolinearne l’informalità, la giovinezza, la simpatia, la carica di rottura rispetto al passato. E l’hanno fatto egregiamente: il risultato si è visto sul piano elettorale così come si continua a vedere nei sondaggi. Sta bene; ora però serve un consenso diverso.

Ora a Renzi serve un consenso non più sulla sua persona (che già ha), ma sulla sua politica. Politica che, lo sappiamo, può essere solo quella delle tanto attese e sempre rimandate riforme. Per citare alla rinfusa le principali: l’ammontare esorbitante della spesa pubblica, i costi e gli eccessivi poteri delle Regioni, l’eccessivo prelievo fiscale sul lavoro nelle sue varie forme e le norme sui contratti di lavoro, l’ordinamento giudiziario, la chiusura corporativa degli ordini professionali, lo strapotere paralizzante dell’alta burocrazia, la scarsa efficienza di tutte le pubbliche amministrazioni con la farraginosità spesso assurda delle procedure. È un elenco da far tremare le vene ai polsi: per la complessità di ognuna delle materie indicate, ma soprattutto per la forza e la determinazione delle categorie, degli interessi, dei gruppi di pressione, che - è fin troppo facile prevederlo - sentendosi ogni volta minacciati dal minimo cambiamento saranno pronti, come hanno già fatto mille volte, a scendere sul sentiero di guerra contro il governo servendosi di tutti i mezzi.

È nell’aspra lotta contro questi avversari che si deciderà il futuro dell’Italia e, insieme, il destino del presidente del Consiglio: ed è dunque in vista di questa lotta che egli deve trovare d’ora in avanti il consenso senza il quale sarà sicuramente sconfitto. Ma un tale consenso - non superficiale, strutturato - egli riuscirà a trovarlo solo se cambierà il suo modo di comunicare con il Paese, solo se il suo rapporto con esso farà uno scatto in avanti decisivo. Non più fondato sulla «simpatia», su un gesto più o meno accattivante, su un sorriso o una battuta indovinata, bensì sulla capacità di creare nell’opinione pubblica un diffuso e ben radicato convincimento della necessità di fare le cose che vanno fatte. Proprio in vista di ciò d’ora in poi il presidente del Consiglio deve smettere d’intrattenere il Paese, deve parlargli: che è cosa diversa.

L’Italia, se vuole cambiare, ha bisogno innanzi tutto di verità e di serietà. Di entrambe Renzi deve farsi carico: con interventi non estemporanei e con un discorso alto, e magari drammatico, come il momento richiede e come i leader democratici degni del nome hanno l’obbligo di saper fare. Egli deve spiegare bene ai cittadini le riforme che intende varare, illustrandone con accuratezza i modi e i vantaggi sperati, ma non nascondendone anche gli eventuali prezzi da pagare. Promettendo peraltro che tali prezzi saranno equamente ripartiti e facendo vedere che mantiene le promesse. Deve anche indicare con chiarezza, però, chi sono coloro che si oppongono a quei provvedimenti, e per quale motivo.

Ripeto, facendo con coraggio i nomi e i cognomi: non già per darsi un’inutile aria da Rodomonte, ma perché in un momento difficile e nella prospettiva di pesanti sacrifici, in un momento in cui sono necessarie riforme radicali e spesso dolorose, le maggioranze parlamentari non bastano. È necessario che la volontà riformatrice dall’alto sia sostenuta dall’appoggio massiccio e convinto dell’opinione pubblica, in una battaglia in cui però risulti chiaro chi è l’avversario e quali i suoi interessi. È perciò che la posta e i giocatori devono essere ben evidenti: dal momento che proprio la pubblicità è la nemica mortale di tutte le lobby e di tutti i gruppi d’interesse particolari, abituati per loro natura ad agire per linee interne contro l’interesse generale. L’obiettivo di Renzi, invece, deve essere per l’appunto quello di far capire dove sia l’interesse generale spiegando e convincendo giorno per giorno e mobilitando intorno all’interesse generale l’opinione pubblica.

A questo unico fine egli d’ora in poi dovrebbe ispirare il suo rapporto con il Paese e modellare la propria immagine. Altrimenti prima o poi gli si aprirà davanti la stessa via percorsa da Berlusconi: che era tanto simpatico, tanto accattivante, vinceva le elezioni, ma alla fine non ha combinato nulla che meriti di essere ricordato.

15 settembre 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_15/ora-renzi-faccia-nomi-5f3ae19c-3c98-11e4-95e1-a222c06f54b6.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Novembre 27, 2014, 03:32:24 pm »

Bindi, Fassina, Civati e Bersani sono contro Renzi
La vocazione minoritaria di certo Pd
La propensione a dire sempre no è nella tradizione della sinistra italiana

Di Ernesto Galli della Loggia

I deputati pd che martedì sono usciti dall’Aula per non votare il Jobs act si candidano a essere i nuovi protagonisti di uno degli spettacoli più antichi del repertorio della sinistra italiana: il nullismo politico. Cioè la propensione a dire sempre no, a fare l’opposizione e basta. Bindi, Fassina, Civati, Bersani e compagni sono contro Renzi perché lo giudicano un pericoloso thatcheriano travestito, e sta bene. Dunque si sono schierati contro quasi tutto quello che ha fatto - contro il patto del Nazareno, contro gli 80 euro, contro la riforma del Senato, contro la revisione dell’articolo 18 -, e sta ancora bene. Ma avanzando quali proposte nuove e alternative? In nome di quale nuovo progetto? Che cosa farebbero, insomma, se fossero loro a governare? Nessuno lo sa: sospetto perché non lo sanno neppure loro.

Ma in questo modo quello della sinistra pd finisce per essere niente altro che l’esatto rovescio di ciò che essa rimprovera a Renzi: l’antipersonalismo come risposta al personalismo. Così come, sempre in questo modo la sinistra pd mostra una singolare mancanza di sintonia con lo spirito del Paese. Non sembra proprio, infatti, che oggi gli italiani sentano il bisogno di «discorsi», quanto piuttosto di soluzioni tangibili, di proposte e progetti concreti. Magari anche elementari e brutali, come quelli leghisti di Salvini (e però, guarda caso, di grande successo), certo meno che mai delle astratte scomuniche ideologiche di Gianni Cuperlo. Non hanno bisogno di sentirsi dire che il presidente del Consiglio è un chiacchierone che non combina nulla, bensì di sapere che cosa combinerebbe chi gli muove tali accuse.

Nella situazione drammatica in cui si trova, il Paese ha bisogno di una cosa più di ogni altra: di un’idea capace di unirlo e di portarlo in salvo. Pur con tutte le critiche possibili e sia pure molto a tentoni, la proposta renziana del «partito della nazione» interpreta questa necessità e si muove in questa direzione. Rappresenta qualcosa che alla Sinistra finora non è mai riuscito, ed è la ragione che fin qui le ha impedito di sedere da sola al governo. S’illudono infatti gli antirenziani del Pd se credono che l’Italia possa essere governata sulla base delle ragioni dei disoccupati, dei metalmeccanici e dei pensionati. Bisogna avere un progetto che contemperi le ragioni di molti, molti altri; e più che vellicare il passato di una parte occorre disegnare un futuro plausibile per tutti. Altrimenti si conferma solo la propria antica, maledetta vocazione al minoritarismo permanente.

27 novembre 2014 | 08:39
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_27/vocazione-minoritaria-certo-pd-36c2b962-7607-11e4-8593-6ac58034c3d7.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Dicembre 14, 2014, 05:16:59 pm »

La nostra memoria, assai corta
All’origine dell’antipolitica


Di Ernesto Galli della Loggia

Si levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne dell’antipolitica: termine con cui bisogna intendere la critica aprioristica - e proprio per questo distruttiva, eversiva - oltre che del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica, vista come interamente e irrimediabilmente inquinata.

