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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 128470 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Marzo 09, 2015, 05:05:39 pm »

Vacue riforme
La scuola cattiva è questa

Di Ernesto Galli della Loggia

La buona scuola non è solo quella degli edifici che non cascano a pezzi, degli insegnanti assunti e progredenti nella carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari (tutti bravi? Siamo certi?) immessi finalmente nei ruoli: obiettivi ovviamente giusti, e sempre ammesso che il governo Renzi riesca a centrarli, visto che specie sui mezzi e i modi per conseguire gli ultimi due è lecito avere molti dubbi. Ma la buona scuola non è questo. La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite - esagero - neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino - e vorrei dire di più, di persona - che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire.

In questo senso, lungi dal poter essere affidata a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati, ogni decisione non di routine in merito alla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore della politica. Né è il caso di avere paura delle parole: fatta salva l’inviolabilità delle coscienze negli ambiti in cui è materia di coscienza, la collettività ha ben il diritto di rivendicare per il tramite della politica una funzione educativa.

La scuola - è giunto il momento di ribadirlo - o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società.

La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta.

Che cosa è diventata negli anni la scuola italiana lo si capisce dunque guardando all’Italia di oggi. Un Paese che non legge un libro ma ha il record dei cellulari, con troppi parlamentari semianalfabeti e perfino incapaci di parlare la lingua nazionale, dove prosperano illegalità e corruzione, dove sono prassi abituale tutti i comportamenti che denotano mancanza di spirito civico (dal non pagare sui mezzi pubblici a lordare qualunque ambiente in comune). Un Paese di cui vedi i giovani dediti solo a compulsare ossessivamente i loro smartphone come membri di fantomatiche gang di «amici» e di follower; le cui energie, allorché si trovano in pubblico, sono perlopiù impiegate in un gridio ininterrotto, nel turpiloquio, nel fumo, nella guida omicida-suicida di motorini e macchinette varie; di cui uno su mille, se vede un novantenne barcollante su un autobus, gli cede il posto. Essendo tutti, come si capisce, adeguatamente e regolarmente scolarizzati. È così o no?

Si illude chi crede - come almeno una decina di ministri dell’Istruzione hanno fin qui beatamente creduto - che a tutto ciò si rimedi con «l’educazione civica», «l’educazione alla Costituzione», «l’educazione alla legalità» o cose simili. A ciò si rimedia con la cultura, con un progetto educativo articolato in contenuti culturali mirati a valori etico-politici di cui l’intero ciclo scolastico sappia farsi carico. Un progetto educativo che perciò, a differenza di quanto fa da tempo il ministero dell’Istruzione, non idoleggi ciecamente i «valori dell’impresa» e il «rapporto scuola-lavoro», non consideri l’inglese la pietra filosofale dell’insegnamento, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica. Con il bel risultato finale, lo può testimoniare chiunque, che oggi giungono in gran numero all’Università (all’università!) studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia o di riassumere correttamente la pagina di un testo: lo sanno il ministro e il suo entourage ?

All’imbarbarimento che incombe sulle giovani generazioni si rimedia altresì creando nelle scuole un’atmosfera diversa da quella che vi regna ormai da anni. In troppe scuole italiane infatti - complici quasi sempre le famiglie e nel vagheggiamento di un impossibile rapporto paritario tra chi insegna e chi apprende - domina un permissivismo sciatto, un’indulgenza rassegnata. Troppo spesso è consentito fare il comodo proprio o quasi, si può tranquillamente uscire ed entrare dall’aula praticamente quando si vuole, usare a proprio piacere il cellulare, interloquire da pari a pari con l’insegnante. Ogni obbligo disciplinare è divenuto opzionale o quanto meno negoziabile, e l’autorità di chi si siede dietro la cattedra un puro orpello. Mentre su ogni scrutinio pende sempre la minaccia di un ricorso al Tar.

Quando ho sentito il presidente Renzi e il ministro Giannini annunciare una svolta, parlare di riforma, di «buona scuola», ho pensato che in qualche modo si sarebbe trattato di questi argomenti, si sarebbe affrontato almeno in parte questi problemi. E finalmente, magari, con uno spirito nuovo di concretezza, con una visione spregiudicata. In fondo il primo ha una moglie insegnante, mi sono detto, la seconda ha passato la sua vita nell’Università: qualcosa dovrebbero saperne. Invece niente. Prima di tutto e soprattutto i soldi e le assunzioni (bene), ma poi per il resto il solito chiudere gli occhi di fronte alla realtà, i soliti miraggi illusori per cui tutto è compatibile con tutto, per cui l’«autonomia» degli istituti invece di essere quella catastrofe che si è rivelata viene ancora creduta la panacea universale, la solita melassa di frasi fatte e mai verificate. E naturalmente mai uno scatto di coraggio intellettuale e politico, mai una vera volontà di cambiare, mai quell’idea alta e forte del Paese e della sua vicenda di cui la scuola dovrebbe rappresentare una parte decisiva, invece della disperata cenerentola che essa è, e che - ci si può scommettere - continuerà a essere.

8 marzo 2015 | 08:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_08/buona-scuola-quella-cattiva-efa928c6-c562-11e4-a88d-7584e1199318.shtml
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« Risposta #226 inserito:: Marzo 16, 2015, 11:52:52 pm »

La replica a Elisabetta Sgarbi
Houellebecq e l’anomalia di quella parola non detta
Il timore Nel libro l’Islam viene dipinto con toni negativi: forse questo ha fatto un po’ paura

Di Ernesto Galli della Loggia

C on buona pace di Elisabetta Sgarbi e dei redattori di Bompiani mi ostino a pensare che c’è qualcosa di strano se andando su Internet e digitando, in un motore di ricerca, il titolo del romanzo di Michel Houellebecq Sottomissione , su tutti i siti del mondo compare al massimo alla terza riga la parola «Islam», mentre invece lo stesso termine è rigorosamente bandito sia dalla quarta di copertina dell’edizione originale di Flammarion sia dalla bandella della traduzione italiana di Bompiani (che peraltro, sia detto a sua attenuante, è una semplice rimasticatura dell’originale). Nulla, neppure la filologica annotazione che «sottomissione» - come viceversa si legge dovunque nei suddetti siti e sulla Rete - è per l’appunto una delle traduzioni possibili e certo la più comune, della parola Islam. Tanto lo sanno tutti - mi pare pensi Sgarbi - perfino Galli della Loggia (grazie della fiducia), aggiungendo «peccato che lo rimuova».
Non lo rimuovo per nulla. Osservo soltanto che a saperlo oltre io, Sgarbi e «l’amico Pietrangelo Buttafuoco» (buttato lì come il cavolo a merenda, giusto per farci capire che lei non è una sprovveduta e sa scegliere le amicizie politicamente bilanciate), non siamo proprio legioni. Un editore preoccupato di vendere i suoi libri, mi chiedo, non dovrebbe cercare di far capire qualcosa del loro contenuto? E allora: davvero il direttore editoriale di Bompiani pensa che scrivere di «nuove forze» che arrivano al potere fa capire a qualcuno che a Parigi, come immagina Houellebecq, siede un governo presieduto da un musulmano? Via!

Ma «nominare la parola Islam nella bandella avrebbe immediatamente dato al lettore la sensazione di un romanzo contro l’Islam» - obietta Sgarbi - laddove invece esso è «un’articolata interpretazione del rapporto con l’Occidente». Be’, articolata mica tanto, per la verità. Nel libro l’Islam, infatti, arriva al potere grazie a tre fattori: il riflesso antixenofobo delle sinistre, il fiume di soldi provenienti dal petrolio e, si direbbe proprio, la fregola scopereccia della popolazione maschile sedotta dalla poligamia. Di un’eventuale ruolo (anche elettorale) di milioni di donne francesi per esempio, ricondotte a casa a servire il loro marito padrone, neppure una parola che sia una. Come articolazione non so a Sgarbi, ma a me non pare un granché.

Quel che è certo è che l’Islam vi è dipinto come un modello civile ostile ai valori di pluralismo (improvvisamente tutti i media e gli intellettuali diventano islamici o filo), all’eguaglianza dei sessi, alla presenza ebraica (nel romanzo c’è una fuga degli ebrei francesi verso Israele). E allora, cara Sgarbi, secondo lei dipingere un quadro del genere è contro l’Islam o no? Io credo proprio di sì e sfido chiunque a sostenere il contrario. E credo che forse, pubblicare un testo del genere, a lei così attenta ad amministrare la sua immagine coltivando il trasgressivo ma nei limiti di ciò che piace alla gente che piace, le abbia fatto temere di apparire, dio guardi, «islamofoba» (e invece no, si rassicuri: sono due cose diversissime). Come forse la stessa cosa ha fatto un po’ paura anche a Flammarion (che però non voleva ripetere la figuraccia di quando non volle pubblicare il testo della Fallaci dopo l’11 settembre); e come forse alla fine ha fatto un po’ paura anche a Houellebecq: ma si sa, capita che l’autore non sia all’altezza della sua opera. Houellebecq però, pur difendendo il suo libro dall’accusa di «islamofobia», ha comunque avuto l’ardire di affermare che, se pure lo fosse, «ne avrebbe il diritto» (Le Monde , 20 gennaio). Pensi un po’ che sfacciato!

