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Autore Discussione: Piergiorgio ODIFREDDI.  (Letto 72811 volte)
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« inserito:: Dicembre 30, 2007, 04:46:57 pm »

POLITICA

Il Pd, la laicità e la vergogna

di PIERGIORGIO ODIFREDDI


ROMA - Caro direttore, nel suo editoriale "Non nominate il nome di Dio invano" del 27 dicembre 2007, Eugenio Scalfari ha ampiamente commentato "pensieri e parole" della senatrice Paola Binetti, citando in particolare il dialogo che ella aveva tenuto con me su "La Stampa" del 23 dicembre. Il giornale indicava nei titoli lei e me come, rispettivamente, "l'anima teodem e quella atea del Partito Democratico", e l'espressione "anima atea" andrebbe forse sottolineata.

Anzitutto, perché costituisce un ossimoro positivo e virtuoso da contrapporre, assieme ad "anima laica", a quelli negativi e viziosi di "ateo devoto" e "ateo in ginocchio". E poi, perché il suo singolare suggerisce e richiama, a differenza delle espressioni appena citate, la situazione di isolamento o di minoranza in cui si trovano nella nostra società odierna coloro ai quali essa viene applicata. Nella fattispecie, le anime laiche e atee non sembrano effettivamente essere molte nel Partito Democratico in generale, e nella Commissione dei Valori in particolare. Sembra infatti che la laicità e l'ateismo, che costituiscono una sorta di nudità teologica naturale, siano diventate quasi una vergogna da nascondere sotto i variopinti paramenti delle fedi e dei credi.

Non sono stati molti i commissari che hanno reagito alla prima bozza del Manifesto dei Valori del Partito Democratico, stilata dal filosofo cattolico Mauro Ceruti, che a proposito della laicità partiva dicendo che essa "è un valore essenziale del Pd", per continuare: "Noi concepiamo la laicità non come un'ideologia antireligiosa e neppure come il luogo di una presunta e illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali e dei convincimenti morali, come riconoscimento della piena cittadinanza - dunque della rilevanza nella sfera pubblica, non solo privata - delle religioni". Ora, io non mi sento di sottoscrivere nessuna di queste affermazioni. E poiché la Binetti mi aveva già accusato di avere dei pregiudizi nei confronti dei cattolici, ho ribadito alla Commissione di non credere di averne, così come non credo di averne nei confronti degli astrologi o degli spiritisti: semplicemente, mi limito a constatare che essi hanno visioni del mondo antitetiche a quella scientifica, e più in generale alla razionalità, e ne deduco che sarebbe bene che esse rimanessero confinate nel campo individuale. E, così come non propongo l'abolizione degli oroscopi, non propongo neppure di impedire le prediche: mi sembra sensato, però, pretendere che non sia sulla base di queste cose che vengano prese le decisioni politiche dei nostri governanti e del nascente partito.

Apriti cielo! Il deputato Francesco Saverio Garofani, membro del coordinamento nazionale del Pd, ha subito inveito sul sito del partito contro le mie "provocazioni" e la mia "idea caricaturale della laicità". E Ceruti gli ha subito fatto eco, affermando: "Odifreddi non si può nemmeno definire un laico. Diciamo che non è proprio interessato all'incontro con una cultura spirituale. Laicità per lui è sinonimo di diniego assoluto della religione. Ma il suo è un retaggio del passato".

Sarebbe troppo facile ribattere che se un diniego è retaggio del passato, a maggior ragione dovrebbe esserlo ciò che viene negato, che per forza di cose deve precedere la propria negazione. Mi sembra più costruttivo cercare invece di espellere una certa confusione di idee a proposito della laicità e dintorni, che sembra albergare nelle menti dei cattolici citati. Compresa la Binetti, che nel nostro dialogo ha ribadito più volte non solo di considerare se stessa laica, ma anche che la laicità è uno dei valori fondamentali predicati dal fondatore dell'Opus Dei: quel Josemarìa Escrivà de Balaguer, alla cui beatificazione in Piazza San Pietro hanno assistito il 31 maggio 2001 sia Veltroni sia D'Alema. A questo proposito la Binetti ha dichiarato, nel nostro colloquio su "La Stampa": "La circostanza che Veltroni e D'Alema apprezzino Balaguer è il segno che viene compresa la santificazione del lavoro promossa dall'Opus Dei".

A me, invece, questo atto pubblico da parte del sindaco di Roma e dell'allora presidente dei Ds sembrano un perfetto esempio di come un politico laico non dovrebbe comportarsi, qualunque siano le sue credenze, secondo la mia definizione di laicità: agire come se la religione e la Chiesa non ci fossero, senza naturalmente far nulla affinché non ci siano. Questa posizione è un compromesso tra i due estremi del clericalismo e dell'anticlericalismo.

Il primo va inteso come la pretesa di agire, e far agire, in ossequio alla volontà della religione e della Chiesa, e io non saprei trovarne una formulazione migliore dell'Articolo 7 della Carta delle Finalità del Campus Biomedico di Roma: "L'Università intende operare in piena fedeltà al Magistero della Chiesa Cattolica, che è garante del valido fondamento del sapere umano, poiché l'autentico progresso scientifico non può mai entrare in opposizione con la Fede, giacché la ragione (che ha la capacità di riconoscere la verità) e la fede hanno origine nello stesso Dio, fonte di ogni verità".

A scanso di equivoci, questa non è un'invenzione di Borges: il Campus esiste veramente, in esso lavora la Binetti. Non c'è bisogno di battersi in Italia contro l'anticlericalismo, che va inteso come la pretesa di agire per far sì che la religione e la Chiesa non ci siano: questi sì che sarebbero i veri retaggi del passato, dalla Rivoluzione Francese alla Guerra Civile di Spagna, ma per fortuna oggi nessuno li propone seriamente. Proprio per questo, però, la posizione intermedia del laicismo rimane scoperta sul fianco sinistro e viene percepita come un estremismo, quando invece essa è già il compromesso razionale tra le due opposte irrazionalità di coloro che vorrebbero imporre agli altri le loro credenze da un lato, e le loro avversioni a queste dall'altro.

Naturalmente, non è affatto anticlericalismo, ma laicismo allo stato puro, rifarsi al motto risorgimentale della "libera Chiesa in libero Stato". Che la religione e il Vaticano abbiano la massima libertà di parola e di azione, senza che lo Stato interferisca né con l'una, né con l'altra. Ma che le stesse libertà le abbia anche lo Stato, senza dover essere costretto a subire la pressione ufficiale e ufficiosa delle gerarchie ecclesiastiche, a legiferare in ossequio alle loro credenze, e a pagare di tasca propria per la propaganda e gli affari altrui: in particolare, tra le tante revisioni costituzionali mettiamo mano anche all'Articolo 7, per ridare all'Italia la libertà che Mussolini e Togliatti le hanno tolta. Questo dovrebbe fare un partito democratico, e questo mi auguro che faccia il Pd nel nuovo anno.

(30 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 22, 2008, 06:13:51 pm »

21/01/2008
 
DONATELLA TROTTA

«Tutta questa vicenda ha il sapore di una gran furbata».

Piergiorgio Odifreddi non è solo un matematico impertinente. È anche un polemista amante del paradosso, degno membro dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, irriducibile laicista autore di un libro dal titolo anticrociano e provocatorio: Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici).


Odifreddi, ci spieghi meglio la sua idea.
«Semplice: il Papa, che si rivela molto furbo, è riuscito a rigirare la frittata. Ha trasformato il dissenso di 67 professori e poche centinaia di studenti nel tentativo di censurarlo. E i media lo hanno seguito a spron battuto. Ma io penso che il caso La Sapienza non sia che un seguito di ciò che è avvenuto con il referendum sulla procreazione assistita: trasformare una posizione di debolezza in forza, e una situazione avversa a proprio vantaggio».

Resta però il fatto che il Papa non ha potuto parlare di persona alla Sapienza...
«Già, ma è stata una sua rinuncia. Non mi si venga a dire che qualche studente e professore, che avranno pure il diritto di dissentire e manifestare, fossero pericolosi: la situazione era sotto controllo, non c’erano rischi per il Pontefice. La verità è che al di là del suo tratto umano questo è un Papa reazionario, polemico, che cerca la rissa con tutti: prima gli islamici a Ratisbona, poi gli amministratori locali a Roma...».

Non le sembra di esagerare? In questi casi si è trattato di malintesi, poi chiariti: mica può bollare un messaggero di pace come guerrafondaio!
«Macché: sono convinto che lui non tolleri il dissenso: è abituato a parlare solo di fronte ai Papa boys. In questo, hanno dimostrato molto più coraggio e spirito democratico i politici, in occasione delle venute di Bush che è un gran reazionario, accolto da proteste ben più cospicue».

E come interpreta allora le manifestazioni di solidarietà espresse in piazza San Pietro?
«Un’adunata oceanica, per un Papa fascista come Pio XII. Comunque, il Vaticano è uno Stato estero, e in quei confini possono fare ciò che vogliono; è fuori che mi dà fastidio quando vogliono imporre la loro presenza. E trovo scorretto che ieri in piazza ci fossero anche esponenti istituzionali come il vicepremier Rutelli: il suo ruolo pubblico glielo impediva, come ben sa Prodi che è un cattolico adulto. Basti pensare che persino De Gaulle si rifiutava di fare la comunione in pubblico, per non rappresentare solo una parte dello Stato: questo è essere laico. Senza commistioni sgradevoli».

