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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 127204 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Febbraio 21, 2009, 06:34:34 pm »

SE PREVALE SOLO IL MALCONTENTO

Pd, il rischio della rivolta


di Ernesto Galli Della Loggia


E’ la sala della Pallacorda, non uno squallido hangar della Fiera di Roma, il luogo vero — vero perché definito dalla misteriosa verità dei simboli — dove si riunisce oggi l'assemblea del Partito democratico. Quella sala della Pallacorda, a Versailles, dove nella primavera del 1789 si riunirono i rappresentanti del Terzo Stato in rivolta contro il timido riformismo paternalistico di Luigi XVI, dando così inizio alla rivoluzione. Oggi i 2.800 delegati dell'«Assemblea costituente» (potenza dei nomi che ritornano) possono essere gli emuli di quei rappresentanti del Terzo Stato. Dalla loro riunione, dominata presumibilmente dalla delusione e dall'ira, può uscire di tutto. Se lo vogliono possono sfiduciare in blocco l'intera leadership del loro partito approfittando del suo stato comatoso, possono imporre la convocazione di un nuovo congresso, possono avviare la procedura per l'elezione di un nuovo segretario e più o meno chiaramente indicare chi deve essere.

Possono fare la rivoluzione, appunto, e in fin dei conti il loro attuale gruppo dirigente se la meriterebbe. Lasciamo perdere Veltroni, di cui si è detto già tutto; ma quando sulla Repubblica di ieri leggiamo Massimo D'Alema affermare con la più sfacciata disinvoltura che nel Pd «nessuno ha complottato» e che lui comunque di quel gruppo dirigente non fa parte «da un pezzo», allora viene davvero da pensare che i capi «democratici» si meritino dalla loro base il trattamento più duro. Ma un'assemblea del Pd che oggi cedesse al desiderio di rivalsa e di rivolta avrebbe l'unico risultato di avviare il Partito democratico verso un salto nel buio molto probabilmente mortale. A questo esito quasi sicuro condurrebbe, infatti, l'eventuale scelta a favore sia di un congresso in tempi brevissimi sia dell'elezione immediata di un nuovo segretario: due decisioni che cozzerebbero entrambe in modo potenzialmente disastroso con la necessità di preparare e affrontare le prossime elezioni amministrative ed europee e il loro pressoché sicuro esito negativo.

Alla democrazia italiana non serve un Pd sull'orlo dell'abisso e a rischio catastrofe. Serve un Pd vivo. Ma proprio per questo serve un Partito democratico diverso, assai diverso, da quello che è stato fino a ora. Serve un partito nel quale i vecchi oligarchi iscrittisi alla Dc e al Pci a diciotto anni si mettano finalmente da parte, in cui si liquidino una buona volta i vari passati che opprimono il presente, un partito in cui la base abbia davvero voce in capitolo e i dirigenti del quale, quando compaiono ogni sera alla televisione, non ricordino immediatamente, e simultaneamente, il secolo scorso, il salotto Angiolillo e «Fortunato al Pantheon».

A conti fatti, e benché possa apparire (e forse essere) paradossale, una reggenza di Dario Franceschini fino all'autunno si presenta in questo momento come la soluzione più ragionevole e meno traumatica. A condizione che tale reggenza, però, sia chiaro, non nasca assediata dai capicorrente di sempre, ma fin da subito si presenti con un segno reale di frattura: per esempio con tutti gli incarichi direttivi affidati a un manipolo di segretari regionali della nuova leva, i quali, sotto qualunque bandiera siano stati a loro tempo scelti, sono pur sempre espressione degli iscritti. Che in questo modo potranno forse cominciare a essere finalmente i padroni del loro partito.

21 febbraio 2009
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 09, 2009, 10:25:31 am »

SINISTRA ANTIPROIBIZIONISTA

Il divieto dai due volti


di Ernesto Galli della Loggia


Il popolo di sinistra, come si sa, ama la Costituzione della Repubblica, s'identifica con essa e si considera impegnato a difenderla contro tutti i suoi veri o supposti nemici. Ne sa qualcosa chi a suo tempo ne ritardò l'applicazione di alcune parti (come la Democrazia cristiana negli Anni 50 e 60), o chi, come Craxi, pensò alla possibilità di rivederne certe norme riguardanti l'organizzazione dei poteri. Ancor di più, infine, ne sa qualcosa Silvio Berlusconi che nella sua azione di governo si muove spesso nella disattenzione alle regole della Carta, desidera esplicitamente cambiarne non poche e, con ancora maggiore evidenza, nutre un totale disinteresse per quelli che si chiamano «i valori» della Costituzione, il suo «spirito». Valori e spirito che invece, come dicevo, stanno molto a cuore all'opinione di sinistra, specialmente su questo terreno acerrima nemica del presidente del Consiglio.

Alla quale opinione di sinistra, però, oggi come oggi sembrano stare a cuore — anzi: sempre più a cuore — anche altri orizzonti ideologici, altri principi, forse non proprio collimanti con quelli contenuti nella Costituzione. Una Costituzione che certo non può definirsi «sovietica », come l'ha definita il premier, ma che altrettanto sicuramente ha una forte impronta statalista. Nel senso se non altro che affida alla Repubblica (cioè alla legislazione, dunque al potere pubblico e all'amministrazione, cioè allo Stato: e a chi altri se no?) la «tutela», la «promozione », l'«aiuto» o la «protezione» (tutti termini rinvenibili nel suo testo) a riguardo di una lunga serie di ambiti: dalla cultura alla piccola e media impresa, dalla famiglia alla maternità e infanzia, dal lavoro alle bonifiche, al risparmio, alla cooperazione, alle pari opportunità. In pratica quasi tutta la vita sociale.

La domanda che inevitabilmente si pone è la seguente: come altro possono esprimersi tutte queste forme di interessamento positivo dello Stato previste, anzi prescritte dalla Costituzione, se non anche (ho detto «anche», non «solamente») attraverso dei divieti, delle proibizioni? Una sfera pubblica che intende tutelare, promuovere, proteggere, non può che essere una sfera pubblica che insieme sanziona tutti quei comportamenti che vanno nel senso contrario all'obiettivo prefisso. Se voglio tutelare la famiglia dovrò per forza cercare di impedire tutto ciò che a mio avviso le nuoce, se voglio proteggere il lavoro, il risparmio o le bonifiche dovrò per forza fare delle leggi che indichino che cosa in ognuno di questi ambiti è vietato. A spese perciò, inevitabilmente, della possibilità per chiunque di agire in tali ambiti come più gli aggrada. A spese, diciamo pure, della sua libertà. Insomma, la protezione sociale cara alla democrazia, e la libertà individuale stella polare del liberalismo, non sono fatte proprio per andare sempre e comunque d'accordo. Come del resto hanno sempre saputo tanto i democratici che i liberali veri.

Nell'Italia di oggi, invece, il popolo di sinistra sembra averlo dimenticato. Come in passato esso intende difendere fino in fondo la Costituzione, ne agita polemicamente i valori, e in particolare i valori sociali, contro il Cavaliere, ma rispetto al passato è intervenuto nelle sue file un mutamento significativo. A sinistra infatti sono sempre più coloro che allo stesso tempo rivendicano un tipo di libertà individuale dai contorni illimitati, pronta tendenzialmente a vedere in ogni limite e in ogni regola un'ingerenza illegittima dello Stato.

Dal campo della morale e dei comportamenti sessuali questo atteggiamento si è esteso via via a quello dei modi e modelli della genitorialità, della famiglia, della procreazione, della fine della vita, in un crescendo di ostilità contro la dimensione stessa della proibizione.

Non a caso, con la prontezza giornalistica e la capacità di dare voce al senso comune di sinistra (e di crearlo) che sono stati sempre una sua caratteristica, L'Espresso ha captato questo orientamento diffuso, e nel numero in edicola dedica un ampio servizio — naturalmente per deprecarlo — a quello che viene battezzato «il neoproibizionismo ». «Siamo alla società del divieto», «ci trattano come bambini », si lamenta Umberto Galimberti, e osserva filosoficamente che «limitare la libertà negli spazi pubblici significa limitare gli spazi di fiducia reciproca». Perché mai, insomma, si chiede il giornale, deve essere proibito mangiare cornetti di notte a Roma, abbattere cinghiali, gettare indumenti in piscina (sic!), rubare o distruggere cartelli, fumare nei parchi pubblici, raccogliere prostitute dalla strada? E poche righe sotto ecco spuntare le parole fatidiche degne di un pamphlet manchesteriano: abbiamo ormai a che fare con lo «Stato Onnipotente » (maiuscole originali).

Onnipotente? Forse; ma forse, più semplicemente, con uno Stato che, come prescrive la nostra Carta costituzionale e la nostra cultura politica maggioritaria, vuole proteggere il salutare sonno dei cittadini e il patrimonio storico-artistico delle vie e delle piazze della Capitale, vuole impedire di rovinarci con le sigarette, vuole tutelare la fauna, vuole proteggere la famiglia. E non può farlo che nel solo modo possibile: ricorrendo anche al proibizionismo. Di sicuro qualche sindaco si è fatto prendere un po' troppo la mano, non c'è dubbio, ma è ancora più sicuro che inalberare il cartello «vietato vietare» non sembra proprio il modo più coerente di difendere la Costituzione e la democrazia.


09 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 15, 2009, 09:55:03 am »

BENEDETTO XVI E LA LETTERA AI VESCOVI

Sfidato dalla storia


di Ernesto Galli Della Loggia


Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell'Osservatore
romano — «ci si morde e ci si divora».

