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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 127617 volte)
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« Risposta #240 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:22:06 am »

Sui migranti non servono Sermoni
Di Ernesto Galli della Loggia

L’Italia è un Paese con una forte disoccupazione e un alto indice di povertà. Sono molti gli italiani che vivono male, in abitazioni insufficienti, che anche se hanno un lavoro non sanno come arrivare alla fine del mese, e non godono di nessun aiuto pubblico. Stando così le cose è mai ammissibile che l’Italia abbia davvero bisogno di vedersi arrivare decine di migliaia di immigrati, e che possa permettersi di impiegare le sue risorse per accoglierli? Non solo, ma dopo quanto è accaduto in Gran Bretagna e in Francia, con i giovani africani e asiatici di seconda generazione convertitisi allo jihadismo islamico e al terrorismo, è davvero ancora possibile credere all’integrazione?

Non sono io a fare queste domande. Me le hanno rivolte, in tono spesso infuriato, i lettori del Corriere: dai quali non ho mai ricevuto una quantità di lettere così critiche come quando ho scritto qualche settimana fa un articolo sulla necessità di far posto in Italia agli immigrati e ai rifugiati, praticando a loro favore una larga politica d’integrazione (Corriere , «Il realismo saggio sui migranti», 25 giugno).

Bene: alle domande critiche di cui sopra o ad altre analoghe potrei rispondere ribadendo più o meno le mie ragioni. Ma non voglio farlo, perché penso che ciò servirebbe solo a tacitare, almeno sulla carta, le ragioni dei lettori dissenzienti, che invece esistono e sono l’espressione di problemi e disagi reali, molto reali. Penso che sia più giusto, dunque, cercare di capire che cosa ci dicono tali ragioni, che cosa chiedono, per quali problemi domandano una soluzione. C hi protesta contro l’immigrazione lo fa mosso in genere da due stati d’animo molto forti: il senso d’insicurezza e il bisogno di eguaglianza.

L’insicurezza è prodotta dal vedere un estraneo comportarsi senza alcun riguardo verso la comunità di cui si fa parte. Per esempio orinare a proprio piacere contro i muri, ubriacarsi e schiamazzare a perdifiato, non pagare il biglietto sui mezzi pubblici, accamparsi nei parchi cittadini, vendere dovunque merce contraffatta, invadere gli spazi comuni (stazioni, marciapiedi) per dedicarsi apertamente al taccheggio, o tenere analoghi comportamenti: e però venendo sanzionato, bene che vada, solo una volta su mille. Per simili gesta, infatti, le forze dell’ordine e le polizie locali non solo non intervengono quasi mai, ma quando lo fanno la cosa di regola non ha alcun esito significativo.

Non so se i ministri dell’Interno e della Giustizia, i sindaci, si rendono contro che assecondando questo andazzo essi si assumono la grave responsabilità di contribuire ad esasperare lo spirito pubblico, ad eccitarlo al massimo contro gli immigrati. Se invece si trovasse il modo di intervenire contro le suddette infrazioni con frequenza e in senso immediatamente punitivo (sì, punitivo: guai ad aver paura delle parole), ciò avrebbe un importantissimo effetto di rassicurazione. Bisognerebbe per questo cambiare le leggi o non lo consente la Costituzione con i suoi tre gradi di giudizio? E allora? Se manteniamo un governo non è forse anche per cambiare le leggi e se occorre la Costituzione? Ad esempio per introdurre la possibilità di comminare, in sostituzione di pene pecuniarie spesso inesigibili, l’obbligo di eseguire lavori socialmente utili? Perché non pensarci? Il governo neppure immagina, mi pare, la molteplicità di effetti positivi che avrebbe sull’opinione pubblica vedere un passeggero abusivo o una taccheggiatrice costretti, che so, a spazzare una strada per una settimana o a cancellare le scritta dai muri di una scuola: nati in Italia o altrove non importa, naturalmente, ma non nascondiamoci che nel caso degli immigrati il valore di una simile politica sarebbe davvero strategico. Trasmetterebbe loro il messaggio che il primo obbligo che essi hanno, venendo in Italia, è quello di rispettare, come chiunque, le norme che regolano la nostra collettività. E ai nostri concittadini farebbe capire che in una situazione di confronto difficile con estranei che adottano comportamenti impropri (come fanno assai spesso gli immigrati, non nascondiamoci dietro un dito) essi non sono abbandonati a se stessi ma possono, al contrario, contare sull’aiuto efficace dello Stato.

Il secondo sentimento che specie negli strati popolari è colpito più negativamente dall’immigrazione è il sentimento della giustizia, ovvero il bisogno di eguaglianza. Ogni beneficio concesso agli immigrati è visto come qualcosa tolto agli italiani, gettando così le basi per una contraddizione, politicamente micidiale, tra spesa sociale e spesa per l’accoglienza, tra «noi» (che paghiamo le tasse) e «loro».

È sciocco negare che questa sensazione si basi su dati reali, riguardanti soprattutto i rifugiati e i richiedenti asilo: per i quali i regolamenti europei prevedono la concessione di varie provvidenze. Basti pensare che in Germania, quest’anno, la loro accoglienza peserà sul bilancio dello Stato per qualcosa come 6 miliardi di euro. Ma detto che è certamente urgente che l’Unione Europea restringa il numero di Paesi la fuga dai quali possa essere giustificata in base a «ragioni umanitarie» (è ammissibile ad esempio che ben 70 mila cittadini di Kossovo, Albania e Macedonia abbiano chiesto l’asilo in Germania per le suddette ragioni?), mi sembra comunque ancora più urgente un’altra misura. E cioè - riprendo un’idea lanciata da Giovanna Zincone sulla Stampa - che nel nostro Paese si stabilisca che ad ogni provvidenza erogata dallo Stato per gli immigrati o i rifugiati corrisponda un’erogazione di pari ammontare di beni e servizi ai territori che li accolgono (sotto forma di restauro di edifici, di nuove attrezzature pubbliche, di dotazione di asili e centri sociali, di miglioramento della pulizia e della vivibilità dei luoghi, ecc.).

Per sortire il loro effetto, tali erogazioni, però, aggiungo io, dovrebbero avere alcuni requisiti: essere fortemente e immediatamente visibili, realizzare il proprio scopo in tempi brevi, infine essere gestite direttamente dal governo centrale (magari per il tramite dei prefetti: altro che «rottamarli»!), al fine di evitare loro eventuali «manipolazioni» e occultamenti distorsivi ad opera dei poteri politici locali e di conferire all’iniziativa il suo necessario carattere «nazionale». Bisogna convincersi che esser ostili in linea di principio al fenomeno migratorio, vederlo con apprensione, può essere sbagliato (come io ritengo), sbagliatissimo, ma è del tutto legittimo. Sta perciò a chi è favorevole pensare e adottare misure concrete per attenuare o cancellare una tale ostilità. Misure concrete però, concrete: non sermoni buonisti sull’obbligo dell’«accoglienza» che lasciano il tempo che trovano.

2 agosto 2015 (modifica il 2 agosto 2015 | 08:30)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_02/migranti-non-servono-sermoni-editoriale-galli-loggia-de84c13c-38de-11e5-b1f9-bf3f6fff91aa.shtml
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« Risposta #241 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:32:49 am »

La «vigilanza» dell’Enac sull’inferno di Fiumicino

Di Ernesto Galli della Loggia

Riflettete sulla capacità d’analisi, sulla preveggenza dell’Enac (Ente nazionale aviazione civile: presidente, da soli 13 anni, Vito Riggio). Che l’altro ieri ha convocato - ma con comodo, per il 6 agosto, tanto che fretta c’è - i responsabili di Aeroporti di Roma, proprietari e gestori dello scalo di Fiumicino, per comunicare agli stessi che «serve un maggior rinforzo di personale per le riparazioni e le manutenzioni» dell’aeroporto, e «occorre una vigilanza costante e continua di tutti gli apparati». Non basta: il coraggioso Riggio è arrivato ad affermare che il blackout di giovedì «evidenzia anche qualche pecca non proprio contingente dello scalo». Pensa tu!

È in questo modo che in Italia l’amministrazione, lo Stato, il governo concepiscono il controllo nei confronti dei privati incaricati o concessionari di pubblici servizi (dalle autostrade, all’energia, alle telecomunicazioni: quasi sempre venduti loro a prezzi stracciati dallo Stato stesso). Ed è a causa di questa vigilanza alla buona, di fatto collusa con i sorvegliati, che tutti quei servizi sono ormai precipitati al livello d’incuria, d’inefficienza e di abuso permanente ai danni dei cittadini, che sappiamo.

Non solo in queste ore, ad esempio, Fiumicino è un luogo infernale. Non solo oggi nei suoi spazi è impossibile camminare senza essere spintonati e assordati da un vocio costante, è impossibile trovare un posto dove sedersi, dove fare la pipì senza percorrere chilometri, è un’impresa reperire un banco informazioni. Di regola, insomma, lo spazio a disposizione dei passeggeri è ormai ridotto al minimo. Per una semplice ragione: perché la sete di profitto ha spinto sempre di più Aeroporti di Roma ad affittare ogni minimo angolo riempiendo tutto di negozi, magazzini, attività commerciali. Con buona pace dell’Enac: tanto per il suo presidente, quando deve viaggiare, c’è sempre la saletta vip.

1 agosto 2015 (modifica il 1 agosto 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_01/vigilanza-dell-enac-sull-inferno-fiumicino-99782c8c-380c-11e5-90a3-057b2afb93b2.shtml
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« Risposta #242 inserito:: Agosto 09, 2015, 11:20:12 am »

La rottura che serve
Le parole sul Sud che nessuno dice
Serve una rottura
Deputati e concittadini del Mezzogiorno devono rivendicare che lo Stato è anche legge e diritti uguali per tutti, non solo sperpero di soldi

Di Ernesto Galli della Loggia

«Lo Stato non è solo le sue risorse economiche, i finanziamenti pubblici. Lo Stato è anche la legge e i diritti eguali. Cioè il contrario del dominio degli interessi privati o di clan, il contrario dell’evasione fiscale generalizzata, del clientelismo, della logica della raccomandazione a spese del merito, dello sperpero del pubblico denaro. Ci piacerebbe che i nostri concittadini del Mezzogiorno d’Italia se lo ricordassero e ce lo ricordassero più spesso. E che dunque, ad esempio, fossero loro per primi, i loro deputati, le loro assemblee locali, a chiederci sì più spesa pubblica, ma anche un’azione sempre più energica delle forze dell’ordine, un controllo sempre più incisivo da parte degli organi dello Stato sulla vita sociale delle loro contrade, contro quelli di loro, e Dio sa quanti sono, i quali pensano e agiscono in modo ben diverso. Che contro tutti questi ci chiedessero, loro, più severità, più intransigenza. Perché invece ciò non accade ormai se non rarissime volte?

