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Autore Discussione: DOMENICO QUIRICO -  (Letto 32461 volte)
Arlecchino
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 17, 2016, 11:11:27 am »

Reportage - Arte antica in cambio di armi, così Isis e ’ndrangheta fanno affari in Italia
Arte antica in cambio di armi, affari d’oro in Italia per l’asse fra Isis e ’ndrangheta
È a Gioia Tauro la base di smistamento dei reperti saccheggiati.
La testa di una statua razziata in Libia costa 60 mila euro


16/10/2016
Domenico Quirico
Inviato a Napoli

A Vietri sul Mare dove inizia l’autostrada Napoli-Reggio: l’appuntamento con l’emissario che arriva dalla Calabria è, a metà pomeriggio, all’albergo Lloyd. Un posto «sicuro» che lui stesso ha indicato. Sono qui per comprare reperti archeologici arrivati da Sirte, bastione degli indemoniati dell’Isis, al porto di Gioia Tauro.

Sì, non è un errore: Gioia Tauro. Sono stati saccheggiati con metodo nelle terre controllate dal Califfato islamico, Libia e vicino Oriente. Gli islamisti li scambiano con armi (kalashnikov e Rpg anticarro). Le armi arrivano dalla Moldavia e dall’Ucraina attraverso la mafia russa. Mediatori e venditori appartengono alle famiglie della ’ndrangheta di Lamezia. E alla camorra campana. Il trasporto è assicurato dalla criminalità cinese con le loro innumerevoli navi e container. 

Adesso che l’ora dell’appuntamento si avvicina mi sento a disagio. Eccomi qua a ingannare il tempo, in questa parte d’Italia dove i gruppi criminali sono così parte integrante della vita urbana che i loro scontri, le loro divisioni incessanti, i loro compromessi sono più importanti della vicissitudini della politica. Un uomo della reception si avvicina, sistema dei cuscini e chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. L’uomo che mi ha procurato il contatto sembra anche lui di colpo più nervoso, e ha uno strano modo di non guardarmi, ora, mentre mi parla.

«Non illuderti, forse tutto filerà liscio ma ci sono mille possibili impicci: che il venditore ti abbia visto una volta in televisione, e ti riconosca per esempio… che abbiano fatto controlli preventivi... Bisogna fare attenzione... sono dappertutto… anche questo, dove siamo adesso, in città, è terreno loro…».

 L’uomo è puntualissimo. Sembra un ragazzone un po’ invecchiato, una certa flaccidezza nei lineamenti. Eppure, una sorta di voracità nella bocca, qualcosa di torbido nello sguardo come una vibrazione fredda che incute paura. Una mia impressione?

 
L’albergo era solo un punto di riferimento: non va bene per vedere i reperti e trattare il prezzo. Dobbiamo spostarci in un luogo meno frequentato. Percorriamo una strada secondaria, angusta, piccole Madonne spuntano a ogni punto più minaccioso della roccia. Il mare così lussuoso, così ricco di inafferrabile dolcezza, di esaltato gusto di vivere qui non si vede più. Questa è una terra dove la Storia ha passato mille volte l’aratro, grattando il suolo con il puntone dei tombaroli si potrebbe sentire il vuoto di una tomba greca o romana. Su un muricciolo stanno seduti alcuni uomini dallo sguardo impenetrabile, come uccelli sul filo della luce. Ci guardano passare.

La macelleria 
Ecco, siamo arrivati: una costruzione stranamente nuova, totalmente isolata, dove la strada asfaltata finisce. Arriva un’auto, due ragazzi scendono, aprono un portone. L’ultimo controllo. L’auto del trafficante si infila a marcia indietro. È un laboratorio di macelleria. 

Un odore intenso, che stordisce, ci investe, di sangue, di carne macellata. Appesi ai ganci pendono salumi già lavorati e quarti di animale che attendono ancora il coltello del beccaio. Dal bagaglio dell’auto avvolto in un telo bianco esce il mio possibile acquisto. L’imperatore mi fissa, deposto sulla lastra di metallo del tavolo del macellaio, con il suo eterno sguardo di marmo, il naso leggermente abraso, la barba e i capelli magnificamente incisi dal bulino dello scultore del secondo secolo dopo Cristo, pieno di rigonfia e marmorea romanità. Dal collo spunta, reciso, il perno di bronzo che lo teneva collegato alla statua. Mi fa un po’ senso: come se l’avessero appena decapitato, lì, per mostrarmelo nel suo cimiteriale splendore. 

Il trafficante mi spiega che era in un’altra Neapolis, quella libica, la romana Leptis Magna. Con Cirene e Sabrata sono i luoghi di provenienza di tutti tesori che mi mostrerà. Luoghi che jihadisti controllano o hanno controllato. Ma, rifletto, anche gli islamisti «moderati» di Misurata, quelli legati ai Fratelli Musulmani a cui sembra riconosciamo un ruolo di alleati affidabili nella lotta ai cattivi del Califfato. 

È il momento di parlare di denaro. Trattiamo. Sessantamila euro per l’imperatore. Molto meno per un delizioso cammeo con la testa di Augusto. L’emissario della Famiglia calabrese parla con proprietà di epoche storiche classiche, di marchi di scultori e di vasai. È abile, mescola agli oggetti libici anche altri reperti prelevati clandestinamente in necropoli greche in Italia, svela, racconta, ma parla di oggetti di «due anni fa»: in modo di poter negare, se necessario, le circostanze più gravi. E al massimo rischierà un accusa di ricettazione: tre anni.

 «Da dove viene questa testa? Questa viene dalla Libia. Armi in cambio di statue, anfore, urne: funziona così… Il materiale arriva a Gioia Tauro, una volta era qui a Napoli, poi qualcosa è cambiato. Adesso ci sono problemi, tanti problemi con questi migranti di merda, il mare della Libia è pieno di flotte, controlli, polizie. Volete reperti del Medio Oriente? Ci sono anche quelli ma i prezzi sono molto molto più cari e dovreste andare a trattare direttamente a Gioia Tauro… E non ve lo consiglio».

L’incredibile alleanza 
Ancora Isis e ’ndrangheta, ’ndrangheta e Isis: a ogni passo la loro traccia visibile, la loro incredibile alleanza. Anche qui davanti a questo trafficante che mi lancia occhiate furbe. Fino a poco tempo fa gli acquirenti erano americani, musei e privati. Quando hanno scoperto che i soldi servivano a comprare armi per l’Isis gli americani hanno bloccato tutto. Ora i clienti sono in Russia, Cina, Giappone, Emirati.

Per lui sono un ricco collezionista torinese che cerca oggetti delle colonie greche e romane d’Africa. Mi fingo insoddisfatto, chiedo cose ancor più rare: non ho problemi di prezzo se vale. Allora il trafficante mi mostra alcune foto: una ciclopica testa di una divinità greca.

«Un metro e dieci e un peso di undici quintali. Guardi, dottore, questo colore sopra la testa: portava una corona che poi si è consumata, non so se era di bronzo o di rame, viene dalla Libia, ma stiamo parlando di un’altra storia. Il prezzo è trattabile, per questa mi hanno chiesto un milione di euro ma se mi fa una proposta di 800.000 euro va bene. In più c’è da pagare il trasporto, deve venire con una persona che ne capisce… un archeologo. Le dico la verità, non è mia, sto facendo le trattative per conto di altri, dottore… Questa deve andare a un museo non a un privato. C’è un mercato di cui non avete la più pallida idea ma ora abbiamo dei problemi come le ho detto per la guerra. Stavo trattando con una persona mandata da un attore americano famoso, alla fine per 50.000 euro non ci siamo trovati. Questa o prende la strada di un museo o va negli Emirati arabi o va in Russia, queste sono le destinazioni».

La testa dell’imperatore 
Dico di essere molto tentato dalla testa dell’imperatore, ma come posso essere sicuro che non sono falsi? E poi non giro certo con centomila euro in tasca. «Prenda tutto, dottore, lo tiene quindici giorni, non uno di più! Fa tutte le verifiche che vuole, archeologi tutto... poi mi fa avere i soldi e noi non ci siamo mai conosciuti. Problemi a esporre la testa? Suvvia! Lo metta in salotto, bene in vista, se qualcuno gli fa domande dica che l’ha comprata a un mercato delle pulci per cinquanta euro e che è una bella copia».

Rinuncio all’offerta, dico che entro tre giorni gli darò una risposta. Ci allontaniamo. Lungo la stradina gli uomini sono sempre seduti sul muricciolo. Ci seguono con il loro sguardo enigmatico. 

La pista del Kgb 

Racconto il mio incontro a due consulenti internazionali in materia di sicurezza, Shawn Winter, militare proveniente dalle forze armate degli Stati Uniti e l’italiano Mario Scaramella. Che mi propongono una pista che porta a un burattinaio ancor più sconcertante: il traffico dei reperti sarebbe in realtà diretto dai Servizi russi, eredi del Kgb. Un altro indizio che si legherebbe, nell’organigramma del crimine, a quelli dei ceceni e degli uzbechi di cui ci sono prove siano passati per campi di addestramento russi, diventati poi comandanti di formazioni jihadiste. O la presenza tra i fondatori dell’Isis di alti ufficiali del dissolto esercito di Saddam Hussein addestrati dai sovietici. 