La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.

Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell'ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica. Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l'avvento della televisione e il Concilio. L'avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l'opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana. Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni. Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell'indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).

Ma naturalmente questa intrinsichezza con l'opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco. Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l'altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l'altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale. Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell'obbligo del carisma, dell'obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall'altro dell'obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso. Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.

La seconda trasformazione gravida di tensioni l'ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II. In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all'interno della Chiesa. Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell'organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell'universo cattolico in generale.

Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali. I quali da quarant'anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia. I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.

Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso. E' a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato. Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l'ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l'arma dell'appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times. Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l'indipendenza spirituale. Quell'indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo. Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l'opinione pubblica mediatico-mondiale dall'altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.

14 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 30, 2009, 10:51:43 am »

L’ITALIA DI BERLUSCONI

Le ombre del passato


di Ernesto Galli Della Loggia


Anche un ascolto o una lettura superficiali del discorso di Silvio Berlusconi al Congresso di fondazione del Popolo della libertà consentono di coglierne immediatamente il cuore ideologico: è l'anticomunismo. Tutto il resto appare solo accennato, sbrigato in poche parole e comunque affatto generico. All'anticomunismo, invece, è stata riservata la parte centrale, e anche retoricamente ed emotivamente quella più insistita, di un discorso tutto tenuto—come è forse giusto per un'occasione fondativa, e in obbedienza d'altronde a una tradizione molto italiana — su un registro sostanzialmente storico, rivolto al passato. Le parole di Berlusconi collocano il Pdl in questa prospettiva: e dunque politicamente esso nasce contro la sinistra, lì è la sua principale ragion d'essere. E la sinistra è il «comunismo », tra i due termini egli stabilisce di fatto una sostanziale equivalenza. La tradizione socialista- riformista, men che meno quella laico-democratica, non esistono; così come non esiste alcun rapporto tra esse e l'esperienza politica dei cattolici (se ho letto bene neppure citata): Craxi, non a caso, è solo un amico personale del presidente del Consiglio che in pratica ha il solo merito di averlo anticipato nello sdoganamento della destra.

Affermando questa centralità dell'anticomunismo, Berlusconi compie la stessa operazione che la prima Repubblica compì con l'antifascismo. Di fronte allo scarso rilievo fondante della Carta costituzionale, al suo ancora più scarso valore ideal-simbolico (una costante storica delle nostre Carte: dallo Statuto albertino alla Carta del lavoro fascista), al vuoto che essa così lascia, egli usa l'anticomunismo allo stesso modo in cui la prima Repubblica e i suoi gruppi dirigenti usarono per quarant'anni l'antifascismo: come reale ideologia fondativa dell'ordine politico e motivo di autoidentificazione legittimante. E perciò, insieme, come motivo di esclusione nei confronti di tutto quanto non può essere ricondotto a essa. Non solo: ma come la prima Repubblica e suoi uomini si sono sempre compiaciuti di riferirsi alla Costituzione qualificandola sì come democratica, ma ancora più spesso attribuendole la qualifica politico- ideologica di «antifascista », allo stesso modo, ma rovesciando l'interpretazione, Berlusconi non nasconde di considerare anche la Costituzione «comunista». «A ideologia, ideologia e mezza» sembra essere ancora oggi il suo motto: anche perché non ignora che il cuore del Paese, alla fin fine, batte molto di più dalla parte dell'anticomunismo che dell'antifascismo.

Ma tutto ciò pone Berlusconi in contraddizione con quello che pure —l'ha detto lui stesso ed è da credergli—costituirebbe un suo effettivo desiderio: essere l'uomo della pacificazione nazionale; soprattutto, rappresentare un vero elemento di novità e di rottura rispetto alla vicenda italiana. Infatti l'antagonismo, la contrapposizione frontale, insiti nel proclama anticomunista mal si conciliano, anzi, diciamolo pure, rendono impossibile ogni proposta di pacificazione. All'opposto, perpetuando antichi baratri divisivi, inasprendo antichi scontri, esse collocano irrimediabilmente il presidente del Consiglio e il Popolo della Libertà nel solco del vecchio, nella storia dell'Italia del Novecento, della sua guerra civile apertasi nel 1915 e che avrebbe dovuto finire (ma ahimè non è finita) nel 1991. Dunque, pur cercando di imprimere sulla fondazione del Popolo della Libertà il significato di un nuovo inizio, pur cercando di indicare questo nuovo inizio nel consolidamento definitivo del bipolarismo e nel declino epocale della sinistra, il discorso di Berlusconi testimonia di come nella sostanza più profonda il suo tentativo urti frontalmente contro la base ideologica vera che egli ha voluto dare alla fondazione suddetta, l'anticomunismo. E di come contro questo scoglio minacci di naufragare.

Il punto è che il presidente del Consiglio appare tutto immerso, biograficamente e culturalmente, nella prima Repubblica. Lì stanno con ogni evidenza i suoi riferimenti ideali, a cominciare dall'antifascismo e dall'anticomunismo. Ma come possono essere l'uno e l'altro compatibili con la rottura, con il nuovo?

Lo ha capito Gianfranco Fini, che nel suo discorso al Congresso non ha fatto spazio neppure una volta, se non sbaglio, alla parola comunismo, mentre non casualmente si è impegnato a disegnare le linee programmatiche che il Pdl dovrebbe fare sue da domani; che, invece di intrattenersi sul passato, ha preferito guardare all'avvenire.

29 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 15, 2009, 12:42:52 pm »

L’identità incerta della sinistra d’oggi

Quell'Italia ancora schiava del passato

Un saggio di Schiavone sull'interminabile transizione rivela un'incapacità culturale e politica di autocritica


di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Perché tanto il Pdl che il Pd appaiono organismi tuttora fragili e dall’incerto destino? Perché la transizione italiana ancora non accenna a finire? Perché non siamo ancora riusciti a dar vita a culture e forze politiche che appaiano realmente nuove e vitali? Vorrei provare a dare una risposta diversa da quelle che si danno di solito, una risposta che guarda al passato. La mia ipotesi è che non riusciamo a fondare nulla di nuovo perché non riusciamo a superare il passato. E non riusciamo a superarlo, vi siamo incon­sapevolmente inchiodati, perché non siamo d’accordo su come sono andate le cose. La se­conda Repubblica non può nascere perché an­cora siamo divisi sia su che cosa è stata e per­ché è finita la prima, sia su che cosa è l’Italia che essa ci ha lasciato.

Questo disaccordo di fondo l’ho sentito in tutta la sua forza leggendo l’ultimo libro di Al­do Schiavone. Il libro cioè di uno storico di va­glia che come pochi contribuisce da anni in modo originale al discorso pubblico del Paese, e che con questa sua ultima fatica - L’Italia contesa (Laterza editore) - procede ad una ri­cognizione del presente italiano e dei suoi tra­scorsi. Ma lo fa - e questo è il punto decisivo -sforzandosi di essere comunque fedele ad un’appartenenza, intenzionato a non troncar­ne il filo che corre attraverso gli anni. E dun­que non riuscendo a vedere le cose da una di­stanza sufficiente a pensarle con la necessaria dose di spregiudicata esattezza.

È, questa, una condizione che oggi riguarda in particolare tanti italiani che sono stati comu­nisti durante la prima Repubblica. Che lo sono stati molto spesso in modo intelligente e per nulla dogmatico — com’è appunto il caso di Schiavone, estromesso a suo tempo dalla dire­zione dell’Istituto Gramsci; che si sono allonta­nati del tutto da quel panorama ideologico, ma che, soprattutto a causa dell’avvento di una destra come quella incarnata da Berlusconi, si sentono nonostante tutto obbligati a dirsi, e a pensarsi, ancora «di sinistra». Quasi per forza d’inerzia, ma comunque abbastanza da essere spinti a figurarsi la realtà italiana presente e passata in modo da non disturbare troppo il loro precario accomodamento di oggi, anziché per ciò che essa è stata ed è realmente. Si tratta di un fenomeno importante ai fini del supera­mento del passato dal momento che finché le energie intellettuali e morali rappresentate da questa sinistra che fu, da questa sorta di pen­siero prigioniero di se stesso, non si sblocche­ranno, non avranno il coraggio di liberarsi per intero dei vincoli della loro vecchia apparte­nenza, fino ad allora la chiusura dei conti con il passato italiano non si potrà fare, il discorso politico non potrà ripartire, e dunque restere­mo quello che siamo: un Paese fermo.

Il libro di Schiavone consente di vedere in modo nettissimo i due principali travisamenti storici (tali secondo chi scrive, beninteso) su cui è rimasto incagliato il punto di vista della sinistra che fu e che oggi mi pare piuttosto una «sinistra suo malgrado». Travisamenti che hanno una duplice funzione: da un lato quella di sollevare la sinistra (o per meglio dire il Partito comunista) dalla piena responsabilità della patologia politico-sociale che finì per di­struggere la prima Repubblica; dall’altro servo­no a dipingere un panorama dell’Italia attuale tutto sommato ottimistico perché diviso sì tra «buoni» e «cattivi», ma con questi ultimi e il loro capo, Silvio Berlusconi, che sarebbero or­mai vicini alla fine del loro predominio.