15 marzo 2015 | 09:01
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_15/houellebecq-l-anomalia-quella-parola-non-detta-fc13550c-cae7-11e4-9a7c-4c357fdc7cec.shtml
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« Risposta #227 inserito:: Marzo 23, 2015, 11:04:26 am »

La strage di Tunisi
Noi, assediati e troppo timidi

Di Ernesto Galli della Loggia

Destabilizzare tutti gli assetti politico-statali del mondo arabo; impadronirsi di quell’immenso spazio geopolitico instaurandovi un potere ispirato all’islamismo radicale; da lì muovere a uno scontro con l’Occidente, preliminarmente messo sulla difensiva e impaurito dall’azione di nuclei terroristici reclutati nelle comunità musulmane al suo interno. Davvero si corre troppo con la fantasia attribuendo un disegno del genere alla galassia della jihad che mercoledì a Tunisi ha compiuto la sua ennesima impresa sanguinaria? Davvero significa dare corpo a dei fantasmi? Bisogna vedere: chi l’avrebbe detto nel gennaio del 1933 che quel tizio esagitato appena nominato cancelliere della Germania avrebbe effettivamente cercato di realizzare i suoi fantastici propositi di sterminio, mettendo a ferro e a fuoco il mondo? Eppure allo scoppio della Seconda Guerra mondiale mancavano neppure sette anni.

Il messaggio che viene da Tunisi è chiaro: per il nostro Continente si avvicina una prova decisiva. Siria, Libia, Tunisia, cioè la sponda meridionale del Mediterraneo, cioè il confine marittimo dell’Unione. Come non accorgersi che prima che agli Stati Uniti è a lei, a noi, che è rivolta la sfida islamista? Dunque le imprevedibili accelerazioni della storia impongono oggi all’Europa ciò a cui essa si è finora sempre rifiutata: di essere un soggetto politico vero. Vale a dire con una vera politica estera; con un vero esercito. E con veri capi politici: gli unici che nei momenti cruciali possono fare scelte coraggiose, costruendo altresì intorno ad esse il consenso necessario.

Non c’è tempo da perdere. Per far fronte alla feroce determinazione dell’islamismo radicale, alla sua capacità di penetrazione, la politica deve innanzitutto prepararsi all’impiego della forza. La si chiami come si vuole per non turbare i nostri pudori lessicali - operazione di polizia internazionale, missione di pace ( sic !) o che altro - l’importante è capirsi sulla sostanza. Così come è necessario che l’Europa si convinca - e convinca gli Stati Uniti - a dire con chiarezza all’Arabia Saudita, al Qatar e a qualche altra monarchia del Golfo che il loro doppio gioco non può continuare a lungo: che esse non possono con una mano fare lauti affari con l’Occidente, e con l’altra finanziare chi uccide a sangue freddo i suoi cittadini. Un Islam antijihadista peraltro esiste: noi dobbiamo sia aiutarlo con più determinazione a non divenire ostaggio del terrore (è il caso della Tunisia), sia abituarci a chiederne l’aiuto prezioso che può offrirci.

20 marzo 2015 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_20/strage-tunisi-noi-assediati-troppo-timidi-europa-jihad-isis-c2251716-cec7-11e4-8db5-cbe70d670e28.shtml
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« Risposta #228 inserito:: Aprile 05, 2015, 11:18:31 pm »

Coscienza e coraggio
L’identità fragile dei cristiani

Di Ernesto Galli della Loggia

Cristiana la nostra identità? Ma quando mai! Innanzi tutto non ce lo permette forse neppure la nostra Costituzione; sicuramente poi ce lo vieta l’Europa e ancor più sicuramente ce lo vieta il pensiero dominante. Secondo il quale tutto ciò che ci distingue, infatti, a cominciare dallo stesso termine identità, è sospetto: allude a possibili discriminazioni, esclusioni, persecuzioni. Se vogliamo essere dei bravi democratici (come vogliamo), possiamo avere quindi solo identità cosmopolite, universali, fruibili e condivisibili senza distinzioni da chiunque, sanzionate da diritti altrettanto universali. E poiché ognuno di noi deve sentirsi libero di essere qualunque cosa, ne segue che come collettività, come insieme, non possiamo essere nulla, consistere in nulla, identificarci in nulla di storicamente o culturalmente determinato.

Neppure lontanamente possiamo pensare, ad esempio, di avere «radici» (ambiguo termine biologico che, come è stato denunciato, solo per questo già sa di razzismo), radici in una storia, in una tradizione, in una cultura. Figuriamoci poi in una religione. Ancora ancora, grazie al ricordo della Shoah, avvertiamo un leggero soprassalto se ammazzano qualche ebreo in un supermercato parigino o in un museo di Bruxelles. Ma se in una contrada d’Africa o d’Asia da anni abbattono croci e incendiano chiese a decine, fanno schiave e violentano donne solo perché cristiane, se per la stessa ragione decapitano o freddano con un colpo alla nuca chiunque non preghi Allah, non riusciamo a scomporci più di tanto.

5 aprile 2015 | 10:05
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_05/identita-fragile-cristiani-0ab25194-db5a-11e4-8de4-f58326795c90.shtml
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« Risposta #229 inserito:: Aprile 18, 2015, 04:44:37 pm »

Destra e sinistra oggi. Partiti di plastica e vecchi merletti
Una volta terminati gli effetti della droga dell’antiberlusconismo, si sono viste le cose come stavano: il Pd non esisteva più, era un involucro vuoto


Di Ernesto Galli della Loggia

Allora era vero! Era vero, come molti non si sono mai stancati di dire, che Forza Italia è stato sempre un partito di plastica. Era vero che Berlusconi era il suo padrone e tutti gli altri, i deputati e i senatori, solo una sorta di suoi dipendenti sostanzialmente a libro paga: i quali, finché le cose andavano bene, non si sognavano di emettere un fiato qualunque cosa gli venisse ordinata o accadesse. Ed era vero che Berlusconi ha sempre voluto che le cose andassero così, impedendo dunque per vent’anni che a destra nascesse qualcosa che avesse delle radici, che durasse, che si richiamasse a qualche visione alta e complessa del Paese e della sua storia complicata. Sì, era vero: dal momento che oggi proprio queste cose dicono - anzi denunciano a gran voce: e bisogna dire alquanto spudoratamente - quegli stessi, i vari Bondi, Fitto, perfino una pasdaran come la Biancofiore - che appena ieri, stando dentro Forza Italia, accettavano tutto, ed anzi spesso protestavano indignati contro chi si permetteva le medesime critiche che oggi essi muovono. A imitazione, del resto, di quanto prima di loro avevano già detto un paio di anni fa, stracciandosi anch’essi debitamente le vesti, una lunga schiera di fuoriusciti, da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano. Nel momento del naufragio tutti consapevoli - guarda caso! e quando alcuni ancora sperano di salvarsi su qualche zattera - che forse il capitano ha sbagliato rotta.

È così: molte verità a lungo negate oggi stanno diventando innegabili. E ra anche vero, eccome se era vero, ad esempio, che per gettarsi alle spalle il Partito comunista e la sua esperienza non poteva bastare cambiare il nome e fare come se nulla fosse. Che era necessario non solo capire bene che cosa era accaduto, «com’era stato possibile» (magari con l’aggiunta di qualche opportuna autocritica), ma anche che chi era stato un «ragazzo di Berlinguer», condividendone faziosità, accecamenti e fedeltà all’Ottobre rosso, si facesse giudiziosamente da parte. E invece di raccattare per anni tutto il raccattabile - dalla finta sinistra di Sergio D’Antoni alla sinistra dei quartieri alti di Giovanna Melandri - facesse spazio a quella socialdemocrazia che aveva sempre disprezzato. Era vero, infatti - come qualcuno disse subito - che in caso contrario, com’è puntualmente avvenuto, la dirigenza vecchia del partito che nasceva nuovo avrebbe in realtà impedito a questo di essere nuovo. Così è accaduto che quel partito si sia via via appassito, si sia via via impoverito di idee e di passioni, si sia disarticolato in una molteplicità di feudi nazionali e locali spesso nelle mani di opachi personaggi dediti ad affari ancora più opachi.

Tutto ciò è rimasto celato finché è durata la droga dell’antiberlusconismo. Ma appena la droga è finita si sono viste le cose come stavano: il Pd non esisteva più. Era un involucro vuoto. E a questo punto è bastata per impadronirsene una banda di giovani audaci, animati da uno smisurato desiderio di vincere, che nulla avevano a che fare con la sua lunga storia. I quali anzi possono essere considerati, nei confronti di questa storia, come la vendetta di un’altra storia, di una storia completamente diversa. Allora era vero, era vero tutto insomma. Era vero tutto (o quasi) di ciò che non molti hanno detto per anni a proposito della Destra e della Sinistra italiane. Peccato che oggi, quando finalmente i più se ne accorgono, sia troppo tardi.