L’Isis ha la possibilità di piegare e usare formazioni criminali come camorra e ’ndrangheta per semplici ruoli gregari? E di montare una organizzazione internazionale in grado si superare controlli e repressione del traffico su scala internazionale affidati a corpi di grande valore e esperienza come i carabinieri italiani? Di entrare su un mercato, quello dei reperti archeologici, con gerarchie e meccanismi e regole molto rigide e consolidate? Solo uno Stato, una superpotenza è in grado di muovere un traffico così sofisticato, ramificato e «colto», non certo terroristi impegnati in una guerra senza quartiere. 

Mi mostrano un documento, inedito finora: il verbale originale degli interrogatori, nel 2005, del colonnello del Kgb Alexandr Litvinienko, grande custode dei segreti russi. Litvinienko spiegò a Scaramella come il Kgb rifornisse un museo segreto nel centro di Mosca, non lontano dal Boradinskaya Panorama, dove erano riuniti reperti di incalcolabile valore razziati in Medio Oriente e pagati con armi ai palestinesi. Un museo che non poteva organizzare visite e mostre perché i proprietari avrebbero riconosciuto i loro oggetti. Era riservato alla nomenklatura sovietica. Qualche oggetto ogni tanto veniva prelevato: un regalo alle mogli dei dirigenti supremi. 

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Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/10/16/esteri/arte-antica-in-cambio-di-armi-affari-doro-in-italia-per-lasse-fra-isis-e-ndrangheta-x9uX3cnjg6B3BhbIe4nTKK/pagina.html
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« Risposta #46 inserito:: Novembre 26, 2016, 09:01:26 pm »

“La mia vita da mercenario assoldato dalle compagnie per sparare ai pirati”
Il racconto di un estone: «Costiamo meno dei militari regolari. Per 3 mila dollari risolviamo problemi, anche con mezzi illegali»
Ci sarebbe un miliardario giordano dietro alla società che utilizza quattro navi e oltre 300 mercenari per la lotta contro i pirati in tutto il mondo


Pubblicato il 26/11/2016 Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 07:26
Domenico Quirico Inviato ad Anversa

Veniva chiamato… come veniva chiamato? Non lo so, non fatemene una colpa. Innanzitutto tra noi non c’era intimità, uno incontrato in un bar vicino al porto di Anversa, un locale sporco, odore di birra da poco prezzo, un ragazzo dal colore giallo di meticcio stava lavando il pavimento, in un angolo una donna dagli occhi apatici, una prostituta, aspettava, già alle nove del mattino, qualche cliente disperato.

E poi lui, quando si presentava, tirava fuori sempre nuove identità. A me ha dato il nome di battaglia, Lembitu, un eroe estone del Medioevo che aveva combattuto contro i re danesi, mi ha spiegato. 

Ma chissà quanti ne aveva di questi nomi di battaglia, uno per porto e per contratto, a Gibuti, in Sri Lanka, in Sud Africa, ad Aden. Allora per noi sarà per sempre Lembitu, mercenario estone e cacciatore di pirati, capace di raccontare storie selvagge e terribili di guerra e di mare. Perché mentre cinque o sei flotte internazionali pattugliano pigramente l’Oceano Indiano al costo di tre milioni di euro al giorno e il problema dei pirati somali è ufficialmente risolto, Lembitu su una nave di mastini della guerra assoldati in mezzo mondo, e pagati dagli armatori, dà loro la caccia senza rispettare leggi e regole internazionali, semplicemente per ucciderli. 

Ho incontrato molti combattenti duri, senza pietà, li riconosco dal volto, torva espressione di cacciatori di uomini dalle labbra compresse e dallo sguardo aguzzo. Eppure fin dall’inizio, ad Anversa, avevo la certezza che lui fosse un uomo avido di recitare la propria biografia come un attore recita una parte. Ricordo, e ricorderò a lungo, l’incontro con l’estone. Si aprì e si chiuse in quel caffè del porto come una ferita. Questo è il suo racconto. Da ascoltare con gli occhi chiusi.

AFP
(Gli assalti dei pirati sono un fenomeno in calo a livello globale. Ma in alcune zone, come in Asia, sono aumentati nell’ultimo anno) 

«…Hai sentito che freddo fuori? Dio, se mi capitasse di trovarmi di nuovo in una buona tempesta di neve, di quelle del mio Paese! Giuro che mi spoglierei nudo e mi rotolerei dentro. Quando ero in Afghanistan con il contingente estone ci gettavamo nella neve senza niente addosso. E quegli stronzi di afghani intirizziti nelle loro palandrane ci guardavano con gli occhi fuori. Ma non erano solo risate. L’Afghanistan sono montagne e le montagne se fai la guerra sono una gran fregatura. Tutto quello che ti serve devi portartelo dietro, ti servono munizioni e infili caricatori di zinco e mezza cassa di granate in tutte le tasche, nello zaino, le appendi alla cintura. Ti segano all’inguine e alle cosce, ti pesano sul collo. 

Adesso, da quando lavoro in mare, son solo luoghi caldi. Troppo, alla malora. Non posso più soffrire il mare. Non riesco a guardarlo senza sentire l’odore di quella nave schifosa, il tanfo del gabinetto otturato. Stiamo sempre in mutande, o nudi, a 42 gradi, i volti sfatti, le guance setolose, tutti scuri come negri, anonimi, puzziamo. Proprio una bella tribù di guerrieri.

E pensare che la prima volta che ho visto la nave “Ohio” mi era sembrata proprio a puntino. Forse era merito del mare, di quel mare. L’Oceano Indiano è diverso da quello delle mie parti, fosco, scuro, avvolto da nebbie. Ah, se me lo ricordo il primo giorno di ingaggio. Mentre su un gommone, all’alba ci avvicinavamo, la “Ohio” ci aspettava al largo dello Sri Lanka in acque internazionali fuori dalla curiosità della legge, il mare ancora dormiva oppresso dal grande caldo umido e pesante. Un vapore gravava su quella distesa immensa di silenzio. Poi in pochi minuti il cielo si arrossa, il mare diventa di madreperla, sonnolento, sotto il sole di fuoco riflette il cielo blu che gli assomiglia ma un poco più pallido. Una massa grigia con brillanti righe rosse dipinte sul fumaiolo e sulle murate si stacca davanti a noi. Dai, è quella. Cacciapirati “Ohio”, quarantacinque metri di ferraglia appena verniciata, trecento tonnellate messe insieme negli Anni Ottanta nei cantieri giapponesi come guardiacoste e un’enorme scritta in nero “Sea Man guard”. Il guardiano del mare. Così da lontano sembrava davvero una vera nave da guerra di qualche marina ufficiale. Era quello il primo trucco, l’avrei scoperto poi. 
 
REUTERS
Tre giorni avevamo aspettato la chiamata in quel sudicio albergo di Colombo. L’aria anche di notte si incollava alla pelle come una mano molle. Gli altri, gli altri ingaggiati, li avevo riconosciuti subito tra i clienti: grossi, i movimenti a scatti tipici dei militari, gli zaini enormi con dentro tutta la vita, c’erano altri due estoni e alcuni inglesi. Per me era la prima volta e non volevo farlo capire. Ancora non ci credevo. La “Advant Fort” aveva risposto alla mia richiesta di ingaggio! Tremila dollari al mese depositati sul conto in banca che gli indichi tu e sarebbero stati quattromila se fossi stato capo team. Ma non avevo titoli sufficienti, c’era gente lì che aveva fatto almeno un paio di guerre vere, reduci o disertori della Legione, ex Sas, qualche russo degli Spetnaz. Sono tempi duri, c’è troppa domanda, migliaia che si offrono per qualsiasi cosa preveda un fucile in mano e la possibilità di sparare e così quei bastardi della “Advant Fort” possono offrire contratti da fame.
Bella storia, stai a sentire. C’è un miliardario giordano che vive in Inghilterra, il signor Samir Farajallah, che fonda una società per distruggere i pirati nell’oceano indiano senza badare ai mezzi. Ha trecento mercenari, quattro navi, una sede in Virginia con ammiragli americani in pensione e gente dell’intelligence navale nel consiglio di amministrazione. Tanto per avere le spalle coperte. Gli armatori di tutto il mondo lo pagano perché costa meno dell’ingaggio dei militari regolari e garantisce i risultati. Con ogni mezzo.

Insomma, per raccontarti come è andata: mando la richiesta, un estone che si occupa degli arruolati del mio Paese mi contatta via Skype, mi arriva il biglietto aereo per Colombo ed eccomi qui. Ti verremo a cercare, aspetta. E infatti: saliamo a bordo della “Ohio”, il ponte sembra bello, è lustro, non c’è ruggine. La nave rulla ma in modo bonario, è piena di scricchiolii familiari. Lo scafo sembra solido e parla di viaggi che dobbiamo fare insieme e delle fatiche sopportate sulle strade del mare antiche come il mondo e nuove come i passaggi che lo solcano. Siamo una trentina di militari da molti posti, più o meno tutti parlano l’inglese. E poi ci sono sei uomini dell’equipaggio più il capitano, tutti indiani. Accoccolati a poppa gli indiani parlano tra loro fitto fitto, a voce bassa, fino a notte tarda.