Innanzitutto il ruolo del Pci, dunque. Schia­vone non vede, a mio giudizio, fino a che pun­to il «congelamento politico» del Paese dal ’48 in poi, la sua «sovranità limitata», la mancanza di alternanza, la memoria antifascista come unica matrice possibile dell’identità democrati­ca, fino a che punto ognuno di questi caratteri negativi, che egli per primo richiama con for­za, sia da ricondurre direttamente e per intero a null’altro che alla presenza nel sistema politi­co italiano del Partito comunista. A proposito del quale egli non esita ad adoperare ancora l’indulgente categoria del «ritardo», categoria tipica dell’armamentario concettuale del dibat­tito comunista dell’epoca. Ma altro che di «ri­tardo » si è trattato! Ormai dovrebbe essere evi­dente che fu la stessa natura più intima, il ca­rattere e la storia profonda di quell’organismo politico, che ne fecero un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del Paese: non qualche casuale arresto, qualche fortuito in­ciampo (e che poi anche in quel partito ci fos­se qualcosa o magari parecchio di buono, è ov­vio: nella storia la negatività assoluta è rarissi­ma).

Fu la presenza del Pci, e dunque l’assenza di un’opposizione costituzionale e il clima di divisività ideologica che ne derivarono, l’ele­mento decisivo che fece dell’Italia una demo­crazia diversa (nel male) da tutte le altre del­l’Occidente. Quando avvenne il crollo della coa­lizione di governo nel 1992-93 in seguito alle inchieste di «Mani pulite» fu per l’appunto questa anomalia assoluta del nostro sistema politico che impedì l’altrimenti ovvio passag­gio di mano all’opposizione, determinando in­vece il collasso di tutto il sistema e il suo pas­saggio alla fragile novità in cui viviamo. Come si fa ancora oggi a non porre tale questione al centro dell’analisi? L’altro punto di disaccordo riguarda l’Italia post-Mani pulite, che Schiavone considera con­quistata all’egemonia populista di Berlusconi, egemonia che ora però sarebbe ormai giunta al capolinea grazie alla crisi economica mon­diale. Colpisce come solo a questo esaurimento, per così dire nei fatti, siano affidate in sostanza le possibilità di riscossa della sinistra, circa la cui futura azione politica e le relative risorse necessarie il libro non riesce a darci però la minima indicazione concreta.

La realtà è che in queste pagine il berlusconi­smo appare molto spesso un alibi per non ve­dere che cosa è oggi (ma non da oggi) la socie­tà italiana. La quale, forse, più che farsi «berlu­sconizzare » dalle magiche arti del premier, è stata lei, io credo, a scegliere Berlusconi per es­sere ciò che voleva essere. Ciò che voleva conti­nuare ad essere dopo la grande trasformazio­ne antropologico-culturale degli anni Settanta e Ottanta. Ma ancora una volta, per evitare che la sinistra possa incorrere in una ulteriore, sgradevole, chiamata in correità e perdere così anche la sua presunta natura alternativa alla de­stra, Schiavone non vuol vedere - e infatti non cita neppure una volta - la parte attiva anche da essa avuta (o meglio avuta dai suoi immediati antenati, il Pci e la Dc dei «cattolici democratici») nel produrre la non entusia­smante realtà sociale italiana di oggi.

Così co­me neppure un cenno viene fatto agli effetti deleteri che pure sul popolo di sinistra hanno avuto, dagli anni Settanta in poi, mutandone radicalmente il profilo morale e culturale, le politiche di conquista del consenso sia a livel­lo locale che nazionale, la sindacalizzazione dell’impiego pubblico, la degenerazione della giustizia, il permissivismo scolastico, l’evasio­ne fiscale assolutamente generalizzata, la lottiz­zazione e l’antimeritocrazia dappertutto, il mo­ralismo dipietrista, la divulgazione di tutte le più idiote mitologie modernistico-massmedia­tiche, le «notti bianche», i premi Grinzane-Ca­vour, i «vaffa day» e così via, così via. Ma in questo modo svanisce di fatto l’Italia vera e pro­fonda. Un’Italia che oggi può essere definita «contesa» solo guardandone la superficie, dal momento che in essa, in realtà, destra e sini­stra appaiono avvinte (non da oggi!) l’una all’al­tra: un grigio Paese che una spenta politica, sia di destra che di sinistra, non ha la minima idea di come fare uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato.

15 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #35 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:36:13 pm »

Sicurezza nelle città


di Ernesto Galli Della Loggia


Negli ulti­mi mesi stiamo as­sistendo a un crescendo di episodi di criminalità organizzata spesso per mano di extra­comunitari o di rumeni, e non conoscono sosta le tragiche avventure dei battelli che trasportano poveri cristi sulle spiagge di Pantelleria»: così si leg­geva venerdì sul Riformi­sta per la penna dell’ex di­rettore dell’Unità, Peppi­no Caldarola. Tralascian­do il riferimento agli im­migrati clandestini, che costituiscono evidente­mente un capitolo a par­te, non c’è dubbio che la questione sicurezza è or­mai da tempo una que­stione centrale della so­cietà italiana. Lo confer­mano gli ultimi efferati episodi di cronaca nera — da Napoli a Roma, a Torino, a Vicenza — e l’opinione di un esperto riconosciuto come il so­ciologo Marzio Barbagli che, intervistato sempre venerdì dalla Repubblica ha sottolineato soprattut­to «l’inarrestabile cresci­ta » del numero delle rapi­ne (di quelle in banca l’Ita­lia detiene il record euro­peo), solo metà delle qua­li denunciate, ma che in realtà arriverebbero a cir­ca 100 mila l’anno; e che per circa la metà avvengo­no sulla pubblica via sfo­ciando con una certa fre­quenza in altrettanti omi­cidi. È vero che il numero di questi, cioè degli omici­di in quanto tali, diminui­sce da anni, ma dal punto di vista del cittadino non è certo molto consolante sapere di avere assai più probabilità di venire «so­lamente » aggredito, rapi­nato e magari picchiato selvaggiamente pur riu­scendo alla fine a salvare la pelle, piuttosto che di essere mandato diretta­mente al creatore.

Comunque i dati ora detti sono solo la punta drammatica di un feno­meno di insicurezza assai più vasto che specialmen­te nelle aree urbane, e in particolarissimo modo nelle periferie, deriva ai cittadini soprattutto dalla sensazione di essere la­sciati soli in balia di illega­lità certamente di minore portata, ma non perciò fonte minore di disagi, pa­ure ed esasperazioni spes­so incontrollabili. Lascia­ti soli a cavarsela con an­goli delle strade trasfor­mati in pubblici orinatoi, marciapiedi occupati dal traffico del sesso o ridotti a stretti viottoli per la pre­senza perlopiù abusiva di tavolini di bar e ristoran­ti, con schiamazzanti mo­vide notturne, con pub e discoteche sotto le fine­stre, con piazze adibite a luogo di ritrovo per scia­mi di adolescenti motori­nizzati sgassanti ad ogni ora, con grandi arterie tra­sformate specie di notte in piste omicide per auto­mobilisti folli e spesso ubriachi o drogati e con non so quante altre piace­volezze.

Di fronte a tutto ciò ap­pare evidente la scarsa ef­ficienza dei corpi di poli­zia urbana. Cambiarne il nome in quello un po’ pomposo di «polizia loca­le » non sembra essere servito a molto. Infatti, se Pubblica sicurezza e cara­binieri fanno — general­mente molto bene — quello che devono, è so­prattutto alla polizia urba­na che risale la responsa­bilità per il mancato con­trollo capillare e conti­nuo del territorio, per la mancata opera quotidia­na di prevenzione e di sanzione, unici rimedi idonei nei confronti dei fenomeni di minuta ille­galità cui sopra. Il difetto è nel manico, in chi ha la responsabilità politica della polizia urba­na.

La verità, infatti, è che da parte dei sindaci, sia di destra che di sinistra, non c’è stato finora alcun desiderio reale di impegnarsi davvero sul terreno di questo ordine pubblico. Anche i propositi «rondisti» e le iniziative della Lega, per esempio dei vari Tosi a Verona o Gentilini a Treviso, in ge­nere non sono mai andati (e bisogna dire in questo caso per fortuna) oltre l’esibizione della faccia feroce nei con­fronti di vu’ cumprà e lavavetri. L’esempio del mitico sinda­co di New York Giuliani e del suo popolarissimo program­ma di «tolleranza zero» da noi, insomma, non ha fatto cer­to scuola.

Tutto ciò si spiega, credo, con due motivi. Il primo è la scarsa volontà/capacità da parte dei sindaci di far valere la propria autorità nei confronti in generale delle amministra­zioni di cui sono a capo, ma in modo particolare nei con­fronti della polizia locale o vigili urbani che siano. Questi rappresentano quasi sempre potenti corporazioni, adagiate­si da anni in consuetudini e pratiche di lavoro gestite di fatto da esse stesse, con numerose nicchie di privilegio, di fannullaggine e di scarsa trasparenza, che nessun sindaco osa toccare. Meglio lasciare tutto in mano a un «comandan­te », facile semmai da licenziare per offrirlo in sacrificio al­l’opinione pubblica se scoppia qualche grana. Il secondo motivo sta nel fatto che la repressione del genere di reati «minori» che affliggono la vita quotidiana degli abitanti delle città, soprattutto delle grandi città, comporta un’azio­ne repressiva che andrebbe inevitabilmente a colpire o co­munque a disturbare in vario modo due categorie assoluta­mente minoritarie sul piano numerico ma, sia pure per mo­tivi diversi, entrambe in pratica intoccabili.

Da un lato alcuni titolari di bar, ristoranti, pub, discote­che che (tra la larga maggioranza di commercianti corretti e spesso bersaglio degli episodi di criminalità) rappresenta­no lobby potenti nei confronti di qualunque amministrato­re; e dall’altro lato quella dei «giovani», protetti dal tabù che circonda ogni loro moda, svago, o comportamento col­lettivo, anche quelli più stupidi o riprovevoli.