Ho scritto aprioristica in corsivo perché evidentemente sta tutto lì il problema. Infatti, se la critica di cui sopra non appare affatto aprioristica ma ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è condivisa da più o meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un regime democratico negarle il diritto di cittadinanza. Si potrà beninteso fare questione di toni, di stile, di capacità minore o maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra facilmente sostenibile. In una democrazia, infatti, non basta che i nostri avversari si comportino in modo volutamente oltraggioso e usino un linguaggio sommario e violento per farne dei candidati alla messa fuori legge. E d’altra parte non ci si può nascondere che è comunque difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al di là di una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e quando non lo è? Non si tratta in sostanza di un giudizio sempre politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle nostre personali opinioni?

In realtà, se da vent’anni l’assetto politico italiano non trova pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo, dal giustizialismo - con i vari schieramenti politici che di volta in volta incarnano uno dei tre - una ragione di fondo c’è. Ed è che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il 1992 e il 1994 - non bisogna mai dimenticarlo - la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro la politica. Violando in molti modi l’insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non essendo capace di darsi regole davvero nuove. Proprio per questo essa è restata in certo senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata a ripercorrerle periodicamente. Dunque a doversela vedere periodicamente con l’antipolitica, con il populismo, con il giustizialismo.

Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni 90 di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano come macigni, e ci ricordano da dove veniamo.

Era il 2 settembre 1992, per esempio, quando il deputato socialista Sergio Moroni, destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste di Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione. In essa Moroni, dopo aver rivendicato di non «aver mai personalmente approfittato di una lira», invocava «la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale», dolendosi di essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa». Terminava denunciando «un clima da pogrom nei confronti della classe politica», clima caratterizzato da «un processo sommario e violento». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono ritenute degne della benché minima discussione parlamentare.

Ancora un altro ricordo. Era il 5 marzo 1993, nel pieno di Tangentopoli, quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che a quel punto - caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica - il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire.

Mi chiedo: è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana? Non appare forse della medesima natura di quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica - se non addirittura identica - la tendenza all’esasperazione verbale, alla generalizzazione indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla sollecitazione spregiudicata delle reazioni più elementari dell’opinione pubblica? Non appare più o meno la medesima pure la timidezza imbarazzata, talvolta impaurita, del potere? E non suona forse sempre eguale anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che sia - che allora era quello «dei fax», poi è stato quello degli «indignati», e oggi è quello della «Rete»? Da queste parti, come si vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica.

La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo. È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici profonde della sua stessa legittimazione.

14 dicembre 2014 | 09:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_14/all-origine-dell-antipolitica-72f084ae-8369-11e4-a2cc-02f7f9acc66f.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Dicembre 26, 2014, 11:30:25 am »

Libertà religiosa e identità storica
Natale, elogio di quello vero

Di Ernesto Galli della Loggia

Fino a quando le società europee oseranno ancora chiamare Natale il Natale, e non lo trasformeranno in qualcosa come « Season’s holiday » (Vacanza di stagione), sul modello ormai invalso nei politicamente correttissimi Stati Uniti, dove per l’appunto non si mandano più auguri di Buon Natale ma « Season’s greetings »?
Anche da noi, infatti, sta succedendo precisamente questo: sta ormai prevalendo - o ormai è già prevalsa - un’interpretazione nuova della libertà religiosa. Secondo la quale questa non consisterebbe più solo in una libertà - quella per l’appunto riconosciuta a chiunque di osservare la religione che preferisce, nei modi che preferisce, cercando altresì di divulgarla o di rinnegarla come preferisce - bensì, altrettanto essenzialmente, anche in un divieto. Essa comporterebbe cioè anche la proibizione per qualunque religione di trovare posto in qualsivoglia ambito pubblico, per paura che ciò possa offendere chi non fosse un suo seguace. Fede e culto, insomma, sono ammissibili ma solo a un patto: di restare un fatto privato. La società, lo spazio sociale, invece, devono restare nel modo più rigoroso liberi da ogni presenza o richiamo di tipo religioso. E proprio per questo - come è accaduto - un crocefisso in un’aula, o un presepe in una scuola, possono divenire oggetto di un esplicito divieto.

Tutto bene se non ci fosse un trascurabile particolare. E cioè che la religione - e poiché parliamo dell’Europa diciamo pure il Cristianesimo - ha occupato un posto enorme in quel decisivo ambito pubblico che fino a prova contraria è rappresentato dalla storia del continente. La storia: vale a dire tutto il vastissimo insieme dai profondissimi echi emotivi e psicologici, rappresentato dal folklore, dalle tradizioni, dalle feste, dalle abitudini quotidiane di ogni tipo di questa come di ogni altra parte del mondo. Vorrà pure dire qualcosa o no - tanto per fare un esempio - che almeno alcune decine di migliaia di località italiane e la maggior parte degli italiani portano il nome di un santo? E non vale, mi sembra, obiettare che ormai non sono in molti a dirsi esplicitamente cristiani. È vero. Ma con le sue mille propaggini l’universo storico-religioso resta ancora oggi un cruciale deposito d’identità collettiva profondamente introiettata, che si è trasfusa in una miriade d’identità individuali.

È per l’appunto in relazione a questo universo storico-identitario - di cui il fatto religioso costituisce un sostrato decisivo - che nelle società europee si sta delineando l’ennesima spaccatura tra masse ed élite. Tra una maggioranza della popolazione che, seppure in gran parte non condivida più lo sfondo trascendente di quell’universo, tuttavia ancora sente con esso un rapporto tenace, ancora lo percepisce come vitalmente proprio, e dall’altra parte la maggioranza delle élite. Le quali, viceversa, sono rispetto ad esso indifferenti quando non insofferenti. Si tratta di una frattura che riguarda tutto l’universo identitario nel suo complesso (e dunque anche i temi decisivi della nazione, della sovranità nazionale e insieme della lingua). Cioè il vasto insieme del passato che, aggredito oggi capillarmente dalla globalizzazione, vede i «felici pochi» benevolmente disposti a prenderne le distanze, a lasciarne andare via interi pezzi, mentre gli « have not » non ci stanno e fanno resistenza. Sicché in tal modo le élite - come da tempo si nota specialmente nei Paesi deboli come il nostro - divengono tendenzialmente «progressiste», spregiudicatamente «moderne», mentre le masse sempre di più tendono oggettivamente ad apparire «reazionarie». Quelle masse che però quando festeggiano il Natale chiamandolo ancora Natale, festeggiano in qualche modo, pure se non lo sanno, una storia che finora era di tutti.

24 dicembre 2014 | 08:55
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_24/natale-elogio-quello-vero-ec6be4f8-8b3a-11e4-9698-e98982c0cb34.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Gennaio 05, 2015, 04:55:34 pm »

Il rischio di naufragio
L’audacia che manca all’Europa

Di Ernesto Galli della Loggia

È tale l’estraneità dell’Unione Europea a qualunque dimensione politico-statale che di quanto avviene ai suoi confini - per esempio di chi e come e quando li vìola - sembra che non gliene importi sostanzialmente nulla: nei fatti Bruxelles preferisce sempre girare lo sguardo dall’altra parte.

Si veda quanto è successo negli ultimissimi giorni lungo la frontiera marittima meridionale dell’Unione, quella più toccata dal problema dell’immigrazione clandestina. Problema per il quale l’Ue ha cercato anche di immaginare regole e controlli, di stabilire strategie di contenimento comuni, attribuendone la gestione almeno in teoria a un’apposita agenzia dell’Unione, Frontex.

