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Autore Discussione: Piergiorgio ODIFREDDI.  (Letto 72863 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 11, 2011, 04:29:30 pm »

PIERGIORGIO ODIFREDDI

11
mar
2011

Giallo sul nuovo libro del papa


Oggi sono andato in libreria a comprare il libro del papa.
Il libraio mi ha riconosciuto, e mi ha mostrato una sedicente “Lettera di embargo” che la RCS Libri aveva mandato nei giorni scorsi a tutti i librai.

Poichè la cosa ha dell’inusuale, oltre che del ridicolo e del paranoico, la riproduco qui, nonostante fosse ovviamente da tenere “segreta”.

Buona lettura, e buona meditazione!


 **************

Milano, 1 marzo 2011

Oggetto: Gesù di Nazaret, Joseph Ratzinger – Benedetto XVI  [d’ora in avanti, l’Opera],  data di embargo 10 marzo 2011

     Gentile libraio,

qualora riceviate il volume in oggetto prima di giovedì 10 marzo 2011, Vi informiamo che le copie che Vi abbiamo consegnato sono soggette a embargo sino a quella data. La motivazione dell’embargo è la salvaguardia dei contenuti editoriali ed il rispetto del primo giorno di Quaresima, ovvero il primo giorno liturgico “forte” a carattere battesimale e penitenziale che coincide con il 9 marzo 2011.

Questo significa che nessuna copia dell’Opera o anche solo il suo contenuto o parte di esso può essere messa in vendita o comunque divulgata prima del 10 marzo 2011.

Quindi, qualora le copie Vi siano arrivate prima di giovedì 10 marzo 2011, Vi chiediamo tassativamente di rispettare la data di messa in vendita e, data l’eccezionalità del caso, di impegnarVi affinchè:

1) fino alla data di embargo i volumi, all’interno delle Vostre strutture, siano mantenuti in un luogo sicuro, accessibile solo al personale autorizzato, sottoposti a controlli adeguati per evitare accessi non autorizzati;

2) gli impiegati delle Vostre strutture siano a conoscenza della natura confidenziale dell’Opera e del vostro impegno a mantenere l’embargo;

3) nessuno, inclusi partner, direttori, impiegati, agenti e altre figure professionali che accedono alla Vostra struttura abbia accesso al contenuto dei volumi;

4) non vengano copiati in alcuna forma, nè riprodotti, nè stampati, nè comunicati, nè pubblicati e nè divulgati in alcun modo i contenuti dell’Opera, nè vengano autorizzati terzi a compiere alcuna delle suddette operazioni.

Vi chiediamo inoltre tassativamente di informare immediatamente la Direzione Commerciale RCS Libri di qualunque tentativo effettuato di rottura di questo embargo di cui possiate venire a conoscenza o di qualunque divulgazione o fornitura non autorizzate di parte o tutti i contenuti dell’Opera. Qualora si verifichi questa circostanza dobbiamo avere da Lei piena collaborazione alle azioni che noi, a nostra discrezione, riterremo opportune per impedire ulteriori danni derivanti da violazioni dell’embargo.

Questa Lettera di embargo contiene i termini integrali del nostro accordo relativo all’Opera e alla sua divulgazione e sostituisce ogni accordo verbale o scritto precedente relativamente ad essa. I termini di questa Lettera di embargo rimangono confidenziali a prescindere da eventuali rotture dell’embargo da parte di terzi.

RingraziandoVi per la Vostra sollecita collaborazione, Vi salutiamo cordialmente

     Angela di Biaso

     Direttore Commerciale Divisione Libri

****************

Nessuna spiegazione razionale mi viene in mente.

Posso solo immaginare che, scambiando Ratzinger per Dan Brown, si volesse proteggere il segreto sull’esistenza o meno di un assassinio nel romanzo, e dell’eventuale assassino. E correre ai ripari in caso di embargo, cambiando il finale.

E posso solo ricordare che, mentre la lettura del libro doveva essere impedita per rispetto del Mercoledì delle Ceneri, il papa offrirà a RaiUno un’intervista sullo stesso il Venerdì Santo, che ovviamente non è così degno di rispetto.

Misteri della fede …

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« Risposta #31 inserito:: Marzo 11, 2011, 04:30:13 pm »

PIERGIORGIO ODIFREDDI


10
mar
2011

Se lo dice lui

Finalmente oggi esce il secondo volume del Gesù di Nazaret del papa. Mi precipiterò a comprarlo e leggerlo, anche perchè la copertina riporta la sconvolgente dichiarazione: “Il Signore è veramente risorto. Egli è il vivente”. Firmato, Benedetto XVI.

Cosa voglia dire “veramente”, il papa l’ha spiegato con precisione nella prefazione all’intera opera, in cui dichiarava di voler “presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio”. Dunque, per Benedetto XVI “veramente” significa non ciò che sta scritto nei libri di storia, ma ciò che sta scritto nei Vangeli.

E’ chiaro che, con questo criterio, qualunque religione può decidere cos’è successo “veramente”, sulla base della propria mitologia. E il metodo storico, dove va a finire? In soffitta, per i motivi spiegati dallo stesso Benedetto XVI nella stessa prefazione.

Anzitutto, “i progressi della ricerca storico-critica condussero a distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di essi, la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più nebulosa, prese contorni sempre meno definiti”.

E poi, “come risultato comune di tutti questi tentativi è rimasta l’impressione che, comunque, sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perchè rende incerto il suo autentico punto di riferimento”.

In altre parole, evangelicamente, Benedetto XVI giudica l’albero dai suoi frutti. E poichè i frutti della storiografia portano a una “drammatica” decostruzione del cristianesimo, per ricostruire quest’ultimo egli rimuove semplicemente l’intero albero, e con esso il principio di realtà.

Addirittura, nel suo commento alle tentazioni di Gesù il papa parte dall’osservazione che “il diavolo si rivela conoscitore della Scrittura”, per concludere che “l’interpretazione della Bibbia può effettivamente diventare uno strumento dell’Anticristo”.

Il papa ribalta dunque l’ordine logico delle cose, declassando quelle che dovrebbero essere le tesi fondamentali del cristianesimo a mere ipotesi. Che vengono fatte riposare unicamente sull’osservazione che “solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell’epoca, si spiega la sua efficacia”.

Analogamente, nella sua famosa Introduzione al cristianesimo Benedetto XVI aveva ammonito che “forse dovremmo fidarci di più dell’attualità della fede che resiste ai secoli, fede che per sua stessa natura non ha voluto essere altro che un comprendere”.

La debolezza di questi argomenti sta nel fatto che essi si potrebbero applicare, nello stesso identico modo, per rivendicare la verità storica e teologica di qualunque altra religione che abbia avuto altrettanta efficacia, e la cui fede abbia resistito altrettanti secoli. In primis, l’induismo e il buddhismo, che possono vantare una storia altrettanto veneranda e un insegnamento altrettanto sapienziale del cristianesimo. Anzi, molto di più.

Privilegiare la fede alla storia spinge invece, mi sembra, a un doppio errore: la sottovalutazione delle religioni altrui, e la sopravvalutazione della propria. E il Gesù di Nazaret cerca infatti di supplire al difetto di prove storiche con un eccesso di affermazioni apodittiche e di aggettivi superlativi, che paiono mirare più all’indottrinamento che alla dottrina.