Ma come può definire fascista chi proprio ieri ha ribadito i princìpi di libertà, tolleranza e fraternità che l’ispirano, ivitando a «essere sempre rispettosi delle opinioni altrui»?
«C’è un equivoco di fondo: il Papa si presenta come un accademico, ma la teologia non è materia di studio nelle università laiche, non ha statuto scientifico. C’è un fossato tra la teologia e la scienza, che è l’unico sapere assoluto, nello spazio e nel tempo, con un linguaggio e un metodo matematico universalmente riconosciuto (si pensi a Pitagora), che procede per dimostrazioni e verifiche sperimentali». Ma la teologia è limitrofa alla filosofia, insegnata ovunque... «Già, ma questo papa ha riferimenti un po’ confusi: quando a proposito di Galileo ha citato Feyerabend, campione del relativismo assoluto, mi è venuto un colpo. Ma come, proprio lui, che si scaglia contro il relativismo male del secolo? Ma ormai, anche i più importanti filosofi laici, da Cacciari a Severino, son diventati tutti papisti, e pontificano troppo, soprattutto di scienza, senza competenze. Il problema è la battaglia tra scienza e religione, saperi che si presentano come assoluti. Ma mentre tutti usano la scienza, il cattolicesimo è una minoranza nel mondo».

da www.ilmattino.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 11, 2008, 06:07:31 pm »

John Nash genio e follia

di Piergiorgio Odifreddi


Ottant'anni vissuti tra schizofrenia e invenzioni fondamentali per il genere umano. Qui il grande matematico dialoga con Piergiorgio Odifreddi. Sulla sua vita, le teorie, la malattia, gli scacchi, il Nobel. Colloquio con John Nash  John NashUn libro, di Sylvia Nasar e un film, diretto da Ron Howard, entrambi intitolati 'A Beautiful Mind' e di grande successo, hanno raccontato la storia di John Nash, il genio che ha legato il suo nome a una serie di risultati ottenuti nel giro di una decina d'anni e pubblicati in una decina di articoli, un paio dei quali gli sono valsi il premio Nobel per l'economia nel 1994.

È una tragica ironia del destino che un uomo (oggi 80enne, è nato nel 1928 a Bluefield in Virginia) che ha vissuto 25 anni da squilibrato, soffrendo di schizofrenia paranoide e credendosi l'imperatore dell'Antartide e il Messia, sia passato alla storia per aver introdotto la nozione di 'equilibrio' che porta il suo nome, ed è universalmente usata nella teoria dei giochi (che analizza le situazioni del conflitto cercandovi un apporto di razionalità): di un comportamento, cioè, che non può essere migliorato con azioni unilaterali, nel senso che lo si sarebbe tenuto anche avendo saputo in anticipo il comportamento dell'avversario. Questa 'mente meravigliosa' ha partecipato lo scorso anno al Festival di Matematica di Roma, e la cosa dev'essergli piaciuta: ci ritorna quest'anno per una conversazione pubblica con Robert Aumann, anch'egli un teorico dei giochi premiato col Nobel per l'economia nel 2005. Per l'occasione abbiamo chiesto a Nash di ripercorrere con noi alcune delle tappe della sua vita e della sua carriera.

Professor Nash, l'anno scorso al Festival lei ha giocato una partita a scacchi con l'ex campione del mondo Spassky. Com'era andata?
"Come principiante non ho potuto fare molto. Quando Spassky ha fatto una certa mossa con il suo alfiere, ho pensato che ci fosse un tranello e non ho risposto nella maniera ovvia. Invece il tranello era appunto quello, che non c'era tranello".

Gli scacchi possono essere una metafora della matematica, o viceversa?

"Ci sono molte somiglianze tra un teorema e una partita: ad esempio, nella precisione e nella bellezza. Giocare bene è come fare una bella dimostrazione".

A proposito di giochi, lei ne ha inventato uno chiamato Hex.
"Sì, all'inizio dei miei studi, nel 1949. L'ho fatto per illustrare in pratica alcuni concetti teorici. È un gioco in cui il primo giocatore ha un vantaggio teorico nei confronti del secondo, ma non sa come sfruttarlo in pratica".

L'ha mai commercializzato?
"A Princeton è stato molto popolare al dipartimento di Matematica. Ma quando cercammo di venderlo a un editore, scoprimmo che qualcuno in Danimarca lo aveva già introdotto".

Com'è arrivato a interessarsi della teoria dei giochi?
"Era stato pubblicato da poco il libro di von Neumann e Morgenstern 'La teoria dei giochi e il comportamento economico', che oggi è un classico. E in quel libro si faceva un parallelo molto ambizioso e attraente con l'economia".

Lei all'epoca si interessava già alle applicazioni economiche?
"Avevo un certo interesse. Prima di andare a Princeton avevo seguito un corso di economia, oltre a quelli di matematica, fisica e chimica".

E quelli furono gli unici studi di economia che fece?
"Da un punto di vista formale, sì".

L'università di PrincetonLei ha studiato a Princeton quando Einstein insegnava lì. Lo ha mai incontrato?
"Sì. All'epoca riflettevo anche sulla cosmologia e sulla gravitazione, e sapevo che lui aveva una personalità stimolante. In fondo anche lui era un matematico, e i suoi studi sullo spazio-tempo erano dei pezzi di bravura matematica".

Spiegò le sue teorie ad Einstein, dunque?
"Sì, ma lui non aveva molto tempo per ascoltare. Mi disse che avrei dovuto studiare di più".

In pratica, la rimandò a scuola?
"Sì, diciamo così".

Nel film 'A Beautiful Mind' c'è un'unica scena in cui si accenna alla teoria dei giochi.
"Ho apprezzato molto il lavoro del regista e dello sceneggiatore. La teoria dei giochi non è che si possa applicare a qualunque cosa, ma in quella scena del film sono riusciti a concentrare l'attenzione su alcuni interessanti elementi psicologici".

Sono riusciti a spiegare la sua teoria, dell'equilibrio di Nash?

"Non credo che ci abbiano seriamente provato".

Perché non prova lei a spiegarcela, in quattro parole ?
"Un gioco può essere descritto in termini di strategie, che i giocatori devono seguire nelle loro mosse: l'equilibrio c'è, quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare, occorre agire insieme".

Italo Calvino, ha scritto una frase che molti usano per descrivere la teoria dell'equilibrio di Nash: a volte nella vita non riusciamo a raggiungere il meglio, ma almeno possiamo evitare il peggio. È una buona descrizione della sua nozione?
"Direi di sì. Perché unilateralmente possiamo solo evitare il peggio, mentre per raggiungere il meglio abbiamo bisogno di cooperazione".

Ci vuole parlare delle sue vicende personali?
"Allude alla mia malattia? Ebbene, era l'anno 1962. Avevo 34 anni. Successe qualcosa che mi portò lontano dalla matematica: incominciai a soffrire. Mi hanno diagnosticato un tipo di schizofrenia molto raro".

Russell Crowe, in una scena di "A Beautiful Mind"Aveva allucinazioni, visioni, come nel film?
"Visioni no, almeno non agli inizi: non è che quando si sta male si abbiano necessariamente illusioni visive, come nel film. Le allucinazioni, più che su qualcosa che si vede, sono su qualcosa che si pensa. In seguito le mie furono anche uditive, sentivo delle voci".

Potrebbe fare qualche esempio di allucinazione non sensoriale?
"Visto che siamo alla vigilia delle elezioni. Immagini una persona che dovrebbe essere democratica, ma pensa da repubblicano. O una che dovrebbe essere repubblicana, e pensa da democratico".

E come ci si accorge che questo è uno stato allucinatorio? Ad esempio, come facciamo a sapere se uno che vota Berlusconi o Veltroni è una persona sana che vuole veramente votare per loro, o uno schizofrenico che vorrebbe votare per l'altro?
"È complicato. Ma comunque, scherzi a parte, la psicosi è un fatto reale, non illusorio, e ci sono stadi diversi di psicosi".

Parliamo di matematica: che legame c'è tra essa e il pensiero allucinatorio?
"Io direi nessuno. Nel suo lavoro il matematico deve pensare in termini razionali e logici, anche se può commettere errori. Come uno scacchista, d'altronde".

Qualcuno pensa, o almeno dice, che troppa logica fa diventare matti.
"Non ho molta esperienza, ma il matematico italo-statunitense Giancarlo Rota ha scritto in un suo libro che i logici effettivamente sono un po' tutti matti".

Io sono un logico...
"Sì, ma non dev'essere paranoico e pensare che mi riferisca a lei. Se no, finisce per darmi ragione. In ogni caso, io credo che Rota avesse abbastanza colto nel segno".

E dove starebbe il nesso fra logica e follia? Forse nel fatto che il pensiero logico è astratto, e tende a essere distante dal mondo reale?
"Direi piuttosto che il pensiero logico deve essere introspettivo, mentre il pensiero matematico deve guardare alla realtà".

E la sua esperienza coi logici conferma la sua teoria?
"Abbastanza. Ad esempio, ho incontrato il grande logico Alonzo Church, che a onor del vero non è mai stato matto, né sul punto di diventarlo, ma certo si comportava in maniera molto strana. Aveva una caratteristica tipica dei pazienti psichici: parlava con se stesso, da solo, mentre camminava. E si mangiava tutti i biscotti alle feste".

E di Kurt Gödel, grande logico, anch'egli professore a Princeton, scomparso 30 anni fa, cosa può dirci?
"È anche lui un esempio di ciò che stiamo dicendo. La sua follia lo condusse addirittura alla tomba, perché si lasciò morire di consunzione. E sicuramente anche prima aveva forti elementi di eccentricità".

Abbiamo parlato di scacchi, e sembra che anche lì ci sia un legame con la follia: basta ricordare Bobby Fischer, che è morto da poco in circostanze simili a quelle di Gödel, perché non si lasciò curare di una malattia banale.
"Fischer non sembrava razionale a parlarci, ma giocava in modo razionale".