Ma era sotto coperta che c’erano i guai. Nessuna doccia, l’acqua te la rovesciavi addosso, acqua gialla, puzzolente, non filtrata che dovevi usare anche per lavarti i denti, dopo tre giorni tutti avevano la dissenteria, il gabinetto otturato, odore acre di sudore che si fonde coi fetori soliti delle stive. E faceva così caldo, il termometro sale ogni giorno, i soli girano, i giorni mentre tagliamo i fusi orari finiscono per fondersi in un’unica luce appannata e abbagliante che acceca gli occhi. Così abbiamo cominciato a tuffarci in mare. Il capitano ci ha avvertito, attenti ragazzi non li vedete ma qui è pieno di squali. Chi se ne frega. Il giochino era chi non si butta è un coniglio e allora per non perdere la faccia giù in acqua. Il cibo era uno schifo totale, riso con dentro le formiche che camminavano e il cuoco, un criminale, che diceva: ma non siete contenti? Son tutte vitamine in più. 

Sai: non si diventa amici su una nave così; ci si è divide a seconda dei gruppi nazionali, si sta con gli estoni. E poi di che vuoi parlare? Di donne, delle ore a mostrarsele sui telefonini, quella più nuda e quella più puttana. Su una cosa tutti d’accordo, essenziale è non conoscere la donna con cui si va, non ha che da esser questo: sesso, l’altro sesso. 

C’era una playstation sulla nave, che lusso, e si faceva ginnastica sul ponte per ore: per stancarsi, per far passare il tempo. Raccontano che la compagnia ha un’altra nave che fa solo appoggio in mare ovvero porta viveri e munizioni ai “cacciatori” come la “Ohio”, si chiama “Sultan”, la comanda pare un italiano e tiene a bordo anche la moglie nigeriana, uno splendore. Dicono che ci sia internet a bordo e una palestra, io non l’ho mai vista e forse son solo cazzate.

La nave è come il carcere: dopo tre giorni sai tutto degli altri e gli altri di te, come reagiscono alla fatica, quello che non si lava perché l’acqua è sporca e quello che non si lava perché è un sudicio. Ci sono dei pazzi lì, un inglese che ogni tanto saltava sul ponte urlando e cominciava a sparare raffiche di mitra in tutte le direzioni. Ci sono anche le notti, in mare. Senti che tutto dentro di te si indurisce, si attorciglia, e si mette in guardia. Gli occhi vedono meglio, l’udito si affina come nei gatti. La tensione è alta, ti aspetti tutto e sei pronto a tutto.

C’è il momento in cui ti accorgi che sei entrato nella zona calda, ci siamo e cominci a pensare: cazzo, sei solo su questa nave schifosa abbandonato da tutti, se ti succede qualcosa ti pagheranno? Saltano i nervi, scoppiano risse feroci per una parola, qualcuno resta a terra nel sangue, e il capo sta a guardare.

Vivi con i tuoi pensieri, la nave ti entra nel sangue, diventa tutto per te, esci dalla realtà, non hai nulla da fare se non sparare a qualcuno che non sai chi è, il mondo diventa diverso, non so come spiegarti, non tutti ce la fanno, esser un militare non basta. Hai paura, sì, lo sai che fai cose illegali e puoi essere arrestato. E allora ti ripeti: ma sì quelli son pirati, se possono ti uccidono e allora, chissenefrega, spara.

Adesso vuoi sapere del nostro lavoro: quello normale è la scorta sulle navi, una squadra di tre uomini sale armata e già questo è al limite delle regole della navigazione. Guarda che non è uno scherzo. Salire a bordo per esempio: i mercantili non rallentano per caricarti, il tempo è denaro per gli armatori e allora accosti con un gommone una nave che se è vuota naviga a quindici nodi e cerchi di tirarti su con una scala di corda che ti gettano dalle murate alte come un grattacielo. Se non sei attento e svelto il movimento delle onde ti inchioda tra la fiancata e il barchino. Gambe fracassate, se sei fortunato.

Ma quello è niente. Un giorno il capo, un inglese alcolizzato, ex Sas, comincia a gridare: attivazione! Attivazione! Eravamo davanti a Merka si vedevano le casette bianche. Eravamo dunque armati in acque territoriali somale. Qui incrociamo altri barchini dei pirati, più a nord ci sono quelli di Eyl che si fanno chiamare «guardiacosta somali» e quelli di Haradere, i «marines somali». Che stronzi. Allora: attivazione! Ve la facciamo vedere noi, marines. 

Prendiamo le armi e corriamo alle murate. Davanti a noi c’è una piccola imbarcazione, sembra un peschereccio, i colori squamati dal tempo. Pirati? Non so come ne fossero certi, erano in contatto radio con la centrale della compagnia, può darsi che quelli abbiano informazioni. Comunque chi li conosce? All’ordine cominciamo a sparare all’impazzata. Per questo ci pagano, no? In mare il colpo singolo lo dimentichi, i cecchini se li mangia il movimento delle onde. Quello che devi fare è scaricare trenta colpi, tutto il caricatore, a raffica, senza prender fiato.

Dal barchino mi pare che rispondano al fuoco, sì, sono colpi che fanno risuonare le fiancate della “Ohio”. Ma dura poco, ormai il battello somalo è così sforacchiato che si è inclinato. Non si vede più nessuno. Fine. «Tutti sotto coperta - grida l’inglese - tutti sotto coperta branco di fottuti. Non so: forse non vuole che assistiamo al controllo dei morti. E al dopo: il fuoco o un buco nella stiva per far affondare il battello. Non bisogna lasciar tracce. Tre volte abbiano attaccato i «pirati».

Una volta, da lontano, prima di sparare mi è sembrato che sulla barca si agitassero dei ragazzini. “Ferma”, ho detto a un altro estone che stava accanto a me, non sparare, sono bambini. “Idiota, non sai che i somali addestrano i ragazzini alla pirateria spedendoli a fare da esca controllando se le navi sono armate? Spara prima che ti ammazzino loro”. 

Una notte il capitano era ubriaco: ha cominciato a gridare andiamo a divertirci un po’. Abbiamo virato verso terra, si vedevano luci sulla costa poi una più piccola in mare che ondeggiava al moto delle onde. Abbiamo iniziato a sparare come se fossimo pazzi, caricatori su caricatori, gridavamo come belve, come se su quella barca ci fossero tutti i guai e i fantasmi della nostra vita. Spero fossero davvero pirati perché non è rimasto molto di loro. La lucina si è spenta. Silenzio».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/esteri/la-mia-vita-da-mercenario-assoldato-dalle-compagnie-per-sparare-ai-pirati-Sy8aEnJcYDjzSQrkYuWiFN/pagina.html
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« Risposta #47 inserito:: Novembre 30, 2016, 08:52:13 pm »

Carolina Invernizio, dissepolta e viva
Autrice di 130 romanzi, bollata da Gramsci come “onesta gallina della letteratura popolare”, a cent’anni dalla morte rivela una sorprendente modernità nel metterci in guardia dalle insidie della bontà e dell’ottimismo
Carolina Invernizio (Voghera 1851 - Cuneo 1916)

Pubblicato il 28/11/2016 - Ultima modifica il 28/11/2016 alle ore 01:30
Domenico Quirico

È ormai matura l’ora di rileggere (anche) Carolina Invernizio? Me ne danno spunto alcune foto della alluvionale romanziera dell’Italietta fin de siècle, della autrice preferita da servette e casalinghe tra Crispi e monarchia borghese; e pazienza se Gramsci la fulminava come «onesta gallina della letteratura popolare». Come poteva sapere, l’incauto, cosa sarebbe seguito, di ben più letterariamente disonesto, nelle rastrelliere di supermercati autogrill e aeroporti? 

Me le mostrano, le foto un po’ virate dal tempo, nell’anniversario dei cent’anni dalla morte, le gentilissime signore della biblioteca del Castello di Govone, residenza sabauda che l’analfabetismo culturale delle amministrazioni locali ha rassegnato a sconcio villaggio di Babbo Natale, tra casupole finta Lapponia e oggetti di un consumismo accattone. Nei saloni dove Carlo Felice meditava su fragili Restaurazioni e Carlo Alberto su ancor più contorti Risorgimenti, torme di marmocchi dilagano come innocenti coribanti di un sabba natalizio del Kitsch. È l’umiliante trasposizione di una moda imbecille che vuole l’opera d’arte, le pietre del Passato piegate alla necessità di giustificare la sopravvivenza con il rendere palanche, al prostituirsi per fare denaro…

Chissà che trama avrebbe inventato in questo sfondo infernale e di cattivo gusto che le era congenialissimo la «Madamin» che proprio nel nobile paesello del marito cavalier Quinterno mitigava la canicola all’ombra di alberi oraziani, tessendo con furore da catena di montaggio, dumasiano, una letteratura-monstre fitta di sepolte vive, incesti e malmaritate! Le foto la mostrano in grande uniforme di signora borghese, insieme a lobbie maschili e femminei cappelli a larghe falde, davanti alla scalinata d’onore del Castello.