Leggiamolo pure, dunque, se ci interessa sapere cosa pensa il papa di Gesù, e se siamo sensibili alle iperboli letterarie. Ma non aspettiamoci da lui che ci dica ciò che è “veramente” successo, benchè questo sia ciò che promette di fare fin dalla copertina.

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« Risposta #32 inserito:: Marzo 15, 2011, 05:11:13 pm »


15
mar
2011

Piergiorgio ODIFREDDI

Attenti al gorilla (nucleare)

Le drammatiche notizie che arrivano dal Giappone, relative alle esplosioni nella centrale di Fukushima, si configurano come una vera e propria tragedia nucleare nella tragedia tellurica e tsunamica. Sarebbe singolare che proprio il primo, e finora unico, paese a essere stato vittima di esplosioni nucleari belliche causate da attacchi esterni, diventasse anche il primo a rimanere vittima di esplosioni nucleari tecnologiche causate da impianti interni.

Nonostante le ferite e la memoria di Hiroshima e Nagasaki, il Giappone aveva infatti scelto di votarsi ugualmente all’energia nucleare, confidando come ogni Apprendista Stregone di poterla controllare. Ed era diventato uno dei tre paesi che le si affidano in maniera sostanziosa, per i propri fabbrisogni energetici: con le sue 65 centrali, si poneva infatti dietro agli Stati Uniti e prima della Francia, che ne hanno rispettivamente 104 e 58.

Il patto col diavolo non ha evidentemente funzionato, e ora Fukushima andrà ad aggiungersi ai nomi maledetti di Three Miles Island negli Stati Uniti nel 1979, e di Chernobyl in Unione Sovietica nel 1986. Anche se già un’altra volta, nel 1999 a Tokaimur, il Giappone aveva rischiato il disastro.

Come tutti sanno, gli incidenti costituiscono comunque solo una delle due facce del problema nucleare. L’altra è, ovviamente, lo smaltimento delle scorie e dei rifiuti radioattivi: non solo delle centrali, ma anche industriali, ospedalieri e bellici. Un problema che, a tutt’oggi, rimane irrisolto. E che, a differenza delle casualità nelle quali l’ottimismo potrebbe anche far sperare di non cadere, si configura invece come una necessità dalla quale il realismo ci assicura che non si può pensare di evadere.

Gli Stati Uniti hanno provato ad affrontarlo, costruendo un enorme sito a Yucca Mountain nel deserto del Nevada, a un centinaio di chilometri da Las Vegas, in cui concentrare appunto le scorie e i rifiuti nazionali. Doveva essere terminato nel 1998, e invece ci vorranno ancora dieci anni per completarlo. Quand’anche diventasse operativo, sarebbe comunque già insufficiente per i fabbrisogni passati, lasciando aperto il problema per il futuro. Il condizionale è d’obbligo, però, a causa delle polemiche che la sua costruzione ha sollevato, dai costi ai livelli di contaminazione dell’ambiente.

La domanda cruciale è: se nemmeno i paesi più tecnologicamente avanzati e meglio organizzati riescono a gestire i problemi del nucleare, non è una vera e propria follia che proprio l’Italia abbia recentemente deciso di affidarglisi? Un paese che non riesce a organizzare nemmeno la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti ordinari, può veramente pensare di essere in grado di riuscire là dove hanno fallito tutti gli altri?

Molto più dei suoi patetici e irrilevanti scandali a sfondo sessuale, sono proprio questi progetti tecnologici a rendere il Presidente del Consiglio un letterale pericolo pubblico, e sono proprio essi che dovrebbero preoccupare gli italiani e spingerli a liberarsi di lui.
E anche del suo singolare Ministro per l’Ambiente, che è forse l’unica al mondo a interpretare la sua funzione non nel senso di salvaguadarlo, questo ambiente, ma di metterlo in serissimo pericolo spingendo affinchè la tecnologia più rischiosa e pericolosa che si conosca venga messa nelle mani dal popolo più pasticcione e cialtrone che ci sia al mondo.

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« Risposta #33 inserito:: Marzo 19, 2011, 10:58:26 am »

Piergiorgio ODIFREDDI

17
mar
2011

Essere o non essere (italiani)

Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell’inno nazionale
di cui un po’ mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
se arrivo all’impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.

Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po’ sfasciato.
E’ anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c’è un’aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos’è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c’è un’altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido “Italia, Italia”
c’è solo alle partite.
Ma un po’ per non morire
o forse un po’ per celia
abbiam fatto l’Europa
facciamo anche l’Italia.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.

(Giorgio Gaber)

Scritto giovedì, 17 marzo 2011 alle 11:08 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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« Risposta #34 inserito:: Marzo 27, 2011, 06:34:40 pm »

Piergiorgio ODIFREDDI

19
mar
2011

Voltafaccia all’italiana


E’ significativo e appropriato che, nel momento delle celebrazioni dell’Unità d’Italia, gli italiani, o almeno i rappresentanti istituzionali da loro liberamente eletti, soffino sulle candeline della torta confermando una delle nostre doti più caratteristiche: la capacità di fare i peggiori voltafaccia a cuor sereno, adducendo le motivazioni più false.

Il più vergognoso di questi voltafaccia è forse quello nei confronti di Gheddafi e della Libia. Un anno fa abbiamo dovuto assistere
all’accoglienza da terzo mondo riservata al colonnello, col quale Berlusconi aveva addirittura firmato un trattato d’amicizia fra i popoli libico e italico. Durante lo scoppio della crisi, silenzio. E ora siamo pronti non solo ad assistere silenti all’invasione del paese, ma a parteciparvi attivamente, fornendo basi e truppe.

Forse che Gheddafi è diverso oggi, da com’era un anno fa? Ovviamente no. Il voltafaccia ha motivazioni molto terra terra, benchè il ministro della Difesa abbia coraggiosamente assicurato che nelle operazioni i nostri non metteranno piede sull’ex paese amico. Queste motivazioni sono che gli Stati Uniti e la Francia hanno deciso di intervenire, e c’è il rischio che ci sostituiscano nello sfruttamento commerciale del paese.

Naturalmente, le motivazioni di Obama e Sarkozy non sono molto più elevate. In fondo, presiedono entrambi paesi che sono ancora letteralmente coloniali: nel senso di possedere letterali colonie, che vanno da Puerto Rico alla Nuova Caledonia. E si tratta di paesi che hanno sempre avuto interessi in generale nel Nord Africa, e in particolare in Libia: ad esempio, il primo intervento armato che gli Stati Uniti effettuarono al di fuori del continente americano fu appunto un bombardamento su Tripoli, nel … 1804!

Ma restiamo ai nostri voltafaccia. Un altro è seguìto agli incidenti nucleari causati dal terremoto del Giappone. Mentre tutto il mondo faceva un esame di coscienza e meditava sull’energia atomica, il governo italiano continuava a dichiarare imperterrito che avrebbe mantenuto in vita il programma di costruzione delle centrali nucleari. Salvo accorgersi che la cosa poteva danneggiarlo dal punto di vista elettorale, come si è lasciata scappare “fuori onda” l’ineffabile ministro per l’Ambiente. E allora, marcia indietro, senza nessun problema.