Lei da malato riusciva a fare matematica?
"Il delirio non era continuo, ma intermittente: le crisi andavano e venivano, e quando accadevano mi sentivo come sotto tortura. Si trattava di stati di irrazionalità che io stesso, nei momenti di lucidità, non accettavo. E quando tornavo razionale, ero pronto a lavorare e a fare ricerca".

Questo avveniva negli anni '60. E negli anni '70?
"Negli anni '70 non ho lavorato. Negli anni '80 coltivavo i miei hobbies, dall'informatica ai programmi statistici. Passavo da un'attività all'altra".

Si può dire che la matematica le sia stata d'aiuto per la sua malattia?
"Se una persona ha problemi mentali è come se fosse scollegata dalla realtà, e qualunque tipo di terapia psicologica può esserle di aiuto. Quando, in concomitanza con la farmacoterapia, si è introdotta anche la psicoterapia, l'interazione fra le due cose è sicuramente stata di aiuto".

Ha detto prima che a un certo punto ha cominciato a sentire delle voci. Nella storia ci sono altri esempi: il Socrate platonico, ad esempio, diceva anche lui di sentire una voce.
"Sì chiamavano demoni, all'epoca. E si parlava di sogni in cui uno aveva l'impressione di ricevere il messaggio di Dio".

Sogni e voci, però, sono cose diverse.
"Un sogno non è considerato un'allucinazione, ma se ci si crede, l'effetto potrebbe essere lo stesso. Se Dio non esiste, ma tu hai l'impressione di sentire la voce di Dio, cosa cambia?".

Possiamo allora classificare come schizofrenici tutti quelli che nella storia hanno sentito delle voci?
"Forse sarebbe esagerato, ma certo sentire delle voci non è un fatto positivo".

Com'è avvenuta la sua ripresa?
"È stata una ripresa progressiva. Mi sono reso conto che certe cose non erano fondate".

E alla fine sono arrivati il Premio Nobel e la fama.
"Il Nobel mi ha dato la possibilità di portare avanti il mio lavoro. Mi sono occupato di nuovo di teoria dei giochi e di cosmologia, e ho sviluppato qualche idea nuova".

Quanto è cambiata la sua vita, dopo il Nobel?
"Per molti il Nobel non ha cambiato molto la loro vita, o solo in misura molto modesta: avevano già avuto i loro risultati, e il premio ha solo aggiunto un onore. Per me invece è stato diverso, perché nel 1994 io non avevo neppure un lavoro. E dopo l'ho avuto. Forse, se non avessi vinto il Premio Nobel, per me ora sarebbe tutto diverso".

(11 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 30, 2008, 11:01:41 pm »

Geniale folle Sacks

di Piergiorgio Odifreddi


Il sospetto di schizofrenia. La dipendenza dalle droghe. E il disastro come scienziato. Un grande medico, divulgatore e scrittore, racconta a un collega matematico la sua vita fatta di contraddizioni, stupore e successo. Colloquio con Oliver Sacks  Oliver SacksAma definirsi "uno scienziato fallito". Invece è un uomo di successo, un autore di bestseller, un classico della divulgazione, dai suoi libro vengono tratti dei film. La sua fortuna è cominciata nel 1966, quando ancora giovane e sconosciuto, il dottor Oliver Sacks venne assunto all'ospedale Beth Abraham del Bronx, dove trovò un gruppo di pazienti sopravvissuti alla pandemia di encefalite letargica degli anni 1916-1927, che li aveva congelati nei movimenti e lasciati catatonici. Sacks li trattò con un farmaco sperimentale che permise loro di tornare temporaneamente alla vita, prima che gli effetti collaterali riprendessero il sopravvento e li rinchiudessero di nuovo nella prigione del loro corpo.

La narrazione dello straordinario caso in 'Risvegli' e l'omonimo film con Robert De Niro, catapultarono il dottore a una fama mediatica consolidata con le raccolte di casi clinici 'Emicrania', 'L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello', 'Vedere voci' e 'L'isola dei senza colore' l'ultimo 'Musicofilia'. C è poi 'Zio Tungsteno', un'autobiografia e, allo stesso tempo, una storia della chimica dalle origini agli inizi del Novecento. Nel suo ufficio di New York abbiamo parlato con Sacks non solo della sua opera, ma anche della sua vita, non meno interessante dei libri che ha scritto, delle droghe che ha sperimentato, e del fascino che su di lui esercitano i suoi pazienti. E abbiamo scoperto un personaggio di stampo rinascimentale.

Professor Sacks, cominciamo dalla sua infanzia. Ha raccontato di aver letto da bambino tanti libri scientifici e tutti in ordine storico...
"Credo di essere stato precoce. Quei libri li ho non solo letti, ma conservati, e ciò che ho perso ho cercato di recuperare. Ad esempio, uno dei miei favoriti era 'L'interpretazione del radio' di Soddy: quando mio padre morì, nel 1990, andai a recuperare i miei vecchi libri nella casa dove ero nato nel 1933, e quando presi quello di Soddy in mano si disintegrò in polvere, mangiato da un fungo. Ma non potevo starne senza: ho speso un bel po' di tempo per ritrovarlo e di soldi per ricomprarlo".


Ha detto una volta che la scienza è una cura contro il caos mentale...
"Ho chiesto al mio psicanalista se ero schizofrenico, e lui disse di no. Allora gli domandai se ero nevrotico, e lui rispose: lei è un po' più di nevrotico. Oltre quello, non ho approfondito. Ma il fatto è che, quando avevo dieci o undici anni, mio fratello Michael impazzì, e io rimasi terrorizzato nel vederlo allucinato, a volte catatonico per il terrore: avevo paura di lui, e paura per lui. Ma anche di me stesso e per me stesso: mi chiedevo se quello che succedeva a lui fosse preordinato anche per me".

Suo fratello è guarito?
"No, ha vissuto una vita tragica. Ha fatto vari lavori, in maniera meticolosa: era ossessivamente scrupoloso e accurato. Ha smesso di lavorare verso i cinquant'anni".

Lei è medico, scrittore, neuroscienziato, divulgatore. Come fa a conciliare tanti mestieri?
"A Oxford ho cominciato a studiare la combinazione chiamata PPP: Physiology, Psychology, Philosophy, (Fisiologia, Psicologia, Filosofia), con l'idea che le tre branche dovessero confluire. Questo era un pio desiderio negli anni '50, ma forse si sta realizzando ora. Nel '65 arrivato a New York, decisi di essere un vero grande scienziato: ho preso una borsa di studio in neurochimica e neuropatologia. È stato un disastro".

Non sembrerebbe a giudicare dai risultati.
"Sono sempre stato impacciato. Rovescio le cose, perdo i campioni, e una volta ho lasciato cadere un hamburger in una centrifuga molto costosa. Così a un certo punto mi dissero: Sacks, se ne vada! Si dedichi ai pazienti, non alla ricerca. Dunque, sono uno scienziato fallito, anche se uno scrittore popolare".

Un suo professore disse: Sacks andrà lontano, se non cerca di andare troppo lontano.
"Tendo a essere stravagante e esagerato. Per esempio, un mio libro di centomila parole ha come origine due milioni di parole. Altra mia stranezza: calcolo l'età in base alla tavola di Mendeleev".

Quella degli elementi chimici?
"Sì. E ho l'abitudine di fare come regalo di compleanno un po' dell'elemento corrispondente all'età. A un amico che ha compiuto 80 anni, ho regalato una bottiglia di mercurio: se fosse stato un anno più giovane, avrei dovuto dargli del platino. E oggi ho in macchina un bel pallone di zeno per un amico che compie 54 anni".

La tavola di Mendeleev si vede nella sua camera nel film 'Risvegli'...
"La tavola è il mio amuleto: ne porto una nel portafoglio da sessant'anni, come altra gente porta la foto del figlio o l'immagine della Madonna. E ne avevo una gigante su una parete del mio appartamento, all'epoca del film".

La star di quel film è Robert De Niro
"Passò quarantott'ore con il paziente il cui ruolo recitava, perché, disse, si può avere un'idea di cosa significhi essere Amleto o Ofelia, ma non un malato di Parkinson. Era così bravo, che un giorno mi chiese di mostrargli come un paziente si sarebbe bloccato in una certa situazione. Appena glielo mostrai, mi cadde addosso in una maniera tale che mi fece vacillare. A quel punto capii che non stava fingendo: era diventano parkinsoniano. A volte, a cena dopo le riprese, vedevo il suo piede rivolto all'interno, come se gli fosse rimasto un frammento di distonia. E a volte diceva cose che il vero paziente avrebbe potuto dire".

Anche lei ama sperimentare certe situazioni su se stesso?
"Essere, ricordare, immaginare, imitare: sono tutti aspetti di un'unica cosa".

Robert De Niro, interprete di "Risvegli"Per questo che ha cercato di diventare parkinsoniano?
"Una volta ho preso un forte neurolettico con effetti parkinsoniani. Volevo vedere cosa succedeva, e farlo vedere ai miei studenti. E mi sono stupito nell'osservare che il mio braccio sinistro continuava a lungo a galleggiare in aria in maniera catatonica. Ma anche l'opposto mi affascina: una volta sono andato al Metropolitan Museum con un amico, un artista con sintomi parkinsoniani. Lui ebbe una crisi, si fece un'iniezione di apomorfina direttamente attraverso i pantaloni, e dopo mi disse: 'Ora ho dimenticato di essere parkinsoniano. Ma in 30 o 40 minuti, quando l'effetto svanisce, me lo ricorderò'".