19 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 04, 2009, 05:16:21 pm »

IL DIVIETO DI UN TERZO MANDATO

L'assurdo limite ai bravi sindaci


di Ernesto Galli Della Loggia


Il carattere nazionale delle elezioni europee sta oscurando la consultazione amministrativa, frantumata sì in circa quattromila consultazioni locali ma, dal punto di vista del potere, senz’altro più importante dell’altra. Si eleggeranno dunque un gran numero di sindaci: il che vuol dire che ancora una volta si manifesterà in tutta la sua portata un aspetto quanto mai pernicioso dell’attuale legge elettorale, e cioè l’ineleggibilità dei sindaci con più di due mandati alle spalle. È questa una norma che ci portiamo appresso dalla stagione di «Mani pulite», dall’ondata di antipolitica e di cieca avversione al cosiddetto professionismo politico che allora sommerse il Paese.

Eppure non dovrebbe essere troppo difficile capire che nel professionismo politico in quanto tale non c’è nulla di male: il male sta semmai nel cattivo professionismo. Il Senato degli Stati Uniti, tanto per fare un esempio, è pieno di membri eletti ininterrottamente da trenta, quarant’anni; eppure esso è certamente l’assemblea più autorevole e prestigiosa del mondo. Noi italiani, invece, abbiamo deciso che, anche se siamo riusciti a trovare un bravo sindaco per la nostra città, onesto ed efficiente, dopo due mandati dobbiamo per forza licenziarlo.

Si può immaginare qualcosa di più stupido che rinunciare all’operato di chi si è rivelato capace di servire ottimamente la collettività, solo per rendere omaggio ad un principio per giunta sbagliato? Se proprio si vuole impedire una troppo facile permanenza al potere da parte di chi già lo occupa da tempo, perché non ricorrere ad altri mezzi, come ad esempio stabilire che per essere eletti dopo due mandati è richiesta la maggioranza assoluta dei votanti al primo turno o che al ballottaggio si superi il 60-65 per cento dei voti?

Che la regola dell’ineleggibilità sia sbagliata, è dimostrato dal fatto che nessuno ha mai pensato di applicarla dove, se quella norma fosse sensata e fondata, dovrebbe, allora, essere applicata per primo, e cioè alla carica di parlamentare (ciò che, tra parentesi, in nessuna parte del mondo, che io sappia, ci si è mai sognati di fare). Perché mai, infatti, il cosiddetto professionismo politico, se è quel male che si dice, è da combattere nelle amministrazioni locali ma non nel cuore della politica medesima, cioè nel parlamento?

C’è di più. In realtà, la regola dell’ineleggibilità è controproducente: lungi dal combattere il male che dice di voler estirpare essa semmai lo favorisce, rinfocolando proprio il carrierismo politico. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, l’uomo pubblico che arriva al suo secondo mandato come sindaco, e sa che non potrà essere rieletto, piuttosto che ritirarsi tranquillamente nell’ombra cercherà di assicurarsi in tutti i modi qualche nuovo e diverso incarico, utilizzerà la sua carica ormai in scadenza per procurarsi le amicizie opportune, per ingraziarsi i poteri e gli uomini che gli servono, piegando a questo scopo l’operato dell’ultimo periodo della sua amministrazione: con quale giovamento per i suoi amministrati è facile immaginare. Può non piacere ma gli esseri umani, quelli reali, sono fatti così: solo noi italiani, chissà perché, preferiamo invece far finta qualche volta che essi possano essere angeli.

04 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Maggio 09, 2009, 10:30:57 am »

Antitaliani con strane alleanze

I separati dell’Alto Adige


Dapprima il vicesindaco di Bolzano della Südtiroler Volkspartei Oswald Ellecosta, che dice che il 25 aprile lui non può festeggiarlo perché i sudtirolesi sono stati liberati non nel 1945 ma nel settembre 1943 dalla Wehrmacht. Poi la maggioranza di lingua tedesca nel consiglio provinciale, sempre di Bolzano, che approva (con il voto anche di un rappresentante del Pd!) una mozione presentata dal raggruppamento di estrema destra Südtiroler Freiheit, il partito di Eva Klotz affermatosi alle ultime elezioni, con la quale si auspica un provvedimento di clemenza per i terroristi sudtirolesi da decenni riparati all’estero per non scontare le condanne ricevute in Italia, e definiti nel documento «combattenti della libertà». Da ultimo, la notizia che da più parti si vorrebbe che gli atleti sudtirolesi iscritti nelle gare internazionali non gareggiassero più sotto il tricolore italiano, come è avvenuto finora, bensì sotto l’insegna biancorossa della Provincia di Bolzano. Dunque, come intitolava ieri il Corriere, è ripartita in Alto Adige «la campagna contro gli italiani». Il che sottolinea ancora una volta come la politica accomodante ed economicamente generosissima di Roma nei confronti di Bolzano, perseguita da decenni, non sia valsa per nulla ad assorbire l’irredentismo irriducibile della destra sciovinistica tedesca. Questa appare anzi in crescita, e ha riportato di recente un significativo successo elettorale. È una destra la cui presenza pone ormai in maniera ineludibile il problema della coerenza e della capacità politica della maggioranza moderata della Svp, della sua tenuta.

L’attuale capo del partito di raccolta tedesco, Luis Durnwalder, ha dichiarato al nostro Marco Imarisio di sentire «sul collo il fiato» degli avversari, aggiungendo rivolto agli italiani: «Siete voi che dovete aiutarci. L’Italia dia un segno non ostile, rimuovendo i simboli fascisti da Bolzano». Sono affermazioni stupefacenti. Si guardi intorno Durnwalder: vedrà i mille segni di una minoranza etnica che è certamente la più tutelata e più ricca d’Europa e probabilmente del mondo. Mille segni, nei quali forse l’Italia c’entra per qualcosa, e che non indicano davvero alcuna ostilità. Dunque il nostro Paese la sua parte l’ha fatta. Quanto ai simboli «fascisti» a Bolzano e altrove, essi furono sì innalzati dal regime mussoliniano, ma in sostanza sono simboli della vittoria italiana nella prima Guerra mondiale: e così come nessun austriaco o francese si sente offeso, per esempio, dalla statua collocata a Berlino sulla Colonna della vittoria, a ricordo dei successi tedeschi su Austria e Francia nel 1866 e nel 1870, così oggi solo un nazionalista fanatico può adontarsi per l’esistenza di quei monumenti che ricordano fatti di circa un secolo fa. La verità è che i moderati della Svp e Durnwalder non hanno il coraggio, che invece ebbe a suo tempo Magnago, di impegnare una battaglia politica a fondo contro la destra. La quale per la sua propaganda si fa forte proprio di ciò che essi sono diventati da tempo: un’oligarchia politica soddisfatta, abituata a vivere di rendita, con tutti i limiti e i vizi di un potere senza ricambio. Un’oligarchia che quando si sente minacciata sa solo chiedere aiuto agli altri invece di cercare di correre ai ripari da sola.

Ernesto Galli Della Loggia
08 maggio 2009

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« Risposta #38 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:25:00 am »

SCUOLA, DA PISACANE A MAKIGUCHI

L'integrazione non si fa così


Spesso sono i picco­li episodi che rive­lano i grandi fatti. Che cosa sia diven­tata ad esempio, per tan­ta parte, la scuola italia­na, quale sia il senso co­mune che vi regna, quale sia anzi il senso comune che probabilmente ha già messo abbondanti radici in tutto il Paese, ce lo di­ce quanto è appena acca­duto a Roma, alla scuola materna ed elementare Carlo Pisacane. La cui pre­side, con l’accordo unani­me del consiglio d’istitu­to, ha deciso che il nome di Pisacane non è proprio il più adatto per una scuo­la che accoglie tanti alun­ni non italiani, apparte­nenti, come c’informano i giornali, a ben 24 etnie diverse, con prevalenza di bengalesi, romeni e ci­nesi.

Pisacane: avete presen­te? Un mazziniano, con la testa piena di idee confu­se sulla patria e sul sociali­smo, che si era fissato di fare una rivoluzione con i contadini del Mezzogior­no e che fu capace, inve­ce, solo di andare incon­tro alla propria rovina la­sciandoci la vita. Un italia­no poi, figuriamoci!, a chi volete che interessi? Chi volete che lo conosca que­sto Pisacane? Molto me­glio intitolare la scuola, hanno pensato i docenti romani, a un personaggio di ben altro calibro e noto­rietà, per esempio a Tsu­nesaburo Makiguchi. Ma certo, Makiguchi! Sappia­mo tutti chi è: pensatore e pedagogista celeberri­mo, teorizzatore della or­mai diffusissima (anche troppo!) «educazione cre­ativa ». E che poi sia giap­ponese non può che fare sicuramente piacere ai tanti alunni asiatici, in specie a quelli cinesi che, come si sa, conservano del Paese del Sol Levante un così simpatico ricor­do.

In realtà c’è poco da iro­nizzare su questa Italia di oggi, di cui i poveri inse­gnanti della ex Pisacane, alla fine, appaiono più che altro delle vittime. Vit­time di un Paese che ha una venerazione idolatri­ca verso tutto ciò che sa di «territorio» e di «deci­sione dal basso» e per­mette che denominazioni così simbolicamente cru­ciali (la cui importanza ci ricorda un aureo libretto di Alberto ed Elisa Benzo­ni in uscita proprio in questi giorni da Bietti, Le vie d’Italia) come i nomi delle cose che sono di tut­ti, adoperate da tutti, qua­li sono per l’appunto i no­mi delle scuole, siano a di­sposizione del primo con­siglio d’istituto che vuole cambiarli.