Tra Voghera e Govone 
Govone delle vacanze, la nativa Voghera, Cuneo dove riceveva in un delocalizzato ma dicono apprezzato salotto letterario… Che strane, intriganti periferie per una odissea letteraria!

 
Prendo nella biblioteca che custodisce le sue prime edizioni un testo verrebbe da dire «classico»: La sepolta viva. Comincio a leggerne le prose con una sorta di devozionale raccapriccio. Non oso dire che scrive male, tenendo conto dei lustri passati e anche della media nazionale contemporanea, ma tuttavia… Il suo marchio di fabbrica è facilmente riconoscibile, lo stesso da cui nasce la discontinua potenza del linguaggio popolare: l’iperbole. In questa arcaica figura retorica la fantasia plebea del suo pubblico celebrava una sua libertà estetica.

Tutto qui? È dunque la Invernizio animale tra i più bizzarri e riluttanti ai recuperi e alle resurrezioni, parola perfetta vista una delle sue trame-ossessione, della nostra letteratura recente? Chissà: i giochi non son fatti. Forse nella sua storia questo è un momento delicato e difficile. E se nei suoi 130 romanzi, 130!, ci fosse qualcosa che accanto al respingerci cominciasse ad affascinarci? Ci troviamo forse ad assister, un po’ renitenti, alla commovente metamorfosi di uno scrittore in moderno o addirittura in contemporaneo, a un subitaneo scatto nella macchina del tempo?

Suvvia! Basterebbe, visti i tempi, la spintarella di una serie televisiva, o un intrigante e nobilitante accostamento biografico, che so: sapete che Tarantino la leggeva estasiato schiacciando i brufoli dell’adolescenza? Se non è vero, viste le comuni perverse sticomitie, gli eventi esemplarmente rovinosi, le scoperte di fatali e vergognosi segreti, è verosimile. E il gioco sarebbe fatto!

Trame zeppe di cadaveri 
Mi viene l’idea che ci siano altri modi di leggerla che la attenzione alla trama, spesso così fitta di cadaveri che una apposita parente-contabile provvedeva a tenere il conto dei trapassati evitando resurrezioni non volute dalla distratta e impietosa inventrice. Sublime! Ad esempio: Perché nessuno ha pensato alla qualità epifanica dei titoli della Invernizio, che equivale alla valenza poetica del catalogo delle navi di Omero e delle genealogie bibliche? lo diceva lei stessa: un bel titolo equivale alla metà del successo di un romanzo popolare. È la fede innaturale, innaturale quanto è innaturale l’intera letteratura, nel valore esorcistico, magico, cerimoniale delle parole. Proviamo dunque a recitare il catalogo infinito: La bastarda, La maledetta, Anime di fango, I misteri delle soffitte, L’impiccato delle cascine, Odio di donna, Il bacio di una morta, Satanella, Amori maledetti, La figlia del mendicante, Il treno della morte, La peccatrice, La vendetta di una pazza… e giù giù fino a Odio di araba, che negli anni del giolittiano «Tripoli bel suol d’amore» vaticinava già erotici addentellati del problema islamico.

Attenzione! Non vi suona a indizio la coesistenza della «madre e moglie esemplare» con la menade che si ritira nello studio e comincia a disegnare debosce e ingorghi di scuri irriferibili orrori, impuberi viziose e vendicativi carnefici? Pedigree letterariamente assai moderno, altro che Belle Epoque!

Ma sento le proteste di chi ancora rilutta, di chi ha ancora l’orecchio aduggiato dai dialoghi insieme languidi e presuntuosi, armature fittizie di orrori e travisamenti, sardanapalesche eroticità, un linguaggio che più repulsivo non potrebbe essere, tanto da far pensare, perché no?, a una operazione volontaria. 

Inventrice di inferni 
Eppure quando la trama prende fiato e comincia smaniare in riconoscimenti incesti materne ferocie, ecco: la macchina da romanzo, professata con accanita devozione, è esperta a destare disonesti e immaginosi terrori, è una fantastica inventrice di inferni, al centro dei quali ha collocato la solitaria femmina brutalizzata. C’è chi vi ha visto una fiancheggiatrice delle contemporanee suffragette, lei che teneva anche progressistici sermoni alle operaie della nascente questione sociale… mah! Forse è troppo. Delibando immondezze, indugiando retoricamente su ogni sorta di liquame sessuale e non, con una lingua monodica torbida e sordida, più semplicemente la scrittrice di Voghera leva una efficiente difesa contro ogni insidia dell’ottimismo e della bontà. E questo, purtroppo, è davvero moderno.

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« Risposta #48 inserito:: Dicembre 20, 2016, 06:24:53 pm »

Nel deserto che alleva i jihadisti tra cercatori d’oro e Tuareg
Il viaggio del nostro inviato nelle montagne di Agadez, con la paura di essere venduto ai terroristi. La sua guida Assalan sedotta da Al Qaeda: «Mi fidavo, ora ho visto in lui l’ombra del radicalismo»
L’esercito vieta di andare sulle montagne fuori da Agadez (la seconda città del Niger): lì si rifugiano banditi e insorti

Pubblicato il 18/12/2016
Ultima modifica il 18/12/2016 alle ore 13:50
Domenico Quirico inviato nell’hair (Niger)

Perdonami Alassan, ma questa volta ho paura di te. Sì: ho paura che tu mi tradisca. Ti guardo. Abbiamo viaggiato un giorno intero nel deserto verso le nostra meta, le sfrangiature granitiche dell’Hair strette tra la sterminata sabbia del Ténéré e la frontiera algerina. Le montagne dell’Hair! Nido di tutte le mafie, sentiero di Al Qaeda, delle armi, della droga, dell’oro. Aperto solo ai jihadisti, ai trafficanti, ai cercatori disperati, ai Tuareg. Chiuso agli occidentali da almeno dieci anni. Muto, veloce prepari il tuo fornello di sterpi secchi, soffi sulla brace, riempi il bollitore. Sei tranquillo, come sempre, preso nel gioco di quando sei nel deserto, la tua vita, la tua vita di Tuareg: preparare il tè, accudire il fuoristrada, cuocere il pane nella sabbia coperta di braci. 

Forse è colpa dell’ora se ho paura, questo vasto paesaggio nerastro eppure popolato da uomini che praticano il male, come nei mondi finiti, spopolati dal fuoco e che nessuna rugiada feconderà mai più. Quattro mesi fa, non più, mi hai portato verso la Libia con un convoglio di migranti, povere cose vive trasportate come cose già morte. Tutto è andato bene eppure c’era già nel meccanismo tra noi come uno scricchiolio, la ruggine del dubbio. Anche stavolta mi hai fatto la domanda, quella di sempre da quando ti conosco, cinque anni. «Fammi venire in Europa con te, tu puoi».

Anche questa volta, dopo esserti confidato, continui tranquillo i tuoi lavori. «Alassan, vedremo, ma come faccio? Dovresti attraversare il mare e poi i visti, il lavoro. Sai cercare le tracce nel deserto, ritrovare i cammelli che hai lasciato liberi un anno fa, ma da noi?». Non mi serbi rancore per i miei rinvii, hai rivolto la supplica all’unico dio che ti può salvare, per te non sono (o non ero?) qualcuno che ti porta ogni tanto un po’ di denaro. Sono una forza da mettere in moto come un vento favorevole che un giorno forse si librerà sul tuo destino. 

Come faccio a dimenticare quando mi hai raccontato degli uomini della tua tribù, una delle più povere e lontane, che, arrivati al fiume Niger per la prima volta, piansero scoprendo degli alberi verdi e forti? Da qualche parte, forse, ci sono gli uomini di Al Qaeda che controllano, questo fuoco nel buio infinito ha dato l’allarme. Eppure abbiamo scaricato il nostro poco bagaglio, abbiamo acceso la legna secca e in pieno deserto, sulla nuda scorza del pianeta, in una solitudine da primordi del mondo, abbiamo costruito il nostro villaggio di uomini. Ecco forse questa è la vera sfida contro i fanatici: non i droni e gli eserciti. Ma essere umilmente, comunemente laddove non dovresti essere, mettere un segno sul vuoto, lasciare la traccia di noi uomini di Occidente, un fuoco, il segno degli pneumatici sulla sabbia, la fila di parole di un racconto. Lo hai detto, e bene, tu stesso: neanche tutti i droni del mondo potrebbero trovarli qui, gli islamisti del deserto. E ritrovare noi, solo due mortali sparsi tra la roccia e le stelle, consci dell’unica dolcezza del respirare.