17 aprile 2015 | 08:47
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_17/partiti-plastica-vecchi-merletti-333d6de4-e4cc-11e4-845e-5bcd794907be.shtml
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« Risposta #230 inserito:: Maggio 01, 2015, 11:39:58 am »


Renzi, i migranti e l’Ue
Il balbettio degli egoisti d’Europa

Di Ernesto Galli della Loggia

Si può immaginare una prova di egoismo e di miope inettitudine più clamorosa di quella mostrata dall’Unione europea riunita giovedì a Bruxelles per discutere il da farsi rispetto all’ondata migratoria che sta rovesciandosi sulle coste meridionali del nostro continente? Posta davanti a una sfida geopolitica di carattere epocale, davanti alle sciagure e ai problemi di ogni tipo che questa produce, la sola cosa, infatti, che l’Unione si è saputa inventare è stata quella di mandare qualche altra nave nel Mediterraneo e di destinare una manciata in più di quattrini all’operazione Triton. Cioè di far finta di fare qualcosa allo scopo di non fare nulla.

Nel suo balbettio e nel suo riuscire a mancare regolarmente tutti gli appuntamenti decisivi che potrebbero farle fare un salto di qualità verso un’esistenza di soggetto politico, l’Europa è ormai diventata qualcosa d’imbarazzante. La mancanza di leadership e di visione minaccia di renderla un organismo sempre più ingombrante per le cose facili e sempre più inutile per quelle difficili. Un vuoto ammasso di egoismi nazionali che dura finché questi non vengono disturbati.

Del resto è apparso non meno insufficiente nei giorni scorsi anche il comportamento del governo italiano. Il presidente Renzi, recatosi a Bruxelles sperando verosimilmente grandi cose (anche se non si sa di preciso che cosa), ha dovuto accontentarsi di quasi nulla. Il fatto è che per ottenere seppure in parte da un sinedrio come quello di Bruxelles ciò che si desiderava, bisognava battere i pugni sul tavolo. Tutto il Paese avrebbe seguito un presidente del Consiglio che avesse tenuto un discorso del tipo: «Cari signori, l’Italia non intende vedere annegare centinaia di persone in mare senza muovere un dito. Noi quindi faremo di tutto per cercare di salvare il maggior numero possibile di migranti. Ma tutto questo costa, costa molto. Siccome però non siamo il Paese di Bengodi, e le nostre risorse sono limitate, sappiate che se voi non fate nulla di più del quasi niente che vi proponete di fare, allora alle prossime scadenze l’Italia si vedrà costretta con molto rammarico a sospendere qualsiasi tipo di finanziamento, anche quello ordinario, all’Unione e alle sue attività». E invece, ahimè, nulla di simile si è sentito. Evidentemente un conto è bacchettare Civati o tirare le orecchie alla Camusso, un altro affrontare a brutto muso Cameron o la Merkel (oltre, immagino, il mugugno sussiegoso della Farnesina). E così abbiamo dovuto accontentarci di una mancia accompagnata da un’amichevole pacca sulla spalla.

Giorni molto difficili si annunciano dunque nell’immediato per l’Italia. Ma per l’intera Europa si avvicina a più o meno lunga scadenza l’appuntamento con una catastrofe annunciata, quella di un’insostenibile pressione demografica del Sud del mondo la quale, proprio in quanto continua ad essere pervicacemente rimossa, tanto più minaccia inevitabilmente di assumere i tratti di un vero e proprio collasso geopolitico.

Non è vero che non ci sia nulla da fare. Se l’Europa esistesse, se avesse una vera guida politica dotata di autorità e di visione, potrebbe fare molto, specie per le migrazioni mosse da ragioni economiche. Previo un accordo quadro con l’Organizzazione dell’Unione africana, ogni Paese europeo (da solo o insieme a un altro) potrebbe ad esempio stabilire con uno Stato di quel continente una sorta di vero e proprio gemellaggio: rapporti speciali di aiuto e cooperazione per favorirne lo sviluppo; essere autorizzato a destinarvi investimenti privilegiati in campo economico e turistico; stabilire con esso accordi doganali speciali per favorirne le produzioni e le esportazioni; aprirvi centri culturali, inviarvi «missioni» di ogni tipo specie per migliorarne gli apparati scolastici, sanitari, giudiziari e di polizia; accoglierne gli studenti migliori con borse di studio; e anche, magari, aprirvi dei «campi di addestramento» lavorativo, linguistico e «antropologico-culturale», destinati a coloro che comunque intendessero abbandonare il loro Paese.

Costerebbe e non sarebbe facile, certo. Avrebbe anche dei rischi, forse. Ma sono per l’appunto queste le cose che fa la politica, che solo la politica sa fare. Perlomeno la politica che non gioca a scaricabarile, ma quella che immagina, che osa, che agisce.

26 aprile 2015 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_26/balbettio-egoisti-europa-migranti-strage-editoriale-9e13b9c0-ebd9-11e4-b9d3-aa4aa3ffc489.shtml
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« Risposta #231 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:53:23 pm »

I nuovi conservatori
Nostalgia di un’Italia diversa

Di Ernesto Galli della Loggia

Siamo in molti oggi in Italia, credo, ad avvertire dentro di noi e intorno a noi sempre più spesso pensieri e pulsioni che in altri tempi avremmo giudicato tipici di una mentalità conservatrice (e che in un certo senso lo sono davvero). La cosa è tanto più significativa in quanto riguarda persone che spesso sono state di sinistra e dicono di esserlo ancora. Nel Paese sta dunque montando una subdola ondata conservatrice?

Chiariamo innanzi tutto un punto: l’economia non c’entra. Qui da noi il «liberismo selvaggio» continua a non fare proseliti: ben pochi pensano cioè che la proprietà debba avere più diritti del lavoro o che non debba esserci una protezione adeguata per la parte più sfavorita e fragile della società. No, l’Italia di cui sto dicendo non inclina al conservatorismo perché è sul punto di passare dalla parte del più forte. Tanto meno sul punto di iscriversi al «partito dell’ordine», che non sa neppure che cosa voglia dire.

E non c’entra neanche l’età, come pure si potrebbe pensare. Oggi tra l’altro, si sa, è più facile semmai trovare un progressista doc tra quelli che hanno i capelli grigi che tra i ventenni. Stiamo dunque diventando conservatori per un’altra e semplice ragione: perché a petto di ciò che è l’Italia attuale ne vorremmo una diversa, e magari, per chi se la ricorda, un’Italia ancora con alcune cose, con alcune caratteristiche, che aveva quella di ieri e che sono state insulsamente gettate via. Forse più che conservatori siamo nostalgici. Nostalgici ad esempio dello Stato. Inteso non come astratto feticcio ma come quell’insieme di organi e di funzioni di controllo e di vigilanza, preziosi al centro come nelle periferie.

Nostalgici di quello Stato che non si era ancora rassegnato all’inefficienza dei suoi uffici e alla abituale protervia dei suoi dipendenti, che nei ministeri e altrove non aveva dato tutto il potere alle lobby interne e ai sindacati. Quello Stato che non aveva ancora deposto quasi per intero la sua sovranità nelle fauci del «mostro freddo» di Bruxelles, e neppure si era ancora arreso ai cacicchi regionali o ai voleri di qualche capetto dei «territori»; che non aveva ancora deciso di dismettere sempre e comunque ciò che è pubblico solo per rimpinguare, come poi si è visto, i portafogli dei privati. Nostalgici dello Stato, della Banca d’Italia, delle Sovrintendenze, dei Provveditorati, del Genio Civile, dell’Ufficio Geologico Nazionale, delle Prefetture (sì certo, delle Prefetture!): dello Stato insomma rappresentato da quelle amministrazioni che per un secolo e mezzo ci hanno consentito una convivenza in fin dei conti decente, riuscendo bene o male a disciplinare il nostro anarchico frazionismo e il nostro scarso rispetto delle leggi.

La nuova Italia conservatrice lo è, dunque, perché la nostalgia alla fine è sempre anche desiderio di conservare. Ad esempio conservare una scuola capace di tenere a bada le famiglie e di mantenere la disciplina; con insegnanti bravi, consci del proprio ruolo e capaci di farsi ubbidire; con regole non destinate a mutare ogni tre anni; con programmi non pronubi alle novità quali che siano, alla «sperimentazione», all’«inglese», alle «lavagne elettroniche», al «mondo del lavoro», additati come altrettanti orizzonti supremi di ogni programma educativo. Una scuola ideale che forse non è mai esistita: ma la cui immagine, di fronte alla rovina presente, si rafforza ogni giorno di più come un irrinunciabile dover essere.