Nei suoi libri sembra però essere cauto sull'uso delle sostanze chimiche come medicine.
"Negli anni '60 ho provato di tutto, anche le droghe. Anzi, ero quasi diventato dipendente. Avevo avuto un'adolescenza magica con la chimica, in senso intellettuale. Ma poi tra i 15 e i 30 anni ero passato attraverso anni confusi e depressi: interminabili anni di scuola, che non ho mai amato, perché io devo fare le cose per conto mio. Solo a 33 anni, quando cominciai ad avere i miei pazienti, ricominciai a godermi le cose. Nel frattempo le amfetamine erano state un modo per rivitalizzare la passione intellettuale, che avevo perso".

Quando cominciò a drogarsi?
"Verso il 1963, più o meno a trent'anni, e terminai nel febbraio 1967. Non so quanti danni mi feci, ma sono sicuro di aver fatto fuori milioni dei miei neuroni. Ciò nonostante, eccomi qua, quarant'anni dopo, vivo e vegeto".

Faceva esperimenti su se stesso?
"Dire così sarebbe un tentativo di legittimazione. In realtà le droghe le ho prese sia edonisticamente, per piacere o curiosità, che distruttivamente, per farmi del male. Prendevo amfetamine a dosi enormi: pillole da 400 milligrammi, che per 24 ore raddoppiavano la pressione e triplicavano il polso, fino a 200 battiti. Molti dei miei amici ebbero infarti o morirono e io stesso, l'ultimo giorno del 1965, mi vidi allo specchio nel mezzo di una mania amfetaminica e mi dissi: Oliver, non sopravviverai un altro anno".

Come fece a smettere?
"Ci fu un episodio preciso. Avevo cominciato a lavorare in una clinica per malati di emicrania nel 1966, poco dopo la catastrofe in laboratorio (quando ho buttato l'hamburger nella centrifuga): era una specie di posto nel nulla, ma la cosa divenne immediatamente di estremo interesse per me, per la varietà sia del fenomeno che dell'impatto che può avere sul paziente. Una notte andai nella sezione dei libri rari della biblioteca e presi un volume scritto nel 1873: 'L'emicrania, il mal di testa e altri disturbi collegati', di Edward Liveing. Era un venerdì notte, la sera in cui avevo l'abitudine di prendere una forte dose di amfetamine, e indulgere in fantasie. Ma questa volta non riuscii a staccarmi dal libro e cominciai a leggerlo sotto l'influenza della droga, che sembrò investire le pagine e l'argomento. Al culmine dell'eccitazione mi sembrò che mi si aprisse un paradiso neurologico e vidi l'emicrania come una meravigliosa costellazione. Lessi con una concentrazione catatonica: gli occhi fissi, le labbra secche e un senso di profonda meraviglia. Mi dissi: che libro meraviglioso, che meraviglioso argomento, il meglio della scienza medica dell'era vittoriana. Mi domandai chi avrebbe potuto essere il Liveing del nostro tempo, e ingenuamente scorsi una mezza dozzina di nomi nella mente. Poi esclamai ad alta voce: scemo, puoi esserlo tu! Fotocopiai il libro, che divenne l'ispirazione di 'Emicrania', e smisi di prendere amfetamine".

Parliamo di casi clinici, ne ha mai trovati con strane capacità matematiche? Io sono un matematico...
"Ho scritto un articolo sui matematici ciechi dalla nascita, o quasi. Un matematico francese, che mostrò che una sfera si può rivoltare dall'interno all'esterno, in seguito dichiarò di essere stato aiutato nella scoperta del risultato dalla sua immaginazione tattile, che la gente normale non ha".

Quindi, a volte, non avere un senso può essere vantaggioso.
"C'è un libro meraviglioso intitolato 'Mani privilegiate', di un paleontologo olandese Geerat Vermeij, che divenne cieco all'età di due o tre anni: con la sensitività preternaturale delle sue mani è riuscito a descrivere aspetti dei molluschi marini che altri scienziati avevano mancato".

Si può essere ciechi in tanti modi diversi?
"Sì. Ho scritto un saggio intitolato 'The mind's eye' - l'(occh)io della mente - sui diversi modi di essere ciechi, o sui diversi adattamenti alla cecità. Per alcuni essa stimola una compensazione dell'immaginazione visiva, una specie di realtà virtuale o quasi-allucinatoria controllabile. Altri perdono il mondo visivo o rinunciano ad alcuni suoi aspetti (memoria, nostalgia, valori visivi), dedicandosi ad altri sensi. L'individualità usa ciò che ha, e non è noto quanto essa sia determinata dalle circostanze, o dagli sforzi volontari".

Il mio maestro di piano associava colori alle tonalità.
"È un'associazione diffusa. Un compositore mi ha raccontato che quando aveva cinque anni disse al suo insegnante di piano che gli piaceva molto un certo pezzo blu, in re maggiore. Ma si possono associare anche i colori ai numeri, dato che lei è un matematico. Io me ne sono interessato da quando ho letto il libro 'Indagini sulle facoltà umane e il loro sviluppo', che Francis Gaulton ha scritto nel 1883: fu il primo studio dettagliato e statistico sulle associazioni cromatiche delle lettere o delle cifre. Mentre studiava la memoria e l'immaginazione visiva, Gaulton si accorse che qualcuno gli diceva di vedere le lettere o le cifre colorate: non si trattava di un'immaginazione, perché era invariabile, irresistibile, ininfluenzabile, e risaliva sempre alle memorie più remote".

Si diverte ancora coi suoi strani pazienti?
"Quando lavoravo in clinica la gente diceva che nessun dottore ambizioso avrebbe dovuto studiare casi come quelli, ma io l'ho fatto per quarant'anni e non mi stufo mai: continuo a vedere cose nuove, o cose vecchie sotto una nuova luce. E mi sono arrabbiato quando un mio collega, un giorno, disse che dopo vent'anni uno ha visto ormai tutto: non è vero, un argomento non si esaurisce mai".


(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Agosto 21, 2008, 11:26:35 am da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 23, 2008, 09:39:11 am »

LIBRI

Numeri senza memoria

di Piergiorgio Odifreddi


Uno smemorato professore in possesso di una memoria breve di soli 80 minuti è il protagonista di un altro romanzo dedicato al mondo delle equazioni. La recensione di un matematico impertinente  Non è certo una novità che in un romanzo un matematico possa entrare come protagonista, e la matematica come metafora della vita, o di un atteggiamento verso di essa: basta ricordare, ad esempio, l'Ulrich de 'L'uomo senza qualità' di Robert Musil, o il Richard Hieck de 'L'incognita' di Hermann Bloch.

Di recente, però, sembra che le sofferte profondità della letteratura degli anni Trenta abbiano ceduto il passo ad allegre superficialità più consone allo spirito del postmoderno.

Sulla scia del successo di libri di bravi scrittori, in fondo rivolti all'infanzia, quali 'Il mago dei numeri' del tedesco 'Hans Magnus Enzensberger, o 'Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte' dell'inglese Mark Haddon, arriva ora 'La formula del professore' della giapponese Yoko Ogawa (Il Saggiatore, 2008, pp. 200, E 15), in cui il matematico interviene non come uno spiritello che si manifesta al momento dell'appisolamento, o un bambino autistico che gioca ossessivamente coi numeri, bensí come uno smemorato professore in possesso di una memoria breve di soli 80 minuti: ce ne sarà mai uno normale, al mondo?

La governante, che ovviamente non capisce nulla di formule, viene comunque contagiata dal morbo della matematica grazie alle osservazioni dell'ignaro e inconsapevole Pigmalione, e l'autrice ne approfitta per snocciolarci una serie di luoghi comuni su numeri ed equazioni, culminanti nella formula che dà il titolo al libro, e che sorprendente altro non è che la più nota dell'intera matematica.

Paul Auster ha comunque magnificato il romanzo, a dimostrazione che nel regno dei ciechi di matematica anche l'orbo è una medaglia Fields. Queste mie sono comunque le osservazioni di un matematico, che vorrebbe che anche i bravi scrittori se ne intendessero di più.

(20 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:21:50 pm »

6/10/2008
 
Razzismo, io ho un sogno
 
 
PIERGIORGIO ODIFREDDI
 
Il 28 agosto 1963 Martin Luther King pronunciò davanti al Lincoln Memorial di Washington il famoso discorso passato alla storia per la frase I have a dream, «Io ho un sogno», che risuonò più volte come un potente richiamo alle orecchie dei manifestanti per i diritti civili che erano convenuti nella capitale degli Stati Uniti.

Oggi, 45 anni dopo, il Paese che allora viveva ancora nella segregazione razziale ha una donna «negra» come Segretario di Stato dell’amministrazione più conservatrice e antilibertaria del dopoguerra, ha un candidato «negro» alla Presidenza della Repubblica e potrebbe presto avere un presidente «negro».

Rileggere quel discorso rischia dunque di diventare un esercizio di pura retorica. Ma basta focalizzare lo sguardo altrove, dalla nuova America di mezzo secolo fa alla vecchia Europa di oggi, per sentire risuonare in quelle parole un monito attuale e per nulla retorico, che denuncia la condizione vergognosa dei nostri immigrati e dei nostri extracomunitari. Sono loro oggi i veri negri del mondo, anche se la loro pelle non è necessariamente nera, e i loro Paesi d’origine non stanno necessariamente in Africa.

E perciò, amici immigrati ed extracomunitari, è a voi che mi rivolgo per dirvi che, pur dovendo affrontare le asperità politiche di oggi, e probabilmente di domani, anch’io come Martin Luther King ho un sogno ricorrente.