Sì. Ho paura di te. Ho notato che non bevi più birra. Era l’unico vizio che ti teneva lontano dalle loro terribili virtù. Sento che ti sei convertito a questi idoli, che sono idoli carnivori. Tu che mi hai dato straordinarie lezioni di geografia. Non mi hai spiegato il deserto, me lo hai reso amico. Non mi parli di piste né villaggi o tribù. Mi hai raccontato di un cespuglio di tamarindo miracolosamente verde da secoli in una gola, su verso il monte Tamgak, e per me quei tre arbusti sono ormai un segno. Non mi hai indicato wadi secchi da millenni ma un pozzo che solo tu e pochi altri conoscete, la valle della fontana. E perduta nello spazio a trecento chilometri da Agadez, dai suoi caffè sudici dell’odore di uomini stanchi, la sabbia sempre fresca attorno a quel pozzo mi sembra di toccarla, mi avvolge con la sua smisurata frescura. 

Sai che ti pagherò anche questa volta. Ma non basterà, hai ragione. Nei luoghi in cui mi hai portato c’è sempre qualcuno che può pagare più di te. Io lo so bene. Quello che mi spaventa non è neppure questo. È che mi sembri diverso, come se qualcuno dotato di una forza immensa ti avesse afferrato per le spalle e adesso la creta di cui eri composto fino a ieri si è seccata, si è indurita e nessuno potrebbe ridestare dentro di te l’uomo che eri. 

 L’ultima volta mi hai fatto strani discorsi, su dio e la giustizia. E poi questa fretta che hai di portarmi subito via da Agadez, di essere inghiottiti dalle montagne più pericolose del mondo. Come se non dovessi lasciar tracce, una volta sceso dall’aereo che mi ha portato da Niamey. Rifletto: non abbiamo telefono che funzioni, nessun legame per quanto tenue ci legherà più al mondo fino a quando non torneremo in città. Siamo fuori da tutto. Siamo usciti dalla città di nascosto perché è vietato andare sulle montagne, stiamo attraversando da un giorno la grande vallata nera delle favole. La valle della prova. Nessun soccorso qui. Se mi tradirai nessun perdono al mio errore. Di nuovo. Sono affidato alla discrezione di dio. Ma quale dio, il tuo o il mio? So che non lo faresti per denaro. Ma esistono tempeste di dio che devastano così, in un’ora, le messi di un uomo. Soprattutto in questa parte del mondo dove giardini in cui scorrono freschi ruscelli esistono solo nel corano. Perché così esso definisce il paradiso.

Appena arrivato mi hai raccontato un delitto e il tuo sguardo era strano come se volessi capire se avevo paura. «Hanno rapito un americano qui vicino ad Agadez: un mese fa». «Che ci faceva un americano ad Agadez?». «Non so, era qui da anni lo conoscevano tutti. Forse gli americani lo cercano ma non dicono nulla». Forse vuoi dirmi qualcosa tu? 
Da quando ho iniziato a sospettare di te, il mio amico Tuareg, ho capito che Al Qaeda ha già vinto. Perché ha insinuato in noi sospetto e paura. A Mosul e a Raqqa ci impegna in inutili battaglie, ci costringe a gettare stanchi ruggiti prima di ricadere nella ignavia dei vinti. È in questa impalpabile presenza la sua forza, è nel fatto che io so che è qui, che questa sabbia è cosa sua e lo sarà per sempre. La sua forza sono la sabbia e il silenzio. Qui la terra è misteriosa. Il suo spazio è come quello di Milton: si nasconde in se stesso. Per coglierla bisogna rinunciare al proposito di svelarla. Affiorano dal fondo dei territori proibiti, completano i loro traffici o i loro assalti sanguinosi e poi riaffondano nel loro mistero. E noi ci illudiamo di averne addomesticato qualcuno. 

Perché mi stai vestendo da Tuareg, prima di uscire di nascosto dalla città? Avvolgi bene il turbante, arte difficile che non ha mai imparato, devo mostrare solo gli occhi. È bianco, di buon cotone. E il caffetano: scuro, con complicati disegni, elegante dici tu. A me non piace, mi sembra una di quelle tovaglie plastificate che usavano da noi nelle osterie. Non mi piace travestirmi, Alassan! Significa mentire, è faticoso mentire, deforma la tua percezione delle cose.

E adesso mi porti allo stadio: che buffa parola per questa distesa di sabbia e polvere e immondizia. A vedere 1500 bambini e le loro false madri, affittati per pochi soldi da famiglie poverissime perché li portino in giro a mendicare. Attendono da mesi che le Nazioni Unite facciano qualcosa per loro. Non dovevo venire qui, mi perseguiterà il loro sguardo da lazzari resuscitati ma prigionieri ancora delle oscure rive dove hanno vagato. C’è davvero la morte di dio, qualsiasi dio, nello sguardo di quei bambini.

Questo è l’Hair. Avanziamo con il fuoristrada tra difficili passaggi, per tre giorni siamo come prigionieri di un dopo cataclisma di appena ieri; smottamento ancora incompiuto di pietre nere, montagne ancora crollanti, vallate che si sono appena aperte segnate dalle righe sottili di erbe secche, masse di pietre ancora in bilico minacciano rovine prossime e nuove sopra di noi. È strano in questo silenzio, in questa immobilità, vedere cose che di recente hanno dovuto far tremare il deserto e riempirlo di rumori.

Tra coloro che vivono qui, jihadisti, cercatori d’oro, banditi, c’è senza dubbio come un patto ed una tregua di distruzione. Dove è l’oro? Là, nel primo girone di questo inferno di pietre, nelle vallette tra monte e monte, piene di gramigna e di serpenti velenosi. Gli uomini quaggiù sono piccoli, quasi invisibili. Si stagliano sulle creste. Spariscono nei cunicoli scavati fino a cento metri solo a colpi di vanga. La pietra fatta diventare scheggia per raccogliere spesso solo una polvere d’oro su un dito, sottile come una ala di farfalla. I loro scavi li segnano primitivi treppiede che reggono la corda per scendere e far salire il materiale, anche il verricello è fatto a mano, di legno, di artigianale bellezza. Ora qualcuno si aiuta con cartucce di dinamite o usa le mine antiuomo, ma sono inesperti e spesso una esplosione tardiva o il crollo della parete appena incisa dalla mina li seppellisce o li squarcia.

Ci fermiamo, io mi tengo di lato coprendomi il volto con il turbante. Non devo parlare. Mai. Spuntano dalla terra pattuglie mute di giganti stanchi, patinati di polvere, coperti di stracci. Crani rapati, nel passo la solennità della stanchezza. Ci sono nigeriani, ghanesi, maliani, algerini. La febbre di diventare ricchi. Diffidenza degli occhi, sguardo che sorveglia. I Tuareg li assalgono per portar via l’oro e i rari, preziosi apparecchi cinesi rilevatori di metallo. Questa gente vive qui mesi in un paesaggio che i loro pozzi mettono come in disuso. Attorno per lunghezze infinite qualche albero pesto grigio come se fosse avvolto di cenere. Eppure ti sembra meraviglioso come un fiore in un vecchio vaso. Due uomini si avvicinano esitanti, un vecchio e un ragazzo. Il ragazzo quasi si inginocchia davanti a me, allunga le mani in un gesto di resa e di preghiera: l’antica paura dei neri di fronte all’abito del Tuareg, il guerriero, il razziatore dei deserti.

Il pozzo non è loro, un ricco di Agadez li paga per scavare e prenderà poi l’oro. Il vecchio ha lasciato al villaggio la moglie e sei figli. Per mesi non li vedrà. Prima di ogni parola respira profondo. Le frasi sono un timido fosco balbettio. Non sa sorridere. Non ha mai sorriso.«Puoi trovare se hai fortuna anche dieci chili d’oro. È successo. Non è una favola. Se avessi il rilevatore di metalli, potrei cercare da solo e l’oro lo troverei. Ma costa seicentomila franchi Cfa (800 euro), una fortuna. Conoscevo sei cercatori algerini, hanno trovato qualche pepita, hanno riattraversato la frontiera. I soldati li hanno presi, gente del Nord, pazzi furiosi. Credete di esser uomini? Li hanno evirati e poi li hanno lasciati andare. Sono arrivati fino a un villaggio, prima di morire dissanguati».

Dirupi cadono verticali sugli abissi più si avanza verso i duemila metri, le pieghe del panneggio della montagna su cui arranca il fuoristrada diventano più erte, non vi è evasione possibile. È il terzo giorno, il fuoristrada come sempre per la sosta nascosto dietro un’ansa della roccia o una macchia più fitta. Il secondo girone. Dalla pista arrivano i rumori di motore, Alassan, stranamente, non si inquieta. Due pick up nuovi ma coperti dalla polvere di un lungo viaggio si fermano, come per una intesa. Saltano a terra sei ragazzi vestiti di scuro, le facce coperte dai turbanti. Solo il capo ha il volto scoperto. Strani occhi blu cenere, bellissimi, ma in terribile contrasto con un volto da assassino. Mi guarda. Si siede con Alassan su una stuoia, cominciano a parlare fitto in tamaseg, la lingua Tuareg. Gli altri che, ora mi accorgo, hanno in mano fucili, attendono come se dovesse venirne comunque una conclusione. Il capo si rialza, Alassan senza una parola comincia a impastare il pane per la sera.