Un Paese così ipnotizza­to dalle mitologie interna­zional- mondialiste, e in­sieme così abituato a ve­dersi secondo l’immagi­ne negativa che gli fabbri­cano ogni giorno i suoi tanti moralisti di profes­sione, da credere che or­mai la propria storia, la propria identità, non vo­gliano dire più nulla per nessuno, non abbiano più alcun valore. E dun­que un Paese che di fron­te all’immigrazione si tro­va nell’incapacità di fare la sola cosa utile che c’è da fare. Cioè cercare d’in­tegrare, far diventare ita­liani gli stranieri legal­mente in Italia, conceden­dogli dunque con larghez­za la cittadinanza (con lar­ghezza! Lo si capisca una buona volta) e facendoli partecipi della nostra lin­gua, della nostra storia, della nostra cultura: prin­cipalmente nella scuola, che di tutto ciò deve, o meglio dovrebbe, essere il simbolo operante. Invece preferiamo striz­zare l’occhio alle mode e farci belli gingillandoci con un multiculturalismo suicida che ha il solo effet­to di ghettizzare gli stra­nieri e di alzare una bar­riera tra noi e loro.

Erneso Galli Della Loggia

20 maggio 2009
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« Risposta #39 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:34:25 pm »

ELITES E OPINIONE PUBBLICA

Europa, la fine di un ciclo


Negli ultimi anni le classi dirigenti europee hanno usato e abusato di due termini-chiave per giustificare le loro sempre più evidenti difficoltà nella raccolta del consenso: «euroscetticismo» e «populismo». Il significato dei due termini, adoperati spesso insieme, è incerto. Ciò che invece si capisce subito è a che cosa serve il loro uso così insistito: ad assolvere preliminarmente le suddette classi dirigenti da ogni colpa o difetto, nonché ad esimerle da ogni esame spregiudicato della realtà. Dire «euroscetticismo» e «populismo » è come dire il maltempo o una malattia. Ci sono e basta: l’unica cosa certa è che noi non ne abbiamo colpa. Anche per spiegare (si fa per dire) i risultati delle ultime elezioni europee, in specie la rovinosa sconfitta della socialdemocrazia, si invocano adesso di nuovo i malefici effetti dell’ «euroscetticismo» e del «populismo». E’ giunta dunque l’ora di cercare di capire cosa si nasconda davvero dietro queste due parole. In realtà esse alludono, sia pure inconsapevolmente e travisandone grossolanamente il senso, a una drammatica cesura in atto nello scenario storico europeo. Sotto i nostri occhi finisce oggi, infatti, l’epoca apertasi nel 1945. Sono scomparsi o sono in crisi i meccanismi di legittimazione con cui i gruppi dirigenti socialisti e cristiani si affacciarono sulla scena del dopoguerra e costruirono la loro egemonia.

Poniamo mente a qualche dato di fatto: da un lato è cessata la possibilità di lucrare sulla guerra fredda; dall’altro il carattere ormai problematico del rapporto con gli Stati Uniti, insieme al ritorno in gioco delle nazioni della parte orientale del continente, aprono un drammatico interrogativo epocale sul significato e sul futuro geopolitico dell’Europa; dal canto suo il Welfare State è ormai improponibile perlomeno nelle forme sin qui sperimentate, mentre dappertutto le economie europee sono afflitte da gravi problemi di tenuta e di competitività; contemporaneamente, su un altro fronte non meno importante, secolarizzazione e immigrazione vanno interpellando in modo radicale forme e contenuti delle nostre identità collettive. A un tale enorme ammasso di problemi le culture politiche e i gruppi sociali fin qui egemoni in Europa non si sono mostrati in grado di dare la minima risposta. Anzi hanno spesso cercato di negarli. Il loro armamentario intellettuale è apparso desolantemente vuoto, e proprio questa assenza ha reso sempre più evidente la prevalenza nelle classi dirigenti del continente di un carattere progressivamente asfittico, autoreferenziale, e alla fine oligarchico; ha sottolineato la loro perdita di rapporto con la realtà. Ciò riguarda non solo le élites politiche. Riguarda in eguale misura tutte le élites delle società europee (economiche, intellettuali, burocratiche), via via convertite tutte allo stesso modo, nell’azione sociale, a una miscela di mercato e di tassazione, di assistenzialismo e di meritocrazia, senza mai nessuna scelta coraggiosa, innovativa. Così come tutte si sono allo stesso modo accomodate culturalmente in un pensiero unico fatto di cautela, di misurata scaltrezza, di equilibrismi convenzionali, all’insegna di un’ossessiva banalità democratica, di un universalismo culturale che è solo tiepidezza, di un relativismo etico dominato da «ascolti » e «dialoghi».

Ma dietro questo melting pot ideologico delle società europee le opinioni pubbliche non faticano a indovinare sempre più spesso il nulla. Il nulla e l’opportunismo. Questa sensazione di un nulla impastato di opportunismo che ormai di fatto domina l’azione dei partiti e l’intera sfera sociale è ciò che sta producendo un sentimento oscuro ma profondo di disistima e di ribellione, di delegittimazione, verso tutte le élites dominanti in Europa a partire dal ’45. Soprattutto di quelle di sinistra, come è ovvio, dal momento che proprio la sinistra è tradizionalmente ancora considerata da molti, nel nostro universo politico-simbolico, come l’ambito elettivo di personalità, progetti e valori «veri». È proprio questo, invece, che appare sempre più dubbio. Perché infatti un elettore di sinistra dovrebbe dare fiducia alla socialdemocrazia quando vede uno dei suoi più illustri esponenti storici, l’ex cancelliere Schröder, trasformarsi, nel più totale silenzio dei suoi ex compagni, in un danaroso procacciatore d’affari al servizio dello zar di tutte le Russie? E tanto per restare in Germania, perché mai un elettore del vecchio continente non dovrebbe diventare euroscettico vedendo—pure questa volta senza che nessuno abbia nulla da ridire— la signora Merkel preferire che la Opel vada a finire in mani russe (ancora!) e canadesi, anziché in quelle della Fiat?

Ernesto Galli della Loggia
11 giugno 2009

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« Risposta #40 inserito:: Giugno 25, 2009, 11:14:55 am »

L’ECCESSIVA PERSONALIZZAZIONE

La politica cancellata


Le accuse che si rovesciano in questi giorni sul presidente del Consiglio, le si condivida più o meno, sono la riprova definitiva del grado estremo di personalizzazione che la politica ha raggiunto oggi in Italia: una riprova che, alquanto paradossalmente, stanno offrendo proprio coloro che fino a ieri additavano la suddetta personalizzazione come sbagliatissima e assolutamente da evitare.

Non tenevano conto però che la personalizzazione è un fenomeno inerente alla leadership: tanto più questa è autorevole e forte tanto più s’identifica inevitabilmente con la persona di chi l’esercita. Né tenevano conto del fatto che i regimi democratici, proprio per il pluralismo che caratterizza le loro società, hanno quanto mai bisogno di una leadership forte e unificatrice.

Ma è anche vero che le accuse che ogni giorno riempiono i nostri quotidiani, con grande attenzione alla vita privata di Berlusconi, testimoniano di un livello di personalizzazione che dire estremo è poco. A questo proposito è stato osservato giustamente che anche in altri Paesi europei o negli Usa i vertici del potere (Kennedy e Mitterrand, per fare solo due esempi) sono stati coinvolti ripetutamente in storie scabrose di sesso dense di particolari piccanti, ma in nessun caso però i rispettivi media se ne sono occupati più di tanto, anzi quasi sempre non se ne sono occupati per nulla. Sui gusti e le frequentazioni sessuali delle leadership la regola è stata dappertutto una sostanziale cortina di silenzio. Il fatto che in Italia non sia così, anzi sia l’opposto, potrebbe naturalmente voler dire che l’informazione italiana è assai più libera di quella straniera, ovvero, forse, può voler dire che in Italia la personalizzazione di cui si diceva ha raggiunto livelli realmente patologici.

È questa l’ipotesi più plausibile. Ma bisogna allora domandarsi perché. A me sembra che ciò dipenda dal fatto che in pochi altri Paesi occidentali c’è stato come in Italia una così massiccia cancellazione della politica nel senso che normalmente si dà a questa parola. Idee, programmi, procedure di selezione, organi collettivi di dibattito e di direzione, tutto, a destra come al centro e a sinistra, è stato vanificato o ha provveduto spontaneamente e letteralmente a evaporare. Esauritesi le culture e i partiti politici che risalivano al Cln e alle vicende «alte» della storia nazionale (ciò che in Europa non è accaduto da alcun’altra parte), è subentrato un generale nulla. Sono rimaste solo le persone, sole le nude persone (è il caso di dirlo!). Da questo punto di vista Berlusconi, lungi dall’essere la malattia, è solo il sintomo: esasperato se si vuole ma solo il sintomo.

Nessuna meraviglia allora se la vita pubblica italiana offre da tempo lo spettacolo che offre: dove prima delle «squillo» di casa a Palazzo Grazioli ci sono state le «esternazioni » politiche della moglie del premier golosamente raccolte, il costo delle scarpe di D'Alema, i flirt veri o supposti e la paternità più o meno rocambolesca di Fini, il cachemire glamour di Bertinotti, la carica di capo della Lega trasformata in personale- ereditaria per il giovane Bossi senza che dai suoi si sia levata una critica: il tutto in un affollarsi di giornali e di trasmissioni tv che in pratica si occupano solo di cose del genere.