Naturalmente, non possiamo dimenticare che è proprio grazie a questa nostra dote naturale che siamo risultati i veri vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Gli unici, cioè, che sono sempre stati dalla parte dei vincitori, per tutto il conflitto: prima con l’asse, e poi con gli alleati. All’epoca si diceva che eravamo il doppio di quanti sembravamo, cioè 90 milioni: 45 milioni di fascisti prima della guerra, e 45 milioni di antifascisti dopo.

D’altronde, a proposito di fascisti, cos’altro era il Concordato del 1929, se non un altro storico voltafaccia? Personale, dell’ateo Mussolini. E nazionale, dell’Italia risorgimentale che aveva sconfitto lo Stato Pontificio ed era sorta sulle sue ceneri. Per 68 anni, dal 1861 al 1929, appunto, quell’Italia era rimasta laica e libera, e da un giorno all’altro si era ritrovata clericale e coatta.

Eppure, nelle celebrazioni di questi giorni quell’Italia è assente. Perchè dovunque, in prima fila tra le autorità alle cerimonie, si vedono vescovi e cardinali. Quando non avviene il contrario, e ad essere in prima fila sono invece le autorità alle celebrazioni religiose. Addirittura, il 17 marzo, alla solenne messa celebrata dal Segretario di Stato e conclusa con il canto del Te Deum: che i preti, naturalmente, hanno ragione a cantare, per ringraziare Dio di aver reso così malleabili e generosi i governanti italiani.

Naturalmente, tra i cantanti del coro ce n’erano molti che stavano facendo anch’essi il loro bel voltafaccia. A partire dal presidente della Repubblica, (ex) comunista e ateo come il miglior Togliatti: responsabile, quest’ultimo, dello storico voltafaccia alla Costituente che causò il recepimento del Concordato clerico-fascista nell’articolo 7 della Costituzione laico-repubblicana.

Noi italiani siamo fatti così. E questo ci infonde speranza, perchè presto o tardi faremo un nuovo voltafaccia, e gireremo le spalle anche a Berlusconi. Non si troverà più uno che ammetterà che l’aveva votato, così come una volta non si trovava uno che ammettesse di aver votato la Democrazia Cristiana, che pure era il partito di maggioranza relativa. A festeggiare l’Italia dei voltafaccia, io aspetterò quel momento, anche se sarà ormai troppo tardi per gioire.

Scritto sabato, 19 marzo 2011 alle 18:50 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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« Risposta #35 inserito:: Marzo 28, 2011, 04:58:31 pm »

28
mar
2011

Piegiorgio ODIFREDDI

Fino a quando, De Mattei?

Secondo il Decreto Legislativo del 4 giugno 2003 sul Riordino del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il C.N.R. è “Ente pubblico nazionale con il compito di svolgere, promuovere, diffondere, trasferire e valorizzare attività di ricerca nei principali settori di sviluppo delle conoscenze e delle loro applicazioni per lo sviluppo scientifico, tecnologico, economico e sociale del Paese, perseguendo l’integrazione di discipline e tecnologie diffusive ed innovative anche attraverso accordi dicollaborazione e programmi integrati”.

Dal 2004 il ruolo di vicepresidente dell’Ente è ricoperto, per decisione dell’allora (e ora) Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e su proposta dell’allora Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Letizia Moratti, di un candidato sorprendentemente fuori luogo: Roberto De Mattei, professore associato di Storia del Cristianesimo e della Chiesa alla privata Università Europea di Roma, presidente della Fondazione Lepanto, direttore del mensile Radici cristiane, dirigente di Alleanza Cattolica e consigliere del Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini per le questioni internazionali.

De Mattei ha agito discretamente fino agli inizi del 2009, quand’è uscito allo scoperto con “un workshop promosso a Roma il 23 febbraio dalla Vice-Presidenza del Consiglio Nazionale delle Ricerche, per offrire un contributo scientifico al dibattito in corso nell’anno darwiniano”, di cui sono poi usciti gli atti intitolati Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi, a cura dello stesso De Mattei (Cantagalli, 2009).

In tal modo il nostro massimo ente pubblico di ricerca scientifica si è trovato schierato, suo malgrado, a fianco dei creazionisti più retrivi, nel più ufficiale atto antievoluzionista dopo il Decreto Legislativo del 18 febbraio 2004, con cui la Moratti aboliva l’insegnamento dell’evoluzionismo nelle scuole medie. Decreto poi parzialmente rientrato, a causa della protesta popolare guidata dai due premi Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco.

Leggere gli atti del suo convegno o discutere col professor De Mattei, come ho avuto il dubbio onore di poter fare il 20 novembre 2009 a Chiasso, è un’esperienza sconcertante: in contrapposizione ai suoi modi raffinati e gentili, le sue affermazioni sono infatti una vera e propria summa della disinformazione più grossolana e presuntuosa a proposito di Darwin e del darwinismo in particolare, e della scienza in generale.

Niente di male, ovviamente, se non fosse che queste affermazioni vengono dal vicepresidente del C.N.R., che per l’articolo 3 del Regolamento “sostituisce il presidente in caso di assenza o impedimento” e fa parte del ristretto Consiglio di Amministrazione, che per l’articolo 4 “ha compiti di indirizzo e programmazione generale dell’attività dell’Ente”.

Ci si può domandare che indirizzo o programmazione possano mai venire da chi scrive e dice che i dinosauri sono scomparsi non sessanta milioni, ma poche migliaia di anni fa, o che le specie sono state create immutabili dal Creatore. E ci si può chiedere fino a quando non avranno niente da dire gli elettori in generale e gli scienziati in particolare, costretti a sopportare con vergogna un tale vicepresidente al C.N.R.

In questi giorni, la domanda è tornata d’attualità per l’intervento che De Mattei ha fatto il 23 marzo a Radio Maria, nel quale ha sostenuto che il terremoto e lo tsunami del Giappone, e più in generale le catastrofi naturali, sono “una voce terribile ma paterna della bontà di Dio”, una “esigenza della giustizia di dio, della quale sono giusti castighi”.

L’intervento completo di De Mattei si può trovare sul sito http://dimissionidemattei.wordpress.com/ , insieme a una petizione per le sue dimissioni. Ciascuna firma è una goccia, e serve a dimostrare che il vaso è colmo. Anche se c’è da dubitare che Berlusconi si dimostrerà sensibile a una domanda di civiltà, e disposto a rimediare a un guaio che lui stesso ha creato.

Scritto lunedì, 28 marzo 2011 alle 11:20 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

da - odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/03/28/
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 05, 2011, 10:30:59 pm »

3
apr
2011

Piergiorgio ODIFREDDI

Le invasioni barbariche

Lo storico Alessandro Barbero ha scritto qualche anno fa due libri bellissimi e tragicissimi: 9 agosto 378. Il giorno dei barbari (Laterza, 2005) e Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano (Laterza, 2006). E al Festival di Sarzana del 2007 li ha raccontati in tre serate, intitolando la serie delle sue conferenze Le invasioni barbariche.