Io ho rivisto gli occhi di quelli che mi vogliono bene. Come allora. Interrogano. Tutta una adunata di sguardi che rimprovera il mio silenzio. Per un attimo ho pensato che avrei di nuovo dovuto imparare che nulla, in definitiva, è intollerabile. Siamo ad Agadez, vedo la matita scura e dritta del minareto di sabbia. Ti ho sospettato a torto allora. Non so. È il momento di pagare. 

Quanto vuoi Alassan? Dammi ciò che credi, in questi giorni la cosa più importante che ti ho dato non avrai mai soldi per pagarla. Forse ho capito Alassan. Allora è vero. Anche tu hai sentito questo terribile bisogno di rinascere, canterai gli inni di guerra e spezzerai il pane del deserto con i tuoi confratelli. Ritroverete insieme quello che cercate: il sapore dell’universale. Ma del pane che ti offriranno morirai. Che il deserto ti sia comunque lieve. 

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« Risposta #49 inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:31:32 pm »

“Sono diventato jihadista nelle carceri italiane. Ecco come ci reclutano”
La storia di uno spacciatore tunisino, in cella per tentato omicidio. “L’egiziano ci conosceva tutti, mi ha trasformato in un terrorista”

Pubblicato il 07/01/2017
Ultima modifica il 07/01/2017 alle ore 07:21

Domenico Quirico
Sousse (Tunisia)

L’uomo che racconta questa storia l’ho incontrato in un viottolo di campagna vicino a Sousse. Ulivi, terra e cielo. Nessuno che potesse ascoltare. Abbiamo parlato in un furgoncino bianco, che odorava di cipolle e verdura. Precauzioni. L’uomo è tunisino, come il terrorista di Berlino. Racconta di prigioni italiane e di conversioni. Terribili assonanze. Forse il segreto della jihad sanguinaria non era in Siria o nei deserti, ma qui sotto i nostri occhi ciechi.

Ecco il suo racconto. «Ecco quello che mi è rimasto in mente delle prigioni italiane, ne ho viste una infinità: Rebibbia, Civitavecchia, Firenze, Venezia, Milano. Il rumore delle porte che si chiudono è un rumore unico, come se tirassero un colpo di fucile. Ma il rumore, poi, si smorza, senza eco, i rumori di una prigione sono tetri e privi di eco. E poi, il volto del Reclutatore. Era egiziano, aveva braccia pesanti come clave e mani curate, i baffi tagliati come usano i salafiti, i radicali di Dio. Non c’era in lui alcuna traccia di senilità. La voce. Magica, ti faceva diventare un uomo. Sapeva tutto il Corano e gli hadith profetici e la sunna.

Restare con lui nell’ora d’aria e di socializzazione era una festa per i sensi e per il cuore. Con lui, persino io, giovane delinquente intossicato dall’eroina, mi sentivo purificato, elevato.

La Terra e il Paradiso 
Al sicuro. Con lui, nessuno ti guardava male, nessuno ti giudicava. Eri libero e calmo. Tutto ti apparteneva, tutto ti spettava come seguace di Dio. Al Alim, colui che sa. Il sole che entrava a fatica nel carcere, il vento che sentivi al di là dei muri, il cielo. La voce era calda, melodiosa capace di evocare la terra e il paradiso, i versetti li pronunciava in modo lento e sfolgorante, tanto che diventavano invocazioni, quando smetteva per prender fiato gli chiedevamo: ancora, ancora. “La mia comunità non sarà mai d’accordo nell’errore”. Ricordava e raccontava le storie di quando l’Islam conquistava il mondo, dei Califfi che sbaragliavano i nemici come se fossero polvere del deserto. E dell’emiro Osama, che aveva messo paura all’America. Chi ci aveva mai raccontato queste cose? Li vedevamo tutti, mi vedevo davanti a loro, mi sentivo esaltato, ispirato, arricchito di minuto in minuto, da un racconto all’altro. Gli dicevo: queste storie non le dimenticherò mai, e lui: per questo ve le affido, perché siate buoni musulmani e perché non vengano dimenticate. Eravamo in tanti in quella sezione del carcere, sapevo che lui ci sorvegliava e i suoi occhi ci benedicevano.

Droga alla Garbatella 
Dov’è ora? È morto. Tento qualche volta di immaginarlo avanzare con gli altri combattenti di Dio, tra le rovine di Homs, verso il luogo in fiamme da cui nessuno ritornava. No, non voglio pensarlo là. Non posso. Penso che l’incontro di un uomo con la Morte debba rimanere segreto. Preferisco distogliere lo sguardo, chiudere gli occhi. E lo ricordo la prima volta che mi avvicinò in prigione: nella doccia. Chi ero io allora, vuoi sapere? Fai domande, troppe. Ma tutto è scritto nelle carte, su da voi, che cosa ti nascondo? Tutto è cominciato con un gruppo di ragazzi tunisini come me, arrivati in Italia. Un giorno, mi fanno vedere la droga, spacciavano. Era marrone e io ero sorpreso: ma nei film la droga è bianca, gli dicevo. Ho provato, era buona. Spacciavo nelle strade e la prendevo, l’eroina, spacciavo per farmi, non per diventare ricco. Alla Garbatella c’era un posto semi abbandonato, quasi in rovina. Ne avevano fatto una moschea irregolare, ma era destino che fede e droga fossero per me sempre vicini. Noi la usavamo per tagliare l’eroina e per dormire. C’era un odore pazzesco di piscio di gatti, quando eravamo fatti davamo la caccia ai gatti e li ammazzavano a bastonate. 

Eravamo tunisini e qualche algerino. Non era un giro grosso e così un giorno, con altri tre, decidiamo di tentare il colpo: rapinare altri spacciatori più ricchi di noi. Scegliamo i nigeriani, perché? Sono negri. Ne adeschiamo uno, proponendogli una partita di eroina a prezzo buono, quando arriva con il denaro uno di noi, tira fuori una 7,65 e prendiamo tutto. Venne fuori una sparatoria, uno dei nigeriani fu ferito gravemente. In tre giorni, ci hanno preso. Tentato omicidio, spaccio, stavolta ero nel giro grosso, ma in galera. E in regime di sorveglianza speciale, si chiamava così, mi pare.

Allora: la doccia. Io la doccia la facevo nudo, dell’Islam non m’importava nulla, mi piacevano le donne con le tette grosse e il vino. Lui mi parla: “Perché fai la doccia senza mutande, siamo musulmani noi, abbiamo degli obblighi che ci impone Dio, e Dio non vuole”. Ma non era una minaccia, un ordine, era una conversazione tra amici. Si vedeva che mi aveva già studiato, lui controllava tutti i nuovi, quelli che venivano da Paesi dell’Islam. Sapeva tutto: perché erano dentro, la durata della condanna, quelli che avevano pene lunghe li teneva per ultimi, aveva tempo per non farseli sfuggire, quelli più interessanti erano i tossici, sapeva se prendevano il metadone. Sapeva perfino cosa compravamo allo spesino, cibo, sigarette. Sapeva, per esempio, che io compravo vino, quello da poco prezzo, ma sempre vino era. È dalla spesa che si capisce se sei un detenuto che ha soldi o sei un poveraccio che non ha nulla, una recluta più facile per Dio.

 Perché lì non hai speranze, non sei nessuno senza la droga, sei un malato. Gli educatori, lo psicologo? E chi li vede mai. Aspetti qualcuno che ti prenda con sé, che ti chiami fratello nell’Islam. Ci vediamo in paradiso. I reclutatori sono persone che ti riempiono di emozioni. 
Simile con il simile 

La seconda volta che mi parlò, fu a causa delle partite di pallone. Giocavamo a calcetto nell’ora d’aria, in genere quasi tutti in slip. E lui sempre gentile, calmo: “Sai che noi dobbiamo coprirci le gambe. Perché non vieni a pregare con noi? Non sai i versetti? Non importa, ti insegneremo. E poi, perché parli con gli italiani, Kafir, questi cani di miscredenti? Non vedi come ci trattano?”

In quella sezione, c’erano camorristi che avevano separato da famiglie rivali, e forse qualcuno che aveva cominciato a pentirsi. E poi slavi, romeni e serbi. L’odio tra noi e loro saliva, erano risse continue. Solo gli albanesi erano con noi, perché erano anche loro musulmani. In carcere ci si raggruppa subito, tunisini con tunisini, Islam con Islam. E poi, alla matricola arrivi e leggono da dove vieni: sei musulmano? Benvenuto! Ti metto con i tuoi, così vi tenete compagnia tra maomettani.

I guardiani sono stupidi: notano che, dove ci sono quelli che pregano, tutto è tranquillo, mentre gli altri fanno risse, bevono, danno problemi. Allora, quando il Reclutatore andava dal direttore a chiedergli, umilmente, una stanza per pregare il venerdì - in fondo, noi musulmani siano gli unici che non abbiamo nulla -, quello la concedeva con gioia. Anche il cappellano del carcere era d’accordo! Tra credenti, ci si dà una mano. Usavamo la stanza del biliardino, stendevamo dei tappeti. Si pregava molto, e molto si parlava: la Palestina, l’Iraq, la Siria, il Califfato, le solite storie, guarda gli infedeli come ci rubano tutto il petrolio. Uno si convertì quando gli raccontarono che le donne cecene non chiedevano cibo o aiuti in denaro, ma solo confezioni della pillola del giorno dopo, perché i soldati russi le violentavano tutte.