Bene. Poi però c’è un Paese, la Grecia, nei cui porti, ormai è chiaro, le autorità chiudono gli occhi, non controllano nulla, e grazie a varie complicità fanno salire sulle navi in partenza quanti clandestini lo vogliano, allo scopo, è molto probabile, di liberarsene mandandoli da qualche altra parte. Proprio questo, infatti, è ciò che verosimilmente è successo al Norman Atlantic. Nelle cui stive si addensavano decine di passeggeri non registrati destinati alla misera fine che sappiamo, e alcuni dei quali non sono forse estranei alla causa dell’incendio all’origine del naufragio. Ancora: appena dopo due giorni, le stesse autorità greche hanno lasciato tranquillamente transitare davanti alle loro coste il cargo Blue Sky M, carico di un migliaio di clandestini. Tutto ciò nonostante le medesime autorità avessero ricevuto un Sos ma si fossero poi dette rassicurate da una sedicente ispezione a bordo che non aveva trovato nulla di anomalo. Sì, proprio nulla: tanto è vero che trascorse poche ore il cargo si dirigeva senza guida, con il timone e il motore bloccati, diritto filato a fracassarsi sulle coste pugliesi se non fosse intervenuta la Guardia costiera italiana. Così come solo il massiccio intervento della medesima Guardia costiera nonché della nostra Marina e della nostra Aviazione sono state necessarie per evitare che il disastro del Norman Atlantic assumesse dimensioni ancora maggiori.

La domanda che questo insieme di fatti suscita è fin troppo ovvia: è ammissibile che un Paese dell’Unione Europea si comporti così nei confronti di un altro? Con una simile disinvoltura che rasenta la menefregaggine? Scaricando sulle sue spalle gli scomodi problemi che si trova a dover affrontare? Ma d’altra parte proprio in questo campo l’Italia non ha certo le carte in regola per protestare. L’Italia per prima, infatti, spesso evita di registrare gli immigrati clandestini che arrivano sul suo territorio, e che a norma degli accordi europei dovrebbe trattenere presso di sé, ma cerca invece di favorirne il passaggio verso altri Paesi: i quali, figurando così come prima destinazione, sono tenuti loro all’obbligo a cui noi fraudolentemente ci sottraiamo.

Quando insomma si arriva al dunque degli interessi e/o degli egoismi nazionali - e li si può far valere senza pagare pegno - la realtà dell’Europa è questa. Non certo quella rappresentata dalla solidarietà, dal sentirsi realmente uniti, parte di una stessa comunità. Altrimenti, del resto, non si spiegherebbe come sia possibile, tanto per fare un esempio, che da anni un terzo della popolazione proprio della Grecia sia costretta a vivere in una condizione di vera e propria indigenza, priva in molti casi di assistenza sanitaria, con migliaia e migliaia di bambini sottonutriti, senza che l’opulenta Europa lussemburghese, renana o scandinava abbia mai pensato di muovere un dito per prestarle il minimo soccorso.

Sta qui il vero nodo della mancata crescita politica dell’Unione. In questo inesistente o debolissimo senso di appartenenza a cui è pressoché impossibile porre rimedio fintanto che resteranno in piedi le attuali regole che presiedono al funzionamento dell’Unione, in specie dei suoi organi di vertice, fondate sulla lottizzazione e sull’assenza di responsabilità politica collettiva. Questa è la questione realmente cruciale, quella che viene prima di ogni altra e da cui ogni altra dipende: la riforma in senso forte della governance della costruzione europea. Facendola designare direttamente dal Parlamento, attribuendole poteri di governo diretti ed esclusivi in un certo numero di materie, per esempio nell’immigrazione e in certi ambiti della fiscalità generale: magari con la garanzia del diritto di veto attribuito a certe condizioni ai governi nazionali.

Se vuole sopravvivere, se vuole cercare di diventare un vero corpo politico, cioè un’entità coesa, tenuta insieme da un legame autentico, e perciò capace di un’azione efficace, l’Europa ha una sola strada davanti: quella di una stagione costituente radicale, audace. In mancanza di ciò, su troppe cose che contano continueremo ad andare in ordine sparso, magari a raccontarci la favola che tanto a «fare l’Europa» ci pensa il programma Erasmus, aspettando che inevitabilmente qualcuno prima o poi però, con le buone o con le cattive, decida di uscire dall’Unione e di chiederne il fallimento.

3 gennaio 2015 | 08:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_03/audacia-che-manca-all-europa-11b40348-9311-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Gennaio 08, 2015, 04:55:44 pm »

Islam, la vera questione
L’undici settembre europeo

Di Ernesto Galli della Loggia

Stabilire a quale gruppo della galassia del terrorismo islamista appartengano gli assassini che hanno compiuto la strage nella redazione di Charlie Hebdo, decifrare in quale strategia s’iscriva il loro delitto, sarà compito della polizia e degli analisti.
In questo momento nelle nostre orecchie risuona solo ciò che secondo testimonianze attendibili essi gridavano mentre compivano la loro missione di morte: «Allah è grande», «Abbiamo vendicato il profeta Maometto». Oggi per l’opinione pubblica del mondo civile conta solo che essi abbiano detto queste parole, che nell’uccidere abbiano fatto appello all’Islam. Per esorcizzare un simile dato inquietante e mille altri dello stesso tenore di questi anni, la parte più colta e politicamente corretta dell’opinione pubblica di cui sopra ha adottato da tempo, in Europa, il termine islamofobia. E pensando così di risolvere il problema. Invece il problema c’è. Esso resta come un macigno a dispetto di ogni buona volontà e di ogni discorso edificante. Ed è precisamente il problema dell’Islam.

Cioè di un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani, dove nel complesso (nel complesso, perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e - questo è il punto decisivo - perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le altre parti del mondo. Dove le donne non hanno gli stessi diritti e doveri degli uomini e per le prime può essere considerato un reato perfino guidare un’automobile; dove la distinzione sociale tra sfera religiosa e sfera civile è labile se non assente; dove aprire una chiesa cristiana è perlopiù vietato; dove i regimi politici hanno quasi sempre carattere dispotico e di rado riconoscono le libertà, a cominciare dalla libertà di stampa, che altrove sono invece considerate ovvie; dove - come hanno imparato con il loro sangue le vittime di ieri - la satira contro il potere è sconosciuta e quella contro la religione considerata inconcepibile.

Non basta: un insieme di religione, cultura e storia dove pressoché ognuna di queste cose è largamente suscettibile di essere percepita o interpretata come blasfemia, come una bestemmia contro l’Onnipotente da pagare con la morte.

Se l’Islam è questo, allora noi vogliamo avere la possibilità di criticarlo come ci pare e piace: come abbiamo imparato a criticare il Cristianesimo, il Buddismo e mille altre cose. Possibilmente avendo diritto a non rischiare con ciò la vita: diritto che tra l’altro ci piacerebbe vederci anche riconosciuto da più di qualche voce autorevole di quel mondo.

8 gennaio 2015 | 07:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_08/undici-settembre-europeo-7385d430-96fd-11e4-b51b-464ae47f8535.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Gennaio 12, 2015, 09:58:41 pm »

Il commento
Assassini il coraggio di dirlo
Una scomoda denuncia dell’album di famiglia

Di Ernesto Galli della Loggia

All’Islam non servono ritrattazioni, dissociazioni, condanne. E diciamo la verità: chiedere ai suoi esponenti qualcuna di queste cose ha sempre un sapore sgradevolmente intimidatorio, specie se, come accade spesso, chi avanza simili richieste non sta a Bagdad o a al Cairo ma vive ben rimpannucciato in qualche metropoli europea o americana. Oggi all’Islam serve altro: serve una Rossana Rossanda islamica (e spero che in questo caso l’evocazione di una donna non scandalizzi nessuno).

Qualcuno ricorda? Era il lontano 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro. Tutto lo schieramento politico «democratico e di sinistra», come allora si diceva (cioè dalla Dc al Pci), s’interrogava sull’accaduto. S i chiedeva quale misterioso progetto ideologico e quali reconditi burattinai stessero dietro le elucubrazioni delle Brigate rosse. In tutto questo, Rossana Rossanda - un’antica esponente comunista poi espulsa dal partito perché tra gli iniziatori dell’esperienza politica e giornalistica del Manifesto - ebbe il coraggio di dire ciò che era sotto gli occhi di tutti ma che fino ad allora nessuno a sinistra aveva osato quasi neppure pensare. E cioè che per capire il linguaggio e l’ideologia delle Br non c’era da andare molto lontano: l’una e l’altra erano infatti quelli del comunismo degli Anni 50, ben scolpiti nella memoria di tutti. Le Br, insomma, non venivano dal nulla, non erano delle schegge impazzite chissà come di chissà che cosa. Erano all’opposto, una pagina dell’«album di famiglia» della Sinistra italiana: una pagina obsoleta quanto si vuole, fuori tempo, ferma ad analisi ormai superate, insostenibili quanto si vuole, ma che un tempo erano state condivise da moltissimi perché facevano parte di un patrimonio comune a moltissimi. Anche se questi ora preferivano dimenticarlo. L’articolo della Rossanda s’intitolava appunto «L’album di famiglia». E naturalmente fece non poco scandalo.