O ancora, conservare le nostre città: libere dalle movide, dai pub, dalle troppe pizzerie al taglio e dai troppi negozi alla moda che chiudono dopo appena un paio d’anni ma non senza aver decretato nel frattempo la scomparsa dalle vie di barbieri e di fiorai, di ciabattini e librerie. Conservare i paesi, i borghi grandi e piccoli dell’Italia antica, con gli uffici postali, le stazioni ferroviarie, i palazzi e le opere d’arte: quel paesaggio, quelle forme di vita che legano tanti di noi al passato. Che sono il passato vivo e vitale del Paese.

Ma c’è dell’altro e di più, mi pare, in questa piega chiamiamola pure conservatrice che sta prendendo una parte dell’opinione pubblica orientata finora diversamente. C’è la convinzione ad esempio che si debba ritornare ad onorare dimensioni antiche come le buone maniere o il senso comune, un minimo rispetto per i ruoli e le gerarchie; per il merito. S’intravede una considerazione nuova per i valori della coesione collettiva (per esempio lo spirito nazionale), accompagnata da un’insofferenza crescente verso gli atteggiamenti più conclamati di autoreferenzialità, di ribellismo, di edonismo vacuo. Si fa strada un certo distacco rispetto a forme di scientismo prometeico, di certezza laicista, verso cui prima si aderiva senza problemi.

È di destra tutto questo? È di destra volere norme non cervellotiche, controlli efficaci, interessi collettivi tutelati, chiedere attenzione per quanto rappresenta la nostra identità umana e storica, volere un’atmosfera culturale meno succuba alle mode dei tempi? È solo uno sterile rimpianto? Corrisponde alla richiesta di cose delle quali non compete occuparsi a chi governa? Questo è forse ciò che pensano coloro che vivono nell’acquario della politichetta montecitoriesca. Sbagliando, perché dietro quanto fin qui detto si muovono in realtà due potenti convinzioni che recano con sé due significati politici clamorosi e sempre più evidenti. Prima di ogni altra cosa, che la Seconda Repubblica è stato un fallimento totale: con tutti i suoi D’Alema, i suoi Berlusconi, i suoi Bossi, i suoi Prodi e compagnia bella, con tutti i suoi partiti e con tutte le sue scelte politiche che volevano essere di rottura, o comunque «diverse» rispetto al passato, e che invece non hanno portato a nulla. E poi - e soprattutto - che dalla Seconda Repubblica non si esce né a destra né a sinistra, per adoperare un lessico antico. Si esce invece con una ridefinizione profonda di ciò che è di destra e di ciò che è di sinistra. Dove in certi casi si può essere «conservatori» stando a sinistra, o temi «di destra» possono essere fatti propri dalla Sinistra. È ciò di cui si è accorto grazie alla sua età e al suo fiuto Matteo Renzi: ed è per questo che egli sta riportando una vittoria dopo l’altra, mentre i suoi avversari interni balbettano sul nulla e dalle altre parti si agitano solo dei fantasmi o degli inutili masanielli.

6 maggio 2015 | 08:35
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_06/nostalgia-una-italia-diversa-galli-loggia-0e738da0-f3b2-11e4-8aa5-4ce77690d798.shtml
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« Risposta #232 inserito:: Maggio 19, 2015, 10:07:47 am »

Trasformismo dilagante
Le radici della crisi dei partiti

Di Ernesto Galli della Loggia

Destra e Sinistra appaiono in crisi e quasi in via di scomparsa, mentre al loro posto si va delineando per il futuro un ampio schieramento ultramaggioritario, tendenzialmente centrista, capace di inglobare quasi tutte le componenti parlamentari. Contemporaneamente si diffonde, sempre più massiccio nelle periferie ma ormai anche nel Parlamento nazionale, il fenomeno del trasformismo. Oggi è questa, nella sua essenza, la situazione che ci sembra nuova della nostra vita politica. Ma a ben vedere lo è solo relativamente.

La situazione odierna, infatti, ricorda da vicino la situazione che si verificò in Italia già negli ultimi decenni dell’Ottocento dopo l’esaurimento della Destra e della Sinistra risorgimentali. Le quali, peraltro, anche durante il Risorgimento erano state sì contrapposte, ma fino a un certo punto. Non a caso Cavour governò per anni, come si sa, con una maggioranza che in pratica escludeva solo la Destra e la Sinistra estreme: maggioranza battezzata con il nome significativo di «connubio».

Questo connubio paratrasformistico - che di fatto s’interruppe solo per pochi anni subito dopo l’Unità - durò in pratica fino alla Prima guerra mondiale. In tutto questo tempo l’amplissimo schieramento politico che si riconosceva nelle istituzioni dello Stato - l’eterogeneo «partito costituzionale» - non fu capace di dividersi stabilmente in una Destra e in una Sinistra contrapposte. Sicché la rappresentanza parlamentare rimase perlopiù identificata, nella sostanza, in una vasta palude filogovernativa. Fu solo con la comparsa nell’aula di Montecitorio, all’inizio del Novecento, dei socialisti prima, poi dei cattolici, dei fascisti e dei comunisti, e dei loro rispettivi partiti, che le cose cambiarono. Fu solo allora che nel Parlamento come nel Paese si stabilirono vasti schieramenti con discrimini veri e contrapposizioni non aggirabili; per tutto il XX secolo c’è stato posto, così, solo per le grandi ideologie, per le alternative drammatiche, per i grandi partiti organizzati. Ma è proprio tutto ciò - cui si doveva storicamente la fine del monopartitismo virtuale e del trasformismo, propri della precedente tradizione italiana - che è scomparso tra il 1992 e il 1994 sotto i colpi di Mani pulite.

Ancora nel ventennio successivo è più o meno sopravvissuta una forma spuria di contrapposizione Destra-Sinistra grazie all’arrivo sulla scena di Berlusconi: grazie cioè all’accanimento del padrone di Mediaset nell’agitare il fantasma dell’anticomunismo, e alla risposta dei suoi avversari con il controfantasma dell’antifascismo. Finalmente però, con lo spappolamento di Forza Italia, il Novecento italiano è terminato, e di conseguenza ha potuto scomparire anche quanto restava di ciò che un tempo si chiamava comunismo.

L’Italia post novecentesca si ritrova così oggi riconsegnata alla sua più antica peculiarità. Ritorna in un certo senso alle origini post risorgimentali e incontra di nuovo il trasformismo. Sconfitta nel sangue l’illusione fascista, tramontate le grandi ideologie d’impianto transnazionale le cui divisioni erano servite in passato a modellare le nostre divisioni, il sistema politico italiano si trova oggi costretto a utilizzare i materiali ideologici autoctoni, a derivare il suo discorso unicamente dal Paese reale, dalle risorse intellettuali e morali che esso riesce a mettere in campo. Che però non sembrano gran cosa.

Se oggi ci riesce così difficile dare contenuti effettivi a questa o a quella piattaforma di partito, dividerci tra Destra e Sinistra, non è perché nella realtà manchino i contrasti d’interesse e le divisioni. È innanzi tutto perché la società italiana sembra avere perduto la capacità di pensare realmente se stessa, a cominciare dalle ragioni di fondo della crisi del Paese. Sembra non avere più la fantasia e l’audacia di immaginare vie e strumenti nuovi, nuovi compiti e nuovi doveri. Ed è come se l’assenza di queste cose si porti con sé anche un’assenza d’interesse e di voglia di futuro, anche il desiderio e il gusto delle contese forti sulle cose vere: che è per l’appunto ciò che genera i partiti. In questo modo al posto delle lotte abbiamo le risse, al posto delle discussioni le polemiche, al posto dei giornali e dei libri i talk show popolati di «ospiti» capaci solo di ripetere slogan a cui si sospetta che essi siano i primi a non credere. La nostra vita e il nostro discorso pubblici mancano di profondità e di passione. Appaiono sempre più poveri, ripetitivi, privi di orizzonti e di progetti. Come possono nascere dei veri partiti in queste condizioni?

Esiste poi un altro insieme di ragioni che spiegano il ritorno alla convergenza generale verso il centro e del trasformismo. Una società che è tornata ad essere fragile - oggi per giunta con pochi giovani e molti anziani -, una società dalle risorse di nuovo tendenzialmente scarse, è spinta naturalmente a stringersi intorno al potere, a cercarne la protezione, così come ha fatto per secoli. È spinta naturalmente a credere solo nel potere, e prima di ogni altro nel potere politico: tanto più quando questo, come accade oggi, assume un aspetto marcatamente personale che lo rende più visibile e temibile, e perciò più forte. È spinta a credere, del resto, non solo nel potere di chi ha in mano la cosa pubblica. Anche il potere malavitoso, ad esempio, appare oggi ben più forte di venti anni fa, se è vero come è vero che ci si mette sotto la sua tutela non più soltanto nelle tradizionali zone del Mezzogiorno ma anche in Emilia, anche in Lombardia. Mentre dal canto suo pure il familismo, la protezione familiare, appaiono più forti che mai.