Ormai in Italia, anche a prescindere dalle ultime settimane, la politica è ridotta a questo. Mentre sullo sfondo si agita il vortice delle intese sotterranee, degli interessi economici che si combinano e si ricombinano per tutelarsi e spadroneggiare, dei clan che si formano, mentre si vede una stampa nel complesso sempre più esangue, si ascoltano mille «voci» che dilagano. Anche in quelli che ancora chiamiamo partiti ognuno gioca per sé, al massimo in combutta con qualche sodale. Tutto ciò è il prodotto della fine della politica: della quale è un frutto quella personalizzazione di cui la foto di Berlusconi tra le lenzuola, quando mai comparisse, non sarebbe che un riassunto simbolico. C’è comunque in questa deriva italiana come un ritorno all’antico. Si dilegua la politica, infatti, e sembra di veder riaffiorare un’Italia che credevamo alle nostre spalle: un Paese in mano a pochi, a oligarchie interessate esclusivamente al proprio potere; un Paese marginale, tagliato fuori dal mondo e che ha ormai perso il senso di un destino comune, senza ambizioni e progetti per il futuro; un Paese che non si stima e che non sembra più capace di chiedere nulla a se stesso. Un Paese che nel vuoto della politica lascia vedere qualcosa di molto simile a un vuoto di volontà, a un vuoto morale.

Ernesto Galli della Loggia
25 giugno 2009

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« Risposta #41 inserito:: Luglio 20, 2009, 10:20:33 am »

I 150 ANNI DELL’UNITA’ E IL VUOTO DI IDEE


Noi italiani senza memoria


Il modo in cui il Paese si appresta a celebrare nel 2011 il 150˚anniversario della sua Unità indica alla perfezione quale sia l'immagine che la classe politica—tutta, di destra e di sinistra, senza eccezioni (nonché, temo, anche la maggioranza dell'opinione pubblica) — ha ormai dell'Italia in quanto Stato nazionale e della sua storia. Un'immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell'Italia stessa. Leggere per credere. Tutto inizia nel 2007, quando per l'appunto si deve decidere che cosa fare per le celebrazioni del 2011. In altri Paesi si penserebbe, per esempio, ad allestire una mostra memorabile, a mettere in piedi un grande museo della storia nazionale (siamo tra i pochi che non ne hanno uno), a costruire una grande biblioteca (Dio sa se ce ne sarebbe bisogno) o qualcos’altro di simile. Da noi invece no.

Da noi il governo Prodi decide che il modo migliore di celebrare l'Unità d'Italia sia quello che lo Stato finanzi, insieme agli enti locali, undici opere pubbliche in altrettante città della Penisola. Opere pubbliche di ogni tipo, così come viene, senza alcun nesso con il tema dell'unità: da un nuovo Palazzo del Cinema e dei Congressi al Lido di Venezia, al completamento dell’aeroporto a Perugia, dalla realizzazione di un Parco costiero del Ponente ligure ad Imperia, a un Auditorium con relativa delocalizzazione del campo di calcio a Isernia, a un Parco della Musica e della Cultura a Firenze, e così via nel mare magnum dei bisogni effettivi o magari della megalomania dei mille luoghi del Bel Paese. Solo Torino e il Piemonte, non dimentichi della loro storia, mettono a punto in modo autonomo un programma di celebrazioni inerenti realmente all'evento storico di cui si tratta.

Ma, ripeto, in modo autonomo e come iniziativa locale, anche se con lodevole e forte apertura alla storia nazionale. Così come solo il Ministero dell'Istruzione trova il modo di celebrare l'anniversario varando un progetto di portale didattico on line sul Risorgimento. Dopo pochi mesi, comunque, nel febbraio del 2008, al «programma infrastrutturale » iniziale degli undici progetti ora detti il governo Prodi aggiunge altri quattordici «interventi infrastrutturali di completamento». Di nuovo c'è di tutto: restauri di questo o quell'edificio (il teatro D’Annunzio a Pescara, Palazzo D'Accursio a Bologna, la Rocca della cittadella ad Ancona), ma anche numerose incursioni nel bizzarro spinto: per esempio la realizzazione di un Herbariun Mediterraneum, di cui pare che senta un vivissimo bisogno la città di Palermo, o la realizzazione di un Centro Culturale della Mitteleuropa per la maggiore soddisfazione degli abitanti di Udine. E' inclusa perfino la costruzione della nuova sede dell'Istat a Roma.

Ma messe così le cose, pure ai ministri di Prodi esse devono essere sembrate un po' troppo grigie e anonime. Alla retorica nazionale non si poteva negare qualche lustrino, qualche «nome» da esibire. Detto fatto, ecco allora istituito un pomposo Comitato dei Garanti. Cioè tre-quattro decine di persone, presunte incarnazioni di altrettante «personalità», alla cui presidenza viene chiamato il Presidente emerito Ciampi. Ma alle quali, naturalmente nessuno, in tutto questo tempo, si cura di indicare con un minimo di precisione che cosa mai debbano «monitorare» e «verificare», in sostanza che cosa diavolo ci stiano a fare, a che cosa servano. Sono «garanti», tant'è: non gli basta un simile onore? E infatti non risulta che riescano a dire una parola su nulla. Tuttavia, per quanto sembri incredibile, non siamo ancora alla fine. Ulteriori proposte di «interventi infrastrutturali» incalzano, infatti, e anche questi progetti ottengono il loro bravo cofinanziamento statale: sempre in nome, naturalmente, del 150˚anniversario dell'Unità. Questa volta però nelle funzioni di «grande elemosiniere» invece del governo Prodi c'è il governo Berlusconi.

Ecco dunque il Comune di Roma che con 40 milioni promette di sistemare a nuovo il Palazzo degli esami di via Induno; Latina, che riceve 3 milioni di euro per la riconversione dell'ex Caserma dell’82˚fanteria da adibire a campus universitario; il comune di Moasca (Asti), che si accontenta di 500 mila per il completamento del restauro del suo castello; Catania, che con 150 mila euro vuole rendere accessibile l'Orto botanico ai «non vedenti e ipovedenti»; Magenta, che si prende i suoi 22 milioncini per collegare con piste ciclabili «le vie della battaglia di Magenta», e così via molti altri. Ma oltre a fare anche lui, sebbene in tono minore data la crisi economica, la sua distribuzione di soldi in tutto e per tutto analoga a quella realizzata dal governo di sinistra, il governo di destra compie un altro atto memorabile. Ai membri del Comitato dei Garanti designati dal suo predecessore ne aggiunge altri sette-otto: ma anche questi— essendo uno dei prescelti posso dirlo con cognizione di causa — finora non riescono a servire a nulla (anche se almeno non costano nulla).

E di sicuro le cose continueranno così anche se oltre tre mesi fa il presidente Ciampi ha scritto al ministro Bondi per sollecitarlo a elaborare finalmente un «programma di iniziative da attuare per la ricorrenza». Ma con quanto tempo a disposizione oramai? E con quali finanziamenti, dal momento che ne sono già stati impiegati tanti per tutte le cose fin qui dette? La conclusione, al momento attuale, è che per ricordare la propria nascita lo Stato italiano nel 2011 non farà nulla: nulla di pensato appositamente, voglio dire, con un rapporto diretto rispetto all'evento. Si limiterà a qualche discorso . Il punto drammatico sta nella premessa di tutto ciò. Nel fatto evidente che la classe politica sia di destra sia di sinistra, messa di fronte a uno snodo decisivo della storia d'Italia e della sua identità, messa di fronte alla necessità di immaginare un modo per ricordarne il senso e il valore — e dunque dovendosi fare un'idea dell'uno e dell'altro, nonché di assumersi la responsabilità di proporre tale idea al mondo, e quindi ancora di riconoscersi in essa — non sa letteralmente che cosa dire, che partito prendere, che idea pensare.

E non sa farlo, per una ragione altrettanto evidente: perché in realtà essa per prima non sa che cosa significhi, che cosa possa significare, oggi l'Italia, e l'essere italiani. Quella classe politica fa di conseguenza la sola cosa che sa fare e che la società italiana in fondo le chiede: distribuire dei soldi. A pioggia, senza alcun criterio ideale o pratico, in modo da soddisfare le esigenze effettive, i sogni, le ubbie, dei mille localismi, dei mille luoghi e interessi particolari in cui ormai sempre più consiste il Paese. Cioè consistiamo noi. «A te un campus, a te una circonvallazione, a te un palazzo per qualche cosa»: l'unico scopo che ci tiene insieme sembra essere oramai quello di spartirci il bilancio dello Stato, di dividerci una spoglia. M’immagino come se la deve ridere tra sé e sé il vecchio principe di Metternich, osservando lo spettacolo: non l'aveva sempre detto, lui, che l'Italia non è altro che un'espressione geografica?

Ernesto Galli Della Loggia
20 luglio 2009

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« Risposta #42 inserito:: Luglio 31, 2009, 02:42:51 pm »

LE COLPE DELLE CLASSI DIRIGENTI

L’Italia dimenticata


Le nazioni sono un prodotto complesso. Il materiale di base per costruirle lo fornisce perlopiù la storia, ma chi le porta ad esistere e le fa vivere, dandogli forma ideale e statale, non sono i singoli né le masse: sono i gruppi dirigenti. Cioè innanzi tutto le classi politiche (e dunque la politica). Perciò, se lo stato comatoso in cui versano le celebrazioni per il 150˚anniversario dell'unità d'Italia significa qualcosa, esso significa che ai politici di questo Paese, tanto di destra come di sinistra, la suddetta unità, e cioè alla fine l'Italia, appaiono tutto sommato irrilevanti.