Oggi l’Islam ha forse bisogno di uno scandalo analogo. Di qualcuno nelle sue file che abbia la lucidità intellettuale e il coraggio di dire che se nel mondo si aggirano degli assassini - non uno, non dieci, ma migliaia e migliaia di assassini feroci - i quali sgozzano, violentano donne, brutalizzano bambini, predicano la guerra santa, e fanno questo sempre invocando Allah e il suo Profeta, sempre annunciando di compiere le loro gesta in nome e per la maggior gloria dell’Islam, ebbene se ciò accade non può essere una pura casualità. Non può essere attribuito a una sorta di follia collettiva. Il mondo non è pazzo: qualche ragione deve esserci. Deve esserci qualche legame - distorto, frainteso grossolanamente, erroneamente interpretato quanto si vuole - ma un legame effettivo con qualcosa che riguarda l’Islam reale.

Che cosa? Non mi azzardo a dirlo. Non solo per paura delle conseguenze (esiste anche questa: e come potrebbe non esserci?), ma soprattutto perché chi scrive, così come del resto molti altri occidentali, siamo consapevoli di avere a che fare con un mondo che non è il nostro e che alla fine conosciamo ben poco. E che in questo mondo, perciò, ogni nostra affermazione, ogni nostra inevitabile semplificazione può offendere sensibilità, creare equivoci, suscitare sdegni pure legittimi.
Ma soprattutto perché un discorso sull’«album di famiglia», come si capisce, non può che venire dall’interno della famiglia stessa. In questo caso dall’interno dell’Islam, dalla sua intelligenza del momento storico e dei pericoli che si stanno addensando per tutti. Solo così conta qualcosa e può produrre qualche effetto.

11 gennaio 2015 | 09:21
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_11/assassini-coraggio-dirlo-ed76d41a-9969-11e4-a615-cfddfb410c4c.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:46:40 am »

Il Quirinale
La nebbia sull’irto colle
Quello che avrebbe dovuto essere un disincarnato custode-garante della Legge si è trasformato sempre più spesso in padrone virtuale dell’intero meccanismo politico

Di Ernesto Galli della Loggia

In nessun capitolo come in quello riguardante il capo dello Stato, la Costituzione materiale della Repubblica, cioè quella che vige di fatto, lungi dal forzarla o tradirla ha viceversa portato alle estreme conseguenze la Costituzione scritta.
Come si sa, la versione ufficiale è invece opposta. Si dice abitualmente, infatti, che proprio per ciò che riguarda il presidente della Repubblica vi è stato, sì, tra la lettera e la realtà uno scostamento significativo, per cui quello che avrebbe dovuto essere un disincarnato custode-garante della Legge si è trasformato sempre più spesso in padrone virtuale dell’intero meccanismo politico.

Ma ciò sarebbe avvenuto - si sostiene - per effetto di contingenze particolari: prima fra tutte il vuoto politico che ha dovuto necessariamente essere riempito da chi in qualche modo poteva farlo. E con l’aiuto dei poteri provvidenzialmente «a fisarmonica» (la definizione come si sa è di Giuliano Amato) attribuitigli dalla Carta: cioè di poteri estensibili o restringibili in modo da adattarsi alle circostanze. Peccato - aggiungo io - che la misura dell’adattamento, non potendo ovviamente essere decisa dalle circostanze stesse, venga rimessa in pratica alla libera (e inoppugnabile) interpretazione che di esse dà il presidente: vale a dire a una sua decisione arbitraria. Quale fu ad esempio quella del presidente Napolitano nell’autunno 2011 di non sciogliere le Camere dopo la caduta del governo Berlusconi, bensì di affidare il governo a Mario Monti. In realtà, disporre legittimamente di un potere d’intervento politico esercitabile a piacere come quello ora accennato, significa disporre di un potere con ogni evidenza rilevantissimo. Tali sono, peraltro, tutti i poteri del presidente, anche quelli diciamo così di routine: tutti con una forte valenza politica e rimessi alla sua esclusiva volontà. Da quelli più formali a quelli più informali: dalla nomina dei giudici della Corte costituzionale alla decisione di approvare, respingere o «consigliare», come è capitato spesso, la nomina di un ministro o la presentazione di un disegno di legge.

Ne segue che il carattere oggettivamente e spiccatamente politico del ruolo del presidente della Repubblica più che essere frutto di circostanze «particolari», è in realtà iscritto a chiare lettere nel testo stesso della Costituzione. I cui autori pensavano di scrivere la Costituzione di una democrazia parlamentare, ma in corso d’opera hanno disegnato nei fatti un capo dello Stato che per molti aspetti assomiglia più che altro al Sovrano dello Statuto Albertino. Certo, questa o quella circostanza ha potuto contribuire in modo particolare a enfatizzare e «politicizzare» il ruolo in questione (come del resto accadeva anche sotto la monarchia). Ma soprattutto, io direi, hanno contato il temperamento e la biografia di chi è stato chiamato a interpretarlo: dal modo notaril-notabilare, distaccato, di un Einaudi, un Leone, un Ciampi, siamo passati a quello intimamente politico e interventista di un Gronchi, un Pertini, un Napolitano.


Quanto detto finora sottolinea il carattere assolutamente incongruo del modo della nomina del Presidente: cioè il voto segreto. Il quale infatti, e come è del resto la regola nel parlamentarismo, lungi dal garantire la vittoria del «migliore» in quanto frutto della libertà di coscienza dei parlamentari, favorisce viceversa solo il carattere quasi sempre opaco, «contrattato» e talora volutamente «inquinante», del meccanismo di formazione della maggioranza. Non a caso l’elezione del capo dello Stato è da sempre il grande appuntamento della stagione per i «franchi tiratori». Da questo punto di vista è alquanto singolare che nella nostra Costituzione il voto palese, prescritto per il voto sulla fiducia al governo per ragioni di chiarezza e di moralità politica, non lo sia per la designazione del presidente della Repubblica.

Il risultato è in questi giorni sotto gli occhi di tutti: la persona destinata a ricoprire la carica politica divenuta la più importante del nostro sistema viene scelta nell’ombra, al di fuori di qualunque orientamento non dico dei cittadini elettori ma dell’opinione pubblica largamente intesa. Intorno alla sua elezione si annodano così trattative segrete, conversazioni riservate, giochi, inganni, depistaggi: insomma tutto il repertorio del machiavellismo da poveracci della peggiore tradizione nazionale. Che almeno, però, serve a mostrare come stanno effettivamente le cose al di là della solfa edificante sul «garante», l’«arbitro», il « super partes », e altrettali definizioni. E cioè che partiti ed esponenti politici sono così consapevoli della realtà della posta in gioco - e cioè mettere il proprio cappello sul vertice del potere, ovvero impedire che lo metta l’avversario - che brigano in ogni modo per essere nel novero degli elettori, per non restarne esclusi, cercando possibilmente di escludere i rivali.

21 gennaio 2015 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_21/nebbia-sull-irto-colle-3a57ca74-a13e-11e4-8f86-063e3fa7313b.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Gennaio 30, 2015, 04:58:08 pm »

Equivoci
L’Islam non ci chieda di limitare la libertà
Non bisogna credere che il radicalismo musulmano sia mosso da ragioni religiose. Qual era per esempio la terribile blasfemia commessa dalla poliziotta uccisa a Montrouge?
Di Ernesto Galli della Loggia

Le parole ormai famose di papa Bergoglio a commento della strage di Parigi («se tu offendi la mia mamma, un pugno te lo devi aspettare») hanno segnato l’inizio di una significativa inversione di tendenza — o almeno di un dubbio — nel giudizio su quei fatti da parte dell’opinione pubblica occidentale. Che si può esprimere con queste parole: «La libertà va difesa, naturalmente, ma offendere le religioni, e poi con quella volgare crudezza propria di Charlie Hebdo, è sbagliato. È sbagliato non tener conto della particolare sensibilità che hanno in proposito i fedeli musulmani». Sono parole ispirate a una saggia prudenza in teoria condivisibile, che possono però avvalorare due gravi errori di giudizio.