E’ un sogno profondamente radicato nella Costituzione della Repubblica Italiana. È il sogno che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle convinzioni espresse nell’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Io ho un sogno: che un giorno incasseremo questo «pagherò» che i costituenti firmarono, e di cui ogni italiano è diventato erede. Un «pagherò» che promette non solo a tutti i cittadini, ma anche a tutti i residenti, che godranno dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità. È ovvio che oggi l’Italia non sta onorando questo «pagherò», con i suoi immigrati ed extracomunitari. E invece di onorare questo suo obbligo costituzionale l’Italia ha girato loro un assegno scoperto, un assegno che è stato annullato con lo stampo di «fondi insufficienti».

Io ho un sogno: che questo assegno possa essere incassato integralmente, perché mi rifiuto di credere che la giustizia abbia fatto bancarotta. Mi rifiuto di credere che non ci siano fondi sufficienti nel grande caveau delle opportunità offerte da questo Paese. E so che quando sarà incassato, questo assegno elargirà le ricchezze della libertà e le garanzie della giustizia.

Io ho un sogno: che questo assegno possa essere incassato presto, perché altrimenti rischiamo di assuefarci al tranquillante del gradualismo. È questo il momento di realizzare le promesse della democrazia. È questo il momento di rendere giustizia a tutti i cittadini e a tutti i residenti. È questo il momento di abbandonare la desolata pianura della discriminazione. Non ci saranno in Italia né pace né tranquillità fino a quando agli immigrati e agli extracomunitari non saranno concessi i loro diritti di cittadini.

Io ho un sogno: che nel procedere verso la loro giusta meta, gli immigrati e gli extracomunitari non si macchino di crimini e delitti. Che riescano a soddisfare la loro sete di libertà senza bere alla coppa dell’odio e del risentimento. Che conducano sempre la loro giusta lotta muovendosi sul piano elevato della dignità e della disciplina. Che non permettano alla loro protesta creativa di degenerare in violenza fisica. Che si librino sulle alte vette di chi risponde alla forza fisica con la forza d’animo.

Io ho un sogno: che nel procedere verso la loro giusta meta, gli immigrati e gli extracomunitari siano accompagnati da molti dei nostri connazionali, che sono giunti a capire che il destino degli uni è legato a quello degli altri. Che la libertà degli uni è legata a quella degli altri. Che né gli uni né gli altri possono camminare da soli.

E mentre avanziamo uniti, non dovremo mai indietreggiare. A chi ci chiede quando saremo soddisfatti, rispondiamo che non saremo mai soddisfatti. Che non possiamo essere soddisfatti finché gli immigrati e gli extracomunitari saranno vittime di aggressioni e violenze. Finché i loro figli saranno discriminati nelle scuole. Finché non potranno votare, o crederanno di non aver motivo di votare. Io ho un sogno: che un giorno nella sedicente Padania i figli di coloro che un tempo furono meridionali o extracomunitari, e i figli di coloro che un tempo furono leghisti e razzisti, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho un sogno: che un giorno persino le regioni della Lombardia e del Veneto, oggi così immerse nelle nebbie dell’ingiustizia, oggi così raggelate dal vento della discriminazione, si trasformeranno in oasi di giustizia e libertà. Io ho un sogno: che un giorno persino nei comuni di Treviso e di Verona, oggi istigati da sindaci-sceriffi alla discriminazione confessionale e alla separazione etnica, i bambini infedeli e di colore potranno passeggiare tenendo per mano le bambine credenti e bianche, come se fossero fratelli e sorelle.

Io ho un sogno: che un giorno la bassa pianura in cui scorre il Po verrà elevata moralmente. Che un giorno le sue differenze saranno livellate socialmente. Che un giorno la forza della ragione si mostrerà e tutti la vedranno. È questa la mia fede, una fede laica con la quale io guardo al Nord. Con questa fede laica saremo in grado di strappare alla pianura della disperazione un sorriso di speranza. Con questa fede laica saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una consonante sinfonia di fratellanza. Con questa fede laica saremo in grado di riconquistare insieme la decenza e di difendere insieme la libertà.

Giovedì prossimo alle 20,45, al Teatro Comunale di Alessandria, l’attore Paolo Bonacelli leggerà il celebre discorso di Martin Luther King «I have a dream». A seguire, Piergiorgio Odifreddi si misurerà con le parole del predicatore nero per attualizzarle alla luce della situazione attuale in Italia. Anticipiamo uno stralcio del suo intervento.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 11, 2009, 02:03:20 pm »

Dall'"ortodossia perfetta" degli anni giovanili alla perdita graduale della fede

"Un uomo sano di mente non può credere nei miracoli"

Così mise in discussione il disegno divino

Esce in questi giorni da Longanesi "In principio era Darwin" di Piergiorgio Odifreddi.

Qui ne anticipiamo un brano.

di PIERGIORGIO ODIFREDDI

 

CHE cosa pensasse Darwin delle scimmie è noto, ma lo è meno che cosa pensasse di Dio, benché per saperlo basti leggere il capitolo "Opinioni religiose" della sua Autobiografia, nel quale egli descrive l'evoluzione del suo pensiero al riguardo. Sui suoi anni giovanili egli commenta che, "pensando ai violenti attacchi che mi hanno rivolto gli ortodossi, sembra ridicolo che un tempo abbia voluto fare il pastore protestante": un'idea che gli era stata suggerita dal padre, dopo il suo rifiuto di diventare medico, ma che "morí di morte naturale" quand'egli si imbarcò sul Beagle alla fine del 1831. A quel tempo, comunque, Darwin era di "un'ortodossia perfetta", tanto che persino gli ufficiali credenti lo prendevano in giro per le sue continue citazioni bibliche.

Ma appena cominciò a pensare all'evoluzione, tra la fine del 1836 e l'inizio del 1838, egli si rese gradualmente conto che la Bibbia "non meritava più fede dei libri sacri degli indù o della credenza di qualsiasi barbaro", e che era impossibile per "un uomo sano di mente credere nei miracoli". Il risultato fu una graduale perdita di fede nella religione cristiana in quanto verità rivelata: "L'incredulità si insinuò nel mio spirito, e finì per diventare totale. Il suo sviluppo fu tanto lento che non ne soffersi, e da allora non ho mai più avuto alcun dubbio sull'esattezza della mia conclusione. In realtà non posso capire perché ci dovremmo augurare che le promesse del cristianesimo si avverino: perché in tal caso, secondo le parole del Vangelo, gli uomini senza fede come mio padre, mio fratello e quasi tutti i miei amici più cari, sarebbero puniti per l'eternità. E questa è un'odiosa dottrina".
Tra parentesi, questo brano fu espunto dalla prima edizione (postuma) dell'Autobiografia su esplicita richiesta della bigotta moglie Emma, che lo trovò "troppo crudo": correttamente, perché esso non lascia scampo alla religiosità istituzionale del cristianesimo. Più sottile è invece il problema di una religiosità elevata ed astratta, ad esempio quella derivata dalla contemplazione della natura, al cui riguardo Darwin nota: "Le condizioni di spirito che un tempo le grandi visioni naturali risvegliavano in me e che erano intimamente connesse con la fede in Dio, non differivano sostanzialmente da ciò che spesso si indica come sentimento del sublime. E ciò, nonostante sia difficile spiegarne la genesi, non può essere preso come prova dell'esistenza di Dio, più di quanto non lo siano i sentimenti analoghi, forti ma indefiniti, suscitati dalla musica".

L'argomento teologico più popolare agli inizi dell'Ottocento era però quello proposto da William Paley nella Teologia naturale del 1802, che faceva appello all'ordine della natura: sostanzialmente, argomentava il vescovo, come l'osservazione di un orologio rimanda a un orologiaio, così l'osservazione del creato rimanda a un creatore. Ma benché il giovane studente Darwin avesse tratto dalla lettura dell'opera di Paley "tanto piacere quanto da Euclide", l'adulto scienziato fu ben conscio che la sua teoria aveva dato il colpo di grazia all'analogia: "Oggi, dopo la scoperta della legge della selezione naturale, cade il vecchio argomento di un disegno della natura secondo quanto scriveva Paley, argomento che nel passato mi era sembrato decisivo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l'azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento".

E per Darwin non solo l'osservazione della natura non sembrava fornire argomenti a favore dell'esistenza di Dio, ma ne forniva addirittura di contrari: ad esempio, la presenza del dolore, che invece "concorda bene con l'opinione che tutti gli esseri viventi si siano sviluppati attraverso la variazione e la selezione naturale". E fu proprio il dolore per la prematura scomparsa della figlia Annie, il 23 aprile 1851, a convincere Darwin ad abbandonare la pratica religiosa: da quel momento, cessò di andare in chiesa. Ma, nonostante tutto, fino al tempo in cui scrisse L'origine delle specie egli continuò ad attribuirsi l'appellativo di "teista" a causa della "estrema difficoltà, l'impossibilità quasi, di concepire l'universo come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità".

Solo "in seguito, dopo molti alti e bassi, questa conclusione si è gradualmente indebolita", dirà in un'aggiunta all'Autobiografia. E in una lettera del 1879, a tre anni dalla morte, a un corrispondente che gli chiedeva la sua posizione nei confronti della religione egli scriveva: "Il mio giudizio è spesso fluttuante, ma anche nelle mie fluttuazioni più estreme non sono mai stato un ateo, nel senso di negare l'esistenza di Dio. Mi pare che generalmente (e tanto più quanto più invecchio), ma non sempre, la miglior definizione del mio pensiero sarebbe: "agnostico"".