Il problema del Mezzogiorno, del suo mancato sviluppo, non è anche questo silenzio della grande maggioranza della società meridionale, a cui da tempo fa eco colpevolmente il silenzio e il disinteresse del resto del Paese? Non è da qui che bisogna allora ricominciare?».

Sono queste le parole che mi sarebbe piaciuto sentir dire da Matteo Renzi venerdì scorso alla direzione del Pd, parlando delle condizioni del Sud, al posto del «rottamare i piagnistei» e dello «zero chiacchiere» con cui invece ha condito il suo discorso. L a rottura decisa rispetto al passato di cui il nostro Paese ha bisogno dovrebbe essere, infatti, anche una rottura nel linguaggio. E non già, come si capisce, verso il basso, verso i tweet e gli hashtag, bensì verso l’alto, verso la dimensione in cui si esprimono per l’appunto quelle visioni generali nuove e audaci di cui abbiamo bisogno. Di cui ha bisogno in modo tutto speciale il Mezzogiorno.

L’inizio del cui declino attuale coincide con l’inizio della crisi che dagli anni Novanta del secolo scorso - combinando elementi nazionali e internazionali, assommando il post-sessantottismo ai più vari diktat dell’Europa di Bruxelles - va disintegrando lo Stato italiano storico, formatosi con il Risorgimento e durato fin verso la fine della Prima Repubblica. È la crisi che da oltre un ventennio va mangiandosi tutte le strutture amministrative del nostro vecchio Stato, tutti i suoi abituali ambiti d’azione di un tempo (dall’istruzione al controllo sugli enti locali, alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico), per effetto del trionfo delle retoriche (e delle prassi) decentralizzatrici, sindacal-partecipative, democraticistiche, antimeritocratiche. È la crisi che ha inghiottito anche tutte le culture politiche del Novecento italiano, tutte le loro premesse storico-ideali, nonché naturalmente tutti i partiti che esse avevano prodotto. Ed è infine la crisi che ha spinto ad accettare il dogma della privatizzazione, l’«andare sul mercato», di quasi tutte le reti nazionali di servizi (dalla rete ferroviaria e delle stazioni, alle Poste, agli aeroporti, alle autostrade) con il loro crollo qualitativo per il pubblico indifferenziato e il loro riorientamento classista a favore di chi può spendere; che ha spinto a considerare inammissibile qualunque ruolo sociale o economico diretto dello Stato, o quasi.

È in tutti questi modi che nell’ultimo venticinquennio quello che ho chiamato lo Stato italiano classico è andato decomponendosi.

Ora, il problema del Mezzogiorno, la «questione meridionale», era precisamente la questione di quello Stato, la principale sfida alla sua esistenza, il massimo dei suoi problemi storici, a cominciare da quello del consenso. E infatti fino a venticinque anni fa, fin quando quello Stato è esistito, il Mezzogiorno è stato sempre sentito dalle classi dirigenti italiane come un ineludibile banco di prova. Dalle classi dirigenti e, si può ben dire, dall’intera cultura storica e politica nazionale; la quale ha sempre considerato necessario per il progresso del Mezzogiorno due cose: da un lato l’apertura di un forte conflitto sociale e politico all’interno della stessa società meridionale (condizione resa a suo tempo finalmente possibile dall’avvento della democrazia repubblicana), dall’altro l’intervento deciso in tale conflitto di un attore esterno a fianco dei «buoni» contro i «cattivi»: fossero gli operai del Nord alleati immaginari dei contadini del Sud, fosse un’altrettanto immaginaria piccola imprenditoria antinotabilare, ma alla fine sempre e soprattutto lo Stato. Lo Stato i cui protagonisti politici del Novecento, in un modo o nell’altro, non a caso ebbero tutti dietro quella cultura storica e politica che ho appena detto: Mussolini il meridionalismo vociano e nittiano, il popolare trentino De Gasperi l’ispirazione del siciliano Sturzo, il comunista piemontese Togliatti la lezione del sardo Antonio Gramsci.

Il Mezzogiorno è precipitato nell’irrilevanza, si è avvitato nella decrescita, è scomparso come «questione», nel momento in cui si è dissolto questo complesso nodo storico al cui centro c’era lo Stato nazionale italiano: perché innanzi tutto si è dissolto questo Stato e per effetto di una tale dissoluzione.

Ho però l’impressione che per tutti questi discorsi il nostro presidente del Consiglio non abbia molto interesse. Che sia assai lontana dal suo pensiero l’idea che per raddrizzare le sorti del Mezzogiorno la prima cosa da fare sia, come io invece credo, riprendere in mano, ricostruire, dove occorra accrescere, la macchina dello Stato, ristabilire il significato culturale e politico dei suoi tradizionali ambiti d’azione, la sua efficienza, la sua capacità di controllo e d’intervento capillare, anche la sua forza repressiva. A Matteo Renzi, piace di più immaginare che costruire l’Alta Velocità fino a Reggio Calabria, questo sì cambierà le cose (ma perché non le ha cambiate la costruzione dell’autostrada? Perché?). Ai miei occhi è la prova che di quella parte del Paese che governa egli non conosce molto, forse non l’ha mai neppure troppo frequentata. Se avesse visto di persona, infatti, anche una sola volta, come gli abitanti e le autorità dell’intera costa che da Maratea va fino a Pizzo hanno ridotto quei luoghi, gli sarebbe venuto almeno il sospetto, sono sicuro, che il suo Frecciarossa non servirà assolutamente a nulla.

9 agosto 2015 (modifica il 9 agosto 2015 | 09:14)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_09/parole-sud-che-nessuno-dice-serve-rottura-a22c41f4-3e5d-11e5-9ebf-dac2328c7227.shtml
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« Risposta #243 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:57:14 pm »

Le urla inutili sui migranti
Quando impreca contro l’«invasione» la Destra italiana sembra fare di tutto per dimostrare il suo vuoto politico. Prima di impartire lezioni così aspre la Chiesa dovrebbe invece essere sicura di avere sempre evitato calcoli e silenzi prudenti

Di Ernesto Galli della Loggia

Quando impreca contro «l’invasione degli immigrati» la Destra italiana sembra fare di tutto per dimostrare che la sua cifra essenziale resta il vuoto politico, l’inesistenza di idee e di programmi. A cui essa supplisce con appelli all’emotività, con il dar voce crudamente a «ciò che pensa la gente». Il che può anche essere giusto, ma cessa completamente di esserlo quando poi ci si guarda bene — come essa per l’appunto si guarda bene — dall’offrire ai sentimenti e alle opinioni suddetti la minima soluzione sensata, qualunque sbocco che non sia un no cieco, il chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Che cosa propone di fare Matteo Salvini, ad esempio, quando l’Sos di una zattera di disperati semisommersa dalle onde arriva a un nostro centro radio? Ce lo dica: in concreto non a chiacchiere, che cosa si dovrebbe fare? Lasciarli affogare e chiuderla lì? Magari speronarli per fare prima? E una volta raccolti dove li si porta? «Indietro»: indietro dove? Sulle coste libiche che sono terra di nessuno? per sbarcare sulle quali ci vuole un’operazione militare in piena regola, magari da replicare dieci volte a settimana? È questo che propone Salvini?

Anche l’altra panacea sempre evocata dal capo leghista e dai suoi — «aiutarli a casa loro» — sembra alquanto nebulosa. I migranti arrivano da territori vastissimi, alcuni in stato di guerra. Che cosa si suggerisce di fare? Di dare alcuni milioni di euro ai più truci governi e poteri locali perché ci facciano il piacere di trattenerli? Di impiantare (così, senza essere invitati?) in quelle immense contrade (dal Corno d’Africa al Golfo di Guinea: milioni di chilometri quadrati) uno, due, cento Centri di qualcosa per cercare di dissuadere chi se ne vuole andare dal farlo?
Ma come, concretamente? Servendosi di quali e quanti mezzi? Un tale balbettio non vede coinvolta però solo la Destra leghista e parte di Forza Italia. Sul tema dell’immigrazione Beppe Grillo, infatti, pensa e parla esattamente come Salvini. Quel balbettio esprime dunque una più vasta diseducazione politica di una parte importante del Paese. Che non ama soffermarsi a riflettere su alcun problema in termini di soluzioni possibili, di modi realistici per attenuarne le conseguenze negative, ma la fa sempre facile, proponendo rimedi immaginari che esistono solo nella sua testa. E ogni volta sembra interessato solo a trovare un nemico contro cui scagliarsi.

È un’idea della politica autoreferenziale, ciecamente legata a quello che essa crede il proprio tornaconto, interessata solo alle contrapposizioni plateali. Quella politica, per l’appunto, che ha autorizzato il segretario della Conferenze episcopale italiana, monsignor Galantino, a definirne gli esponenti «piazzisti da quattro soldi che pur di raccattare voti dicono cose straordinariamente insulse». Vero. Ma forse per impartire lezioni così aspre bisognerebbe anche essere assolutamente sicuri di parlare in nome di un’ispirazione e di una prassi politiche del tutto scevre di calcoli e di silenzi prudenti, improntate solo alla verità e all’equità. In specie su un tema come quello dell’immigrazione, che per sua natura vede in gioco una molteplicità di cause e di attori, e quindi di responsabilità. E invece mi sembra di non aver mai sentito una coscienza pur necessariamente universale, come quella cui dà voce monsignor Galantino, esprimersi sul conto dei governi dei Paesi africani, ad esempio, con lo stesso piglio ultimativo, con lo stesso tono moralmente deprecatorio usati ogni giorno nei confronti dei governi dei Paesi europei. Eppure, se da un punto di vista cattolico questi ultimi appaiono colpevoli di uno scarso spirito di accoglienza, non hanno forse molte colpe e responsabilità anche i governi dei Paesi africani da cui proviene una così larga massa degli immigrati?
Si tratta troppo spesso di governi nelle mani di personalità inadeguate, di cricche tribali, di militari violenti e guerrafondai, tutti di solito volti ad arricchirsi mettendo le mani su ogni risorsa possibile a cominciare dagli aiuti internazionali, del tutto disinteressati a migliorare le condizioni dei propri cittadini, perlopiù oppressive e violente talora in modo inaudito.