Il primo è quello di far credere che il radicalismo islamico abbia nella sostanza un carattere di reazione, di risposta a presunte azioni dell’Occidente. Che è precisamente ciò che esso vuol far credere per ovvi motivi di popolarità, ma che è falso. E che sia falso lo dimostrano proprio i recenti sanguinosi fatti di Parigi: di quali offese religiose si era mai macchiata, infatti, la poliziotta spietatamente freddata a Montrouge poche ore dopo la mattanza nella redazione di Charlie Hebdo? E qual era la terribile blasfemia commessa dai 4 clienti del supermercato kosher altrettanto spietatamente fatti fuori? Forse quella davvero imperdonabile di essere ebrei, come tante altre vittime uccise di recente in Francia e in Belgio? Ancora: quali insulti a quale mamma avevano lanciato i tremila morti degli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle? Riesce difficile rispondere. Così come riesce alquanto difficile indicare le ipotetiche colpe commesse dalle centinaia e centinaia di cristiani massacrati da anni, dal Pakistan alla Nigeria, per mano del fanatismo islamico. Se non una sola colpa, certo gravissima: essere cristiani, per l’appunto.

Il secondo errore che l’improvvisata affermazione papale può ingenerare è questo: che se pure viene accettato il principio della difesa della sensibilità religiosa, tracciare in materia un confine giuridico oggettivo resta quanto mai difficile, anzi impossibile. Non è male ricordare a questo proposito che la vignetta che da anni costa al suo autore danese una vita infernale, rinchiuso in una sorta di casa-bunker, protetto da decine di gendarmi contro la furia omicida del fanatismo islamico, non aveva nessuno dei caratteri volgari e sessualmente spinti di Charlie Hebdo. Ritraeva Maometto con un turbante che avvolgeva una bomba. Ma tanto è bastato. Il romanzo di Salman Rushdie Versetti satanici contiene una rivisitazione in chiave onirica di una presunta ispirazione diabolica di Maometto. Di nuovo: tanto è bastato per far guadagnare al suo autore una condanna a morte dall’imam Khomeini, al traduttore giapponese del libro la morte effettiva, e infine il ferimento a quello italiano e all’editore norvegese dell’opera. Un altro esempio: il regista olandese Theo van Gogh è stato ucciso solo per aver girato un documentario sull’oppressione delle donne nel mondo islamico, mentre la deputata olandese musulmana, collaboratrice del regista, ha dovuto rifugiarsi negli Usa e da allora vive sotto protezione.

La domanda allora è: visto che da quanto appena detto sembra proprio che la soglia di sensibilità religiosa diffusa nell’Islam sia estremamente bassa, davvero dovremmo farla nostra, adottandola nella nostra legislazione? Va da sé però che in questo caso dovremmo adottarla come norma generale applicabile a tutte le fedi religiose. Ma allora, di conseguenza, domani per esempio dovrebbe essere vietato disegnare il Papa nelle vesti di un crociato, oppure criticare i risultati del Sinodo sulla famiglia per non offendere la sensibilità dei cattolici, così come bisognerebbe vietare il commercio delle opere di Nietzsche in cui si attacca ferocemente il Cristianesimo, e così via immaginando. Che facciamo se no? Decidiamo noi quale sia la soglia politicamente corretta della sensibilità religiosa, solo oltre la quale scatta la sanzione penale? E in base a quale criterio? E con quale certezza di risultati?

In realtà l’intolleranza fanatica così diffusa nell’universo islamico — madre diretta della sua vasta propensione alla violenza — rimanda direttamente a un fattore che tuttora ci ostiniamo a non considerare: e cioè la scarsa conoscenza che in esso si ha del mondo moderno, causata a sua volta da una scarsa diffusione dell’istruzione. Per cui in pratica l’unico strumento di acculturazione per masse larghissime della popolazione finisce per essere l’insegnamento religioso.

Secondo l’Unesco, infatti, nel 2009 circa il 40 per cento degli arabi sopra in 15 anni, specie le donne, era analfabeta (il 50 per cento addirittura, secondo le stime di un docente dell’Università di Rabat su Le Monde nel luglio 2012). E da allora la situazione non sembra essere molto migliorata. Non solo, ma come ha dichiarato il direttore delle Iniziative culturali dell’Istituto del Mondo arabo con sede a Parigi, Mohamed Métalsi, «per i più piccoli l’educazione è fortemente impregnata di religione, mentre per i più grandi l’insegnamento della filosofia si attiene solo ai testi musulmani. Della filosofia greca o dei Lumi neppure a parlarne». Con tali premesse non stupisce il risultato di un rapporto redatto nel 2002 sotto l’egida della Nazioni Unite: e cioè che nell’insieme dei Paesi arabi (circa 400 milioni di abitanti) si pubblicavano meno libri che nella sola Spagna; mentre secondo un rapporto analogo del 2003, in mille anni (mille anni!) il mondo arabo nel suo complesso avrebbe tradotto all’incirca 10 mila titoli: ancora una volta l’equivalente di quelli che sempre la sola Spagna traduce in solo anno. Per giunta «le grandi opere della cultura occidentale — è sempre Métalsi a parlare — sono tradotte in un numero limitatissimo, e le traduzioni sono spesso mediocri».

Forse da qui, da questi dati dovremmo cominciare a ragionare quando parliamo — così spesso a vanvera — di terrorismo, multiculturalismo e integrazione. Forse a partire da questi dati dovremmo impegnare un confronto serrato, amichevole ma fuori dai denti, con i Paesi arabi.

28 gennaio 2015 | 09:27
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_28/islam-non-ci-chieda-limitare-liberta-58aeee1e-a6c3-11e4-93fc-9b9679dd4aa0.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Febbraio 07, 2015, 10:01:03 am »

Il corsivo del giorno

Il professore francese che vuole insegnare la storia del fascismo senza conoscerla

Di Ernesto Galli della Loggia

Qualunque storico italiano, di qualunque orientamento, si vergognerebbe di scrivere sul fascismo le pagine che invece si leggono in Controllare e distruggere (parole aggiunte nel titolo dall’editore Einaudi per rendere più succulento il prodotto) Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa 1918 -1945, di Johann Chapoutot. Uno studioso di valore del nazismo, che però mostra di sapere poco o nulla di storia italiana. Non sa ad esempio che nel 1919 la legge elettorale proporzionale non fu «reintrodotta» per la semplice ragione che prima di quella data non c’era mai stata; non sa che nel ‘22 Facta non succedette a Giolitti nella carica di presidente del Consiglio bensì a Bonomi; che all’Aventino non parteciparono solo i deputati socialisti, come egli suggerisce, ma i deputati di tutte le opposizioni; e che è davvero molto azzardato affermare che il colpo di Stato fascista dell’ottobre ‘22 fosse «minuziosamente preparato» o «ispirato a quello dei bolscevichi». Così come del resto non risulta da nessuna parte che nel 1922, dopo essersi insediato al governo, Mussolini abbia «trasformato alcuni ras locali del Partito nazionale fascista in prefetti volanti che controllano e supervisionano l’azione amministrativa dello Stato»; e neppure che Badoglio nel settembre 1943 abbia mai «trattato un’alleanza con gli Alleati».