Ti senti vuoto 
Questo è il punto essenziale: tu entri in prigione, non hai più niente, niente droga, niente soldi, ti senti vuoto, ti pare d’impazzire. È una sorta di ingombro che senti confusamente annodarsi giù, e diventare corpo nel corpo. Scopri di punto in bianco che non sei più niente, ti palpi dentro la mente, lo spessore del buio che avanza nelle viscere. Questa è la materia prima per convertire.

Le celle, diciamo un po’ delle celle: in dieci, quattordici. In buchi che puzzano di tutti quelli che ci hanno vissuto dentro. È lì che vivi. Al mattino alle 8,30 la doccia, se è giorno stabilito, poi più nulla, fino alle 12, quando passa il carrello del cibo. Al pomeriggio, due ore d’aria, torni in cella, la conta, ti resta un’ora di socialità, passi da una cella all’altra, prima che chiudano. Non fai niente, magari per anni, perché c’è la graduatoria prima di diventare scopino o porta vitto: parli, parli e vedi la tv, sempre accesa, e vedi gli attentati, gli americani sgozzati, le bandiere con i segni islamici sulle città conquistate, e cominci a fare il tifo per Bin Laden, per il Califfo, per i vendicatori. 

Parla calmo e gentile 
E il Reclutatore parla sempre, calmo e gentile: dice che la religione vera non è quella che abbiamo imparato da piccoli, che siamo nati per una missione, combattere per il Profeta. È la jihad della comunicazione questa, la jihad della parola, più efficace delle bombe. Lui sceglie proprio i peggiori, quelli più istupiditi dalla droga e quelli poveri, a cui non arriva mai nulla dall’esterno. Offre buoni piatti di cibo, regali. I soldi non mancano, accrediti postali da spendere allo spaccio interno, che non destano sospetti. E poi ci sono i telefonini. Dal carcere i Reclutatori sono in contatto continuo con i loro confratelli, per avere i telefoni corrompono una guardia o qualche volontario ingenuo di buona volontà: devo chiamare la mia famiglia, non li sento da anni, e con il telefono fai tutto. Li si nasconde nel water per sfuggire alle ispezioni, basta svitare due bulloni, togli la memoria e lo avvolgi accuratamente in modo che non si danneggino. Oppure nel frigorifero, tra la verdura che non permette, in caso di scoperta, di risalire a un detenuto. Il Reclutatore è in carcere sempre per reati in fondo minori: documenti falsi, detenzione di un’arma. La sua è una missione specifica. Si diventa emiri così: più conversioni ottieni in prigione e più sali nelle gerarchie della jihad. 

La violenza se sgarri 
Se ti opponi, se sgarri, c’è la violenza. Un giorno, all’inizio, devo incontrare l’avvocato, prima di andare in parlatorio, bevo due sorsi di Tavernello, ti ho detto che mi piaceva il vino. Sulle scale incontro il Predicatore, lui scende, io salgo. Mi chino per omaggiarlo e lui sente subito l’odore del vino: miscredente, infame, attento a non rifarlo. Mi hanno picchiato, non so come sono rimasto vivo. 

Voi non capite niente: sempre a ragionare, ma quelli sono drogati, spacciatori, cosa c’entra l’Islam? La droga, il vizio, tutto ciò che disonora, ha in certi esseri un potere eguale a quello della fede: la stessa disperazione cerca diverse profondità. Milano è un posto importante della jihad e dello spaccio. Hanno emanato a Milano una fatwa: la droga potete venderla, per fare soldi per la causa, e poi quelli che crepano sono i figli dei miscredenti, che vadano in malora. Sui sacchetti di eroina scrivono la frase del Corano: in nome di Dio, cominciamo. Quando passa la polizia e tu sei lì che spacci, ti insegnano un versetto del Corano da dire: “Dio ha alzato una barriera attorno a noi per difenderci. I nostri nemici sono ciechi’’. E quelli sono convinti davvero che, per la polizia, loro sono invisibili.

Quando sono entrato in carcere la prima volta, quelli che pregavano erano forse il cinque per cento, ora sono la maggioranza. E quelli che resistono sono pochi e senza aiuto. Un tunisino che aveva denunciato le violenze e le minacce di morte dei salafiti al capo delle guardie si è sentito rispondere: che posso fare? Portarti a casa mia? Dio vi acceca e non vi lascia immaginare l’unica misura efficace, infiltrare detenuti musulmani che siano con voi e far cadere tutta l’organizzazione interna. Noi possiamo mentire, comportarci in modo empio, per ingannarvi meglio. Voi non comprendete che la grazia e il peccato sono spesso molto vicini. A proposito: non ti è venuto il dubbio che io potrei essere il Reclutatore?».

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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 07, 2017, 04:03:02 pm »


Quei binari del treno di Lenin che rovesciarono la Storia
Domenico Quirico ha ripercorso le ultime tappe del viaggio che il leader russo grazie all’aiuto della Germania, fece nel 1917 per guidare la rivoluzione bolscevica


Pubblicato il 05/02/2017 - Ultima modifica il 05/02/2017 alle ore 13:23
Domenico Quirico

Ah! il treno non è certo quello, quello su cui viaggiò Lenin nel 1917. Adesso il convoglio che fa servizio tra la Finlandia e Pietroburgo si chiama «Allegro», sì, in italiano, con bella parola presa dalla musica: l’unica cosa, in fondo, in cui siamo ancora universali. 

Non ci sono più le colonne di fumo che salivano al cielo come scale senza fine e scottavano le nubi di inverno con nuvole bollenti di vapore, non prorompono i fischietti dei manovratori e i rochi sibili delle locomotive. Alla fine del viaggio, laggiù, a mille verste, allora c’era la Russia scompigliata torbida strisciante saltante miserabile, con l’enorme macina della Rivoluzione già in moto. Oggi ci attende la Russia di Putin, capitalista, apparentemente monolitica e soddisfatta. Indecifrabile, un po’ come il suo capo, all’inizio, quando lo dicevano uomo senza volto. 

Tetra, quasi senza neve ma con blocchi di scuro fango ghiacciato, la Finlandia mi accoglie con la sua luce di sempre, artica, un cielo che pare intriso di neon e di ghiaccio, che dà alla testa. Per mezzo secolo questa è stata periferia di Europa e i rapporti con l’ingombrante, diffidente vicino comunista non erano certo agiati e ovvi. «Finlandizzazione» si diceva, ad indicare un metodo politico e ideologico per sopravvivere, improntato a una quieta reticenza: indipendenti, sì, ma con giudizio, senza mai infrangere le ferree regole di una autocensura dabbene. E mi viene in mente che la parola rischia di tornar di moda, trent’anni dopo, per soccorrere altri vicini di nuovo in affanno: la Ucraina, i baltici, la Polonia chissà… Gli imperi purtroppo non dimenticano. 

Cento anni! Cento anni dalla Rivoluzione: tanti. Forse troppi per rivivere quell’anno in cui gli uomini vissero più che non altri in un secolo intero. Anzi: le due Rivoluzioni, quella di febbraio che fu vera e popolare insurrezione. Le mani dello zar sullo Stato erano già aggranchite ma la Storia dice le cose senza fretta, perché non trova subito la parola necessaria. E poi Ottobre, che fu invece un golpe dei bolscevichi e di Lenin, e che cambiò il mondo. Come si fa a restituire nelle parole, quel senso che nelle strade di San Pietroburgo tutto fermentava, cresceva al magico lievito della esistenza, e la Storia avanzava a larghe ondate senza sapere dove come un vento silenzioso attraverso le terra e le città e i corpi, abbracciando tutto quello che incontrava sulla sua strada? L’insurrezione sembrava una poesia di Block. L’aria la trasportava sulla Neva leggera come il polline e dura come il piombo e quei semi cadevano nei solchi e nelle teste dando alle cose già aria di primavera, produceva insieme fiori e proiettili. E poi… Che ne resta oggi? Quando coloro che vorrebbero celebrarla sono sconfitti, e gli altri, i vincitori, preferirebbero dimenticarla… Eppure questo è, più di altri, un anniversario obbligatorio. Perché ci obbliga a rispondere alla domanda: dove sta il confine tra ciò che è lecito e ciò che è illecito fare in nome del fine che giustifica i mezzi. Il crimine contro l’umanità non inizia con la condanna staliniana di vari milioni di innocenti ma con la condanna già nel 1917 del primo individuo innocente. Se si comincia a usare la vita umana come un capitale di investimento subito si spalanca un abisso senza fondo. Il terribile tranello delle Rivoluzioni. Nei tempi di fanatismi non più ideologici ma religiosi rispondere è vitale.

Per questo ho deciso, ingenuamente, di arrivare a San Pietroburgo non in aereo ma con il treno: come Lui, l’esule di Zurigo, impaniato fino ad allora nel ciarpame quotidiano di quella Svizzera filistea e rancida, nei dibattiti sterili del «club dei birilli». Via, finito tutto questo, finalmente! si parte per la Russia con il plotone di moglie, amante, attendenti bolscevichi. Approfittando della strategia volpina della Germania che li vuole usare come un bacillo per atterrare il nemico russo. 