Chi l’avrebbe detto agli albori della Seconda Repubblica che alla fine essa ci avrebbe ricondotto all’Italia dello Statuto: senza partiti e con un governo di fatto privo di alternative.

17 maggio 2015 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_maggio_17/radici-crisi-partiti-editoriale-della-loggia-65fce2cc-fc5b-11e4-9e3e-6f5f0dae9d63.shtml
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« Risposta #233 inserito:: Giugno 14, 2015, 03:59:36 pm »

Immigrazione
Migranti, folklore e dibattiti utili

Di Ernesto Galli della Loggia

Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio un federalista doc, uno dei capi di quei leghisti che da anni ci fanno una testa così sui mitici «territori», sulle loro esigenze e sui loro diritti inalienabili, a farci sapere che in realtà quanto sopra vale sì per i «territori», ma solo a un patto: che si tratti dei «territori» dove comandano loro? Il chiarimento - davvero istruttivo - lo si deve al presidente della Lombardia, Roberto Maroni. Il quale, irritatissimo perché alcuni sindaci della stessa Lombardia avevano osato contro il suo avviso dichiararsi disponibili ad accogliere un certo numero di immigrati, non ha trovato di meglio che minacciarli all’istante di togliere ai loro Comuni i contributi regionali. Come un qualunque prefetto dell’Italietta centralista del tempo che fu.

Guai però se questo folklore del federalismo italiota ci servisse per mettere la sordina sulla questione ogni giorno più grave che rappresenta l’immigrazione incontrollata che al ritmo di mille-duemila persone al giorno si rovescia attraverso il Mediterraneo sulle nostre coste. Mentre altre centinaia e centinaia di migliaia, lo sappiamo, attendono sull’altra riva. Si tratta di un fenomeno di carattere epocale. È qualcosa che lasciato a se stesso costituisce un pericolo per aspetti decisivi della nostra vita, come collettività statale e nazionale. Esso ad esempio mette in contrasto le varie parti geografiche del Paese schierando, come già si vede oggi, l’una contro l’altra. Avvelena le relazioni tra i diversi strati sociali della popolazione, dal momento che è solo su quelli meno abbienti che ricadono in maniera assolutamente sproporzionata i costi di ogni tipo del fenomeno. Nell’esistenza quotidiana di milioni di nostri concittadini, spesso in quella dei più deboli ed anziani, diffonde poi (ed è inutile obiettare che si sbagliano: anche perché più di una volta, invece, non si sbagliano per nulla) disagi, insicurezze, paure, che si traducono in pericolosi riflessi di tipo securitario fuori misura; rischia infine di alimentare posizioni ideologiche dai contenuti aggressivi e radicali in grado di modificare gravemente il nostro quadro politico.

L’immigrazione insomma è l’opposto della normale amministrazione, è potenzialmente un terremoto. E come tale va trattata: non può essere affrontata solo con le categorie della benevolenza umanitaria (a cui pure nessuno di noi intende sottrarsi), così come non si può pensare di affidarne la gestione a una flottiglia della Marina e alla debole guida del ministro Alfano. Va trattata tendenzialmente come una vera e propria emergenza nazionale, e tutto il governo, a cominciare dal presidente Renzi, deve metterla ai primi posti delle sue priorità, muovendosi in modo adeguato. Innanzi tutto nei confronti dell’Europa: e cioè seguendo finalmente una linea decisa, molto decisa, anche fino alla durezza (scelga Renzi quale, purché ne scelga davvero una). E quindi all’interno, chiamando tutto il Paese (non solo le forze politiche) ad una sorta di grande consultazione collettiva, ad una presa d’atto della nostra situazione storica, ad una discussione sul nostro futuro, per stabilire insieme il da farsi: a cominciare - questa la prima proposta che personalmente mi sentirei di fare - da una nuova, non più rinviabile, legge sulla cittadinanza. È in ballo il destino dell’Italia: il presidente del Consiglio ci dica che cosa pensa.

9 giugno 2015 | 08:04
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_09/migranti-folklore-dibattiti-utili-2447cf3a-0e68-11e5-89f7-3e9b1062ea42.shtml
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« Risposta #234 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:33:16 pm »

Il corsivo del giorno
«La circolare delle circolari»: fatele circolare
Scuola, un esempio di burocrazia estrema e sgrammaticata nell’atto di un preside

Di Ernesto Galli della Loggia

«Circolare n. 44. Oggetto: circolazione circolari. Sono state presentate alcune rimostranze da parte di genitori dell’alberghiero e dei loro rappresentanza (sic!) riguarda (sic!) la mancata circolazione di alcune circolari. Si raccomanda di far circolare per le classi agli (sic!) studenti tutte le circolari e di farle ricircolare per le classi uscite prima (sic!).
Si raccomando (sic!) di mantenere un flusso continuo di circolazione e di ricircolazione delle circolari anche con l’ausilio attivo e fattivo all’ (sic!) istituto alberghiero degli studenti di accoglienza turistica». Questo è un testo ufficiale redatto e firmato da un dirigente scolastico della sgrammatica Repubblica italiana.

Sono pronto a fornire in privato a chi ne avesse interesse l’indicazione del nome e cognome del dirigente scolastico che ha redatto e firmato questo testo ufficiale di una scuola della Repubblica italiana, nel quale gli stupri sintattico-grammaticali gareggiano con la surreale demenzialità dell’enunciato, con un effetto complessivo degno del migliore Totò.

Come cittadino della suddetta sgrammaticata Repubblica mi limito ad avanzare solo tre domande, più che consapevole, peraltro, della loro prevedibile inutilità: 1) il ministro dell’Istruzione, e per lui i suoi uffici, hanno la possibilità di venire mai a conoscenza che un loro dipendente è capace di scrivere (oltre che di concepire, ma lasciamo perdere) un testo simile? Hanno un qualche controllo effettivo di che cosa accade realmente nella scuola, nelle scuole? 2) e se sì, hanno il potere per esempio di iniziare all’istante un procedimento che porti in tempi ragionevoli all’allontanamento dal suo incarico di chi ha scritto l’obbrobrio di cui sopra? 3) Che razza di «Buona scuola» ci si deve aspettare da un’«autonomia» degli istituti scolastici invocata e decantata come la panacea di ogni male, che però poi può consegnare il destino di anche uno solo di essi nelle mani di uno scervellato semianalfabeta come l’autore dello scritto in questione?

29 maggio 2015 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/scuola/medie/15_maggio_29/circolare-circolari-fatele-circolare-1a8996ba-05c4-11e5-93f3-3d6700b9b6d8.shtml
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« Risposta #235 inserito:: Giugno 21, 2015, 05:16:53 pm »

Dopo il voto
La svolta che Renzi deve fare
Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare

Di Ernesto Galli Della Loggia

Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare. Verosimilmente solo così potrà superare con successo lo scoglio delle prossime elezioni politiche (quando ci saranno), senza di che, egli lo sa bene, la sua carriera politica sarebbe virtualmente finita. Cambiare, dunque. E infatti pare che egli abbia detto «Tornerò a fare Renzi», cioè, sembra di capire, tornerò ad essere quello che nel giro di un anno, di slancio e senza fare compromessi, conquistò a suo tempo la segreteria del Pd e il governo del Paese.

Non è detto, però, che proprio questa sia la ricetta giusta. Il cattivo risultato elettorale del Pd sta a indicare, infatti, che forse proprio quel Renzi lì, quel personaggio e quei modi che hanno funzionato egregiamente nella fase della conquista del potere - un aspetto simpaticamente spigliato, capacità di trovare formule sintetiche per comunicare, una diversità accattivante rispetto al resto della classe politica, un piglio sbrigativo - quel personaggio e quei modi, dicevo, risultano forse assai meno utili quando si tratta di governare (non sarebbe del resto la prima volta). Si può ragionevolmente dubitare, ad esempio, che twittare in misura frenetica o frequentare i talk show di ogni risma affidando i propri messaggi politici a Barbara D’Urso sia il modo migliore per sostenere l’azione di governo.

Insomma, ciò che in questo anno al presidente del Consiglio non è riuscito troppo bene è il passaggio dal Renzi outsider «fiorentino» al Renzi «italiano» di Palazzo Chigi. Non è solo una questione di forma. Si prenda per esempio il caso della «squadra», dei suoi collaboratori più vicini. In questo caso specialmente sarebbe stato forse necessario un salto di qualità tra i due Renzi. Un salto di qualità che invece non sembra esserci stato. Peccato, perché gli uomini politici di rango, quelli che un Paese deve augurarsi di avere alla propria testa, si distinguono anche, se non specialmente, per questo aspetto: per il fatto di circondarsi di persone di valore, pur sapendo che all’occasione persone simili parlano fuori dai denti, potranno contraddirli. Ma le persone di valore sono preziose anche perciò: perché non si limitano solo ad obbedire. In politica come altrove la fedeltà è un’ottima cosa, infatti, purché però faccia rima con sincerità. Egualmente sarebbe meglio che coloro che in televisione parlano a nome del presidente del Consiglio, ne sostengono la causa, si sforzassero di farlo con maggiore capacità argomentativa, con minore ricorso a frasi fatte e a slogan che dopo un po’ mostrano la corda.