Credo bene che ci sia chi voglia o debba fuggire via! Ma se è così, non crede forse monsignor Galantino che governi del genere meritino una rampogna aspra e insistita perlomeno analoga a quella riservata ai governi, ai politici e alle opinioni pubbliche occidentali? Una rampogna che però, come dicevo, non mi sembra di avere mai udita.
Cercare di mettere la discussione sul terreno delle cose da fare, delle misure concrete e possibili, delle ragionevoli strategie di medio e lungo periodo da adottare: questo è ciò che a proposito del fenomeno migratorio ci serve. Unicamente e urgentemente questo. La Grecia insegna che i voti acquistati con la demagogia sono voti avvelenati. Ma neppure bastano i precetti morali, sia pure i più nobili, a governare le difficili cose di questo mondo.

12 agosto 2015 (modifica il 12 agosto 2015 | 09:19)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_agosto_12/urla-inutili-migranti-fbed6136-40b1-11e5-a6d2-d8f2ee303642.shtml
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« Risposta #244 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:24:07 pm »

Sovranità nazionali
L’Europa che Merkel non vuole

Di Ernesto Galli della Loggia

Che la cancelliera Merkel e il ministro Schäuble abbiano ieri caldamente invitato il Parlamento tedesco a dare il via libera al prestito europeo (con partecipazione del Fondo monetario) alla Grecia di 86 miliardi di euro non sorprende certo. Così come non sorprende che, salvo qualche defezione, il Bundenstag abbia dato loro retta votando in conformità. Infatti, dopo settimane di dure trattative nelle quali il governo Tsipras, messo con le spalle al muro, si era alla fine detto disposto ad accettare il programma di radicali riforme interne richiesto per la concessione del prestito dai vertici europei (ma specialmente da Berlino), un no tedesco sarebbe apparso non solo incomprensibile economicamente (anche perché perlopiù i soldi in questione non andranno affatto nelle tasche dei greci bensì da queste passeranno immediatamente in quelle dei loro creditori; come nel primo salvataggio, di cui hanno beneficiato proprio istituti tedeschi).
Un no tedesco sarebbe apparso soprattutto politicamente autolesionistico, dal momento che avrebbe aperto una crisi profonda dagli esiti incerti nell’intera Unione Europea, mettendo dunque radicalmente in forse la leadership che in tutta la vicenda greca ha esercitato abilmente la Germania, alternando minacce e spirito di conciliazione.

Una Germania, peraltro - non si può fare a meno di osservare - che è subito passata per così dire all’incasso. È proprio di queste ore, infatti, la notizia della ratifica del passaggio di 14 aeroporti greci tra i più redditizi, per l’appunto, alla società tedesca Fraport. Si tratta di aeroporti che il governo greco è stato obbligato a privatizzare per adempiere alle richieste dei suoi creditori europei e in omaggio alle regole europee ostili in linea di massima alla proprietà pubblica di attività economiche. Ma anche qui non si può tacere sulla bizzarria di una privatizzazione imposta ad Atene, che alla fine però torna a vantaggio non già di una qualche impresa privata, come sarebbe stato logico attendersi, bensì di una società pubblica quale è precisamente la suddetta Fraport, la cui maggioranza azionaria si dà il caso che sia nelle mani del governo dell’Assia e della città di Francoforte. Evidentemente un’impresa pubblica greca è una cosa, ma se la stessa pur restando sempre pubblica è tedesca, allora è una cosa tutta diversa.
Così dunque funziona il governo delle regole all’interno della Ue, sulle quali la Germania sta costruendo da tempo la sua incisiva guida nell’ambito dell’Unione (e forse anche qualcosa d’altro).

Peccato che si tratti di una guida politicamente sterile, destinata a non far fare alcun vero salto avanti all’Unione, ma semmai ad accrescere il discredito già forte, di cui questa oggi già gode in parti considerevoli delle opinioni pubbliche. Le regole di cui la Germania si fa incessante paladina, infatti, sono regole che riguardano unicamente i dati economici e le politiche economiche rigidamente intese. Ma proprio perché fondata su tali parametri, sulle regole e sui relativi trattati, la leadership tedesca si iscrive tutta in una prospettiva di processualità: come del resto era quella di cui l’euro avrebbe dovuto essere al centro quando si sperava che esso avrebbe magicamente prodotto la transizione dall’unione economico finanziaria a quella politica.
Oggi sappiano che era una speranza fallace. Perché il vero problema dell’Unione, il salto necessario - quello che deciderà della sua vita o della sua morte - ha una natura radicalmente politica e insieme istituzionale. Non si iscrive in alcuna processualità economica, ma al contrario esige una rottura. Non richiede alcuna applicazione di regole già in vigore, ma la creazione di regole nuove e altre. Alla politica si arriva solo dalla politica.

Ma da questo orecchio Berlino non ci sente, così come neppure la sua voce si sente (al pari di quella di tutte le altre capitali, bisogna onestamente aggiungere). Si capisce perché. Per essere tale il salto politico in questione, infatti, non può che porre in modo esplicito il problema cruciale della sovranità: di una cessione eguale e concordata di sovranità da parte dei vari Stati nazionali. Che però avrebbe l’effetto assai probabile, con l’entrata in gioco di fattori inediti, di ricombinare in modo nuovo e imprevedibile gli attuali rapporti di forza che vedono la Germania favorita: esponendola quindi ad un eventuale ridimensionamento di rango. Mentre finché si sta sul terreno dell’euro e dell’economia il suo dominio è assicurato. Anche se si tratterà sempre di un dominio contabile, da ufficio di ragioneria: nulla a che fare con quell’egemonia generosa, coraggiosamente ideale, a cui solo una grande visione politica può dare vita.

20 agosto 2015 (modifica il 20 agosto 2015 | 07:23)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_20/europa-che-merkel-non-vuole-eaf01ce6-46f8-11e5-aa5e-2130add6a46c.shtml
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« Risposta #245 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:58:02 pm »

Vincoli e debolezze che ci paralizzano

Di Ernesto Galli della Loggia

Si susseguono sullo scenario italiano ed europeo, per non dire mondiale, i segnali di crisi riguardanti assetti complessivi delicatissimi. Equilibri che credevamo in qualche modo stabili, dapprima lentamente, e poi con un moto progressivamente accelerato, hanno cominciato ad alterarsi e sembrano avvicinarsi tutti, in un modo o nell’altro, a un punto di rottura. Ne cito quattro che mi sembrano i più importanti.
 1) La migrazione di masse umane sempre maggiori verso i Paesi più o meno sviluppati del Pianeta (non si tratta solo di quelli dell’emisfero Nord: è coinvolta anche l’Australia, e questo è noto, ma pure un Paese come il Sudafrica). I dati sono ormai conosciuti e impressionanti: basti dire che si prevede che quest’anno le richieste di asilo raggiungeranno nella sola Germania la cifra di 800 mila.
2) La «tempesta demografica perfetta», come è stata definita, che si sta abbattendo sull’Europa sotto i nostri occhi perlopiù indifferenti. Nell’Ue - dove la Germania detiene il record della più bassa natalità mondiale: 8,2 nascite ogni 1.000 abitanti - per ogni donna vedono la luce appena 1,55 bambini. Ai ritmi attuali, per dirne una, in Spagna ogni nuova generazione conterà in futuro un numero di individui inferiore del 40 per cento rispetto a quella precedente.
3) Le trasformazioni climatiche e, spesso connesso a queste, il degrado ambientale, fenomeno particolarmente grave in Italia; più in concreto: inquinamento, cementificazione del territorio, deforestazione selvaggia, dissesto geologico, esaurimento delle risorse idriche, crescita esponenziale dei rifiuti.
4) Infine, i mutamenti radicali nell’ambito del lavoro. È pressoché certo che
i nostri sistemi economici stanno andando verso un’incapacità strutturale di assorbire l’offerta di lavoro disponibile. La robotica applicata ai processi industriali e la telematica sempre più diffusa nel settore dell’impiego e dei servizi stanno eliminando un numero alto e crescente di posti di lavoro, destinati per chissà quanto tempo a restare scoperti. È facile immaginare le conseguenze politiche ma anche economiche (ad esempio, sulla domanda complessiva) di un fenomeno del genere. Ecco dunque quattro scenari che definiscono il tempo avvenire, ma già assai prossimo a noi, come un tempo di crisi destinato prevedibilmente a rappresentare un vero e proprio salto di epoca storica. A fronteggiare il quale in prima fila saranno chiamate le nostre società e i loro regimi politici. È allora naturale chiedersi fino a che punto tali regimi siano attrezzati per tentare di assolvere un simile compito.

La sola domanda sembra già contenere una risposta negativa. Nella nostra vita politica (un po’ di tutti i regimi democratici, non parliamo poi dell’Italia) manca, infatti, qualsiasi istanza, qualsiasi organismo deputato a riflettere, prevedere e magari programmare qualcosa sui tempi medio-lunghi. Le democrazie europee vivono giorno per giorno. I loro esponenti, alle prese con scadenze elettorali più o meno continue e ravvicinate, possono pensare solo a quanto succederà fino a quel giorno. Al futuro ci penserà il prossimo governo.

Si vede qui quanto pesi il vincolo del consenso. Infatti, anche se ci fosse l’attenzione (che invece non c’è) per le avvisaglie di crisi epocale a cui ho accennato sopra, le misure eventualmente volte a farvi fronte per tempo - implicando problemi molto complessi e di lungo periodo che presumibilmente richiedono grandi investimenti di risorse che tuttavia non recano vantaggio ad alcun interesse organizzato qui e ora - ben difficilmente avrebbero mai la possibilità di entrare nell’agenda di un qualunque governo. Non solo, ma il vincolo del consenso proprio della democrazia agisce ancora in un altro modo, forse ancora più paralizzante, nell’ostacolare la capacità da parte delle nostre società di affrontare le questioni critiche che ci stanno davanti. In parte notevole, infatti, tali questioni implicano valori e comportamenti eminentemente individuali (per esempio, nel caso della fertilità come del consumo selvaggio di suolo o di risorse naturali) che dovrebbero dunque mutare in misura significativa. Ma può proprio la democrazia - la quale nella nostra versione liberale è ormai identificata con una sempre più autonoma manifestazione della soggettività - sperare di riuscire a influire in senso prescrittivo sul modo d’essere e d’agire dei singoli? E con quali strumenti?

In realtà nulla come gli scenari di crisi che incombono sul nostro futuro prossimo - richiedendo un impegno arduo di tutti, di lunga lena e di scarsissimo appagamento nell’immediato - mettono in luce due gravi punti deboli del regime politico e della società in cui viviamo. Il primo consiste nell’assenza di un sentimento collettivo di appartenenza e di destino, riferito a un ethos condiviso dai più. Quel sentimento e quell’ ethos che un tempo avevano la loro premessa tipica nella fede religiosa o nel patriottismo: due cose che i grandi padri della democrazia hanno sempre ritenuto in qualche modo essenziali per l’esistenza di questa, per la sua capacità di affrontare i compiti più difficili, di riconoscersi in un’impresa comune. Due cose che però la secolarizzazione individual-cosmopolita ormai dominante non ha sostituito con niente di analogo valore.