Insomma errori e superficialità (anche nella traduzione: vedi la «guardia regia» che diventa «Guardia reale») che punteggiano una narrazione che è solo un ammasso di stereotipi storiografici fuori corso. Dove non v’è traccia, per esempio, della rovinosa frattura prodotta nel sistema politico dall’intervento in guerra; dove per esempio sono taciute le gesta irresponsabili del massimalismo socialista; dove i fascisti sono solo dei violenti prezzolati da industriali e agrari in quanto «diga anticomunista». Concludendo: assolutamente da non leggere.

4 febbraio 2015 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_04/professore-francese-che-vuole-insegnare-storia-fascismo-senza-conoscerla-d62117fa-ac40-11e4-88df-4d6b5785fffa.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:36:54 pm »

Tutto ciò che manca alla destra
Di Ernesto Galli della Loggia

Tutto lascia credere che l’elezione del presidente della Repubblica, avendo mandato all’aria il cosiddetto patto del Nazareno, abbia posto fine a quella strategia dei «due forni» sulla quale il governo Renzi ha fin qui potuto contare: cioè l’uso di maggioranze parlamentari di volta in volta diverse, includenti oppure no Forza Italia, a seconda dei provvedimenti da votare. Il che, tuttavia, non ha certo cancellato quello che è forse l’elemento chiave che nel nostro sistema politico nato nel 1994 assicura fisiologicamente, come un fatto abituale, un grosso vantaggio competitivo alla Sinistra rispetto alla Destra. Beninteso, ve ne sono parecchi, di questi elementi fisiologici di preminenza: il fatto, tanto per cominciare, che la Sinistra ha dietro di sé settori della società civile più compatti e in certo senso più strategici (ad esempio i media e la cultura); che può contare in linea di massima su una maggiore motivazione, e quindi fedeltà, del proprio elettorato; che essa ha maggiore familiarità e conoscenze con personalità e circuiti politici internazionali.

Ce n’è uno però, come dicevo, più importante degli altri. Questo: la Sinistra, quando è al governo, sa e può fare, pur se entro certi limiti e per intenderci alla buona, politiche sia di sinistra che di destra, dal momento che sa che anche in questo ultimo caso conserverà comunque i propri voti, e in più attirerà quasi certamente voti dal campo avversario. La Destra invece no: essa sa e può fare (quando pure ci riesce) solo politiche di destra; e dunque al massimo può conservare il bacino elettorale suo proprio non potendo tuttavia sperare di ampliarlo di molto. Nella Seconda Repubblica ha funzionato così. Specialmente, come dicevo sopra, per effetto del diverso grado di fedeltà e di senso di appartenenza - o se si preferisce di «laicità» - che esiste in Italia tra il «popolo» di sinistra e quello di destra. Anche se è vero che in compenso la Destra gode del vantaggio di partenza di rappresentare socialmente la maggioranza del Paese. Sta di fatto che nel gioco politico iniziatosi nel ’94 mentre la prima riesce a disporre di due strade la seconda è sembrata sempre capace di percorrerne una sola.

Di tutto ciò, come ha mostrato ieri su queste colonne Michele Salvati, l’azione finora svolta da Matteo Renzi è il massimo esempio - ma non il solo: negli enti locali i casi sono moltissimi - di quanto sto dicendo. Pur con vari mal di pancia perché di certo in contrasto con molte sue premesse, la Sinistra renziana, infatti, può fare liberalizzazioni, riformare la Costituzione, cancellare privilegi nel mercato del lavoro, prendere di petto i sindacati, invocare inchieste e castighi sui vigili fannulloni di Roma, dare un’immagine di sé insomma (non importa che poi la realtà sia talvolta un’altra) diversa da quella sua tradizionale, e così facendo ricevere un gran numero di consensi pure dal centro e dalla destra. Che cosa è stata capace di fare invece di analogo in senso opposto nei suoi anni d’oro la Destra?

Certo, ha pesato molto la leadership berlusconiana, i cui limiti sono divenuti presto evidenti. Specialmente la sua scarsa determinazione e la sua inettitudine a tenere insieme la maggioranza e a guidarne l’azione di governo. Che infatti è apparsa fin da subito priva di un riconoscibile orientamento generale, di un qualunque disegno, sfilacciata in mille provvedimenti dettati dall’emergenza o da puri interessi particolari. La conclusione è stata che nei loro lunghi anni di governo, Berlusconi e i tanti che erano con lui non sono riusciti a trasmettere al Paese l’idea di che cosa potesse voler realmente dire un programma politico di destra, quali principi - se mai c’erano - essa mirasse a realizzare. Tanto meno - figuriamoci! - Berlusconi e i suoi (anche quelli che poi lo hanno abbandonato) sembrano aver mai pensato di spingersi su una strada programmatica che potesse apparire «di sinistra».

Questo è forse il principale problema che il tramonto dell’ex premier lascia in eredità alla sua parte. Se la Destra vuole tornare ad essere elettoralmente competitiva deve prefiggersi una linea che sia riconoscibilmente alternativa a quella della Sinistra, naturalmente, ma che al tempo stesso sappia interpretare anche alcune esigenze di fondo dell’elettorato di quest’ultima. Ciò sarà possibile, io credo, ma solo a una condizione.

Una condizione che si spiega con la storia particolare del nostro Paese e delle sue culture politiche. Tra le quali quella liberal-democratica nei fatti si è sempre mostrata fragile, poco radicata e soprattutto incapace di sorreggere vaste ambizioni. Altrove sarà diverso, è certamente diverso, ma in Italia - come del resto in molti altri Paesi dell’Europa continentale - una sostanziale contaminazione della Destra moderata con punti programmatici diversi dai propri, i quali guardino verso sinistra, è possibile solo se la Destra riesce a integrare dentro di sé, stabilmente - non già in modo estrinseco sotto forma di fragili accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano - la cultura del cattolicesimo politico.

Berlusconi ha pensato che fosse sufficiente un’alleanza con le gerarchie ecclesiastiche all’insegna di una strumentale condivisione di «valori irrinunciabili» (a lui e al suo ambiente peraltro del tutto estranei). Ma evidentemente non di questo si tratta. Bensì di fare i conti con quel lascito di idee e di propositi che vengono da una lunga storia e che hanno alimentato un’esperienza che è stata decisiva per la vicenda della democrazia italiana.

Altrimenti, per una Destra che oggi miri a contrastare l’egemonia renziana l’alternativa è una sola: quella di puntare spregiudicatamente su un massiccio smottamento ideologico-emotivo delle masse (popolari e non) verso particolarismi anarcoidi, verso forme di xenofobia e di antieuropeismo radicali. È la via attuale della Lega: una via tenebrosa e senza ritorno.

10 febbraio 2015 | 08:21
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_10/tutto-cio-che-manca-destra-87632958-b0e8-11e4-9c01-b887ba5f55e9.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:47:45 pm »

Quirinale
La prova che attende il Presidente

Di Ernesto Galli della Loggia

Designando Sergio Mattarella, l’assemblea dei grandi elettori del presidente della Repubblica ha scelto senz’altro una persona degna e irreprensibile. Non si può dire però di pari notorietà. Credo che fino a sabato scorso, infatti, ben pochi italiani avessero idea di chi fosse il futuro capo dello Stato, sapessero qualcosa di lui, ne conoscessero perfino l’aspetto. È questo, del resto, l’ovvio risultato dell’aver scelto un candidato del quale al momento dell’elezione - come ci hanno informato i giornali - non si conosceva alcuna manifestazione o dichiarazione pubblica successiva al 2008 (quindi ben prima di venir eletto alla Consulta), salvo una sua breve intervista a un gruppo di giovani dell’Azione Cattolica.

Alla lunga lista delle sue singolarità l’Italia ne ha aggiunta così un’altra: quella di avere un capo dello Stato che, pur avendo a norma della Costituzione il compito di «rappresentare l’unità nazionale», risulta però affatto sconosciuto alla stragrande maggioranza dei cittadini per non dire alla loro quasi totalità. Così come del resto anche la sua prima e più vera affiliazione politica - quella al cattolicesimo democratico rappresentato da Aldo Moro (un leader politico assassinato circa quarant’anni fa) - temo che non riesca a significare più molto per chiunque non faccia parte di un ristretto gruppo di seguaci o di addetti ai lavori.