Collaboratori capaci, tratti da ambienti diversi, di solide competenze, servono a conoscere e a risolvere i problemi, a immaginare soluzioni adeguate, a essere il centro motore di una forte azione di governo, a produrre consenso. Servono a mantenere aperti canali di comunicazione con tutta la società italiana nelle sue mille e complesse articolazioni; e non soltanto con gli ambienti dell’industria e della finanza, nell’idea (sbagliata) che siano questi i soli ambienti che contano.

Ma da un presidente del Consiglio come Renzi l’opinione pubblica si aspettava soprattutto la novità dei contenuti. Sarebbe ingiusto dire che tali contenuti siano mancati. Alcune riforme significative sono state approvate (penso al Jobs act soprattutto) o messe in cantiere, anche se in alcuni casi tra i più significativi (ad esempio la riforma del Senato o quella della scuola) queste stesse riforme sono apparse prive di una sufficiente ispirazione di principio portata avanti con decisione e coerenza. Ma il punto decisivo, a me pare, è che questi contenuti non sono mai riusciti a saldarsi in un vero discorso al Paese e sul Paese: a trasformarsi cioè in un vero discorso politico in grado di suscitare nel pubblico quel senso di identificazione che diviene consenso elettorale.

Da questo suo giovane presidente del Consiglio spregiudicato e così pieno di vita l’Italia si aspettava sì dei fatti, delle iniziative concrete, ma anche qualcosa di simile, io credo, a un bilancio e a un esame di coscienza: le sole cose da cui è possibile che prenda avvio quel «nuovo inizio» di cui abbiamo bisogno. Di cui il Paese sa nel suo intimo di aver bisogno. Esso avrebbe voluto capire dalla sua voce perché ci troviamo nella situazione in cui ci troviamo, in che cosa abbiamo sbagliato, in che cosa possiamo sperare. Voleva sentire un discorso serio, alto, magari anche drammatico, ma che non fosse fatto solo di richiami all’ottimismo. Un discorso che evocasse il senso di un cammino da intraprendere, che indicasse una prospettiva in cui credere.

Da tempo, infatti, è come se avessimo perso il filo della nostra storia, dopo tutto una storia non indegna. Abbiamo bisogno di ritrovarlo: e alla fine un compito del genere solo la politica può assolverlo. Nel pieno di una stagione difficile l’Italia voleva, e vuole, una guida. Matteo Renzi ha oggi le carte in mano per esserlo più di qualunque altro: ma deve liberarsi di molte scorie e paradossalmente crederci di più. Con più consapevolezza, più autorevolezza, orizzonti più larghi.

21 giugno 2015 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_21/svolta-che-renzi-deve-fare-d6d32fba-17e5-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml
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« Risposta #236 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:47:30 pm »

Integrazione e regole
Il realismo saggio sui migranti

Di Ernesto Galli della Loggia

L’ondata migratoria che sta arrivando sulle coste italiane è il fenomeno potenzialmente più dirompente sul piano sociale e politico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo il terrorismo. Esso riguarda sì l’Africa e l’Asia ma riguarda innanzitutto l’Italia, l’Italia che non fa figli. Degli immigrati noi abbiamo bisogno: altrimenti nel giro di pochi decenni la nostra economia si fermerà, e saremo condannati a divenire una società di vecchi poveri, senza pensione, isterilita, priva di energie vitali, di creatività. La demografia non è una favola, è una scienza: senza l’immigrazione ci avvieremmo ad una lenta ma irreparabile scomparsa. Quanti dei nostri concittadini ne sono consapevoli?

Noi tutti vogliamo invece che l’Italia viva. E che lo faccia restando il Paese che conosciamo e che si è costruito nei secoli della sua tormentata e lunga storia. Vogliamo legittimamente, insomma, restare italiani. Il che vuol dire, per esempio, con le consuetudini e i costumi che quella storia ha prodotto, e anche godendo di quel passabile livello di sicurezza di cui abbiamo finora sempre goduto nelle nostre città e sui nostri treni, di un livello passabile di decoro urbano, di una tranquilla confidenza nei rapporti sociali come più o meno è sempre stato. Tutto questo è però messo in pericolo - pensa una parte dell’opinione pubblica: in genere quella meno favorita dal punto di vista socio-culturale (questo elemento è politicamente importantissimo) - dall’immigrazione.

Forse sbaglia, ma non è certo con il rovesciarle addosso di continuo l’accusa di xenofobia e di razzismo o vacui inviti all’«accoglienza» che le si può fare cambiare idea: anche perché spesso i suoi timori, se non altro per ciò che le dice la sua personale esperienza quotidiana, non appaiono affatto infondati.

È principalmente a tali timori che deve rispondere la politica. Facendo quanto fino ad ora essa si è ben guardata dal fare: cioè innanzitutto dicendo finalmente al Paese quale strategia l’Italia intende adottare non per i barconi che arrivano oggi dalla Libia o per i disperati oggi accampati al Brennero o a Ventimiglia, ma domani e dopodomani e negli anni a venire di fronte al nostro calo demografico e agli immigrati che arriveranno comunque e di cui comunque avremo bisogno.

A mio giudizio l’obiettivo della suddetta strategia può essere uno solo: l’integrazione. Senza se e senza ma. È necessario far capire che l’alternativa non è altro che l’apartheid, sia pure in forma più o meno mascherata. Vale a dire che milioni di uomini e donne giunti da fuori vivano in permanenza tra noi, ci diano il contributo del loro lavoro, però in condizioni di inferiorità, senza i nostri diritti, senza le nostre possibilità e le nostre speranze. Magari scendendo un giorno nelle strade e mettendo tutto a ferro e fuoco per l’esasperazione: è davvero questo che vogliono coloro che pensano che «Salvini alla fin fine non ha tutti i torti» ?

Dunque l’integrazione: l’unica via per rendere compatibili l’immigrazione e la democrazia. Un’integrazione senza se e senza ma: cioè buttando a mare una buona volta tutte le chiacchiere insensate sulla società multiculturale e invece adottando consapevolmente l’obiettivo di fare degli immigrati altrettanti nuovi italiani. Ma al tempo stesso - si guardino le cose come stanno, con saggio realismo - rassicurando il più possibile quelli antichi che ciò non creerà alcuna frattura distruttiva nel panorama umano e culturale cui sono abituati. Il che richiede anche, io credo, l’adozione molto ferma di alcune misure repressive.

Mi espongo a ogni critica indicandone tre: 1) la cancellazione delle attenuanti e l’istituzione di un percorso giudiziario accelerato per quei reati che con più frequenza vedono coinvolti gli immigrati (in modo di arrivare in breve tempo alla sentenza ottenendo così il necessario effetto dissuasivo); 2) il divieto di usare una lingua diversa dall’italiano nelle funzioni religiose, tranne evidentemente per il testo delle preghiere e dei libri sacri; 3) infine, il divieto che in un qualunque edificio più della metà delle abitazioni siano stabilmente occupate da persone prive della cittadinanza italiana .

La cittadinanza è la questione cruciale. E visto che ci sono dirò la mia anche su questo come su altri argomenti funzionali all’obiettivo per me prioritario del «divenire italiani». Lo dirò con proposte concrete, se non altro per cercare di avviare una discussione pubblica non campata in aria, che ritengo quanto mai necessaria.
Andrebbe innanzitutto affermato il principio che se si nasce in Italia si è per ciò stesso italiani (i problemi di doppia cittadinanza si possono risolvere con il buon senso), e che dopo cinque/sette anni di residenza legale si può acquistare la cittadinanza previo un esame di lingua e di cultura italiane. Per il resto, dopo tre anni dal primo ottenimento del permesso di soggiorno, questo dovrebbe essere rinnovabile solo dopo un analogo esame. Dopo di che si ha diritto all’elettorato attivo e passivo per i consigli dei Municipi delle grandi città e per quelli comunali nei centri inferiori a ventimila abitanti.

Altri esempi delle misure possibili per andare nella direzione che auspico: incentivi e/o sgravi economici a tutti gli immigrati che intraprendono in proprio piccole attività artigianali o commerciali; convalida, previo un esame di equipollenza, dei titoli di studio rilasciati dai Paesi di provenienza a chi immigra in Italia; presa in carico parziale o totale da parte dello Stato delle spese per l’istruzione universitaria di giovani immigrati; adozione di un sistema di quote per favorire l’ingresso nelle pubbliche amministrazioni e nelle forze armate e di polizia di cittadini nati da genitori non italiani.

Naturalmente tutto ciò costa, è evidente. Ma non vedrei nulla da eccepire se, di fronte a una politica di solidarietà ambigua e reticente sul tema dell’immigrazione come quella che l’Unione Europea ha tenuta fino ad oggi, il nostro governo decidesse che d’ora in avanti sottrarrà dal contributo annuale che l’Italia versa al bilancio dell’Unione stessa una cifra pari all’ammontare di quanto necessario a finanziare le varie iniziative di cui sopra. Non è forse più in armonia con i grandi principi dell’Europa, tra l’altro, occuparsi della vita di chi arriva tra noi senza nulla, piuttosto che pagare un lauto stipendio a qualche migliaio di burocrati?