La seconda cosa che ci manca - che manca al sistema politico delle nostre democrazie - è l’esistenza di una sorta di «potere neutro», cioè di un potere designato sì, ma non solo per via politica, e indipendente dal meccanismo e dalle scadenze del consenso elettorale (sul tipo per intenderci della Corte suprema americana: fondamentale è la durata a vita dell’incarico). Il quale grazie al prestigio riconosciutogli fosse in grado di svolgere non solo una funzione forte di orientamento sull’opinione pubblica, ma per esempio avesse anche il potere d’imporre argomenti specifici nell’agenda degli organi deliberativi (non solo di quelli centrali ma anche di quelli locali) ovvero, a certe condizioni, di sospendere l’iter deliberativo degli organi suddetti in attesa di maggiori approfondimenti.

Disgraziatamente è arcisicuro che invece le nostre democrazie resteranno quelle che sono. E si avvieranno a occhi bendati, come oggi stanno facendo, verso le tenebre del futuro.

31 agosto 2015 (modifica il 31 agosto 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_31/vincoli-debolezze-che-ci-paralizzano-bc2abbec-4f9e-11e5-8a95-dfd606371653.shtml
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« Risposta #246 inserito:: Settembre 08, 2015, 04:38:46 pm »

Questione migranti
La memoria tedesca e la svolta di Angela Merkel

Di Ernesto Galli della Loggia

L a cancelliera Merkel non è una reincarnazione tedesca del dottor Jekyll e Mister Hyde: una santa donna o un’inflessibile virago a seconda che si tratti di aprire le porte ai rifugiati del Medio Oriente o di chiedere i conti a quegli scialacquatori di greci. Essa è l’attento e intelligente capo politico di un grande Paese che ha interessi, ambizioni, progetti. Che soprattutto ha una forte consapevolezza di sé e del proprio ruolo, insieme però a lunga memoria della propria storia. Una lunga, indelebile, memoria. Quella fotografia del bimbo siriano riverso senza vita sulla riva turca deve aver ricordato immediatamente alla cancelliera quella di un altro bambino, questa volta ebreo, ripreso tra le fiamme del ghetto di Varsavia, nel 1942, con le mani alzate in un patetico segno di resa alla ferocia della soldataglia nazista. Merkel ha capito che quell’immagine, e poi l’immagine di quelle colonne di disperati in fuga tra fili spinati e vagoni piombati, e poi ancora quella della loro corsa verso la terra promessa di un’irraggiungibile Germania, stavano sul punto di coinvolgere pericolosamente il suo Paese in una sorta di remake storico di una violenza simbolica insopportabile. Forse ha anche ricordato, lei figlia della Ddr comunista, di quando i suoi concittadini cominciarono a segnare la fine del regime recandosi a migliaia sotto le mentite spoglie di turisti proprio a Budapest, dove si accamparono sotto l’ambasciata della Bundesrepublik per chiedere un visto d’ingresso verso la libertà. Ancora drammatici ricordi insomma. Ancora ciò che stava accadendo minacciava di mettere in gioco non tanto l’immagine dell’Europa quanto, per una singolare logica del contrappasso, quello della Germania. Era sul punto di tramutarsi in un boomerang contro Berlino e il suo governo: i politici di rango certe cose le capiscono in un attimo. Per istinto. E agiscono.

Ecco allora che con un colpo a sorpresa la cancelliera ha deciso di aprire ai disperati le porte del suo Paese. Con un gesto che in qualche modo è la prosecuzione emblematica di quello compiuto nel dicembre del 1970 da Willy Brandt, quando s’inginocchiò a Varsavia davanti al memoriale delle vittime del ghetto. Con un gesto che per l’appunto chiude il cerchio: dopo il perdono chiesto allora agli ebrei, alle sue vittime per antonomasia, la Germania oggi addirittura apre le braccia ai reietti della terra, diviene lei una novella Sion per i nuovi perseguitati.
Ottenendo peraltro con ciò un enorme guadagno politico: e anche questo, io credo, la cancelliera deve averlo subito intuito. D’un tratto, infatti, Il Paese che nell’ambito dell’Unione Europea è stato considerato da sempre come attento soprattutto al rigore finanziario e ai suoi interessi economici, il Paese che da sempre ha avuto il problema di trasferire la sua potenza produttiva in un rango politico corrispondente, che ha incontrato una costante difficoltà a far riconoscere ed accettare la propria leadership, è divenuto l’indiscussa guida del continente. E lo è divenuto grazie all’esibizione di un’alta ispirazione morale: capace di costringere l’Inghilterra di Cameron, così tradizionalmente gelosa della sua diversità, ad adeguarsi benché solo in parte, precipitosamente; d’indurre il patetico Hollande a immaginare di infliggere improbabilissimi sfracelli militari alla Siria di Assad pur di far vedere che la Francia ancora esiste.

È difficile dire, però, se tutto questo segna davvero un nuovo inizio. È difficile prevedere, infatti, se Merkel e l’élite tedesca (una democrazia non è governata certo da una persona sola) saranno in grado di far seguire alla svolta clamorosa dell’altro giorno e al risultato ricavatone una conseguente linea d’azione eticamente orientata e al tempo stesso condivisa sul piano interno e su quello internazionale. Specialmente in ragione di un elemento decisivo e drammatico che domina l’intero scenario della migrazione in atto verso il nostro continente: la sua imprevedibilità quantitativa. Con quanti migranti deve prepararsi a fare i conti l’Europa? Decine di migliaia? Centinaia? Milioni? Nessuno può dirlo.
Quello che possiamo dire con sicurezza, però, è che non esiste al mondo decisione politica riguardante un qualunque fenomeno, la quale possa essere indifferente all’entità quantitativa del fenomeno stesso, praticabile cioè qualunque sia l’entità di questo. Inevitabilmente, insomma, ogni decisione politica è, e sarà sempre, soggetta alla valutazione di tale circostanza: dal momento che a dispetto di ogni miglior proposito l’etica della convinzione continua ad essere cosa ben diversa dall’etica della responsabilità.

7 settembre 2015 (modifica il 7 settembre 2015 | 07:35)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_07/memoria-tedesca-svolta-angela-merkel-83249d62-5521-11e5-b550-2d0dfde7eae0.shtml
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« Risposta #247 inserito:: Settembre 15, 2015, 04:24:13 pm »

La Destra che l’Italia non ha

Di Ernesto Galli della Loggia

Sulla Destra italiana il ventennio berlusconiano ha agito come una droga. L’ha euforizzata con successi insperati, le ha fatto credere di essere sulla cresta dell’onda, che ormai il futuro era suo: per poi lasciarla stremata e a pezzi come appunto appare oggi. Ma in realtà la colpa di Berlusconi è stata quella dell’illusionista, nulla di più. In Italia, infatti, il problema di una Destra che non c’è, della sua inesistente identità politica, c’è da ben prima di lui: solo che è rimasto nascosto finora dall’assoluta egemonia della Democrazia cristiana prima, e poi da quella altrettanto assoluta del Cavaliere. Svanite entrambe, ora esso ritorna.

Nella sostanza il problema della Destra italiana, io credo, è il problema della difficoltà che incontrano nel nostro Paese un’antropologia e una cultura politica conservatrici, analoghe cioè a quelle che più o meno caratterizzano in Europa le Destre di governo. Non tragga in inganno l’apparenza. È vero infatti che in larga maggioranza la società italiana appare conservatrice. È vero che è diffidente delle novità, non ama i cambiamenti sostanziali, le svolte di alcun tipo; che è una società di antico e consolidato pessimismo, innestato su un fondo smaliziato fino al cinismo. Ma il suo - questo è il punto - è un conservatorismo nullista, solo negativo: inutilizzabile politicamente se non per bloccare i riformatori e i progressisti, per fermare la Sinistra. Serve magari a evitare i salti nel buio, come nel ‘48, ma tutto finisce lì. Quello spontaneo della società italiana è un conservatorismo senza ambizioni, senza progetto, senz’alcun orizzonte istituzionale vero, sul quale è impossibile costruire nulla, o è possibile costruire tutto: perfino il sovversivismo fascista o le fortune di un governo che si vuole di sinistra.

Ma un moderno conservatorismo politico è altra cosa. Innanzi tutto è liberale. Cioè in economia è contro ogni strettoia corporativa o monopolistica a vantaggio di gruppi privilegiati e interessi protetti, senza per ciò essere sempre e comunque contro l’intervento pubblico. Ideologicamente, poi, esso dovrebbe essere interessato soprattutto a promuovere e difendere la diversità delle opinioni. Cercando altresì di essere culturalmente anticonformista e quindi simpatizzando con le minoranze e il loro punto di vista: sicché oggi, per esempio, diffiderà dello scientismo e dell’idolatria tecnologica imperanti, così come del pregiudizio egemone secondo cui ogni desiderio soggettivo può diventare un diritto. E si asterrà, naturalmente, dall’omaggio universale a tutte le idee, le mode e le «diversità» politicamente corrette.

Proprio l’anticonformismo culturale e la simpatia per le posizioni di minoranza spingono un liberalismo così inteso a stare in guardia verso l’attuale modernità trionfatrice e travolgente dovunque: e proprio per questo a orientarsi in senso conservatore. Il che oggi vuol dire mostrarsi attenti alla tradizione, cauti nel disfarsene sempre e comunque secondo quanto invece comandano i tempi. Mostrarsi attenti, per esempio, a non indulgere a un certo materialismo e ateismo di maniera, e invece a considerare cosa preziosa il retaggio giudaico-cristiano iscritto nei nostri costumi e nelle nostre istituzioni; attenti, ancora, a non stravolgere la scuola, la trasmissione culturale - come invece accade da decenni - sotto una valanga di innovazioni dei programmi una più sciocca e inutile dell’altra, di rilassatezza disciplinare e di democraticismi distruttivi. Avere un orientamento conservatore significa anche, infine, voler conservare l’orizzonte entro cui si è nati, custodire per le generazioni future i paesaggi, i luoghi, i tesori d’arte, che il passato ci ha trasmesso.