Chi abbia letto le sue pagine, o sentito le sue parole, non ha potuto fare a meno di sostituire “barbari’” con “extracomunitari”, e “impero romano” con “comunità europea”, tanto erano evidenti le analogie tra i fatti di allora e quelli di ora. E naturalmente era proprio questo ciò che Barbero intendeva suggerire con i suoi resoconti storici.

Quello che colpiva allora, e colpisce ora, erano e sono le ineluttabili forze oggettive che determinavano e determinano i fatti, da un lato. E le impotenti volontà soggettive che si illudevano e si illudono di riuscire a esoricizzarli, dall’altro: in particolare, attraverso impotenti misure di calmieramento dell’invasione, della stessa natura e della stessa inefficacia di quelle dei nostri antenati.

Credere di poter fermare la fine del sistema capitalistico occidentale attraverso una regolamentazione del flusso dell’immigrazione, è come sperare di poter fermare la caduta libera di un masso facendo le corna, o di poter far piovere facendo una danza o recitando una preghiera appropriate. Non a caso, i nostri governanti sono appunto del tipo di quelli che fanno le corna, danzano e pregano.

La realtà dei fatti, detta in una parola, è semplicemente che il venti per cento della popolazione mondiale possiede l’ottanta per cento della ricchezza e consuma l’ottanta per cento delle risorse mondiali. E poichè la storia dei popoli funziona secondo il principio dei vasi comunicanti, essa doveva tendere prima o poi a far trasferire i tre quarti di questa ricchezza e di queste risorse al rimanente ottanta per cento della popolazione, per riequilibrare le cose.

Se veramente avessimo voluto evitare che si preparassero le nuove invasioni “barbariche”, avremmo dovuto pensarci prima, e dirottare una vasta percentuale delle nostre ricchezze ai paesi del terzo mondo, per creare in essi condizioni di vita che riequilibrassero almeno in parte lo squilibrio che oggi sta provocando l’esodo.

Non l’abbiamo fatto, e non facendolo abbiamo dimostrato di non aver imparato la lezione della storia. E non abbiamo nemmeno l’attenuante di essere stati colti di sorpresa, perchè queste migrazioni si erano appunto già verificate, e dovevamo riaspettarcele. Hanno dunque poco da sbraitare i leghisti e i razzisti che credono di fermare gli extracomunitari che premono alle porte.

Non li fermeremo, e proprio grazie alla loro ottusa miopia. La miopia di chi crede che per fermarli basti fare pellegrinaggi alle sorgenti del Po, imporre il Sole delle Alpi sui muri dei locali pubblici, biascicare in dialetto fora dai ball, rivendicare le origini cristiane dell’Europa e altre amenità del genere. La miopia di chi non capisce che se fossero queste le cose che dovremmo salvare, allora sarebbe meglio aprire le porte all’invasione perchè tutto si compisse il più presto possibile.

Diciamoci la verità: i veri barbari sono loro, e non certo quei poveracci che sognano di trovare la civiltà in casa nostra. E quando tra qualche secolo un novello Barbero racconterà il modo in cui sarà successo ciò che ha già cominciato a succedere, non è detto che invece di “invasioni barbariche” non parlerà di “caduta della barbarie”.

da - odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/04/03/
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« Risposta #37 inserito:: Aprile 11, 2011, 08:42:34 pm »

10
apr
2011

Il premio Nobel per la religione

Piergiorgio Odifreddi


La Fondazione Templeton ha assegnato un paio di giorni fa il premio Templeton 2011 a Martin Rees, astronomo reale, master del Trinity College ed ex presidente della Royal Society: quella presieduta a suo tempo da Newton, tanto per capirci.

Per chi non lo sapesse, il premio Templeton è considerato l’analogo del premio Nobel per la religione. Ed è ancora più ricco: un milione di sterline, assegnate annualmente a qualcuno che “abbia dato un contributo eccezionale all’affermazione della dimensione spirituale della vita, attraverso intuizioni, scoperte o lavoro pratico”. Fu istituito nel 1972 dal miliardario John Templeton, e viene consegnato in una cerimonia a Buckingham Palace dal principe Filippo.

Ci si può chiedere, naturalmente, per quale motivo il “premio Nobel per la religione” sia stato assegnato a un astronomo, che per di più si dichiara ateo. Il fatto è che, dopo essere andato a missionari o predicatori quali Madre Teresa di Calcutta (1973), Chiara Lubich (1977) e Bill Graham (1982), da molti anni il premio viene ormai quasi regolarmente assegnato a scienziati.

Si tratta ovviamente sempre di scienziati “borderline”, alcuni dei quali preti, e tutti impegnati a esplorare la “terra di nessuno, o di tutti” che separa la scienza dalla teologia. Ma ciò non toglie che molti siano comunque fior di scienziati. Ad esempio, il premio Nobel per la fisica Charles Townes (2005), inventore del laser. O l’enfant terrible Freeman Dyson (2000), che il Nobel non lo vinse nel 1965 soltanto perchè lo si dà a tre persone, invece che a quattro, e lui era il più giovane fra il cotanto senno di Feynman, Schwinger e Tomonaga. O i divulgatori Paul Davies (1995) e John Barrow (2006), di cui molti avranno letto opere di divulgazione quali La mente di Dio o Il principio antropico, che sembravano scritte apposta per far loro vincere il premio.

Le intenzioni della Fondazione Templeton sono ovviamente difficili da decifrare. Chi pensa bene, può vedere questi premi come l’ammissione che oggi gli unici esseri veramente spirituali siano gli scienziati, come diceva Einstein. E che la scienza sia l’unica vera religione, mentre quelle istituzionali sono solo sue caricature superstiziose. Cosa che, d’altronde, si sa fin dal tempo di Pitagora: il quale, per inciso, sarebbe stato il primo vincitore del premio Templeton, se già ci fosse stato.

Chi pensa male, invece, può vedere nella Fondazione Templeton una specie di agenzia di disinformazione, che tende ad ammantare di rispettabilità scientifica una religione ormai intellettualmente screditata. Così la pensa, ad esempio, Richard Dawkins, che ha duramente criticato Rees per aver accettato il premio, accusandolo di rendersi appunto complice di quest’opera di appropriazione indebita.

Certo è che la Fondazione Templeton è ricca sfondata, e che spesso elargisce i suoi quattrini a chi non ne ha. Io stesso ho partecipato, nel 2006, al congresso mondiale tenutosi a Vienna per il centenario della nascita di Goedel: una manifestazione puramente scientifica, in cui però il contributo della Fondazione ha finito per far parlare anche delle opinioni religiose del grande logico. E Barrow è stato invitato nel 2010 dal cardinal Ravasi a parlare in Vaticano nell’ambito del Progetto Stoq, un acronimo che sta per Science, theology and the ontological quest, “Scienza, teologia e la questione ontologica”: un progetto generosamente finanziato, appunto, dalla stessa Fondazione.

Ognuno può ovviamente pensarla come vuole, al riguardo. Personalmente, sono contento che la scienza invada sempre più i confini e gli ambiti istituzionali della religione: in fondo, se le spiegazioni scientifiche dei fenomeni naturali sono riuscite a farci ridere degli dèi greci e romani e a farli scomparire, perchè non dovrebbero riuscirci anche con quelli mediorientali? Che il premio Templeton non sia altro che una delle risate che seppelliranno la religione?