Lo dico con il più grande rispetto, non di maniera, per la persona e per le istituzioni repubblicane, ma è così: la presidenza Mattarella reca il segno, ancor più di tutte le altre che l’hanno preceduta, di un frutto esclusivo del sistema politico-partitico. D i mediazioni, stratagemmi tattici, inclusioni ed esclusioni, tutte interne ad esso. In questo senso essa reca il segno inevitabile della massima separatezza tra quel sistema e il Paese, tra la sfera della politica e la gente comune.

Non si tratta di invocare in alternativa rovinosi plebiscitarismi. Non è questo il punto. Si tratta di convincersi che in un regime democratico, perché vi sia un minimo di auto riconoscimento dei cittadini nelle istituzioni è auspicabile - io aggiungerei necessario - che le istituzioni stesse siano rappresentate da persone in qualche modo note, con il cui volto, con le cui idee, vi sia da parte degli stessi cittadini un minimo di familiarità. E del resto non ebbe in mente precisamente un’idea del genere lo stesso attuale presidente della Repubblica quando oltre vent’anni fa propose, proprio lui, una legge elettorale (il ben noto Mattarellum), largamente basata sul collegio uninominale maggioritario, cioè su un rapporto immediato e diretto tra eletto ed elettori?

Sono convinto che proprio per l’abito di sobrietà che è del suo temperamento, il presidente Mattarella avrà letto con un certo ironico distacco la valanga di dichiarazioni e di articoli di giornali gonfi di adulazione e di retorica che si è rovesciata sulla Penisola e sulla sua scrivania in questi giorni. Valanga che però non sarà certo servita a nascondere alla sua intelligenza il carattere di separatezza, di forte lontananza dalla pubblica opinione, sotto la cui insegna è nata la sua elezione. E di conseguenza la necessità di porvi rimedio utilizzando la grande quantità di risorse simboliche di cui il suo incarico dispone. Cominciando con il parlare superando il suo naturale ma forse eccessivo amore per le poche parole e rivolgendosi agli italiani nel modo in cui chi li rappresenta deve oggi fare: con semplicità, trovando reale novità d’accenti, animando il loro senso di appartenenza alla comunità nazionale, suscitando le loro speranze.

6 febbraio 2015 | 07:54
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_06/prova-che-attende-presidente-e472096a-adc9-11e4-92f5-d80ea89fe184.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Febbraio 18, 2015, 07:46:40 am »

La guerra rimossa
Cattiva coscienza europea

Di Ernesto Galli della Loggia

Mentre scriveva nel suo editoriale per il Corriere di ieri che «gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza», Angelo Panebianco non poteva immaginare quanta ragione gli avrebbero dato dopo solo poche ore le notizie giunte da Copenaghen sull’ultima impresa del terrorismo jihadista. E sempre sperando che non facciano lo stesso le notizie provenienti in futuro dall’Ucraina. Alla sua analisi manca tuttavia una premessa importante: gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla.

Da settant’anni questa elementare verità all’Europa di Bruxelles ripugna. Non a caso tutto il suo establishment politico-culturale ha appena potuto permettersi di ricordare il centesimo anniversario della Grande guerra solo a patto di farne propria l’antica qualifica papale di «inutile strage». Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. I n base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti «inutili»? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?

È peraltro in questo modo, a forza di suscitare emozioni e di consolidare giudizi del genere, che la storia - quella vera, quella che secondo una famosa immagine di Hegel assomiglia inevitabilmente a un banco di macelleria dal momento che gli uomini sono sempre quelli del peccato originale - è in questo modo, dicevo, che la storia si è progressivamente dileguata dall’orizzonte concettuale dell’opinione pubblica europea. E insieme dalla cultura delle sue élite politiche, dopo il ‘45 orientate massicciamente in senso cristiano-socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalla storia è stato riempito dai principi. Unicamente i principi devono guidarci nell’arena del mondo: la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, il diritto. Ma soprattutto la pace. Peccato che in quell’arena i principi, se non sono sostenuti dalle armi, possono voler dire una sola cosa: il compromesso a tutti i costi, il compromesso sempre e comunque. E alla fine - nella sostanza, anche se ogni sostanza può sempre essere mascherata - quasi sempre la resa.

E infatti a cos’altro si prepara se non alla resa un’Unione Europea la quale - c’informava sempre ieri sul Corriere Danilo Taino, immagino con intima soddisfazione di Federica Mogherini, ormai avviata a farci rimpiangere lady Ashton - negli ultimi vent’anni, mentre ai suoi confini crollava il mondo, ha visto dimezzare la propria aviazione tattica, l’artiglieria passare da circa 40 mila pezzi a poco più di 20 mila, e i suoi tre Paesi più popolosi (Germania, Francia e Italia) attualmente in grado di schierare insieme solo 770 (dicesi 770) carri armati? E le altre cifre relative agli armamenti declinare più o meno nella stessa clamorosa misura? Forse, per risultare credibile, un presunto ministro degli Esteri dovrebbe occuparsi anche di queste minutaglie.

Niente guerra, invece, niente inutili stragi. L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello «Stato islamico», cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c’è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo «per mantenere la pace».

La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei «guerrafondai» schiavi della «cultura delle armi» e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici.

E invece è vero proprio il contrario. Se anche dopo il terribile Novecento gli Usa hanno potuto lasciare posto nel proprio arsenale ideale e politico alla guerra - e continuare a fare delle guerre - è stato anche perché consapevoli del forte legame della loro società con i valori democratici. Un legame che si è dimostrato capace di rimetterli sulla strada giusta dopo ogni guerra sbagliata, di suscitare gli anticorpi in grado di immunizzarli dai pericoli politici e dalle cadute etiche che sempre si accompagnano alla guerra. È per l’appunto questa consapevolezza (degli americani ma anche dei britannici) che gli europei invece, i quali pure si credono tanto più democratici, non possono avere. Oscuramente essi avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza .

16 febbraio 2015 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_16/cattiva-coscienza-europea-1bf6b196-b5a5-11e4-bb5e-b90de9daadbe.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Febbraio 27, 2015, 04:21:49 pm »

Professori e non solo
Gli ordini professionali che non si guardano allo specchio
Non ci sono solo i politici ma anche i professionisti e le loro corporazioni, incapaci di fare autocritica

Di Ernesto Galli della Loggia

La decadenza di un Paese si misura anche dall’incapacità della sua classe dirigente di vedere i propri errori, di discuterli e magari di correggerli. Ma la classe dirigente non è fatta solo dai politici. Ne fanno parte a pieno titolo pure le grandi corporazioni professionali pubbliche e private: l’alta burocrazia, i magistrati, gli avvocati, i medici, i notai, i giornalisti, i farmacisti ecc. Da queste corporazioni però, dai loro «ordini» e associazioni, in tutti questi anni - mentre il Paese si avvitava nella crisi, mentre mille nodi arrivavano al pettine - non è mai capitato di ascoltare alcuna voce autocritica di qualche consistenza. A nessuno è mai venuto in mente di avere il più piccolo rimprovero da farsi. Nulla. Tutti innocenti. Tutti attenti solo al bene pubblico, si direbbe, alla deontologia professionale, al buon andamento delle cose. Del resto, come si sa, di qualunque cosa capiti in Italia la colpa è sempre e solamente dei maledetti politici. Della «casta» per antonomasia.

E invece non è così. Parlo della situazione che conosco meglio, quella dell’Università. Poche settimane fa sul Corriere, Gian Antonio Stella ha tracciato una radiografia spietata della composizione del suo corpo docente: «L’età media delle varie fasce è impressionante: 60 anni gli ordinari, 53 gli associati, 47 e mezzo i “giovani” ricercatori (...); per ogni professore under 40 ce ne sono 474 ultrasessantenni». Siamo all’ultimissimo posto tra i Paesi europei per presenza nell’Università di docenti al di sotto dei 40 anni: l’8,8 per cento. Ciò è la logica conseguenza, d’altra parte, del fatto che la fascia dei ricercatori, cioè il primo grado della carriera accademica, rappresenta tutt’oggi meno della metà del numero complessivo dei docenti.