24 giugno 2015 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_24/migranti-italia-integrazione-realismo-saggio-ernesto-galli-loggia-028f9046-1a32-11e5-9695-9d78fe24c748.shtml
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« Risposta #237 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:55:48 pm »

La svolta che Renzi deve fare
Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare
Di Ernesto Galli Della Loggia

Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare. Verosimilmente solo così potrà superare con successo lo scoglio delle prossime elezioni politiche (quando ci saranno), senza di che, egli lo sa bene, la sua carriera politica sarebbe virtualmente finita. Cambiare, dunque. E infatti pare che egli abbia detto «Tornerò a fare Renzi», cioè, sembra di capire, tornerò ad essere quello che nel giro di un anno, di slancio e senza fare compromessi, conquistò a suo tempo la segreteria del Pd e il governo del Paese.

Non è detto, però, che proprio questa sia la ricetta giusta. Il cattivo risultato elettorale del Pd sta a indicare, infatti, che forse proprio quel Renzi lì, quel personaggio e quei modi che hanno funzionato egregiamente nella fase della conquista del potere - un aspetto simpaticamente spigliato, capacità di trovare formule sintetiche per comunicare, una diversità accattivante rispetto al resto della classe politica, un piglio sbrigativo - quel personaggio e quei modi, dicevo, risultano forse assai meno utili quando si tratta di governare (non sarebbe del resto la prima volta). Si può ragionevolmente dubitare, ad esempio, che twittare in misura frenetica o frequentare i talk show di ogni risma affidando i propri messaggi politici a Barbara D’Urso sia il modo migliore per sostenere l’azione di governo.

Insomma, ciò che in questo anno al presidente del Consiglio non è riuscito troppo bene è il passaggio dal Renzi outsider «fiorentino» al Renzi «italiano» di Palazzo Chigi. Non è solo una questione di forma. Si prenda per esempio il caso della «squadra», dei suoi collaboratori più vicini. In questo caso specialmente sarebbe stato forse necessario un salto di qualità tra i due Renzi. Un salto di qualità che invece non sembra esserci stato. Peccato, perché gli uomini politici di rango, quelli che un Paese deve augurarsi di avere alla propria testa, si distinguono anche, se non specialmente, per questo aspetto: per il fatto di circondarsi di persone di valore, pur sapendo che all’occasione persone simili parlano fuori dai denti, potranno contraddirli. Ma le persone di valore sono preziose anche perciò: perché non si limitano solo ad obbedire. In politica come altrove la fedeltà è un’ottima cosa, infatti, purché però faccia rima con sincerità. Egualmente sarebbe meglio che coloro che in televisione parlano a nome del presidente del Consiglio, ne sostengono la causa, si sforzassero di farlo con maggiore capacità argomentativa, con minore ricorso a frasi fatte e a slogan che dopo un po’ mostrano la corda.

Collaboratori capaci, tratti da ambienti diversi, di solide competenze, servono a conoscere e a risolvere i problemi, a immaginare soluzioni adeguate, a essere il centro motore di una forte azione di governo, a produrre consenso. Servono a mantenere aperti canali di comunicazione con tutta la società italiana nelle sue mille e complesse articolazioni; e non soltanto con gli ambienti dell’industria e della finanza, nell’idea (sbagliata) che siano questi i soli ambienti che contano.
Ma da un presidente del Consiglio come Renzi l’opinione pubblica si aspettava soprattutto la novità dei contenuti. Sarebbe ingiusto dire che tali contenuti siano mancati. Alcune riforme significative sono state approvate (penso al Jobs act soprattutto) o messe in cantiere, anche se in alcuni casi tra i più significativi (ad esempio la riforma del Senato o quella della scuola) queste stesse riforme sono apparse prive di una sufficiente ispirazione di principio portata avanti con decisione e coerenza. Ma il punto decisivo, a me pare, è che questi contenuti non sono mai riusciti a saldarsi in un vero discorso al Paese e sul Paese: a trasformarsi cioè in un vero discorso politico in grado di suscitare nel pubblico quel senso di identificazione che diviene consenso elettorale.

Da questo suo giovane presidente del Consiglio spregiudicato e così pieno di vita l’Italia si aspettava sì dei fatti, delle iniziative concrete, ma anche qualcosa di simile, io credo, a un bilancio e a un esame di coscienza: le sole cose da cui è possibile che prenda avvio quel «nuovo inizio» di cui abbiamo bisogno. Di cui il Paese sa nel suo intimo di aver bisogno. Esso avrebbe voluto capire dalla sua voce perché ci troviamo nella situazione in cui ci troviamo, in che cosa abbiamo sbagliato, in che cosa possiamo sperare. Voleva sentire un discorso serio, alto, magari anche drammatico, ma che non fosse fatto solo di richiami all’ottimismo. Un discorso che evocasse il senso di un cammino da intraprendere, che indicasse una prospettiva in cui credere.

Da tempo, infatti, è come se avessimo perso il filo della nostra storia, dopo tutto una storia non indegna. Abbiamo bisogno di ritrovarlo: e alla fine un compito del genere solo la politica può assolverlo. Nel pieno di una stagione difficile l’Italia voleva, e vuole, una guida. Matteo Renzi ha oggi le carte in mano per esserlo più di qualunque altro: ma deve liberarsi di molte scorie e paradossalmente crederci di più. Con più consapevolezza, più autorevolezza, orizzonti più larghi.

21 giugno 2015 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_21/svolta-che-renzi-deve-fare-d6d32fba-17e5-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml
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« Risposta #238 inserito:: Luglio 09, 2015, 07:14:09 pm »

Una Ue mediocre risveglia le nazioni
La pochezza delle classi dirigenti europee, che hanno creduto di poter fare a meno del consenso dei popoli, ha generato il fallimento.
Le istituzioni comunitarie hanno perso credibilità agli occhi dei cittadini, che le ritengono troppo lontane

di Ernesto Galli della Loggia

Per l’europeismo ufficiale — quello che da anni domina la retorica politicoburocratico-giornalistica — la sconfitta del voto greco non potrebbe essere più bruciante. Convinto in virtù dei suoi chilometrici trattati e delle sue brillanti politiche di poterla fare finita una volta per tutte con i nazionalismi europei, esso assiste oggi alla più violenta esplosione di sentimenti nazional / nazionalistici che il Continente abbia conosciuto dal 1945 in poi. Un’esplosione conseguenza diretta di quei trattati e di quelle politiche, e che quasi sempre, ahimè, si trascina dietro demagogie isolazionistiche, pulsioni xenofobe, fremiti di vario autoritarismo. Un bel risultato, non c’è che dire.

Un risultato non casuale. Esso infatti è la conseguenza del duplice fraintendimento che ha accompagnato tutta la vita della costruzione europea, e che costituisce il motivo conduttore di quel Manifesto di Ventotene che l’Unione continua inspiegabilmente a considerare come una sua pietra di fondazione. Il duplice fraintendimento è consistito e consiste: a) nel considerare ormai esaurita ogni funzione storica positiva dello Stato nazionale, e b) nel credere dunque che la semplice esistenza del suddetto Stato sia destinata a produrre inevitabilmente la patologia del nazionalismo. Partendo da questo erroneo giudizio, l’Europa non è mai riuscita a ragionare intorno a un dato decisivo: e cioè che nella concreta esperienza del continente lo Stato nazionale che essa intendeva «superare» era tuttavia, né più né meno, che il contenitore storico della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa. E che dunque ogni colpo portato alla sua esistenza, ai suoi poteri, alla sua sovranità, ogni ampliamento dell’ambito di competenze comunitarie (figuriamoci poi nel caso della moneta!), rischiava di suscitare prima o poi una reazione tra i cittadini europei, per l’appunto in nome del sentimento democratico. Come infatti è puntualmente avvenuto e sta avvenendo dappertutto; come sempre più sicuramente avverrà. Questo è il segnale che giunge da Atene. Al limite l’oggetto del voto (l’austerità richiesta da Bruxelles) è un dato secondario. Ciò che conta è il carattere dirompente della contrapposizione: da una parte degli organi burocratici, dei conciliaboli riservati di ministri e primi ministri (senza pubblicità di dibattiti, senza composizioni formali: perché oggi, ad esempio, un incontro Hollande-Merkel da soli? Chi l’ha deciso?) e dall’altra la volontà popolare e la sua sovranità.