L'agnosticismo di Darwin, ribadito nell'Autobiografia, risultava congeniale al suo disimpegno nei confronti dell'anticlericalismo, testimoniato da una lettera del 13 ottobre 1880 a Karl Marx, in cui egli declinava l'offerta di dedica del secondo volume del Capitale: "Benché io sia un fervido sostenitore della libertà di opinioni in ogni argomento, mi sembra (a torto o a ragione) che attacchi diretti contro il cristianesimo e il teismo abbiano assai scarso effetto sul pubblico, e che la libertà di pensiero possa meglio promuoversi con quella illuminazione graduale dell'intelletto umano che consegue al progresso delle scienze. Perciò ho sempre evitato di scrivere sulla religione, e mi sono limitato alla scienza".

Ma come da un lato l'educazione scientifica può avere un effetto positivo e antireligioso, così dall'altro lato l'educazione religiosa può sortire un complementare effetto negativo e antiscientifico. Lo conferma un passo dell'Autobiografia, in cui si può leggere una chiara allusione al Genesi: "Non dobbiamo trascurare la probabilità che il costante inculcare la credenza in Dio nelle menti dei bambini possa produrre un effetto così forte e duraturo sui loro cervelli non ancora completamente sviluppati, da diventare per loro tanto difficile sbarazzarsene, quanto per una scimmia disfarsi della sua istintiva paura o ripugnanza del serpente".


(11 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 17, 2009, 08:22:18 am »

Inchiesta Grinzane, Odifreddi: «Il premio? Ormai è morto»

Accuse alla politica: «In consiglio regionale destra e sinistra si erano opposte alla mia nomina come presidente»

di Vincenza de Iudicibus


ROMA (16 marzo) - «Il Grinzane? Ormai è morto». Non usa mezzi termini Piergiorgio Odifreddi, ex presidente del comitato dei garanti del premio, per commentare la vicenda che ha portato all’arresto dell’intellettuale torinese Giuliano Soria che lo presiedeva: «Temo che la storia del premio debba chiudersi qui – afferma – L’unica soluzione potrebbe essere di farlo rinascere cambiando sia il nome che il progetto».

Il “matematico impertinente” condanna nettamente l’atteggiamento di Soria: «Se avesse fatto prima le sue ammissioni – dice – non si sarebbe arrivati a questo punto. Probabilmente il premio si sarebbe salvato, e lui non sarebbe stato arrestato. Ma adesso che la giuria non c’è più, che il comitato si è sciolto, resta poco da fare».

Odifreddi non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Già nei giorni scorsi aveva condannato le dimissioni della giuria, colpevole di aver rinunciato a portare a termine il lavoro cominciato. Le dimissioni vengono considerate dal matematico, oltre che un atto contro il premio, un’azione contro di lui e il comitato dei garanti scelto. Ma l’accusa più dura Odifreddi la riserva ai politici poco coraggiosi: «In consiglio regionale sia destra che sinistra si erano opposte alla mia nomina come presidente - afferma - Hanno detto che poteva essere cosa poco gradita al Cardinale. Personalmente ritengo che si tratti di un atteggiamento conservatore, fondamentalista e ottuso».

Se fosse possibile ridisegnare il premio, Odifreddi, che dal 19 marzo sarà a Roma per la terza edizione del Festival della Matematica (di cui è il coordinatore scientifico) investirebbe in un evento differente: «Lavorerei per un progetto più legato al territorio – conclude – Più equilibrato: pochi premi e più variegati, che non riguardino solo la letteratura, ma anche la scienza e altre discipline».
 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 18, 2009, 10:34:51 am »

L'INTERVENTO

Io e il Grinzane

di PIERGIORGIO ODIFREDDI


Vorrei rispondere ad rem (cioè, nel merito) all'attacco ad personam (cioè, pretestuoso) che Pierluigi Battista mi rivolge nella "Lettera al sacerdote dell'anticlericalismo" sul Corriere della Sera del 16 marzo, elogiata da l'Avvenire il 17 marzo.

Anzitutto, lo ringrazio per avermi chiamato "egregio". Credo infatti che sappia, nonostante la sua avversione per le etimologie, che l'aggettivo significa "fuori del gregge", e oggi in Italia chi esprime e difende un pensiero laico è effettivamente costretto a cantare fuori dal coro dei belati. Cosa non sgradevole, comunque, visto che Albert Einstein notava nelle sue Idee e opinioni che "per essere l'immacolato componente di un gregge di pecore, bisogna prima di tutto essere una pecora".

Venendo all'articolo, Battista bolla la mia dichiarazione di ingerenza clericale nelle vicende del Premio Grinzane Cavour come "fantasticamente infondata, alla luce di un elementare buonsenso": ne deduco che, pur scrivendo sui giornali, non li legge. Neppure il suo, che il 4 marzo titolava "L'assenza cattolica agita il Grinzane". E neppure l'Avvenire, che il 3 marzo titolava "Grinzane, un futuro a senso unico?", e vedeva come "una barzelletta l'eventuale inserimento di un solo rappresentante dell'area cattolica". E neppure La Stampa, che il 1° marzo titolava "I cattolici reclamano un posto nei saggi".

Quanto all'appello al buonsenso come verifica di fondatezza, si tratta dello stesso argomento che viene puntualmente avanzato da coloro che la pensano come lui, ogni volta che qualche idea nuova viene alla ribalta: è stato infatti il "buonsenso" a far processare Galileo per aver sostenuto che la Terra girava attorno al Sole, e non viceversa, così come è stato il "buonsenso" a far avversare Darwin per aver sostenuto che l'uomo fu creato a immagine e somiglianza della scimmia, e non di Dio.

Purtroppo è difficile applicare il buonsenso alle vicende del Grinzane, quando il forzista Giampiero Leo e il pidino Stefano Lepri sono a verbale per aver ineffabilmente sostenuto in Consiglio Regionale a Torino che la mia nomina era "sgradita al cardinale" (come se questo dovesse importare). E quando il forzista Enzo Ghigo e il pidino Gianfranco Morgando mi chiamano "matematico ateo", mostrando ripetutamente di ritenere che il secondo (e forse anche il primo) attributo siano degli handicap, invece che delle garanzie: dimenticando che la gestione di Soria e la sponsorizzazione di Ghigo e Leo erano sì "cattolicamente corrette", ma certo non si sono rivelate evangeliche.

Battista mi dice che dovrei "aver conosciuto nelle mie peregrinazioni di studioso negli Stati Uniti e in Unione Sovietica la sorte di quegli intellettuali che, strappati dal recinto delle loro competenze specifiche, si perdono nelle fumisterie del vaniloquio ideologico e della banalità più corriva". Non so cosa c'entri, ma è vero, li ho conosciuti: in particolare il linguista Noam Chomsky e il fisico Andrei Sacharov, attaccati dai loro detrattori maccartisti e persecutori brezneviani con le sue stesse parole. E avendoli conosciuti, non posso che prenderli ad esempio: in particolare il primo, come ho scritto nella prefazione a Il matematico impertinente.

Infine, a proposito del suggerimento di "tornare dove mi sento a mio agio, tra i numeri e la trigonometria", io ci sono sempre rimasto: un mio libro su Darwin è uscito da qualche settimana (Battista non se n'è accorto, ma fortunatamente il pubblico e i recensori sì), un altro sulla matematica esce in questi giorni, la scorsa settimana ho diretto un Festival della Matematica a New York, e questa settimana proseguiamo a Roma, ospitando in tutto otto premi Nobel e tre medaglie Fields. Temo che la fissazione sulle mie marginali opinioni in campo religioso siano soltanto un sintomo del fatto che la lingua batte dove il suo dente (di Battista) duole.

(18 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 26, 2009, 10:36:48 am »

IL CASO

Odifreddi, giallo sul licenziamento dopo il successo del Festival di Roma

Il matematico liquidato con una mail: "Mi hanno detto che è venuta meno la fiducia". L'Auditorium nega

di SIMONETTA FIORI


 ROMA - Se la matematica è la scienza esatta per definizione, non c'è niente di esatto o di logico nell'epilogo del festival dedicato al genio aritmetico appena concluso all'Auditorium di Roma. Doveva essere la celebrazione dell'indole matematica, elevata a paradigma di ciò che servirebbe in questa confusa fase storica: pensare, ragionare, contare sull'intelletto. Così è stato per alcuni giorni, con otto premi Nobel, tre medaglie Fields, cinquantamila spettatori. Il seguito, però, inclina penosamente al teatro dell'assurdo o alla commedia degli equivoci. Tutto comincia con una mail, arrivata nel pomeriggio sul computer di Piergiorgio Odifreddi, direttore scientifico del festival.

"Un messaggio di poche righe, racconta lo studioso. "È firmato da Carlo Fuortes, amministratore delegato dell'Auditorium. Mi comunica che è venuto meno il rapporto di fiducia". Licenziato, così, sui due piedi. Dopo la pagina nera del Grinzane, il nuovo caso del Festival della Matematica. Tempi cupi per il matematico impenitente, costretto a nuova penitenza. Grazie per la collaborazione, ma finisce qui. Non ti rinnoviamo il contratto. Una comunicazione asciutta e inequivocabile. "No, non me l'aspettavo", è il solo commento di Odifreddi. "Ci sono stati dissapori, ma niente lasciava prevedere una simile conclusione".

Che succede nel "festivalificio" della capitale? Su suggestive ipotesi politiche sembrano prevalere ragioni di carattere personale. La versione d'una "censura politica" da parte di un'amministrazione cittadina ossequiosa verso le gerarchie ecclesiastiche non sembra sufficientemente argomentata, almeno in questa occasione. Semmai "l'irregolarità" di Odifreddi potrebbe aver suggerito al Comune di Roma di tagliare per quest'anno i finanziamenti alla manifestazione, che è stata sovvenzionata dalla Provincia guidata da Nicola Zingaretti. Solo supposizioni, che peraltro rimangono estranee all'improvvisa decisione di Fuortes di far fuori Odifreddi.