Ma chi ha la colpa di una situazione che, come si capisce, ipoteca negativamente tutto il futuro culturale ed economico del Paese? Forse il governo, il Parlamento, i ministri? No. La massima colpa è dei professori universitari stessi. Bisogna sapere infatti che, grazie all’autonomia riconosciuta alle singole sedi universitarie, sono stati loro che fino ad ora hanno amministrato a proprio insindacabile giudizio l’organigramma della docenza nelle rispettive università. Sono stati loro che hanno deciso (e decidono) come impiegare i fondi a disposizione (scarsi, certo, sempre molto scarsi, ma questo è un altro discorso: tutti sono capaci di far bene quando il denaro scorre a fiumi) scegliendo ogni volta, per esempio, se far posto a due giovani ricercatori o a un ordinario, se promuovere un ricercatore nella fascia dei professori o, viceversa, far passare un professore dalla seconda alla prima fascia. Decisioni nella stragrande maggioranza delle quali il criterio fondamentale è stato sempre fatalmente uno solo: il favore ai propri amici e/o allievi, la tutela del proprio insegnamento o raggruppamento disciplinare a scapito anche di quelli che andrebbero oggettivamente rafforzati.

Ho scritto fatalmente non a caso. È inevitabile, infatti, che l’interesse collettivo degli studi e del Paese, poiché nella sede dove vengono prese queste decisioni non è rappresentato da nessuno, alla fine risulti regolarmente sacrificato. Si spiega così la situazione in cui si trovano oggi molte sedi universitarie, specie nel Sud: avendo per anni impiegato le proprie risorse nel modo sconsiderato anzidetto, adesso non hanno più i mezzi per far entrare in ruolo i docenti che hanno appena passato l’esame di abilitazione nazionale. I quali servirebbero almeno a portare un certo ringiovanimento dei quadri, mentre invece oggi sono costretti ad aspettare in una sorta di lista d’attesa infinita che sembra rovesciare il recente enunciato del ministro Giannini: da «d’ora in poi nei ruoli ma solo con il concorso» a «d’ora in poi con il concorso ma fuori dai ruoli».

Questo è ciò che in Italia significa quasi sempre l’autonomia nella realtà delle cose. Questo è il risultato inevitabile (si pensi alla magistratura) quando a una corporazione viene dato il privilegio di autoamministrarsi al di fuori di ogni controllo, di decidere essa, sostanzialmente a suo arbitrio, i propri organici e come spendere i fondi che le affida lo Stato. Dietro le altisonanti parole «autonomia» e «autogoverno» la realtà che novanta volte su cento si nasconde - e non può essere altrimenti - è l’interesse di chi sta già dentro e dei suoi protetti, la mancanza di ricambio, la difesa corporativa.


26 febbraio 2015 | 09:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_26/gli-ordini-professionali-che-non-si-guardano-specchio-45212782-bd8d-11e4-8a38-1230a4c6f057.shtml
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« Risposta #224 inserito:: Febbraio 27, 2015, 04:54:21 pm »

Il ricorso all’Onu
Una falsa autorità morale
Solo da noi mi pare l’Onu è considerata quasi una sorta di sede della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare che cosa è bene e che cosa è male

Di Ernesto Galli della Loggia

Meglio chiarirlo subito: per sbarrare la strada all’Isis va benissimo cercare ogni possibile via diplomatica (puntare al «dialogo» mi sembra davvero un po’ troppo); egualmente giustissimo non affrettare in alcun modo un’eventuale soluzione militare della questione Libia. Tutto ciò per dire che in vista di qualunque decisione nel merito di tale questione mi sembra più che sensato guardare alle Nazioni Unite. Considerare cioè il Palazzo di Vetro come una sede preliminare ineludibile di qualunque via futura si scelga. Tuttavia, da ciò a celebrare il culto dell’Onu, a proclamarne obbligatoria l’osservanza in ogni circostanza, come sono inclini a fare da sempre una parte dell’opinione pubblica italiana e la totalità della classe politica, ce ne corre (o dovrebbe corrercene).

Invece solo da noi, mi pare, l’Onu è considerata quasi una sorta di sede della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare che cosa è bene e che cosa è male negli affari del mondo. Solo nel nostro discorso pubblico o quasi le sue pronunce sono generalmente accolte come l’inappellabile voce della giustizia. Da qui la necessità - sentita in Italia come assoluta - di un consenso dell’Onu stessa per attestare la liceità di qualsivoglia uso della forza: non già, come invece è, per dichiararne semplicemente la conformità formale al deliberato dell’organizzazione. Deliberato - bisognerà pur ricordarlo - che non proviene però da nessuna autorità imparziale (tipo tribunale o gruppo di «saggi» o esperti super partes ), bensì da un’assemblea di Stati. Di quei «freddi mostri», come li definì a suo tempo un grande europeo, i quali sono soliti giudicare legale o meno l’uso della forza (come del resto qualunque altra cosa) sempre e comunque in base a un solo criterio: il proprio interesse politico (o, ciò che è la stessa cosa, il proprio schieramento ideologico di appartenenza). Quale autentico valore morale abbia una simile pronuncia può essere oggetto perlomeno di qualche dubbio. Del resto il carattere moralmente spurio perché fondamentalmente solo politico delle pronunce delle Nazioni Unite è attestato dal suo stesso statuto, quando istituisce il diritto di veto. Cioè la regola per cui qualunque verdetto dell’Assemblea generale degli Stati è di fatto reso inoperante e perciò nullo dal diritto riconosciuto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) di opporre la loro volontà contraria. Che razza di accertamento legale, e tanto più etico, è mai quello che può concludersi in questo modo?

Un’ulteriore riprova della base in realtà assai debole su cui poggia l’autorità delle Nazioni Unite è data dagli stessi che per un altro verso si presentano come i loro più convinti paladini. Cioè da coloro che si riconoscono nelle culture politiche che maggiormente auspicano in ogni occasione il ricorso all’Onu e l’ossequio alle sue risoluzioni. Per esempio i cattolici in generale e le gerarchie vaticane: gli uni e le altre sempre pronti a sostenere l’opportunità dell’intervento del Palazzo di Vetro, l’uso delle sue istanze e l’adeguamento alle sue direttive quando si tratta di tensioni e scontri politici tra gli Stati, di minacce di guerra. Quando però si tratta di questioni di diversa natura come l’aborto, la definizione di genere o il matrimonio tra persone dello stesso sesso - questioni dove l’etica conta davvero - allora, invece, all’Onu e ai suoi meccanismi decisionali non vengono più attribuiti, chissà perché, alcuna autorità e alcun valore. Così come del resto una vasta parte dell’opinione pubblica occidentale non attribuisce neppure lei alcun valore alle varie, pazzotiche (per non dir peggio) delibere delle Nazioni Unite in materia di razzismo, sionismo e via dicendo.

La verità, come non è difficile capire, è che dietro il ritornello del ricorso all’Onu che domina la politica estera dell’Europa c’è innanzitutto l’inconsistenza di quella politica. E subito dopo il deperimento del concetto tout court di politica in senso forte: come decisione per l’appunto sulla pace e sulla guerra, sulla vita e sulla morte. E questo è, a sua volta, l’effetto dell’incertezza che regna nella nostra coscienza su che cosa siamo e sul suo senso, su che cosa dunque ci è consentito di volere e sui mezzi da impiegare per volerlo. Ormai anche il concetto primordiale di autodifesa ci appare un concetto problematico. Per qualunque cosa o quasi abbiamo bisogno del consenso degli altri, e per metterci a posto la coscienza ci diciamo che è così perché sono gli altri meglio di noi a sapere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Anche se dentro di noi sappiamo benissimo che gli altri, in realtà, ci indicheranno solo ciò che sembrerà più utile per loro.

22 febbraio 2015 | 10:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_22/falsa-autorita-morale-5ccb0ca8-ba5f-11e4-9133-ae48336c4c83.shtml
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