Detto tutto ciò rimane però il punto fondamentale: in Italia una vera cultura politica conservatrice non può che essere soprattutto una cultura orientata allo Stato: allo Stato come garante da un lato dell’interesse generale (che alla fine è sempre l’interesse dei più deboli), e dall’altro dell’obbligo dell’adempimento da parte di tutti dei doveri verso questo interesse: tanto per cominciare pagando le tasse. Tutela dell’interesse generale significa pure cercare di assicurare la snellezza e la chiarezza delle normative, l’imparzialità delle procedure amministrative, le competenze delle burocrazie, premiare il merito anziché i raccomandati, non lasciare la porta aperta agli sperperi o al furto del pubblico denaro.

E significa da ultimo prendersi cura della macchina dello Stato, delle sue articolazioni al centro e specialmente alla periferia, mantenendone le capacità di controllo sul territorio attraverso le prefetture, le sedi della Banca d’Italia, le intendenze di Finanza, le sovrintendenze alla tutela dei Beni culturali, eccetera. Dal momento che in Italia, bisogna convincersene, la rinuncia a questa funzione dello Stato non innesca quasi mai una benefica esplosione degli animal spirits della società civile, bensì quasi sempre quella dei porci comodi della medesima, sotto l’egida delle oligarchie locali quando non della malavita organizzata.

Tutto questo corrisponde a quella cosa che si chiama autorità e sovranità dello Stato, le quali a una qualunque Destra dovrebbero forse stare a cuore; e che - c’è bisogno di dirlo? - fanno tutt’uno con l’idea di sovranità nazionale. Anche questa un’idea oggi abbastanza desueta ma che, sentendo l’aria che tira in Europa, è stata forse messa da parte un po’ troppo affrettatamente.

Lascio giudicare ai lettori se la Destra italiana si sia mostrata capace di essere conservatrice nel modo che si è fin qui detto. A me pare di no, assolutamente di no. Per lo più infatti essa appare tuttora la pedissequa rappresentante della pancia di un elettorato confusamente prepolitico, custode di interessi settoriali, modernista o reazionario secondo le convenienze. Si può capire la Lega, la quale punta al tanto peggio tanto meglio e non si considera certo forza di governo. Il problema sono tutti gli altri. E negli altri regna l’assenza di qualunque cultura politica strutturata in grado di dar vita a una discussione vera, a un tentativo di bilancio, a uno straccio di ipotesi sul futuro. Nulla. Tutti sembrano sperare solo nella resurrezione di Lazzaro Berlusconi o nelle risorse trasformistiche proprie unite a quelle del Pd: in realtà due speranze entrambe pallidissime. Così la Destra italiana si avvia a diventare politicamente il proprio fantasma: qualcuno, ogni tanto, riferisce di averla avvistata in un talk show televisivo.

15 settembre 2015 (modifica il 15 settembre 2015 | 07:07)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_15/destra-che-italia-non-ha-a69fd9ea-5b62-11e5-8007-cd149b0f5512.shtml
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« Risposta #248 inserito:: Settembre 22, 2015, 06:34:20 pm »

Stranieri e diritti
Le libertà che l’Europa assicura

Di Ernesto Galli della Loggia

Se è vero che il fenomeno della migrazione politico-economica che si sta rovesciando sull’Europa è un fenomeno di gigantesche proporzioni storiche, epocale come si dice, allora è quasi certo che la percezione complessiva che ne abbiamo non corrisponde alla realtà alla quale esso darà luogo quando si sarà definitivamente assestato. Oggi, insomma, esso ci appare una cosa diversa da quella che risulterà nei fatti, diciamo tra mezzo secolo. Per una semplice ragione, anzi due: che i fenomeni sociali evolvono in modo relativamente prevedibile nel breve-medio periodo ma in modo assolutamente imprevedibile su quello medio-lungo; e in secondo luogo perché il nostro sguardo e il nostro cervello sono, diciamo così, tarati per vedere da vicino o relativamente da vicino, non a distanza di decenni. Del futuro ci facciamo il più delle volte un’idea assai imprecisa; spessissimo sbagliata.
Possiamo allora provare a considerare quanto oggi sta accadendo in modi un po’ diversi da quelli che di solito ci viene fatto di adoperare (tra l’altro sempre sotto la pressione di una fortissima polemica ideologico-politica nella quale siamo inevitabilmente coinvolti).

Il primo modo diverso potrebbe essere questo. Lo spostamento di grandi masse perlopiù islamiche verso l’Europa è un riconoscimento inequivocabile delle conquiste realizzate dalla nostra civiltà. È una sorta di grande consultazione popolare realizzata con i piedi invece che con la scheda. C oloro che infatti fuggono dalla Siria, dall’Eritrea, dall’Afghanistan, dall’Iraq, non chiedono di stabilirsi in Turchia, non vogliono diventare ospiti permanenti della Giordania e del Libano che pure li accolgono di buon animo. Né pensano minimamente di cercare rifugio in Arabia Saudita o negli altri Stati del Golfo, tanto straripanti di ricchezza quando ferocemente discriminatori verso chiunque non abbia avuto la ventura di nascere entro i loro confini.

No. Pur essendo perlopiù musulmane quelle grandi masse umane non mostrano alcun desiderio di restare nella «Terra dell’Islam». Esse cercano l’Europa. Vogliono stabilirsi qui, tra i crociati e gli ebrei amici del Grande Satana. Perché? Perché qui sanno di poter trovare un po’ di benessere, almeno un minimo di assistenza sociale, ma soprattutto un quadro di protezione legale, di libertà. Qui, per quante traversie gli capiti di vivere, quelle persone non sono alla mercé del potere arbitrario e spesso crudele che salvo pochissime eccezioni domina nei Paesi islamici. Esistono dei giudici, in Europa.

Faremmo male, io credo, a sottovalutare il significato e le conseguenze di tutto questo, specie per quanto riguarda le seconde generazioni di chi oggi arriva tra noi. Per un giovane uomo che diventa un terrorista, dobbiamo chiederci, quante migliaia invece non lo diventano? E quante giovani donne, che a casa loro sarebbero rimaste delle analfabete sottomesse, decidono invece, dopo essere state nelle nostre scuole e aver visto la nostra televisione, di prendere in mano la propria esistenza e di non sottostare più all’antica autorità dei padri padroni?

Beninteso pur restando gli uni e le altre islamici. E siamo qui al secondo modo diverso in cui forse dovremmo guardare al fenomeno odierno dell’immigrazione, cercando di immaginarne gli effetti sui tempi lunghi.
Nel clima del suo nuovo radicamento in Europa che cosa ne sarà di questo Islam? Non è forse possibile pensare che esso conoscerà per esempio una profonda differenziazione interna, una pronunciata diversità rispetto a quello rimasto nelle sue aree originarie? E non è immaginabile che i contenuti di tale diversità, sviluppatasi sul terreno di un’inevitabile ibridazione con la nostra cultura, possano facilmente andare verso un maggiore orientamento allo spirito di razionalità, alla liberalità e alla tolleranza, verso un’inedita sobrietà di modi cultuali? Nulla è mai la stessa cosa dovunque, o dura immutabile. Così come già nel ‘600 il Cristianesimo di Amsterdam non era quello di Roma, ci fu anche un tempo in cui l’Islam di Cordoba o di Salonicco non era certo quello della Mecca.

Oggi, insomma, gli europei temono che l’arrivo di tanti stranieri possa mutare negativamente il proprio modo di vivere e di sentire. Con molta più ragione, mi pare, dovrebbero essere però questi stranieri, e in prima fila quelli provenienti dall’Islam, a temere circa la possibilità di mantenere inalterato alla lunga il loro patrimonio culturale. E infatti i fanatici del cosiddetto Stato Islamico se ne sono accorti, e hanno già lanciato la scomunica contro chi decide di emigrare.

Ma perché avvenga quanto ho ipotizzato, perché possano innescarsi i mutamenti di cui sopra, sono assolutamente necessarie due condizioni. Innanzi tutto che le società europee non si perdano dietro a un vuoto universalismo multiculturale, e quindi si mostrino ferme nel non abiurare la propria cultura e le proprie tradizioni; anche - per quanto possibile, e per quanto ciò possa apparire intollerabile al mainstream secolarista - la propria tradizione religiosa.

In secondo luogo è necessario che i governi e gli Stati siano egualmente fermi nell’esercitare le loro prerogative in materia di ordine pubblico e di giustizia.
Ciò richiede un oscuro impegno quotidiano, lo sappiamo: ed è difficile, costoso, spesso sgradevole, quasi sempre suscita le proteste indignate dei «buonisti» per partito preso. Ma è assolutamente necessario. Chi fa scempio con la massima indifferenza di un parco pubblico o gira abbigliato in modo improprio, o esprime propositi illegali, o vende merce contraffatta, va sanzionato sempre e senza esitazione. Altrimenti chi giunge tra noi avrà l’impressione di trovarsi non già in una società organizzata, con regole e principi suoi, attenta a tutelarli, non avrà l’impressione di trovarsi perciò a fare i conti con una cultura consistente e coerente con la quale il confronto è ineludibile; bensì crederà di essere capitato in un limbo sociale, in un nulla informe, in un non luogo senza norme e senza autostima. Dove quindi si può fare ed essere ciò che si vuole: naturalmente restando in tutto e per tutto quelli che si era prima.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 07:25)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_20/liberta-che-l-europa-assicura-4c6140e4-5f50-11e5-9125-903a7d481807.shtml
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« Risposta #249 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:43:45 pm »

Partiti e leader
L’ambigua ricerca delle élite
Cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare.
Ma con quale obiettivo?

Di Ernesto Galli della Loggia

La corsa dei parlamentari di destra e di centro ad abbandonare i loro schieramenti per andare a sinistra riproduce più o meno quanto sta avvenendo nella società italiana. È ormai da qualche tempo, infatti, che salvo rare eccezioni i vertici che contano, gli organismi significativi, tutte le voci influenti, vanno orientandosi in una sola direzione: quella di Matteo Renzi, o, se si può dir così, del renzismo. Non già verso il Pd, tanto meno verso la sinistra: verso il presidente del Consiglio. Si tratta di una rilevante differenza rispetto al passato più recente; anche se in qualche modo essa segna il ritorno a un modello antico della nostra storia nazionale. Dagli anni Ottanta in poi, un generico orientamento verso il centrosinistra, infatti, è stato sempre più largamente maggioritario nell’élite italiana. Il fenomeno era già evidentissimo nell’ultima fase della Prima Repubblica, sicché, divenuto il Pd l’erede di fatto di tutto quel sistema ideologico-partitico, nulla di più logico che fosse poi esso ad attrarre le maggiori simpatie. Simpatie che tuttavia si sono trovate a dover fare regolarmente i conti con le incertezze ideologiche e le nebulosità programmatiche di una base — esemplarmente rappresentata da un leader come Massimo D’Alema — immobilizzata tra nostalgie della «Ditta» e velleità di un mai meglio precisato «aggiornamento». Dall’altro canto, specie dopo la comparsa di Berlusconi, l’affiliazione al centrodestra dell’élite italiana non è stata certo insignificante.