Prova ne sia, come è stato giustamente osservato, che nessuno di loro è intervenuto nel dibattito accesosi sul tema in questi giorni. Non voglio dire che i nostri uomini politici non nutrano un legame storico e sentimentale con il loro Paese. Voglio dire che l'Italia come entità nazionale, come organismo collettivo, come idea di una sorte comune dotata di qualche senso, tutto questo non entra più in alcun modo nel loro discorso, non è più un dato politico effettivo produttore di emozioni, di analisi, di programmi. Paradossalmente, l'Italia è un dato politico reale esclusivamente per la Lega: ma lo è solo perché oggetto della sua radicale avversione. E' significativo, peraltro, che perfino alle più ripugnanti proposte leghiste, come quella recentissima di imporre agli insegnanti un esame di cultura e lingua locali, i suoi avversari, lungi dal contrapporre l'idea d'Italia e di unità nazionale, si limitino a invocare, come ha invocato il presidente Fini, il «rispetto della Costituzione ». Quasi che dell'Italia non possa pensarsi altra difesa, ormai, che quella riservata a un bene «giuridicamente protetto».

Oggi, insomma, salvo che per la Lega, l'Italia non esiste più per le nostre culture politiche. Non era così nella prima Repubblica, la quale, pur se nata in un momento in cui la coscienza nazional- statale era stata messa a dura prova dalla catastrofe bellica, vide tuttavia la non infeconda dialettica tra culture politiche ognuna in stretto rapporto con la vicenda nazionale e con una forte idea d'Italia. Si pensi da un lato alla cultura cattolica e a quella comunista — entrambe legate al dato centrale della nostra storia rappresentato dalla lontananza delle masse popolari rispetto alla costruzione dello Stato unitario — e dall'altro alla cultura laico-socialista, viceversa appassionatamente identificata con tale costruzione. Uomini come Terracini e Amendola, Scelba o Moro, Spadolini o Craxi, furono altrettanti personaggi- simbolo di una storia tutta e consapevolmente «italiana». Una storia che Mani Pulite ha inghiottito e dissolto. Da allora dell'Italia, della sua vicenda e dunque della sua unità, tranne la Lega che le ha costituite a suoi bersagli polemici, le culture politiche post-Tangentopoli non sanno che cosa farsene. «Forza Italia» fu solo uno slogan indovinato preso in prestito dagli stadi, riflesso adeguato di una politica ridotta a scontro di tifoserie; nel mentre a sinistra, tra Pds, Diesse e poi Partito democratico, in omaggio a un cosmopolitismo da provinciali scompariva perfino ogni menzione di appartenenza nazionale.

Di recente, sui manifesti ufficiali del partito affissi sui muri di Roma, il Pd è diventato addirittura un grottesco Democratic Party. È stato soprattutto questo vuoto d’Italia prodottosi al vertice del Paese e dei suoi gruppi dirigenti (vanamente contrastato dagli sforzi del presidente Ciampi) che spiega l’indebolimento fortissimo subito negli ultimi quindici anni dall’idea di unità nella sfera pubblica, nelle parole e nelle pratiche ad essa connesse. Lo scempio fatto della Rai e di ogni sua funzione formativa, e insieme le condizioni pietose a cui è stato ridotto il sistema dell’istruzione, sono solo due esempi di questo vuoto tramutatosi in una perversa diseducazione civica dall’alto. I frutti cominciano a vedersi adesso. Nell’assenza al centro di un discorso e di tematiche realmente nazionali, di qualunque prospettiva che riesca a coinvolgere l’intero Paese, il regionalismo sta diventando al Nord sinonimo di un federalismo di fatto, e al Sud arma di ricatto nelle mani di spregiudicati boss politici per assicurarsi, al riparo di sguardi indiscreti, la continuità delle loro clientele e del loro potere.

Ma come ha detto Giuseppe Galasso sul Riformista, pensare che all’indebolimento dell’idea d’Italia nella sfera pubblica corrisponda un eguale e sostanziale suo indebolimento nella mente e nei cuori degli Italiani ce ne corre. La memoria e il buon senso dei popoli sono spesso più tenaci delle omissioni e degli oblii dei politici. La grande maggioranza degli Italiani sa come stanno le cose: sa che nell’ultimo secolo e mezzo non vi è stato altro strumento che abbia contribuito alla sua libertà, al suo progressomateriale, alla formazione della sua coscienza civile, più dello Stato unitario che si chiama Italia. Sa tutto ciò, e solo che qualcuno volesse e sapesse chiederglielo la sua voce non mancherebbe di ricordarlo a tutti.

Ernesto Galli Della Loggia
31 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #43 inserito:: Agosto 19, 2009, 11:58:13 am »

Scambio di lettere sul Paese tra passato e presente

Io, studente leghista

Perché mi vergogno dell’Unità d’Italia


Caro professor Galli della Loggia,
sono uno studente universita­rio di 24 anni con una certa pas­sione per la storia. Sono un leghista, ab­bastanza convinto. E lo confesso: se fac­cio un bilancio, certamente sommario, dall’Unità nazionale ad oggi, le cose per cui vergognarmi mi sembrano maggiori rispetto a quelle di cui essere fiero.

Penso al Risorgimento, alla massone­ria e al disegno di conquista dei Savoia, rifletto sul fatto che nel Mezzogiorno fu­rono inviate truppe per decenni per seda­re le rivolte e credo che queste cose abbia­no più il sapore della conquista che della liberazione. E penso, ancora, al referen­dum falsato per l’annessione del Veneto e al trasformismo delle elite politiche post-risorgimentali. E poi il fascismo, con la sua artificiosa ricostruzione di una romanità perduta e imposta a un popolo eterogeneo e diviso per 1500 anni che della «romanità classi­ca » conservava ben poco: la costruzione di una «religione politica» forzata al po­sto di una «religione civile» come invece avvenne in Francia con la Rivoluzione, che fu davvero l’evento fondante di un popolo. In Italia l’unica cosa «fondante» potrebbe essere stata la Resistenza: ma anche lì, a guardare bene, c’era una Linea gotica a dividere chi la guerra civile l’ave­va in casa da chi era già in qualche manie­ra libero.

E poi la Prima Repubblica, che si salva in dignità solo per pochi decenni, i pri­mi, e poi sprofonda nei buio degli anni di piombo con terrorismo di sinistra e stra­gi di destra (o di Stato?), nel clientelismo politico più sfrenato, nelle ruberie, nelle grandi abbuffate che ci hanno regalato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.

Quanto alla Seconda Repubblica, l’ab­biamo sotto agli occhi: la tendenza dei partiti a trasformarsi in «pigliatutto» multiformi e dai programmi elettorali quasi identici, con le uniche eccezioni di Di Pietro e della Lega. Il primo però è de­stinato a sparire con Berlusconi, che è la ragione del suo successo: quando svani­rà la causa, svanirà anche l’effetto. Anche la Lega dopo Bossi potrebbe sparire, ma almeno a sorreggerla ci sono un disegno, un’idea, per quanto contestabili.

Guardo allo Stato poi e alla mia vita di tutti i giorni e mi viene la depressione. Penso a mia mamma che lavora da quan­do aveva 14 anni ed è riuscita da sola a crearsi un’attività commerciale rispettabi­le e la vedo impazzire per arrivare a fine mese perché i governi se ne fregano della piccola-media impresa e preferiscono continuare a buttar via soldi nella grande industria. E poi magari arriva anche qual­che genio dell’ultima ora a dire che i com­mercianti son tutti evasori. Vedo i miei dissanguarsi per pagare tutto corretta­mente e poi mi ritrovo infrastrutture e servizi pubblici pietosi. Vedo che viene negata la pensione di invalidità a mia zia di 70 anni che ha avuto 25 operazioni e non cammina quasi più solo perché ha una casetta intestata. E poi leggo che nel Mezzogiorno le pensioni di invalidità so­no il 50% in più che al Nord. Come faccio a sentire vicino, ad amare, a far mio uno Stato che mi tratta come una mucca da mungere e in cambio mi dice di tacere?

Non ho paura degli immigrati, né so­no ostile a chi ha la pelle differente dalla mia. Mi preoccupo però di certe culture. Per esempio mi spaventano i disegni di organizzazioni come i Fratelli musulma­ni, ostili verso l’Occidente, e mi fan pau­ra le loro emanazioni europee. Non vo­glio barricarmi nel mio «piccolo mondo antico», ma ho realismo a sufficienza per pensare di non poter accogliere il mondo intero in Europa. La gente che entra va integrata, ma io credo che la possibilità di integrazione sia inversamente propor­zionale al numero delle persone che en­trano. Eppure, se dico queste cose, mi danno del «razzista». Non mi creano pro­blemi le altre etnie, mi crea problemi e fastidio invece chi le deve a tutti i costi mitizzare, mi irrita oltremodo un multi­culturalismo forzato e falsato. Mi spaven­tano l’esterofilia e la xenomania, secondo le quali tutto ciò che viene da fuori deve essere considerato acriticamente come positivo, «senza se e senza ma». In prati­ca ho paura che l’Italia di domani di italia­no non avrà più nulla e che il timore qua­si ossessivo di non offendere nessuno e di considerare ogni cultura sullo stesso piano, cancelli quel poco di memoria sto­rica che ancora abbiamo. Mi crea profon­do terrore la prospettiva che la nostra ci­viltà possa essere spazzata via come ac­cadde ai Romani: mi sembra quasi di es­sere alle porte di un nuovo Medioevo con tutte le incognite che questo può ce­lare. E ho paura, paura vera. Sono razzi­sta davvero oppure ho qualche ragione?