Ruggini personali, incomprensioni, un antagonismo tra lo studioso e l'amministratore delegato avrebbero prodotto in queste settimane la rottura definitiva. Secondo alcuni, Fuortes sarebbe stato infastidito dalle iniziative autonome d'un indisciplinato Odifreddi. In fondo era stato Fuortes a difenderne la direzione scientifica dai tanti nemici politici accumulati dal matematico in questi mesi. Tu quoque, eccetera eccetera. Sul "venir meno del rapporto di fiducia" cui fa riferimento la lettera di licenziamento non è possibile sapere di più. Tace il licenziato. È irraggiungibile anche l'artefice del licenziamento. Per tutto il pomeriggio sceglie il silenzio il presidente dell'Auditorium Gianni Borgna. Sarebbe interessante capire con quali motivazioni sia stato allontanato un direttore scientifico che in tre anni ha portato a Roma una moltitudine di premi Nobel e una caterva di medaglie Fields. Bastano dei dissidi personali per mandare in fumo il festival?

In tarda serata, la soluzione dell'enigma. Che - come già detto - ha poco di scientifico o di esatto. "Odifreddi licenziato? Ma quando mai?", cade dalle nuvole Massimo Pasquini, capo dell'ufficio stampa dell'Audiorium, incaricato di rappresentare Borgna e Fuortes. "Una mail? Ma quale mail? Con Odifreddi c'è stato solo un pacato confronto sulla formula da adottare nelle successive edizioni del festival: come rinnovarlo ed eventualmente a chi affidarlo". Strana consuetudine: avete chiesto a Odifreddi chi possa sostituirlo nella direzione scientifica? "No, no. Ma è ancora tutto aperto, non s'è deciso niente. Stiamo ancora festeggiando per lo straordinario successo di quest'anno: otto premi Nobel, tre medaglie Fields, il record dei biglietti esauriti...". Odifreddi insiste: "La mail di licenziamento è nel mio computer". Più che un epilogo "matematico", un canovaccio teatrale con poca logica e molte bugie.

(26 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 26, 2009, 11:30:06 pm »

26/3/2009 (7:41) - LA KERMESSE DEI NUMERI PERDE IL SUO DIRETTORE

Matematica, non è più un festival per Odifreddi
 

GABRIELE BECCARIA


Una mail e il «matematico impertinente» più famoso d’Italia si è trovato di fronte a uno di quei paradossi logici che ha studiato per decenni. «Ci vuole un rapporto di grande sintonia e fiducia che purtroppo, adesso, non riscontro più e quindi, per quanto mi riguarda, mi sembra impossibile continuare come gli anni scorsi». Firmato Carlo Fuortes, amministratore delegato dell’Auditorium Parco della Musica. Piergiorgio Odifreddi è stato allontanato. Da ieri non è più il direttore del Festival della Matematica.

Abbandonato il Premio Grinzane, adesso perde a sorpresa la sua creatura, intrisa di equazioni e formule, che quest’anno aveva fatto il tutto esaurito, con file di ragazzi e ragazze a comprare i biglietti delle lezioni sui «multiversi» e sui «mativersi» come se fossero esibizioni di rockstar. I Premi Nobel John Nash e Thomas Schelling non lo sanno ancora, ma il «loro» Piergiorgio, che sabato scorso li aveva portati sul palco, costringendoli a una sorta di spettacolare flusso di coscienza tra economia, storia e teoria dei giochi, è fuori combattimento.

«Sì, è vero. Hanno interrotto il nostro rapporto di collaborazione - reagisce il professore -. Ma adesso non voglio commentare». La voce è decisa, il piglio è il solito, ma rifiuta le stilettate che ne hanno fatto un personaggio multimediale, dai libri alla tv. Non restano che le voci e i pettegolezzi, quelli che avevano cominciato a circolare già durante il Festival della settimana scorsa e che ora rimbalzano come sassate.

Finalmente, a sera, la replica romana. «Il presidente e l’amministratore delegato, Gianni Borgna e Carlo Fuortes, sono molto sorpresi - fa sapere il portavoce dell’Auditorium Massimo Pasquini -. Le mail sono chiacchierate per capire se riformulare il Festival e con chi. Come si fa a parlare di licenziamento, se il contratto scade a ogni edizione?».

Scaduto ed evidentemente non rinnovato. Ai golosi di gossip culturale la spiegazione non può bastare. Dopo il caso Settis-Carandini, ecco un’altra storia per i salotti romani. Se Odifreddi, che nell’immaginario collettivo incarna l’ateo-provocatore, rifiuta la parte della vittima, quelli che si definiscono bene informati, ma che preferiscono non apparire, puntano il dito su una scia di screzi, diventata troppo grande per essere ignorata.

Se Odifreddi aveva sorriso, quando gli raccontarono con enfasi come Giuliano Soria avesse fatto salire tre Nobel sullo stesso bus, potrebbe essere stato proprio l’eccesso di signori premiati a Stoccolma e portati al Festival dei numeri - otto - a farlo cadere. Alla vigilia aveva deciso di condurne una delegazione dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma il suo ruolo di «ambasciatore» con il duo Nash-Schelling, accompagnati da Roald Hoffmann (chimica), Robert Mundell (Economia) e Arno Penzias (Fisica), più la Medaglia Fields per la matematica Vaughan Jones, il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Nicola Cabibbo e il matematico-divulgatore Ian Stewart, potrebbe non essere piaciuto ai vertici dell’Auditorium. Eccesso di presenzialismo?

«Macché litigi! E’ stata la normale dialettica tra organizzazione e direzione scientifica, vista l’enorme quantità di rapporti filtrati da Odifreddi - ribatte Pasquini -. Al massimo si può parlare di piccoli attriti». Conflitti, però, che si sarebbero via via estesi, anche all’ultimissimo libro del professore-logico, dal titolo, visto adesso, perfino profetico: «Il club dei matematici solitari del prof. Odifreddi». Per qualcuno quello dei «grandi» transitati a Roma dovrebbe essere tutto tranne che il «suo» club e infatti, poche settimane prima, l’Auditorium aveva mandato in edicola una serie di Dvd con le registrazioni di una serie di incontri eccellenti nelle scorse edizioni del Festival.

I corvi traducono il tutto in un deflagrante mix di gelosie e di potere (magari aggiungendo il solito presunto complotto politico): è noto che la direzione scientifica di Odifreddi sia stata da monarca più che da premier, mentre il Festival si trasformava, da un anno all’altro, in una grandiosa macchina delle meraviglie. Intanto all’Auditorium si prende tempo: «Dobbiamo valutare esigenze diverse - dice Pasquini -. Il Festival non ha esaurito le sue possibilità, però il format è da rivedere. Non è facile bloccare una struttura simile per quattro-cinque giorni in nome di un solo evento».

«Che programma stellare!», aveva sbottato Brian Greene, star della fisica. Forte di questa benedizione, c’è chi scommette che Odifreddi stia pensando al colpo di scena e generi un clone del Festival a Torino, la città vittima - anche lei - di un paradosso logico: tanti i ricercatori e gli ingegneri, eppure sempre poveri gli eventi di divulgazione scientifica. E i Nobel? Nella notte era già partita qualche telefonata.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 02, 2010, 09:22:13 am »

ODIFREDDI.

Perché Dio non esiste

L’ho incontrato la prima volta sul “Camino de Santiago”. Insieme, abbiamo fatto sette giorni di pellegrinaggio. Entrambi non credenti. Gli chiesi subito: “Ma perché?” Rispose: “È colpa di Valzania. È stato lui a trascinarmi. Lui sosteneva che un mio saggio contro la religione, “Perché non possiamo essere cristiani”, in realtà era un libro di preghiere. Diceva che per poter scrivere questo testo avevo dovuto leggere le Sacre Scritture, quindi ero alla ricerca di spiritualità. E che dunque dovevo andare con lui a fare il pellegrinaggio di Santiago di Compostela”.

Sergio Valzania, allora, era direttore di Radio3. Credente. Camminavamo tutta la giornata, chi più veloce chi più dolcemente. C’erano anche Franco Cardini, Dario Vergassola, Davide Riondino. Alla sera io e Odifreddi ci sistemavamo in una saletta dell’albergo e registravamo.

“Ma tu eri alla ricerca di spiritualità? Di religiosità?” gli chiesi, “lo non credo in tutta questa religiosità su questo cammino” rispose Odifreddi. “A parte il fatto che ci sono delle chiese. Ma dove non ci sono chiese in Europa? Il cammino per me è una lunga passeggiata.

Camminare in mezzo ai campi ti mette in sintonia con te stesso, ti fa meditare, ma meditare non in senso religioso. Ti crea del silenzio intorno, perché poi ognuno trova il proprio passo. Ciascuno fa ore di cammino durante la giornata ed è solo. E pensa. Questa, se vuoi, puoi considerarla, in una maniera molto generica, spiritualità”.

http://csflibri.wordpress.com/odifreddi-perche-dio-non-esiste/

http://www.sabellifioretti.it/?p=38379
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 29, 2010, 06:14:05 pm »


29
set
2010

Una croce sul Sole delle Alpi

Piergiorgio Odifreddi

Il caso è ormai noto. Una scuola di Adro, piangente paesino tra Bergamo e Brescia, ha esposto in un numero inusitato di copie il Sole delle Alpi: un antico simbolo geometrico, che riporta gli archi di cerchio che vengono tracciati quando si costruisce con il compasso un esagono inscritto in un cerchio.