Ma dal punto di vista dell’élite, alquanto circoscritta, direi: in pratica limitata agli ambienti economici e degli affari coinvolti nella sfera degli appalti e dei contratti pubblici, alle pur vaste cerchie interessate alle migliaia di nomine istituzionali, nonché a un certo mondo alto-burocratico. Per il resto sporadici fenomeni sostanzialmente di opportunismo, ma nulla di più. Renzi ha rotto questo schema. Mandato in soffitta il vecchio Pd e alzando l’insegna «Le cose da fare in questo Paese non sono né di destra né di sinistra, sono da fare e basta», egli sta rapidamente riunendo intorno alla propria persona tutta l’Italia del potere, tutta l’Italia che conta, proveniente dall’una o dall’altra precedente affiliazione. È il ritorno all’antico di cui dicevo sopra. La grande stabilizzazione politica italiana ha sempre funzionato in questo modo, infatti: intorno a un uomo, non intorno a un partito. E in primo luogo agglutinando intorno a quella persona la grande maggioranza dell’élite. Fu così fin dall’inizio con Cavour, poi con Crispi e Giolitti. E come il potere italiano fu assai più che fascista mussoliniano, così in seguito non fu certo democristiano bensì degasperiano, per concedere poi la propria fiducia ai due soli veri leader che la Dc ebbe dopo di lui, Fanfani e Andreotti. Ci provò a suo tempo anche Craxi, riuscendovi solo pochissimo e per brevissimo tempo. Berlusconi non c’ha neppure provato. È un fatto, mi pare, che nella nostra storia la classe dirigente, pur intrattenendo per antica tradizione un fortissimo rapporto con la politica, si è mostrata nel complesso quasi per nulla interessata, invece, a un qualsiasi rapporto con i partiti. Pronta ad appoggiarne i capi, ma anche a rapidamente abbandonarli.

Forse neppure la «Repubblica dei partiti» è mai stata realmente la Repubblica delle élite italiane: le quali infatti l’hanno lasciata colare a picco senza muovere un dito. Tutto sta a indicare, insomma, che specialmente per le classi dirigenti di questo Paese è stato sempre più facile trovare un raccordo stabile e fisiologico con la politica rappresentata da una persona piuttosto che da un partito. «Ma che male c’è?», si obietta; «Se le cose da fare non sono né di destra né di sinistra, non basta che ci sia una persona che le voglia e le sappia fare?». Questa obiezione esprime uno stato d’animo diffuso, dovuto all’immobilismo che da anni soffoca l’Italia, alla sensazione che in questo Paese da anni nulla si muova, e che tutto ciò ci stia uccidendo. È lo stato d’animo che gioca a favore dell’attivismo del nostro giovane presidente del Consiglio, giustificando il consenso personale che egli raccoglie.

Ma le cose non sono così semplici come possono apparire. Innanzi tutto, perché anche ammesso che le cose da fare non abbiano alcun colore partitico particolare, è difficile immaginare, però, che un tal colore non ce l’abbia neppure il modo di farle. Che per esempio vi sia un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di decidere un piano di investimenti pubblici, che una riforma scolastica o una politica circa l’immigrazione concepite dalla destra siano eguali a quelle concepite dalla sinistra. Le idee, insomma, fanno pur sempre la differenza. E quando si dice idee, si dice contenuti concreti, scale di valori, priorità, obiettivi: tutte cose che fino a prova contraria non solo in politica ma nella vita di una collettività contano. E che dividono, che giustamente, fisiologicamente, dividono. Si chiama democrazia: nella quale, per l’appunto, contano sì gli uomini, conta sì la capacità di comando e di realizzazione di un leader, ma dovrebbero necessariamente contare anche le idee.

Nel formarsi di un vasto seguito personale intorno a un capo non c’è nulla di male. Proprio la democrazia ha bisogno di leadership forti, e ne ha bisogno in modo particolare oggi l’Italia. È piuttosto la rapidità e l’unanimismo con cui un tal seguito si sta formando intorno a Renzi nelle aule del Parlamento e fuori, che suscita qualche perplessità. Se nel primo caso si tratta palesemente della non molto nobile speranza di salire sul carro del vincitore, e al momento giusto di trovare un posticino nelle liste elettorali, nel secondo sono soprattutto le élite del potere italiano che cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare. Ma con quale obiettivo, per quale fine? E vogliono davvero tutte la medesima cosa e nel medesimo modo? Nell’assenza di qualunque risposta, resta l’impressione di una sostanziale indifferenza rispetto ai contenuti: sulla quale l’evanescenza di ogni visione generale in cui ormai vive l’intero Paese, a cominciare proprio dalla politica, non manca di gettare una luce inevitabilmente ambigua.

27 settembre 2015 (modifica il 27 settembre 2015 | 07:10)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_27/partiti-leadership-ambigua-ricerca-elite-04eee334-64d1-11e5-b742-179fcf242c96.shtml
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« Risposta #250 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:19:34 pm »

I compiti della politica
La scomoda verità su Roma

Di Ernesto Galli della Loggia

Gli ultimi due sindaci di Roma sono stati forse i peggiori che la città abbia avuto. Per motivi differenti: il primo, Alemanno, per la sua contiguità con gli ambienti più torbidi del sottobosco squadristico-malavitoso dell’antico neofascismo cittadino nonché per la gestione spudoratamente clientelare delle aziende comunali affidata a personaggi dello stesso ambiente; il secondo, Marino, per la stolida insensibilità autoreferenziale dell’uomo, per la sua totale incapacità di pensare e fare le cose più necessarie.

Ma ora che questa lunga pagina sembra sul punto di chiudersi è giunto il momento di aprire il discorso più importante: quello sulla città, su che cosa è oggi Roma. Perché è da qui che il male comincia. È da ciò che la città è diventata negli ultimi due, tre decenni, che nasce il suo sfascio amministrativo ma prima ancora il degrado civile che lo ha generato.

Una città disarticolata spazialmente da un’informe crescita speculativa. Senza più un’élite riconosciuta e senza la sua plebe antica: perciò ormai senza più tradizioni e senz’anima. Dagli anni Settanta priva del fermento di vita e di idee assicuratole un tempo da quel numeroso ceto di artisti, di intellettuali, di giornalisti colti, di uomini e donne del cinema e del teatro che s’incontravano nelle sue trattorie, nelle gallerie d’arte, nelle librerie (luoghi ormai letteralmente inesistenti).

Una città dove perfino i salotti delle signore della prima Repubblica, che ambivano a un certo tono, hanno chiuso i battenti. Al loro posto una galassia di centri d’influenza e di coalizioni d’interessi: i quattro o cinque circoli del generone, le associazioni dei commercianti, le cooperative dei taxi, i costruttori, i gestori degli alberghi e dei ristoranti, i padroni dei bus turistici. Con il loro corredo di professionisti di fiducia, con i loro «presidenti»: gli uni e gli altri con i loro molti «amici» e «clienti», e quindi sempre con folti pacchetti di voti da distribuire alla politica di cui vivono a ridosso. Sono loro che ormai esprimono lo spirito maneggione, lo stile volgarmente confidenziale e un po’ sbracato della città, della quale sono ormai i veri padroni sociali. Sono loro che al pari di tante altre caste cittadine italiane da Milano a Firenze hanno deciso - svanita ogni illusione di sviluppo urbano diverso da una terziarizzazione selvaggia - che oltre la politica e i suoi favori, l’unico altro modo per fare soldi è sfruttare la città storica come una mucca da mungere. E dunque avanti, a Roma, con l’obiettivo di accrescere l’orda del turismo devastatore tra il Pantheon, il Colosseo e Trinità dei Monti.

Gare di appalti, contratti di consulenze, pratiche per licenze di ogni tipo, legano questa oligarchia all’amministrazione comunale: la più elefantiaca e la più fannullona d’Italia, blindata da una marea di sigle sindacali più o meno fasulle, abituate spudoratamente a fare il bello e il cattivo tempo ricattando sindaci e cittadini. Un’amministrazione comunale il cui vero simbolo è la «polizia di Roma Capitale», come si chiama ora, secondo la ridicola dizione voluta dal sindaco Alemanno. Il modo stesso d’indossare la divisa, il taglio dei capelli, l’approccio verbale malmostoso e sempre privo di garbo di vigili e vigilesse romane sono la raffigurazione esatta di una città insieme aggressiva e svogliata, sempre inappropriata e fuori dalle regole.

Anche la politica - è questa la vera, decisiva, novità dell’ultimo decennio - fa ormai parte a pieno titolo di questo degrado civile di Roma. Forse anzi, come farebbero pensare certe inchieste giudiziarie e non, ne è divenuto un oscuro motore nascosto. Assai più delle periferie è da tempo il centro della città la roccaforte del Pd, divenuto ormai il partito che piace alla gente che piace; e che conta. Perduta l’anima torinese-napoletana della sua lontana origine comunista, il Pd, come ha scritto esattamente Marco Damilano sull’Espresso, in forza dell’incontro Veltroni-Rutelli è nato romano, ed è stato al governo della città per un tempo lunghissimo. Appare quindi quasi una nemesi, che proprio Roma assista alla conferma più evidente della perdita da parte sua di ogni «diversità» d’antichissima memoria, con Marino che cade ignominiosamente per uno di quegli scandali a cui in un epoca remota sembravano destinati solo i «forchettoni» dc o, più vicino a noi, i bru-bru della variegata corte berlusconiana. La vicenda dell’ormai ex sindaco, insomma, non si libra isolata nel nulla: va letta come apologo della parabola di un intero partito, spesso - qui come in tanti altri luoghi - perdutosi nell’ingaglioffimento di quadri di nessuna educazione politica e di ancor minore tenuta morale, mossi solo dall’arrivismo e dalla sete di potere.