Matteo Lazzaro
19 agosto 2009
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da corriere.it


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La storia è positiva

Ma protesta e paura oggi sono fondate


No, non è la lettera di un razzista la lettera di questo studente — un bravo studente, si può immagina­re — che il Corriere ha deciso di pubblica­re per contribuire a far conoscere al Paese da quali sentimenti e di quali ragioni si fa forte l’opinione pubblica leghista così dif­fusa al Nord. Ha quasi sempre delle ragio­ni, infatti, anche chi non ha ragione: pure quando tali ragioni, com’è questo il caso, sono costruite su un ordito di vere e pro­prie manipolazioni storiche.

Quanto scrive Matteo Lazzaro dimo­stra innanzi tutto, infatti, il rapporto stret­tissimo che inevitabilmente esiste tra sto­ria e politica; e di conseguenza, ahimè, il disastro educativo prodotto negli ultimi decenni nelle nostre scuole da un lato da una sfilza di manuali di storia redatti al­l’insegna della più superficiale volontà di demistificazione, e dall’altro da una mas­sa d’insegnanti troppo pronti a sintoniz­zarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Gli uni e gli altri presumibilmente convinti di contribuire in questo modo alle fortu­ne del progressismo «democratico» anzi­ché, come invece è accaduto, a quelle di un autentico nichilismo storiografico di tutt’altro segno. Ecco infatti il risultato che si è fissato nella mente di molti italia­ni: una storia del nostro Paese inverosimi­le e grottesca, impregnata di negatività, violenza, imbrogli e sopraffazione. Una storia di cui «vergognarsi», come pensa e scrive per l’appunto Lazzaro, e che quindi può solo essere rifiutata in blocco: domi­nata dall’orco massone e da quello sabau­do, dalla strega della partitocrazia, dal bel­zebù del «clientelismo», sfociata in «uno dei debiti pubblici più alti del mondo». Nessuno sembra aver mai spiegato a que­sti nostri più o meno giovani concittadini che il Risorgimento volle anche dire la possibilità di parlare e di scrivere libera­mente, di fare un partito, un comizio e al­tre cosucce simili; o che ad esempio, nel tanto rimpianto Lombardo-Veneto di au­striaca felice memoria, esisteva una cosa come il processo «statario», in base al quale si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppu­re uno straccio di avvocato. Nessuno sem­bra avergli mai raccontato come 150 anni di storia italiana abbiano anche visto, ol­tre alle ben note turpitudini, un intero po­polo smettere di morire di fame, non abi­tare più in tuguri, non morire più come mosche e da miserabile che era comincia­re a godere di uno dei più alti redditi del pianeta. Così come nessuna scuola sem­bra aver mai illustrato ai tanti Matteo Laz­zaro quello che in 150 anni gli italiani han­no fatto dipingendo, progettando edifici e città, girando film, scrivendo libri: non conta nulla tutto ciò? E si troverà mai qualcuno infine, mi domando, capace di suggerirgli che la democrazia non piove dal cielo, che tra «uno dei debiti pubblici più alti del mondo» e l’ospedale gratuito sotto casa o l’Università dalle tasse presso­ché inesistenti qualche rapporto forse esi­ste? E che la storia, il potere, la società, sono faccende maledettamente complica­te che non sopportano il moralismo del tutto bianco e tutto nero, del mondo divi­so in buoni e cattivi?

È quando viene all’oggi, invece, che il nostro lettore ha ragione da vendere, e al­le sue ragioni non c’è proprio nulla da ag­giungere. C’è semmai da capirle e inter­pretarle. Il che tira in ballo la responsabili­tà per un verso della classe politico-intel­lettuale di questo Paese, per l’altro quella dei nostri concittadini del Mezzogiorno. Per ciò che riguarda la prima è necessario e urgente che quello strato di colti, di gior­nalisti di rango, di scrittori, di attori della scena pubblica, i quali tutti insieme con­tribuiscono alla costruzione del «discor­so » ufficiale del Paese, la smettano di as­sumere un costante atteggiamento di suf­ficienza, se non di disprezzo, verso ogni pulsione, paura o protesta che attraversa le viscere della società settentrionale (ma non solo! sempre più non solo!) taccian­dola subito come «razzista», «securita­ria », «egoista», «eversiva» o che altro. Pe­ricoli di questo tipo ci saranno pure, ma come questa lettera spiega benissimo si tratta di pulsioni e paure niente affatto pretestuose ma che hanno un senso vero, spesso un profondo buon senso, e dun­que chiedono risposte altrettanto vere, sia culturali che politiche: non anatemi che lasciano il tempo che trovano.

E infine i nostri concittadini del Mezzo­giorno: questi sbaglierebbero davvero se non avvertissero nelle parole del lettore leghista l’eco neppure troppo nascosta di una richiesta ultimativa che in realtà or­mai parte non solo da tutto il Nord ma an­che da tante altre parti del Paese. È la ri­chiesta che la società meridionale la smet­ta di prendere a pretesto il proprio disa­gio economico per scostarsi in ogni ambi­to — dalla legalità, alle prestazioni scola­stiche, a quelle sanitarie, all’urbanistica, alle pensioni — dagli standard di un pae­se civile, tra l’altro con costi sempre cre­scenti che vengono pagati dal resto della nazione. Il resto dell’Italia non è più dispo­sta a tollerarlo, e si aspetta che alla buo­n’ora anche i meridionali facciano lo stes­so

Ernesto Galli della Loggia
19 agosto 2009
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« Risposta #44 inserito:: Agosto 23, 2009, 10:48:21 am »

IL DIBATTITO SULL’IDEA DI ITALIA

La nazione abbandonata


Vedremo tra po­chi giorni le pro­poste del gover­no volte a rime­diare come possibile al­l’insulso programma edili­zio lasciatogli in eredità dal precedente ministero Prodi per celebrare l’anni­versario dell’unità d’Italia del 2011. Il cuore della questione è stato ben ri­cordato dal presidente Napolitano nella sua lette­ra all’esecutivo di un me­se fa: la nascita di una na­zione non può essere cele­brata solo con un Palazzo del cinema qua e un Par­co della musica là. Ha bi­sogno di un’idea politi­co- culturale forte, che ri­specchi il senso e i valori della sua identità e della sua storia. Il capo dello Stato attende tuttora una risposta, e noi con lui. Intanto, però, la discus­sione accesasi a proposi­to delle celebrazioni, con una vasta partecipazione di non addetti ai lavori, è andata ben oltre il tema specifico, mettendo in lu­ce due aspetti decisivi del­lo spirito pubblico di cui le imminenti proposte del governo dovranno te­ner conto.

Il primo aspetto riguar­da l’immagine distorta, ma sempre più diffusa, della storia del nostro Pa­ese, e in particolare della formazione dello Stato unitario. In contrapposi­zione ad una visione oleo­grafica del Risorgimento (peraltro sostanzialmente messa al bando da mezzo secolo) è venuta forman­dosi, e ormai dilaga, una visione dove classismi pa­leogramsciani, nostalgie neoborboniche e neoau­striacanti, vituperi antiu­nitari e antiliberali di mar­ca cattolico-temporalista, si mischiano e fanno tut­t’uno con un singolare fe­nomeno di reciproca vali­dazione. Ne risulta una storia nazionale dove, co­me ha scritto un giovane studente milanese, le co­se di cui vergognarsi non si contano; dove chi ha co­mandato, da Cavour a Ma­ni Pulite, avrebbe sempre fatto i suoi più sporchi co­modi; dove i cittadini, «la gente», sembra essere passata per 150 anni da una strage a una ruberia, da un’illegalità ad un’al­tra: sempre vittima, sem­pre oppressa dal «pote­re », rappresentato da quel riassunto di ogni ma­le che sarebbe lo Stato.

Ciò che è nuovo di que­sta immagine è, sì, la sua crescente popolarità, ma soprattutto il fatto che es­sa è diffusa più o meno in ugual misura tanto al Nord che al Sud.
È il se­condo dei due aspetti di cui dicevo sopra, ed è quello che sta producen­do il senso di radicale di­stacco, di disaffezione profonda nei confronti dell’idea d’Italia, a cui tan­ti italiani, soprattutto gio­vani, sono soliti ormai da­re voce. È un sentimento vero, autentico? Io penso di no. Ma è il sentimento che inevitabilmente pren­de il sopravvento nelle co­scienze se non arriva loro altro messaggio. Special­mente se la politica non vuole o non riesce più a dare al proprio discorso alcuna prospettiva gene­rale in grado di parlare e di coinvolgere anche emo­tivamente l’intero Paese; se tanto la destra che la si­nistra non sanno più evo­care alcun obiettivo in cui possa riconoscersi il pro­prio elettorato, e che al tempo stesso, però, si sforzi d’interpretare an­che i segni dei tempi e l’interesse della collettivi­tà. In una parola se la poli­tica abbandona la nazio­ne. Non da oggi il presi­dente Napolitano svolge in questo senso una pre­ziosa opera di surroga. Ma la sua opera ha un ov­vio limite costituzionale: oltre quel limite tocca ai partiti politici e alle loro culture agire

Ernesto Galli Della Loggia
23 agosto 2009
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