Scritto domenica, 10 aprile 2011 alle 19:14

da - odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/04/10/
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 14, 2011, 04:59:08 pm »

14
apr
2011

Benigni tuttodantedemocrazia

Piergiorgio ODIFREDDI


Ieri sera, al Palaolimpico di Torino, ad applaudire Benigni c’ero anch’io. Non era la prima volta che assistevo alle sue lezioni spettacolo, ma non l’avevo mai sentito commentare il sesto canto del Purgatorio: anzi, credo che fosse appunto una novità, commissionata da Zagrebelski per coniugare lo forma dello spettacolo-apertura con la sostanza della Biennale della Democrazia.

La prima parte dell’esibizione, come ormai di norma per i monologhi di Benigni, è stata un fuoco d’artificio di satira politica. Sfottendo il premier, che a Lampedusa non aveva trovato di meglio che dimostrare agli isolani la sua vicinanza comprando una villa nell’isola, Benigni ha annunciato che avrebbe comprato Palazzo Madama, e trasformato l’adiacente Palazzo Reale in un Casinò: Casinò Royale, appunto.

L’unica battuta politica che è caduta nel gelo della sala è stato il riferimento al fatto scandaloso che il Partito Democratico torinese presenterà come candidato alle prossime elezioni comunali Giusi La Ganga: uno degli ex notabili del Partito Socialista di Craxi, condannato a un anno e otto mesi per tangenti nella prima fase di Mani Pulite, e oggi ripescato sulla base della logica autolesionista del Pd.

La grande maggioranza del pubblico sugli spalti del Palaolimpico era composta di giovani, che probabilmente non avevano mai sentito parlare di La Ganga. La grande maggioranza dei notabili sotto il palco, che invece lo conoscevano benissimo, ha finto di dimenticarsene, tenendo in serbo gli applausi per le più scontate battute su Berlusconi. Se Benigni fosse stato il John Lennon del Concerto Reale del 4 novembre 1963, avrebbe causticamente incitato gli spalti ad applaudire, e la platea a far tintinnare i propri gioielli democratici.

Quanto a me, ricordo e non dimentico, e ho deciso che non voterò alle comunali: già la candidatura a sindaco di un dinosauro ex-comunista era difficile da digerire, ma la candidatura a consigliere di un ladro ex-socialista va oltre la misura. Secondo Benigni, si tratta di un tentativo di combattere Berlusconi scendendo sul suo terreno: il che fa ridere come battuta, ma fa piangere come politica. E allora, non ci resta che piangere, senza votare.

Affrontando Dante, Benigni ha poi mostrato di aver assimilato le Lezioni di letteratura di Nabokov, secondo il quale chi legge è infantile se si interessa alla storia, adolescenziale se ricerca una morale, e maturo se si preoccupa della struttura dell’opera. Agli infantili l’attore ha raccontato di Dante, Virgilio, Beatrice e Sordello. Agli adolescenziali il politico ha suggerito paragoni fra la “serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello” di allora e di oggi. Ai maturi l’esegeta ha offerto interessanti spunti sugli accenti degli endecasillabi danteschi, che cadono quasi sempre sulla sesta sillaba, ma in momenti cruciali finiscono sulla settima o sull’ottava.

L’unico appunto che si potrebbe fare è che le due parti dello spettacolo, la satira politica e la lettura dantesca, sono state diacroniche, invece che sincroniche. Benigni ha troppo rispetto per Dante (nel senso letterale che ne ha più del dovuto) per pensare di poter leggere solo una parte di un canto. Purtroppo, l’inizio del sesto del Purgatorio è una lista di nomi che dicevano qualcosa allora, ma niente ora. Tentare di spiegare il tutto ha allungato oltre misura lo spettacolo, al limite della capacità di concentrazione e dell’interesse.

Il motto leninista “meglio meno, ma meglio” avrebbe suggerito di concentrarsi sull’invettiva politica, e di attaccarsi a quella per la satira dell’attualità, a partire dal “bordello”. Ma è sciocco voler insegnare ai gatti ad arrampicarsi: la standing ovation che l’ha salutato la fine delle due ore e mezzo dimostra che il Benigni nazionale ha fatto centro ancora una volta. Resta da vedere se, come diceva Dante nella Tredicesima Lettera, la poesia può veramente incitare all’azione. O se, usciti dal Palaolimpico, le belle parole si dimenticheranno e cederanno il posto ai brutti voti.

 
Scritto giovedì, 14 aprile 2011 alle 10:39
da - odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/04/14/
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« Risposta #39 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:33:48 pm »

20
apr
2011

Piergiorgio ODIFREDDI

Non ci rompete più di tanto!

Il ministro Tremonti ha affermato che “deve esistere il diritto a dire: “Non ci rompete più di tanto”".
Come dargli torto? Anzi, è un po’ di tempo che lo pensano in tanti, che sia arrivato il momento di esercitare questo diritto: naturalmente, nei confronti del ministro Tremonti in particolare, e del suo governo in generale.

Come si può immaginare, però, il ministro la intendeva in tutt’altro modo.
Cioè, come un diritto dei lavoratori autonomi e degli imprenditori di essere “lasciati in pace” dal fisco e dai suoi controlli. Siamo alle solite: coloro che pagano le tasse devono ricevere il danno e le beffe da parte di coloro che non solo non le pagano, ma vorrebbero pure non essere molestati dal fisco per quello che considerano un loro diritto.

E’ infatti solo di un mese fa l’annuncio dei risultati delle elaborazioni effettuate per Manageritalia e Confedir-Mit da Nicola Quirino, docente di Finanza pubblica all’Accademia della Guardia di Finanza e alla Luiss Guido Carli. Da questi risultati si evince che, per quanto riguarda i redditi dichiarati dalle persone fisiche nel 1993, i dipendenti pesavano il 56,2 per cento, i pensionati il 19,7, gli imprenditori il 13,2 e i professionisti il 7,6. Quindici anni dopo, nel 2007, il peso complessivo delle prime due categorie è ulteriormente aumentato: i dipendenti pesano il 51,8 per cento, i pensionati il 26,8, mentre gli imprenditori sono scesi al 5 per cento e i professionisti al 4,2.

Per quanto riguarda i redditi lordi medi, i lavoratori autonomi dichiarano 37.124 euro, e le altre tre categorie redditi medi praticamente uguali fra loro: i dipendenti 19.335 euro, gli imprenditori 18.968 e i pensionati 13.448. Che pena ci fanno questi imprenditori, praticamente ridotti al reddito di un insegnante di scuola! Non sarà che il diritto a non essere rotti più di tanto è già stato loro accordato oltre misura, e che sia invece ora di correre ai ripari?

Addirittura, si scopre che anche tra i contribuenti più ricchi, cioè quelli che dichiarano più di 100.000 euro lordi all’anno, sono sempre i lavoratori dipendenti e i pensionati a fare la parte del leone, più o meno nelle stesse percentuali già viste: circa il 72 per cento del totale. Del rimanente, il 20 per cento sono lavoratori autonomi, e solo l’8 per cento industriali.