Ma attenzione a non fare del Pd e della politica un capro espiatorio. Proprio la vastità delle disfunzioni, delle inadeguatezze, dei mali di ogni tipo venute alla luce così clamorosamente negli ultimi due anni mostrano, lo ripeto, che a Roma c’è una realtà sociale diffusa che è guasta, che troppi gruppi sociali, troppi organismi, troppi ambienti, sono intimamente corrotti. In troppi sono abituati a non avere alcun senso civico, a non rispettare nessuna regola, a evadere tutto ciò che è possibile evadere, ad abusare di ogni possibilità di abuso. In un tale panorama sconsolante la politica trova un suo limite oggettivo: non si possono raddrizzare le gambe ai cani. Se non si vuole essere faziosi, il caso Marino mostra anche questo. Precisamente perciò potrebbe essere proprio la politica a cercare di riguadagnare l’onore perduto dando essa, una volta tanto, una lezione alla cosiddetta società civile. Facendo, per esempio, una cosa di cui in Italia si sta ormai perdendo quasi la nozione: si chiama esame di coscienza.

10 ottobre 2015 (modifica il 10 ottobre 2015 | 07:02)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_10/scomoda-verita-roma-marino-5a7e3778-6f08-11e5-98e3-5a49a4f4dd41.shtml
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« Risposta #251 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:02:19 pm »

Il partito che Renzi non ha

Di Ernesto Galli della Loggia

Matteo Renzi è alla ricerca di un partito. Sembra paradossale dirlo per uno che come si sa è il segretario del Pd, ma il fatto è, come è ben noto, che del suo partito egli ha un controllo abbastanza evanescente. Proiettato alla sua testa da un voto alle primarie in cui gli iscritti veri e propri erano certamente una decisa minoranza, e in cui si contavano perfino non pochi che non ne erano neanche elettori, Renzi oggi ne domina con fatica il centro, cioè i gruppi parlamentari; ma ben poco la periferia. Nel primo caso tutto certamente cambierà con le prossime elezioni, quando il segretario procederà alle inevitabili epurazioni da cui si salverà - se si salverà - solo un pugno dei suoi attuali avversari interni. Nelle periferie, invece, la regola perversa delle primarie aperte - che però Renzi non può cancellare essendo finora il suo unico e comunque massimo titolo di legittimazione - rende ogni volta la designazione del candidato sindaco un gioco di bussolotti. Oggi più che mai, dal momento che oggi, nelle periferie, il Partito democratico sta di fatto evaporando. Intendiamoci: gli iscritti, sia pure molto diminuiti rispetto al passato, restano. Un partito però non sono solo gli iscritti: è anche un luogo di elaborazione/ discussione di idee, è uno strumento per organizzare e gestire il conflitto sociale, e quindi uno strumento di selezione di quadri; è infine un canale di comunicazione dal centro verso la periferia e viceversa.

Ma c’è qualche traccia di questo partito, mi domando, nell’attuale realtà del Pd? Non mi sembra proprio. Dalle Alpi alla Sicilia la sua periferia si presenta come un insieme di feudi più o meno grandi in mano a capi locali virtualmente autonomi, di centri di potere di fatto indipendenti, di coalizioni decise ogni volta sul posto. O altrimenti di grandi spazi vuoti. La conseguenza è che sindaci renziani di qualche peso oggi, tranne a Firenze, non ne esistono. Né sembra facile trovarne qualcuno nei prossimi mesi per Roma, Napoli o Milano.

Può mai darsi però il caso di un partito che esiste solo al centro? E che poi, tra l’altro, al centro esiste soltanto nella persona del suo capo? La risposta è nelle cose. Nell’Italia di oggi esiste Renzi ma un Pd renziano, un Pd diciamo così modellato e ispirato dalle idee del presidente del Consiglio, non si vede proprio. Né mi sembra personalmente probabile che una simile creatura veda mai la luce. In un certo senso, infatti, il renzismo si identifica pienamente nella natura antipartitica/apartitica all’insegna della quale è nata la Seconda Repubblica, almeno per questo collocandosi in un’ideale prosecuzione con il berlusconismo. Con un’importante differenza però: che mentre nel Cavaliere quella natura anti e apartitica si rivestiva di toni antisistema e di un’arcaica vocalità antisinistra che erano decisivi nel mantenere in vita per contrapposizione la Sinistra stessa, dandole l’illusione di esistere, con Renzi ciò non avviene.

Con il presidente del Consiglio ogni tono contrappositivo viene meno (è riservato solo alla sua insignificante minoranza interna o alle frange antisistema reputate irrecuperabili, tipo i leghisti definiti «bestie»). I confini e le differenze di contenuto tra tutti i partiti - almeno quelli compresi in un arco che invece che costituzionale ora potremmo chiamare della «ragionevolezza operosa» - risultano virtualmente cancellati. È soprattutto virtualmente cancellata la distinzione fondativa di ogni sistema politico di tipo parlamentare: quella tra Destra e Sinistra, ancora ben viva all’epoca berlusconiana. Non a caso ciò avviene a opera di chi figura come leader della Sinistra. Infatti, se è sempre stata la Sinistra a definire che cosa è di destra e che cosa è di sinistra, non poteva che essere una voce titolata a parlare a nome della Sinistra stessa, ad averne in certo senso la rappresentanza, a dichiarare caduta di fatto la separazione tra i due campi. È in questo modo che la Seconda Repubblica, nata contro la Prima, accusata di essere una Repubblica dei partiti, grazie a Renzi porta a compimento il suo programma di una Repubblica senza partiti.

Esiste un contrasto che mi verrebbe da definire ontologico tra la personalità di Renzi e l’idea di partito, sicché è assai improbabile che possa mai esserci realmente un Partito democratico renziano. Un partito nasce e vive intorno a una scala di valori, a un’idea-messaggio forte, a una visione della storia del Paese entro la quale collocarsi. Implica il lungo periodo; e naturalmente il richiamarsi non al tutto ma a una parte, almeno in un qualche momento del suo discorso. Tutte cose, se non sbaglio, che non sono nel modo d’essere e di pensare e tanto meno nello stile del presidente del Consiglio. Alla personalità aperta, naturalmente ottimistica e superenergetica di Renzi, i tempi lunghi non dicono molto. Egli crede alle sfide che si vincono o si perdono sul tamburo. Al messaggio indirizzato alla sua parte anteporrà sempre l’arringa rivolta al pubblico, all’essere convincente il risultare simpatico. Quanto ai valori, quelli veri, gli sembrano forse cosa troppo importante per mischiarli pubblicamente con la politica: che alla fine, come sospetto, deve apparirgli solo una grande messa in scena.

Renzi non è fatto per la politica di partito. È fatto per governare. Lì il suo temperamento lo ha prepotentemente indirizzato, lì - bisogna augurarsi - egli può dare i risultati migliori. Ma senza un partito alle spalle il suo retroterra è destinato a restare perennemente sguarnito. Presidiato da successi elettorali forse anche importanti, ma di scarsa utilità quando si tratta di pensare le cose da fare, come farle, con chi farle. Destinato ad avere un numero sempre crescente di clienti, di amici, di ammiratori, questo è sicuro, tuttavia egli poggerà sempre su una base in certo senso poco solida. E nella sua azione come nel suo ruolo apparirà sempre, prima o poi, come già appare oggi, qualcosa di insuperabilmente fragile.

21 ottobre 2015 (modifica il 21 ottobre 2015 | 07:51)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_21/partito-che-renzi-non-ha-a1061eee-77b0-11e5-95d8-a1e2a86e0e17.shtml
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« Risposta #252 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:26:33 pm »

Saperla riconoscere
La violenza e noi europei smarriti


L’editoriale del Corriere della Sera del 23 novembre 2015

Di Ernesto Galli della Loggia

C i sono molti modi con i quali una società può consolarsi dei mali che le piombano addosso. Uno dei più ovvi è la mistificazione: cambiare il segno di ciò che le è capitato, piegarne il significato specialmente idealizzandone alcuni tratti, accentuandone altri, sorvolando su altri ancora. Un’operazione nella quale, come si capisce, una parte decisiva oggi l’hanno i media. I quali diventano specchio ma anche fabbricanti della coscienza sociale.

È quanto è accaduto a proposito della strage di Parigi. Il senso del lutto è stato sublimato in un autocompiacimento al limite di un’insulsa arroganza culturale. L’obiettivo dei terroristi - uccidere il maggior numero possibile di persone: pertanto colpire nei luoghi pubblici (e dove se no?) - è stato trasformato in un attacco «al nostro modo di vivere», alla «nostra possibilità di uscire la sera per andare a un concerto, a un ristorante, a divertirci»: come se queste medesime cose non facciano parte della vita quotidiana di quasi tutto il mondo, Paesi islamici inclusi (e infatti in tutto il mondo, dall’Iraq alle Filippine, il terrorismo predilige esattamente gli stessi bersagli che ha colpito a Parigi). È seguito l’impegno roboante a base di «non ci farete cambiare le nostre abitudini»: nel momento stesso in cui nelle comunicazioni, per esempio, si restauravano barriere e controlli abbandonati da anni; in cui perfino un viaggio in treno stava diventando come attraversare un tempo la Cortina di ferro. Nel momento stesso in cui ritornava all’ordine del giorno delle società europee una quisquilia come lo «stato d’emergenza».

E poi i giovani, i giovani... Anche qui una trasfigurazione idealizzante del tutto irreale e autoconsolatoria. Una società di vegliardi, la quale vede la natalità cadere a picco, e che è di fatto organizzata tutta per sfavorire in ogni modo le classi giovanili, si è d’improvviso riconosciuta simbolicamente proprio nei giovani - vittime ovvie, ma certo casuali di sparatorie avvenute all’interno di locali pubblici in una sera di weekend -. Un’enfatizzazione simbolica che forse è servita a nascondere qualcos’altro da tenere nascosto: e cioè il nostro oscuro senso di colpa per il modo in cui trattiamo i giovani, da rovesciare nell’attribuzione di una responsabilità ben maggiore all’efferatezza jihadista; o forse, chissà, la consapevolezza angosciosa che ogni giovane vita sottrattaci costituisce una perdita irreparabile.

E ancora le parole di quel poveretto a cui hanno ucciso la moglie ed è rimasto solo con una figlia in tenerissima età, che i media ci additano mielosamente come esemplari, quasi il prototipo obbligatorio della reazione politicamente corretta: «Non vi farò il dono di odiarvi», «rispondere all’odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete».

Se s’intende che non bisogna scendere in strada a organizzare pogrom antislamici, non mi pare proprio che siano cose di cui fortunatamente (ripeto per chi non voglia capire: fortunatamente) esista la minima avvisaglia. Ma di fronte a certi crimini non esiste, non deve esistere, non è moralmente degna, una collera della giustizia? Non era forse giusto odiare i kapò dei campi di sterminio, i carnefici di Nanchino o gli organizzatori della carestia artificiale in Ucraina? E non si parla forse nella Bibbia di una collera di Dio contro i malvagi?