A questo siamo arrivati per colpa della pochezza delle classi dirigenti politiche europee che da vent’anni gestiscono l’Unione. Una pochezza che tra l’altro — almeno nel caso dei politici italiani — subito, appena questi siedono in qualche consesso europeo, si ammanta di una supponenza sussiegosa che poi dispiegano anche quando discettano di Europa una volta tornati a casa. E così, pur essendo essi, e solo essi, gli autori di trattati ritenuti in seguito unanimemente sbagliati, di politiche che hanno mancato l’obiettivo, di mostruosi progetti di costituzione mai andati in porto, sono qui ancora oggi che mentre tutto va in pezzi, invece di osservare almeno un cauto silenzio, si ergono a critici pensosi e sapienti dei loro stessi sbagli e delle loro stesse opinioni di ieri. L’Europa ha perso paurosamente di credibilità agli occhi dei suoi cittadini anche per questa diffusa irresponsabilità politica, contraria a ogni regola democratica: chi sbaglia non paga mai, e anzi continua a farla da maestro.

Ma è una pochezza che a ben vedere ha riguardato e riguarda, prima che gli uomini, entrambe le culture politiche finora egemoni nell’Europa occidentale del dopoguerra e quindi anche a Bruxelles: quella cristiano-democratica e quella socialdemocratica (nella quale sono poi confluiti gli ex comunisti). Nell’ambito europeo, sottratte a ogni vera competizione e avvolte nella morbida atmosfera del compromesso continuo, esse hanno trovato la sede elettiva per acquisire, insieme a una loro compiaciuta e definitiva ufficialità una completa spoliticizzazione. È come se frequentando l’Ue cristiano-democratici e socialdemocratici avessero smarrito ogni senso vivo della storia europea e della drammaticità dei suoi nodi peculiari (lo Stato nazionale, i vincoli di consenso posti dalla democrazia, ma anche il problema del confine orientale, il rapporto con la sponda sud del Mediterraneo, eccetera). Ogni senso vivo della storia innanzitutto politica dell’Europa. E del loro rapporto con essa.

Adagiatesi nel conformismo comunitario dell’ortodossia economico-sociale, le due principali culture politiche del Continente appaiono da anni incapaci di pensare nient’altro che la routine, di avere uno scatto d’immaginazione, un sussulto d’indignazione, di abbandonare le strade rivelatesi sbagliate: in fin dei conti di ricordarsi le ragioni per cui sono nate e degli elettorati che esse rappresentano.

Di fronte al precipitare della crisi greca, e poi al voto di domenica, è stato impressionante lo spettacolo offerto in particolare dalla sinistra europea: ascoltare le incertezze di Hollande e di Renzi, vedere la socialdemocrazia tedesca immediatamente pronta a proclamare la propria fedeltà alla cancelliera Merkel. Ma intendiamoci, un maggiore bagaglio di idee e di visione non hanno certo mostrato i loro avversari interni. Per restare in Italia, i vari Fassina, Vendola, D’Attorre, che cosa hanno saputo proporre se non vuoti slogan a base di «Una politica di sviluppo», «No all’Europa delle banche», «Sì a un’Europa democratica»? Già: ma come? Con quali regole? Con quali istituzioni? Nessuno lo sa.

7 luglio 2015 | 09:37
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Da -http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_07/unione-mediocre-risveglia-nazioni-15b176a0-2476-11e5-8714-c38f22f7c1da.shtml
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« Risposta #239 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:26:00 pm »

Il caso Germania
Le regole che non fanno la politica

Di Ernesto Galli della Loggia

A scadenza fissa la Germania torna a presentarsi come la detentrice del primato in Europa, e quindi come la candidata elettiva alla sua guida. Aggirato e rimosso in varie maniere, è questo il dato centrale da cui ogni discussione sull’unità europea, - ogni discussione vera, e cioè che non navighi nei cieli delle chiacchiere e delle buone intenzioni - dovrebbe partire. È un fatto: la Germania ha una naturale spinta a primeggiare - e di gran lunga - su tutti gli altri Paesi dell’area continentale (esclusa quindi la Gran Bretagna, fondamentalmente grazie alla sua antica insularità oceanica); e questa spinta a primeggiare tende, prima o poi, a trasformarsi in una volontà di strutturazione centralizzata dell’intera area europea sotto il comando di fatto di Berlino.

La spinta tedesca al primato nell’Unione Europea ha dunque un che d’inevitabile. Appartengono infatti alla Germania la popolazione più numerosa, le esportazioni più cospicue, l’economia più forte sostenuta da un’alta produttività, la tecnologia e la ricerca tra le più avanzate, strettissimi legami linguistici e/o culturali e quindi d’influenza con numerosi altri Paesi come Austria, Svizzera, Danimarca, Lettonia, Estonia; infine essa possiede una posizione geografica che la proietta immediatamente verso Oriente, fino alla Russia, con funzioni di naturale economia-guida se non di vera e propria leadership culturale. Da 150 anni l’Europa è chiamata a fare i conti con la potenza tedesca. Egualmente, da 150 anni la Germania cerca come giustapporre la sua potenza alla struttura tradizionale dell’Europa, cerca come rendere in qualche modo compatibile la prima con la seconda.
Per ben due volte nel corso del secolo scorso, nel 1914 e poi di nuovo nel 1939, la via scelta dalla potenza tedesca è stata come si sa la guerra: cioè la decisione di tradurre la propria potenza in dominio, di attuare «manu militari» il disegno di una grande sfera d’influenza e di conquista all’interno dello spazio europeo.

Oggi non siamo di fronte a nulla di simile, per fortuna. Ma la sostanza del problema di fondo è la medesima: quali rapporti possono esserci tra la Germania e l’Europa, tali da far combaciare il peso soverchiante della prima, i suoi modelli economici, culturali e ideologici, con le esigenze di autonomia del sistema degli Stati nazionali che caratterizza la seconda? Tali da far stare le due cose insieme? Il problema non sarebbe oggi così drammaticamente evidente se in tutti questi decenni del dopoguerra, da che è tornato ad essere il Paese principe dell’Europa, alla Germania fosse riuscita l’operazione di trasformare la sua crescente potenza, anziché in aspirazione al dominio, in esercizio di un’egemonia. In capacità di costruire un’egemonia.

Il dominio - sia che prenda una forma bellico-militare sia che prenda quella dell’imposizione di regole e vincoli economici - alla fine appare sempre a chi lo subisce l’espressione diretta di puri rapporti di forza, e pertanto qualcosa di duro, di autoritario, di necessariamente odioso. L’egemonia, viceversa, è la capacità di trasformare la potenza in una vasta e multiforme influenza indiretta, esportando modi di vita e di pensare, popolarizzando personaggi e luoghi-simbolo, modellando l’immaginario altrui secondo il proprio, dando forme nuove, le proprie, agli oggetti della quotidianità. L’egemonia, per capirci, è ciò di cui si sono mostrati e si mostrano supremamente capaci gli Stati Uniti: con Hollywood, Lincoln, i jeans, la Statua della libertà e la Coca-Cola.

Ma è proprio ciò di cui non si mostra capace la Germania. Rispetto all’Europa essa non riesce ad esportare altro che automobili e frigoriferi, riesce ad associare il suo nome solo all’aspirina e ai semiconduttori elettronici. Nessun europeo ha mai cantato una canzone tedesca, letto un libro giallo tedesco, o visto, tranne quelli con l’ispettore Derrick, un film tedesco. È vero, Berlino è un mito della gioventù europea ma, sospetto, molto più per il livello dei suoi servizi, il basso costo della vita e le generose opportunità economiche verso gli stranieri, che per la bellezza architettonica della Potsdamer Platz o per altro. Tra il Tiergarten e il Central Park continua a non esserci partita.

In tal modo alla Germania fanno difetto in Europa la generica simpatia, il consenso, che un tal genere di egemonia procura. E forse anche per questo essa non riesce a tradurre il suo potere economico in vera leadership politica: qualcosa di cui però essa per prima, paradossalmente, sembra non sapere che cosa sia e quasi non avvertire il bisogno. Trincerata dietro le sue ammirevoli performance produttive e l’altrettanto ammirevole qualità della sua vita civile, la Germania attuale appare ben poco interessata, infatti, a trasmettere un’immagine di sé che vada oltre questi aspetti. E così, nel modo come si propone all’esterno, essa appare fondamentalmente autoreferenziale, tutta riconducibile solo alle sue statistiche, incapace di proporre all’Europa una prospettiva che vada oltre il feticistico «rispetto delle regole» così ossessivamente richiamato in questi ultimi tempi.
Ma «il rispetto delle regole» può andar bene come norma fondamentale per un condominio, non per un progetto storico di una portata così ambiziosa come quello dell’unione del Continente. Con il rispetto delle regole non si è mai creato nulla, e mai nulla si creerà. Per questo ci vuole la politica, solo la politica: quella cosa fatta di passioni e di audacia, di lungimiranza e di creatività, e poi anche delle parole per dirlo, che nessuno avrebbe mai pensato che proprio la patria di Schiller e di Weber potesse mai dimenticare.

19 luglio 2015 (modifica il 19 luglio 2015 | 08:51)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_19/regole-che-non-fanno-politica-403c5dd8-2dde-11e5-804a-3dc4941ce2e9.shtml
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