Se poi si vanno a vedere i redditi medi dichiarati per categorie professionali autonome, si scopre che a fronte di una media nazionale di 18.900 euro, di nuovo pari al reddito di un insegnante di scuola, parrucchieri e barbieri dichiarano solo 10.400 euro, i tassisti 13.600, i meccanici 15.400, i gioiellieri e gli orologiai 15.800, i dentisti 45,100 e gli avvocati 49.100. Un minimo di decenza in più l’hanno i dirigenti privati e pubblici, che arrivano a 105.00 euro, i farmacisti che li sorpassano a 126.100 e i notai che salgono a 404.800.

Un ministro dell’Economia degno di questo nome scatenerebbe la Guardia di Finanza dietro a ogni singolo gioielliere, dentista e avvocato, e li metterebbe tutti agli arresti preventivi. Se poi, per qualche miracolo ancora più improbabile di quelli di Padre Pio, qualcuno risultasse aver fatto una dichiarazione veritiera, gli si dovrebbe comunque revocare la licenza per manifesta incapacità. Quanto ai notai, il ministro globetrotter non potrebbe informarsi, e scoprire che in molti paesi (a partire dagli Stati Uniti) neppure esistono, perchè il loro inutile e caro lavoro viene utilmente e gratuitamente svolto dai segretari comunali e da altre categorie pubbliche analoghe?

Fino a quando il ministro per l’Economia e il suo governo continueranno ad abusare della pazienza di coloro che le tasse non solo le pagano, ma devono pure veder assegnato a coloro che le evadono il diritto di dire: “Non ci rompete più di tanto”?
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« Risposta #40 inserito:: Maggio 04, 2011, 05:12:48 pm »

4
mag
2011

Piergiorgio ODIFREDDI

Chi ama Osama o Obama?

Matrimoni di principini, beatificazioni di papi, esecuzioni di terroristi: il tornado delle grandi sceneggiate mondiali non accenna a placarsi. Questa volta è il turno della Sfida all’O.K. Corral tra due quasi omonimi: il sedicente “leader del mondo libero” Obama, e il cosiddetto “sceicco del terrore” Osama. Due uomini che, come dimostra un video su questo stesso sito, i telegiornali di mezzo mondo hanno freudianamente confuso, annunciando ripetutamente la morte dell’uno al posto di quella dell’altro.

Effettivamente la confusione è giustificabile, visto che le leggende diffuse su ciascuno dei due non si attagliano per niente alla realtà dei fatti. Da un lato, l’uomo più pericoloso del mondo è infatti stato catturato disarmato, e ucciso in maniera tanto barbara da impedire la diffusione delle foto del cadavere, e da costringere a buttarlo letteralmente a mare il più in fretta possibile: il che, ci dicono gli americani, corrisponderebbe a un funerale “secondo la tradizione islamica”(nata e fiorita nel deserto).

Dall’altro lato, il premio Nobel per la pace ha ordinato che la cruenta azione militare fosse compiuta violando impunemente la sovranità territoriale di uno stato indipendente, ha esultato alla notizia dell’uccisione del nemico, ha annunciato che “ora il mondo è migliore”, e ha dovuto sorbirsi la replica del Vaticano che “di fronte alla morte di un uomo un cristiano non si rallegra mai”: soprattutto, quando l’ha sulla coscienza lui.

Ovviamente, Obama ha invece ricevuto i complimenti del suo predecessore George W. Bush. D’altronde, è da un pezzo che negli Stati Uniti i democratici delusi lo chiamano “il Bush nero”. E mai come in questi giorni i due sono apparsi indistinguibili nella loro retorica sul terrorismo. Quanto alle guerre, ormai l’allievo ha superato il maestro, visto che oltre a continuare quelle in Afghanistan e in Iraq che ha ereditato da lui, ha da poco aperto un nuovo fronte personale in Libia. E non ha mai chiuso il carcere di Guantanamo, nonostante la sua promessa da mercante elettorale.

L’impudenza con cui Obama ha dichiarato che dopo l’uccisione di Osama “il mondo è più sicuro”, è da manuale. E può funzionare soltanto perchè la propaganda antiterroristica ci fa dimenticare che gli anglosassoni hanno combattuto tre guerre di conquista in Afghanistan (1838–1842, 1878–1880 e 1919), ben prima che ci fossero i talebani. E che gli Stati Uniti hanno bombardato per la prima volta la Libia nel 1804, ben prima che ci fosse Gheddafi.

Forse a giorni ci somministreranno qualche foto ufficiale, opportunamente taroccata, dell’uccisione di Osama. Probabilmente si tratterà di una delle bufale a cui gli americani ci hanno abituati, dall’incidente del Golfo del Tonchino, sbandierato di fronte al Congresso nel 1964, alle prove dell’esistenza di armi di distruzioni di massa, esibite di fronte alle Nazioni Unite nel 2003. Presto o tardi verremo a sapere che ci hanno di nuovo menato per il naso, ma nel frattempo avranno fatto i loro comodi e raggiunto i loro obiettivi.

Per ora, possiamo tutti rallegrarci che il cattivo Obama è morto e il buon Osama ha trionfato. O era il contrario? Che confusione

DA - http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/05/04/chi-ama-osama-o-obama/
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« Risposta #41 inserito:: Maggio 21, 2011, 09:26:21 am »

20
mag
2011

Piergiorgio ODIFREDDI

Sgarbi televisivi

Premetto che non ho guardato la prima (e probabilmente ultima) puntata dello show televisivo di Sgarbi ieri, e ho guardato solo per pochi minuti l’ennesima (e sicuramente non ultima) puntata dello show televisivo di Santoro stasera. Ma ho sia letto che ascoltato le dichiarazioni di Sgarbi a proposito della propria Caporetto di ascolti, e di quelle che secondo lui ne sono le cause.

Naturalmente, bisogna fare la tara a ciò che un provocatore come Sgarbi dice. Ma a me sembra che sia andato a segno quando ha accusato il pubblico televisivo di essere tanto pervicacemente insensibile ai richiami della cultura, quanto morbosamente interessato al gossip di ogni genere, dalla cronaca nera alla politica: generi che comunque spesso sconfinano l’uno nell’altro, fino a diventare indistinguibili.

E’ chiaro che Sgarbi intende la parola “cultura” in un’accezione molto più estesa e generosa di quanto farebbero gli “uomini di cultura”. Un’accezione largamente condivisa da Bonolis, che ha pure lui provato a portare in prima serata un programma di contenuti meno sfacciatamente trash del solito, con esiti sostanzialmente non diversi: anche il suo programma è stato chiuso in anticipo, benchè in maniera meno immediata di quella di Sgarbi.

I due flop dimostrano che non basta essere personaggi di sicuro richiamo mediatico, nè avere a disposizione le reti ammiraglie della Rai o di Mediaset, per riuscire a spuntarla sul pubblico della prima serata. Quest’ultimo non gradisce nessuna libera uscita dai cammini strabattuti delle fiction, dei reality e dei talkshow. E qualunque tentativo di proporgli qualcosa di diverso dalla sbobba a cui è assuefatto, fa la fine delle evangeliche perle (false) ai porci.