In realtà l’intera rappresentazione mediatica di quanto è accaduto e sta accadendo in Francia e altrove sembra avere soprattutto una funzione più o meno consapevolmente esorcistica del nostro smarrimento, di noi europei occidentali, di fronte a quello che è diventato per noi l’enigma della violenza. La nostra estraneità alla violenza - non a quella che, camuffata in mille modi, esiste pure da noi, bensì alla violenza in quanto uso della forza volontariamente accolto da una cultura nei suoi valori - è ormai tale che non riusciamo neppure a immaginare una società, una religione, che una simile estraneità non la condividano. Che non siano istituzionalmente favorevoli sempre e comunque alla «pace». Il solo pensare che invece esistano lo consideriamo, già in quanto tale, un fatto di violenza. Supporre o suggerire, ad esempio, che su questo punto cruciale della violenza le società islamiche non abbiano la nostra stessa sensibilità, anzi ne abbiano una assai diversa, viene stigmatizzato, già solo questo, come l’anticamera dell’«islamofobia».

Siamo, vogliamo sentirci, così «buoni», che non riusciamo a credere che qualcuno nel mondo possa invece considerarci «cattivi» . Fino al punto che ce la voglia far pagare ricorrendo a quella cosa che si chiama guerra: una cosa che al mainstream del pensiero che si dice democratico appare talmente inconcepibile da essere sottoposta, almeno qui in Italia, a un vero e proprio tabù semantico. Da noi la parola «guerra», come ha capito benissimo il nostro presidente del Consiglio, è diventata una parola impronunciabile. E se no del resto come potremmo sentirci così buoni?

Ma perché di guerra si tratti non è necessario essere in due. Basta che uno decida di spararti addosso. Certo, non è detto che ogni colpo di fucile debba rappresentare di per sé l’inizio di una guerra. Ammettiamo però che qualche migliaia di colpi e centotrenta morti possono far sorgere qualche ragionevole sospetto.

23 novembre 2015 (modifica il 23 novembre 2015 | 07:57)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_23/violenza-noi-europei-smarriti-08238b1c-91aa-11e5-98d3-3899a469cdf7.shtml
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« Risposta #253 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:33:06 pm »

Attentati a Parigi, la battaglia culturale che dobbiamo lanciare (senza le solite ipocrisie)
Se i moderati hanno le mani legate, bisogna stanare gli autoinganni e le falsità storiche che nutrono l’estremismo radicale


Di Ernesto Galli della Loggia

Come faccia il terrorismo che tutti, ma proprio tutti, definiscono islamista a non avere nulla a che fare con l’Islam, è qualcosa che dovrebbe, mi pare, richiedere una spiegazione. Che invece non ci viene mai data dai tanti che pure ci ammoniscono con severità a tenere separate le due cose. L’unica spiegazione talvolta offertaci circa l’obbligo di tale separazione starebbe nel fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo suddetto - a Bagdad per esempio, o a Beirut o ad Aleppo o al Cairo - sarebbero in realtà proprio degli islamici. Il che è vero: peccato però che nessuno dei mille attentati commessi in quei luoghi sia mai stato rivendicato, che si sappia, con proclami a base di citazioni di «sure» del Corano e di relative maledizioni contro gli «infedeli»: come invece è la regola quando nel mirino è ieri Parigi o in genere l’Occidente. In realtà, a Bagdad o a Beirut, l’impiego del tritolo o del kalashnikov corrisponde semplicemente al modo oggi più comune da quelle parti di regolare i conflitti politici con gli avversari. L’impiego ad uso bellico dei testi sacri, insomma, è riservato soltanto a noi. Dunque, smettiamola di nasconderci dietro un dito: la religione c’entra eccome. Innanzi tutto perché islamici ferventi e religiosamente motivati sono i terroristi, e poi per un’altra importante ragione.

Perché ciò che lega le mani all’islamismo moderato - che senz’altro esiste ed è maggioritario - impedendogli regolarmente di farsi sentire e di opporsi alle imprese sanguinarie degli altri, è per l’appunto il ferreo ricatto della comunanza religiosa. Ed è sempre questo ricatto-vincolo che a suo modo crea nella gran parte dell’opinione pubblica islamica, nelle sterminate folle delle periferie come negli strati più elevati, se non una qualche tacita complicità, certamente l’impossibilità di dissociarsi, di schierarsi realmente contro. Ciò che a propria volta vincola in misura determinante anche l’azione dei governi di quei Paesi.

Ma se le cose stanno così, se per l’esistenza del terrorismo è decisiva l’esistenza di questo ampio retroterra costituito e cementato dal fortissimo ruolo identitario della religione, non è forse qui, allora, a proposito di questo ruolo, che l’Occidente dovrebbe impegnarsi in uno scontro, lanciare una sfida? Certe guerre non si vincono solo militarmente grazie alle armi (che pure sono importanti e vanno impiegate fino in fondo) ma anche con altri strumenti.

Non si tratta di dichiarare né una guerra tra civiltà né una guerra tra religioni. Bensì di iniziare un’analisi, una discussione dai toni anche aspri se necessario, sugli effetti che ha avuto per l’appunto il ruolo identitario della religione islamica sulle società dove essa storicamente è stata egemone, una discussione su che cosa sono queste società, e sulle vicende storiche stesse del mondo islamico, forse un po’ troppo incline all’oblio e all’autoassoluzione. Un confronto-scontro con quel mondo di carattere eminentemente culturale. In sostanza lo stesso confronto-scontro che la cultura laico-illuministica occidentale ha avuto per almeno due secoli con il Cristianesimo e con la sua influenza storico-sociale, ma che viceversa si mostra quanto mai restia ad avere oggi con l’Islam. Riducendosi così a menare scandalo, magari, per il mancato matrimonio dei gay a Roma ma in pratica a non dire nulla sulla loro impiccagione a Teheran, o sulla lapidazione delle adultere a Islamabad.
Il modo migliore per aiutare l’Islam moderato a liberarsi del ricatto religioso, delle sue paure di lesa solidarietà comunitaria, è proprio quello di incalzarlo a un confronto senza mezzi termini con un punto di vista diverso che non abbia paura della verità. Un punto di vista fatto proprio dai media, dagli scrittori, dagli intellettuali occidentali, che quindi chieda conto di continuo a quell’Islam del perché mai quasi sempre nel suo mondo le donne debbano essere tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi non si traduca un libro (tranne il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion , con tirature da capogiro), perché non ci sia mai un’importante mostra d’arte, perché costruire una chiesa o una sinagoga debba essere vietato, perché essi non abbiano sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si faccia così poco per debellare l’analfabetismo. Un confronto che chieda il suo giudizio su ognuna di queste cose, e crei l’occasione per ascoltarlo e discuterne. Dare per scontata l’esistenza di un Islam moderato ma poi non cercare un confronto con esso non ha senso.

Un simile confronto potrebbe anche servire a dissipare l’unilateralità vittimistica con cui troppo spesso l’opinione pubblica islamica, anche quella moderata, è portata a vedere il rapporto storico tra il mondo islamico stesso e quello cristiano. Potrebbe servire a ricordare, per esempio, che le Crociate furono soprattutto una debole e caduca risposta (per giunta limitata alla Palestina e poco più) alle immani conquiste militari realizzate dall’Islam nei tre secoli precedenti di territori in parte cristiani come il Nord Africa. O ricordare, per fare un altro esempio, che i massacri compiuti nel 1945 e in seguito dal colonialismo francese in Algeria non hanno avuto certo nulla da invidiare a quelli, ancora più efferati, commessi dalla Turchia mussulmana ai danni dei cristiani in Bulgaria a fine Ottocento.

Il terrorismo islamista e il suo richiamo religioso si nutrono in misura notevole degli autoinganni, dell’ignoranza della realtà storica, delle vere e proprie falsificazioni, che hanno più o meno largo corso nelle società che gli stanno dietro, e che da lì arrivano anche alle comunità islamiche in Europa. È di questi succhi velenosi che si nutre la formazione elementare di molti dei suoi adepti. Se a costoro si riuscisse a svuotare un poco l’acqua in cui nuotano, o a chiarirgli appena un po’ le idee prima che imbraccino un mitra, non sarebbe un risultato da poco.

16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 17:45)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_16/battaglia-culturale-db4528e2-8c29-11e5-b416-f5d909246274.shtml
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« Risposta #254 inserito:: Novembre 30, 2015, 03:12:48 pm »

Polemiche
La tentazione degli intellettuali: l’Occidente sempre colpevole
Contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente una voce in difesa della giustizia offesa


Di Ernesto Galli della Loggia

Anche di fronte al terrorismo islamista una parte dell’intellettualità italiana sembra non poter fare a meno di giudicare la civiltà occidentale sempre come la più colpevole; o perlomeno malvagia e iniqua al pari di ogni altra. Rosetta Loy, per esempio, si domanda sul Fatto di venerdì scorso con quale faccia possiamo mai sentirci autorizzati, proprio noi, abitanti di questa parte del mondo e autori di alcune tra le peggiori nefandezze della storia, a lanciare parole di accusa contro gli autori della strage di Parigi.

Se lo chiede ricordando a mo’ di esempio il terrificante sistema di sfruttamento e sterminio messo in piedi alla fine dell’800 in Congo da quel vero criminale che fu Leopoldo II del Belgio. E naturalmente lo fa in polemica con il profluvio d’inni alla triade Liberté, Egalité, Fraternité ascoltati in questi giorni.

Non tiene conto però, Rosetta Loy, di un particolare decisivo. E cioè che contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente, perlopiù ispirata dai principi cristiani, una voce in difesa della giustizia offesa. Da quella di Las Casas e poi dei Gesuiti delle «Reducciones», denunciatori degli orrori della Conquista ispanica delle Americhe, a quella - che pure lei stessa ricorda - di Mark Twain, Conan Doyle, Joseph Conrad; voce che a proposito del Congo ebbe un’eco vastissima. Talmente vasta che il governo britannico incaricò un suo diplomatico, Roger Casement, di un’indagine in loco che, resa pubblica nel 1904, illustrò apertamente «la riduzione in schiavitù, le mutilazioni e le torture subite dagli indigeni nelle piantagioni della gomma».

Voci di denuncia che tra l’altro sono state spesso proprio di intellettuali, come sono specialmente degli intellettuali ebrei quelle che oggi denunciano in Israele le ingiustizie subite dagli arabi. Accade, è accaduto qualcosa di simile altrove? A me non pare. A Rosetta Loy non so.

29 novembre 2015 (modifica il 29 novembre 2015 | 10:46)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_29/tentazione-intellettuali-l-occidente-sempre-colpevole-ed9a28e6-967c-11e5-bb63-4b762073c21f.shtml
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