Naturalmente, i leghisti non sanno nulla della sua origine euclidea. Meno che mai ne sa il sindaco del paese, che si è fermato alla terza media, e democraticamente rappresenta il livello di istruzione dei suoi elettori. A loro importa soltanto che qualcuno abbia deciso che quella foglia di fico verde simboleggi la Padania, forse nella speranza che possa coprirne le vergogne. E tanto è bastato perchè esso diventasse degno di ostensione ed esibizione nella scuola.

Qualche giorno fa il ministro Gelmini ha intimato la rimozione del simbolo, e ieri la Presidenza della Repubblica ha diramato un comunicato, che recita: “Il Capo dello Stato ha apprezzato il passo compiuto dal Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini invitando il sindaco di Adro a rimuovere quelle esibizioni, e ha ribadito la sua convinzione che nessun simbolo identificabile con una parte politica possa sostituire, in sedi pubbliche, quelli della nazione e dello Stato, nè questi possono essere oggetto di provocazioni e di sfide”.

Un bell’insegnamento, oltre che un pessimo esempio del comportamento che viene indicato dal motto “due pesi, due misure”. Sia il Presidente della Repubblica, che il Ministro dell’Istruzione, hanno infatti detto esattamente il contrario quando si è trattato di evitare la rimozione del Crocifisso dalle scuole, intimato dalla Comunità Europea.

Forse che la croce non è un simbolo identificabile con una parte politica, che va dal Vaticano (addirittura uno stato estero ed extracomunitario) all’area della ex Democrazia Cristiana? Forse che quel simbolo non sostituisce, nelle sedi pubbliche quali le aule scolastiche, quelli inesistenti della nazione e dello Stato? Forse che non e’ oggetto di provocazione e di sfida: ad esempio da parte del Ministro La Russa, che ha urlato in televisione che coloro che vogliono togliere il Crocifisso dalle scuole “possono morire”?

E allora, signor Presidente e signor Ministro, se il Sole delle Alpi se ne deve andare, perchè è il simbolo di una Lega che attenta all’unità d’Italia, non se ne dovrebbe andare anche il Crocifisso, che è la negazione del motto “libera Chiesa in libero Stato”, sul quale quella stessa unità è stata costruita tra il 1861 e il 1929?

Scritto mercoledì, 29 settembre 2010 alle 01:03
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2010/09/29/una-croce-sul-sole-delle-alpi/?ref=HREC1-2
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 05, 2010, 03:34:51 pm »


4
ott
2010


Lo scherzo da preti del Nobel a Edwards

Oggi è stato assegnato il premio Nobel per la medicina a Robert Edwards, per «lo sviluppo della fertilizzazione in vitro».
Cioè, per intenderci, per la tecnica di fecondazione assistita che permette alle coppie sterili, che sono ben il dieci per cento di tutte le coppie, di non arrendersi e avere comunque figli «in provetta».

Le ricerche di Edwards erano cominciate negli anni ‘50, ma solo il 25 luglio 1978 egli potè annunciare al mondo la nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita con la nuova tecnica e partorita con un cesareo. Da allora, circa quattro milioni di bambini sono nati in tal modo, e alcuni di essi sono già diventati genitori a loro volta: in particolare, la stessa Brown, che ha avuto un figlio in maniera «naturale».

Prima di Edwards, la fecondazione assistita era già stata sperimentata con successo nei conigli. Ma negli uomini presentava problemi particolari, e per poterla realizzare Edwards dovette capire meglio il processo di maturazione dell’ovulo, il modo in cui gli ormoni lo regolano, il periodo in cui esso diventa fecondabile, e le condizioni di attivazione dello sperma.

Nel 1969 egli riuscí a fecondare artificialmente il primo ovulo, ma non ad attivarne la divisione cellulare. Uní allora i suoi sforzi a quelli del ginecologo Patrick Steptoe, e quest’ultimo sviluppò una tecnica di ispezione delle ovaie mediante uno strumento ottico.
Fu cosí possibile prelevare ovuli che erano già maturati nelle ovaie, e la loro fecondazione artificiale questa volta funzionò: i due scienziati ottennero cosí il primo embrione a otto cellule, pronto per essere reimpiantato nell’utero.

Immediatamente si scatenerano le polemiche. Le ricerche di Edwards e Steptoe persero i finanziamenti pubblici, ma furono salvate da successive donazioni private di fondi. Nove anni dopo, nel 1978, furono infine coronate dal successo. Nel 1986 erano ormai 1.000 i bambini nati con la nuova tecnica. E oggi essa, migliorata e raffinata, è diventata di uso comune nei paesi civili.

Non nel nostro, ovviamente, che civile non è per tanti motivi, compreso questo. Per chi se lo fosse dimenticato, infatti, il 19 febbraio 2004 il Parlamento italiano ha promulgato l’infame Legge 40, sulle «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita». E il 12 e 13 giugno 2005 gli elettori italiani hanno fatto fallire i quattro referendum che erano stati proposti per migliorarne l’obbrobrio.

A parte i sedicenti e ossimorici «cattolici adulti», guidati da Romano Prodi, la quasi totalità dei cattolici, immaturi per definizione, si adeguò infatti ai diktat del cardinal Ruini e dell’allora nuovo papa Benedetto XVI, astenendosi. Con loro si schierò uno sparuto gruppo di altrettanto sedicenti e ossimorici «scienziati» aderenti al Comitato Scienza e Vita, coordinato da Bruno Dallapiccola e Paola Binetti.

La quasi totalità dei laici, compresa ad esempio la Federazione delle Chiese Evangeliche, espressione dei protestanti italiani, seguí invece, senza successo, l’appello alla ragionevolezza dei nostri due premi Nobel per la medicina, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini.
Il che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il problema dell’Italia non è la religione, e neppure il Cristianesimo: è soltanto il Cattolicesimo, cosí come lo intendono la Chiesa e il Vaticano. E il Nobel di oggi a Edwards (non a Steptoe, che è morto nel 1988) non fa che confermarlo.

http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/?ref=HREC1-2
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 09, 2010, 09:21:55 am »

6
ott
2010

Un Big Bang per la Legge 40


Per una significativa coincidenza, due giorni dopo l’assegnazione del premio Nobel per la medicina a Robert Edwards, inventore delle tecniche di procreazione assistita, un tribunale di Firenze ha sollevato un’eccezione di incostituzionalità per la Legge 40, che limita in maniera ridicola l’applicazione di quelle tecniche.

Ricordiamo, infatti, che l’articolo 1.1 “assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Cioè, equipara l’embrione a una persona adulta e mette sullo stesso piano i suoi diritti con quelli della madre.

L’articolo 4.1 circoscrive il ricorso alla procreazione assistita “ai casi di sterilità o infertilità”. Cioè, lo impedisce a chi, pur essendo fertile, rischia di procreare figli malati o malformati.

L’articolo 4.3 “vieta il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”. Cioè, come conferma l’articolo 12.1, impedisce l’utilizzo di “gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente”.

L’articolo 5.1 restringe l’uso delle tecniche consentite a “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.

L’articolo 12.1 conferma che quest’uso è negato a “coppie i cui componenti non siano entrambi viventi, o uno dei cui componenti sia minorenne, o che siano composte da soggetti dello stesso sesso, o non coniugati o conviventi”.

L’articolo 13.2 restringe la ricerca sugli embrioni a “finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso”.

L’articolo 13.3 impedisce in particolare “interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete”.

L’articolo 14.1 vieta “la crioconservazione e la soppressione di embrioni”.

L’articolo 14.2 impedisce la creazione di “un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”.

L’articolo 14.3 obbliga “il trasferimento in utero degli embrioni non appena possibile”.

Chiara Lalli ha analizzato in Libertà procreativa (Liguori Editore, 2004) i confusi presupposti filosofici e le contraddittorie conseguenze giuridiche di questa legislazione.

Ad esempio, l’articolo 1.1 è in conflitto con la legge 194 del 1978 sull’aborto, confermata dai due referendum del 17 maggio 1981, che privilegia invece i diritti della madre rispetto a quelli del concepito.

L’articolo 4.3 vieta la fecondazione eterologa artificiale, ma non quella naturale che può derivare da normali rapporti sessuali occasionali o extraconiugali.

Gli articoli 14.1 e 14.2 obbligano la donna a sottoporsi a stimolazione ormonale e prelievo di ovuli a ogni tentativo di fecondazione, invece di permettere la conservazione di un adeguato numero di embrioni per un riuso.

L’articolo 14.3 costringe all’impianto forzato dell’ovulo fecondato una donna che nel frattempo abbia avuto dei ripensamenti, anche se in seguito essa potrà legalmente sbarazzarsi dell’embrione non desiderato mediante un aborto. E così via.

Nell’aprile 2009 la Corte Costituzionale era già stata chiamata a pronunciarsi su vari aspetti di questa fantasiosa legge, e aveva stabilito l’incostituzionalità degli Articoli 14.2 e 14.3. Essa è ora chiamata a pronunciarsi sull’incostituzionalità degli Articoli 4.3 e 12.1.

Naturalmente, oggi il governo e le forze politiche reazionarie difendono la Legge 40, così come l’altro ieri il Vaticano e la Chiesa avevano attaccato il premio Nobel a Edwards. Visto che una stessa fede accomuna gli uni e gli altri, possiamo ben dire che “Dio li fa, e poi li accoppia”. Ma, se esiste, prima o poi dovrà anche decidersi a scoppiare questi uomini vuoti:

       This is the way the nation begins

       This is the way the nation begins

       This is the way the nation begins

       Not with a whimper but a bang

http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER1-1
« Ultima modifica: Novembre 07, 2016, 04:48:43 pm da Arlecchino » Registrato
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