Non ci sarebbe niente di male, naturalmente, se televisione e cultura fossero nettamente separate fra loro. Il fatto è che ormai la prima ha invaso la seconda e contaminato il suo campo d’azione principale, che tradizionalmente era il mercato librario. Uno sguardo alle classifiche dei libri più venduti negli ultimi mesi, dimostra un fatto inquietante: che ormai i lettori sono stati sostituiti dai telespettatori.

I maggiori successi sono infatti i libri scritti da autori che o conducono un proprio programma televisivo, o sono ospiti fissi di un programma altrui: Benedetta Parodi, Antonella Clerici, Bruno Vespa, Corrado Augias, Piero e Alberto Angela, Daria Bignardi, Luciana Littizzetto, Massimo Gramellini, eccetera. Come se non bastasse, questi autori appaiono poi regolarmente e sistematicamente nei programmi di intrattenimento condotti dagli altri loro colleghi, in una sorta di reazione autocatalitica.

A questo si aggiunge l’effetto mediatico che programmi come il Maurizio Costanzo Show una volta, e Che tempo che fa di Fabio Fazio ora, hanno sulle vendite dei libri: esaltando ancora una volta il legame perverso che lega televisione e cultura, e riducendo la seconda a un’appendice della prima. Sia Costanzo che Fazio non sono comunque che due punte dell’iceberg del fenomeno tipico dei nostri tempi: la trasformazione del giornalista da trasparente mediatore delle notizie, a opaco divo della mediazione.

La puntata di Santoro che ho citato agli inizi, è stata un’apoteosi di questa trasformazione: degli otto partecipanti che ho contato, uno era il premio Nobel per la pace Al Gore, che interveniva comunque in qualità di fondatore della rete televisiva Current Tv, e gli altri sette erano tutti giornalisti (Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri, Enrico Mentana, Paolo Mieli, Michele Santoro, Marco Travaglio e Vittorio Zucconi).

Devo dire che a me tutto questo ricorda tristemente troppo da vicino William Randolph Hearst (immortalato da Orson Wells in Citizen Kane, o Quarto potere che dir si voglia). Se allora era l’editore a sostituirsi alle notizie, oggi sono i giornalisti, e sicuramente questi ultimi considereranno la cosa un passo avanti. Ma lo spettatore o il lettore che non vorrebbero nè l’editore, nè i giornalisti, ma le notizie, non ci trovano poi una gran differenza. E finiscono col diffidare delle televisioni e dei giornali, e naturalmente delle classifiche dei libri e dell’Auditel.

da - odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/05/20/
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« Risposta #42 inserito:: Maggio 25, 2011, 05:15:30 pm »

24
mag
2011

Piergiorgio ODIFREDDI

Un visionario fra i ciarlatani

L’espressione “un visionario tra i ciarlatani” è di Stanislav Lem, autore di Solaris, ed era riferita a Philip Dick: un autore che si distinse, nel ciarlatanesco mondo della fantascienza, appunto per le sue visioni di mondi alternativi al nostro. Come lui stesso diceva: “se credete che questo mondo sia fuori di testa, aspettate di vedere gli altri”. Anche se poi tutto ciò che ci fu dato di vedere di questi mondi sono state le versioni forniteci dal non meno ciarlatanesco mondo del cinema, da Blade Runner a Truman Show a Minority Report.

L’espressione di Lem si adatta comunque perfettamente anche a Bob Dylan, e al mondo delle canzonette pop, rock e quant’altro. Perchè nel momento in cui i Beatles canticchiavano She loves you yeah o I want to hold your hand, lui componeva Blowing in the wind o The times they are a-changing. E nel momento in cui i primi scatenavano l’isteria delle ragazzine idiote, il secondo ispirava l’impegno dei movimenti di contestazione giovanile statunitensi.

Le parabole musicale dei Beatles e politica di Dylan si sono esaurite in una mezza dozzina d’anni. Entro la fine degli anni Sessanti i primi si erano sciolti, e il secondo aveva ormai intrapreso una carriera più propriamente artistica. Ciò che è successo dopo interessa gli affezionati della musica, ma non il resto del mondo. Il quale forse si stupisce di scoprire che oggi, 24 maggio, Bob Dylan compie settant’anni e continua imperterrito a girare il globo, facendo un centinaia di concerti l’anno.

A suo onore va il fatto che egli ha voluto identificarsi col suo ruolo. Lo si vede solo nei concerti, appunto, e della sua vita privata si sa poco o niente: come appunto dovrebbe essere per chiunque crei qualcosa che vale di per sè, e che non ha bisogno di essere confuso con altro. Un po’ come hanno scelto di fare scrittori come Salinger o Pynchon, affidando soltanto ai propri libri ciò che hanno da dare e da dire.

Sempre a suo onore va il fatto che, le poche volte che è finito nelle grinfie della cronaca, Dylan ha saputo divincolarsene con il sarcasmo e l’arguzia che caratterizzano l’atteggiamento delle persone intelligenti in un mondo idiota. Ad esempio, ad ungiornalista al quale disse che stava girando un film di cowboy, e che gli domandò se lui ne interpretava appunto uno, rispose: “No, interpreto mia madre”.

Un paio di anni fa ero negli Stati Uniti, e su tutti i giornali uscì la notizia che Dylan era stato arrestato. Si trovava in una città per fare un concerto, aveva visto un cartello “Vendesi” di fronte a una casa, si era avvicinato a guardare dalle finestre cosa si vendeva, e il suo atteggiamento aveva attirato i sospetti di una signora, che aveva chiamato la polizia. Spiegata la faccenda in commissariato, un poliziotto gli domandò: “Anche lei, però! Cosa stava facendo fuori da solo, disera, mentre piove?”. E lui rispose: “Stavo passeggiando”.

La relazione tra gli Stati Uniti e Bob Dylan sta tutta in quell’episodio. Da un lato, un mondo paranoico, nel quale anche una passeggiata viene considerata sospetta da chi se sta sempre chiuso in casa, a guardare film e programmi che non parlano d’altro che di violenza. E dall’altro lato, un poeta intelligente, che non può che cercare di risvegliare quel paese con parole pesanti come pietre che rotolano, e che a volte centrano fragorosamente il bersaglio.

DA - odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/05/24/un-visionario-fra-i-ciarlatani/
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« Risposta #43 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:06:00 pm »

1
giu
2011

The (election) day after

Piergiorgio ODIFREDDI

Passata l’euforia per i risultati dei ballottaggi, può essere utile meditare brevemente sui fatti e sulle interpretazioni delle elezioni amministrative. Anzitutto, il dato più significativo è quello delle percentuali di votanti: l’affluenza alle urne è stata del 60,08% degli aventi diritto per le comunali, e del 45,23% per le provinciali. Se si fosse trattato di un referendum, il voto per le provinciali sarebbe addirittura risultato nullo per mancanza di quorum.

Poichè alle precedenti elezioni amministrative l’affluenza era stata del 68,56% per le comunali e del 61,26% per le provinciali, si può dedurne un netto aumento della disaffezione degli elettori per il meccanismo elettorale. E si deve tenerne conto nel valutare le percentuali con cui sono stati eletti i nuovi sindaci e i nuovi presidenti di provincia. Ad esempio, a Napoli ha votato soltanto il 50,57% degli aventi diritto: poichè De Magistris ha ottenuto il 65,37% dei voti, in realtà è stato eletto dal 32,93% degli elettori, cioè esattamente da un terzo della città.

Che questo risultato venga presentato dai media e dai vincitori come una vittoria schiacciante, è significativo della percezione distorta che ci viene fornita dell’intero processo elettorale. In fondo, che a governare basti la maggioranza formale dei votanti (e nel maggioritario, paradossalmente, neppure quella) non sta affatto scritto nelle Tavole della Legge: si potrebbe benissimo argomentare, al contrario, che ogni imposizione ai cittadini debba avere un esplicito assenso della maggioranza sostanziale.

L’opposizione fra i due modi di vedere ha una lunga storia, e nella logica deontica si traduce nella scelta fra “ciò che non è esplicitamente proibito è permesso” e “ciò che non è esplicitamente permesso è proibito”. E a me sembra che, soprattutto quando sono in ballo grandi decisioni che coinvolgono un’intera cittadinanza o un’intera popolazione, la seconda alternativa sia la più democratica, mentre la prima puzzi un po’ troppo di truffa: soprattutto in una democrazia indiretta, dove il permesso (espresso attraverso il voto) prende la forma di una delega generica, e non di un assenso specifico.

In ogni caso, anche senza stare a sofisticare sulle percentuali reali, è singolare assistere all’esultanza del maggior partito di opposizione. Il Pd e il suo segretario si comportano come se avessero vinto loro, ma dimenticano che quando De Magistris dice di aver “liberato Napoli”, si riferisce alla precedente amministrazione: cioè, a un sindaco e a una giunta di centrosinistra che hanno governato per dieci anni. E dimenticano che al primo turno il Pd aveva espresso un altro candidato, che non ‘e arrivato al ballottaggio.

A Milano la situazione è un po’ diversa, ma non troppo. I votanti sono stati il 67,24% degli aventi diritto, e Pisapia ha vinto col 55,11% dei voti: dunque, col 37,06% degli elettori. E benchè fosse sostenuto già al primo turno dall’intera coalizione di centrosinistra, aveva comunque vinto le primarie contro il candidato del Pd.

In definitiva, le elezioni hanno mostrato, da un lato, una disaffezione dell’elettorato per il processo elettorale. E dall’altro lato, una sconfitta non solo dei candidati del Pdl, ma anche di quelli del Pd. Questi due campanelli d’allarme suonano all’unisono: la gente ne ha abbastanza della politica tradizionale, e se Berlusconi fa fa bene a piangere, Bersani non fa affatto bene a ridere.

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« Risposta #44 inserito:: Giugno 07, 2011, 04:08:22 pm »

6
giu
2011

Nucleare, sì o no?

Piergiorgio ODIFREDDI

Io sono favorevole al nucleare pulito e sicuro. Dunque, voterò sì al Referendum del 12 giugno. A prima vista potrebbe sembrare una contraddizione, ma non lo è, per i motivi che dirò.

 Anzitutto, come ho anticipato, non ho obiezioni di principio all’uso dell’energia nucleare. Come, d’altronde, non ne hanno neppure gli ecologisti che si dichiarano favorevoli allo sfruttamento dell’energia solare: quest’ultima, infatti, non è altro che un tipo di energia nucleare. Precisamente, quella prodotta dal processo di reazione a catena protone-protone, che permette di “fondere” atomi di idrogeno in atomi di elio: da cui, appunto, il nome di “fusione”.

 L’energia nucleare solare può essere sfruttata in maniera indiretta, tramite pannelli solari termici, a concentrazione o fotovoltaici. Ma il suo processo di produzione può anche essere simulato direttamente, attraverso centrali nucleari a fusione. Un consorzio internazionale, a cui partecipano quasi tutte le potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone, India, Unione Europea e Corea del Sud) sta costruendo a Cadarache, nel Sud della Francia, un prototipo di reattore nucleare a fusione chiamato International Thermonuclear Experimental Reactor (Iter), a cui seguirà un prototipo di centrale nucleare a fusione chiamato Demonstration Power Plant (Demo).

 Vedremo se i problemi legati alla costruzione di questi prototipi, in particolare la produzione di trizio (un isotopo dell’idrogeno che dovrebbe costituire il carburante della centrale) e il raffreddamento del plasma, verranno risolti in maniera soddisfacente da un punto di vista ambientale. Ma sarebbe pregiudiziale, oltre che pregiudizievole, dichiararsi a priori contrari all’energia nucleare a fusione: la quale non è comunque affatto innocua di per sé, come dimostrano le bombe all’idrogeno costruite dagli Stati Uniti nel 1952 e dall’Unione Sovietica nel 1953.

 Le bombe usate su Hiroshima e Nagasaki dagli Stati Uniti nell’agosto 1945 erano invece basate sul processo di fissione dell’uranio: come i reattori in funzione oggi in vari paesi del mondo, e in discussione nel Referendum. Ma anche in questo caso bisogna basarsi su giudizi a posteriori, più che su pregiudizi a priori. Confesso che mi convincono molto poco i discorsi basati sugli incidenti nucleari gravi, che non sono stati molti: due di settimo livello (Chernobyl nel 1986 e Fukushima nel 2011), uno di sesto (Majak nel 1957) e quattro di quinto (tra cui quello di Three Mile Island nel 1979).

 Le vittime e i danni collaterali alle persone sono stati contenuti, se confrontati non soltanto alle due bombe citate, ma anche a quelli imputabili al trasporto autostradale, al tabacco e all’alcool. A Chernobyl, ad esempio, i morti accertati sono stati 64, quelli presunti 9000, e quelli “stimati” da Greenpeace 100.000. Per un confronto, secondo il Ministero dei Trasporti nella sola Italia ogni anno i morti per incidenti automobilistici sarebbero 6.000, e secondo il Ministero della Sanità i morti per il tabacco e alcool ben 120.000!

 Nessun discorso serio, basato sulle conseguenze, potrebbe dunque proporre l’abolizione delle centrali nucleari, senza prima preoccuparsi delle automobili, delle sigarette e degli alcolici. E dunque, perché votare sì al Referendum? Perché la tecnologia nucleare scherza col fuoco, cioè con le reazioni atomiche: in particolare, quelle legate alla radioattività, che rimane per secoli nelle scorie prodotte dalle centrali.

 Il problema di stoccare queste scorie, in maniera sicura per il futuro dell’umanità, non è ancora stato risolto: anzi, il più ambizioso e costoso progetto al proposito, quello di Yucca Mountain negli Stati Uniti, è definitivamente fallito nel 2008, dopo vent’anni di lavoro e quasi otto miliardi di dollari di investimenti. Quanto al problema della sicurezza delle centrali, neppure un paese tecnologicamente avanzato come il Giappone ha potuto mantenersene immune.

 Come potrebbe un paese come il nostro, neppure in grado di smaltire i comunissimi rifiuti urbani, aver successo là dove hanno fallito Stati Uniti e Giappone? E allora non facciamo ridere, per favore, e teniamo il nucleare (e tante altre cose) alla larga dai cialtroni che sono al potere, ma non sono in grado di governare!

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