Sì, voglio scendere come fece Lenin alla stazione Finlandia quando Pietroburgo era appena stata risciacquata dalla piena della rivoluzione. Illusione, forse: cercare di far rivivere il passato come se sfregassi sui vetri. 

Provo a immaginare quell’uomo terribile, febbrile, impaziente che vede scorrere, in quel vagone che la leggenda descrive piombato e invece era teatro di incontri e trattative ambigue, le stazioni e i Paesi: la Germania, la Svezia neutrale e poi la Finlandia che era già Russia, sotto la finzione di un granducato satellite. Aveva appena annunciato, un Lenin rassegnato, ai fedelissimi che il mondo nuovo sarebbe venuto per un’altra generazione: noi non vivremo le battaglie della rivoluzione nascente… E invece! Era un regalo della storia una guerra così! 

Non assomigliava davvero ai vecchi rivoluzionari russi, imbevuti di idealismo, parolai. La sua energia era l’odio. Il partito che aveva inventato doveva essere votato alla guerra totale, allo sterminio fisico del nemico di classe, un darwinismo implacabile, animale che avrebbe assicurato la vittoria. Odio e bugie: i due fattori più importanti della educazione politica subiti dagli uomini del ventesimo secolo. E di quello che è appena iniziato.

Questa piccola, antica stazione di Helsinki ha imprevedibile quiete e paesane assonanze russe. Non solo architettoniche. Le vecchie porte di legno sono presidiate da una donna che propone icone e libri sacri. Sul legno qualcuno ha inciso una scritta: musulmani fuori! 

Il treno, russo, è modernissimo, di lusso. Solo che marcia alla tranquilla velocità dei «direttissimi» della mia infanzia. Come se la modernità si fosse fermata a mezzo, il futuro fosse rimasto in sospeso. E anche in questo assomiglia alla Russia di oggi.

I viaggiatori sembrano usciti da tempi gorbacioviani, tempi di penuria: carichi cioè di involti, pacchi e borsoni, che immagino frutto di giudiziose incursioni consumistiche nei centri commerciali finlandesi. A più basso costo rispetto a quelli putiniani? Difficile crederlo, con la svalutazione del rublo e l’inflazione.

Il treno si muove. Con poca neve i luoghi, la campagna finlandese, assumono un’aria tetra e inaccostabile. Ci lasciamo dietro le stazioni: Tikkurila, Lathi, Kuovola… Tutte deserte di uomini, scale mobili ferme e vuote, nei parcheggi auto che sembrano relitti di una immemorabile glaciazione.

Nel mio vagone una ragazza russa interrompe furibonde liti telefoniche con il fidanzato solo per bere lattine e lattine di birra. Una coppia matura, amanti moderatamente espliciti, prepara le giornate di San Pietroburgo. 

Vainnikala è l’ultima stazione finlandese. Ecco la frontiera, e la russa Vyborg. Siamo già alle permanenti conseguenze della Rivoluzione. Fino al 1940 Vyborg era finlandese, l’arraffò Stalin con una guerra brutale e il consenso dell’alleato Hitler. Violenza che è risultata indifferente alla dissoluzione dell’Urss, ai revisionismi di bandiere e frontiere. 

Adesso la ferrovia è un binario tra due alti e fitti reticolati come se fosse entrata in una gabbia. Sul treno salgono truccatissime poliziotte russe per i controlli: congegni elettronici moderni e vecchi tamponi. La ragazza, già abbastanza ubriaca, viene prelevata e sparisce con loro…

Accanto a me viaggia un professore universitario, torna da un convegno in Finlandia. Parliamo di Pasternak, il Grande Muto della letteratura russa: noi che abbiamo vissuto la seconda rivoluzione quella capitalistica degli Anni Novanta assomigliamo molto ai personaggi di «Zivago»: «Anche noi come nel ’17 abbiamo vissuto in fondo cose che accadono una volta sola nella storia dell’umanità, la fine degli zar, la caduta del comunismo, poteri infrangibili, eterni. Alla Russia di nuovo era stato strappato via il tetto e, di colpo, ci siamo trovati allo scoperto sotto il cielo. E’ stato terribile, ogni volta. Guardi: sulla rivoluzione non troverà pareri unanimi, il tema è controverso».

L’uomo dell’Est europeo costretto a cercare di sopravvivere alla storia piuttosto che compierla. Che entrati nel ventunesimo secolo può insegnarci molte cose perché come lui siamo rimasti soli in senso etico. Ci ha abbandonato il Dio universale, i nostri miti universali e ci ha abbandonato anche la verità universale. Cento anni dopo la caduta del palazzo d’inverno al posto della speranza del futuro hanno avuto il sopravvento le frustrazioni per gli errori del passato storico, i sentimenti del nazionalismo ferito e la collera del rancore. Ha ragione il professore: dobbiamo pensare a una rivoluzione lunga che inizia nel 1905 e si compie forse oggi nel fragile termidoro dell’età putiniana. 

Ecco: stazione Finlandia, sgualcita, mediocre, provinciale come allora, simile a una sosta ferroviaria a Faenza o Voghera. Arrivo per caso alle ventitré, come allora. Era in ritardo Lenin. Festeggiavano già la vittoria i giovani soldati che non volevano andare al fronte, gli operai delle Putilov che avevano conosciuto nello stesso momento alfabeto e rivoluzione. Esultavano i contadini che si erano spartiti onestamente le vacche del padrone e che temevano la resurrezione dalla tomba dei vecchi poliziotti. L’ex zar, ingenuo, spaccava legna e attendeva che «i bambini» (erano in età da marito!) guarissero dal morbillo per andare in esilio. E invece c’era, come destino, la cantina insanguinata di Ipatiev, laggiù a Ekaterinburg. Che restava da fare? Ma Lenin sapeva: che le Rivoluzioni le vincono non gli ingenui, gli eroi che le fanno sulle barricate, ma gli Altri, chi arriva dopo e ha idee e volontà. Verità amara e sempre valida come insegnano le primavere di Tunisi e del Cairo. 

Lo aspettavano, quella sera, soldati schierati e una banda che suonava in mancanza di meglio la Marsigliese! Lo portarono per le riverenze e i saluti della «delegazione» nella saletta riservata dello zar, su un’autoblinda improvvisò un comizio fustigando i suoi che già civettavano con i nemici di classe, i menscevichi, i liberali. La sua statua ciclopica oggi sembra continuare quel comizio all’infinito, con gesto perentorio, a indicare il mare e i radiosi destini. 

Esco sulla piazza, i lampioni hanno sulla neve accecanti riflessi da sala chirurgica. So che accanto, a cento metri, c’è un luogo che bisogna vedere subito: se non si vuole dimenticare che il dio ha fallito. Sì, bisogna affacciarsi sul vuoto glaciale della necessità storica, dei Grandi Fini e delle soluzioni finali. Sul lungo fiume, accanto alla stazione, incombe lugubremente silenziosa una gigantesca costruzione di mattoni rossi, piccole finestre irte di grate, una altissima ciminiera come di fornace lancia fumo verso il cielo e divide le quattro ali che divergono e gli danno il nome. Sono «le croci», la prigione delle croci. Qui passarono i primi deportati degli inverni terribili del ’17 e del ’18: era un’epoca che non teneva conto degli uomini ma imponeva ciò che voleva lei. Si nominavano già commissari con poteri illimitati, uomini dalla volontà di ferro, con nere giubbe di cuoio, armati di leggi di terrore e di rivoltelle «nagant». 

Davano la caccia ai controrivoluzionari, sembravano non dormire mai. Accanto al muro del carcere un giardino è pieno di giochi per bambini. Dall’altro lato della Neva Pietroburgo brilla ancora di luci. La città che fu la rivoluzione (Mosca le venne dietro) ed è la città di Putin, dove è nato e ha costruito la sua carriera. Una città dove la vita sembrava impossibile fra stagioni con venti ore di luce e notti con venti ore di buio, inverni che tolgono il respiro e abortiscono in primavere palpitanti, città che di questa impossibilità ha tutti i segni e i deliri e gli incubi. E’ piombata, per l’ennesima volta, in un’altra vita, vede una umanità che non riconosce per sua nessuna delle forme per cui crebbe la città e vi cammina come attraversando per errore la scena di un teatro. E chi vi giunge, straniero, ha l’impressione di trovarsi in un mondo passato e questo passato sia la sua vita stessa.

Sì, il 2017 che si annuncia di grandi sconvolgimenti, in un tempo in cui il sentimento dominante è un senso di impotente disorientamento, può iniziare qui, da una città e da un anniversario. Dove si è schiantato l’ultimo pilastro dell’ottimismo ottocentesco troncando la corsa all’ultima utopia dell’umanità. Il viaggio di Lenin ci insegna che nessun bilancio teorico delle perdite e dei vantaggi di una rivoluzione potrà cambiare il fatto che in pratica essa si rivela improduttiva. Le rivoluzioni si mantengono al potere proprio perché cessano di esser rivoluzioni, dopo il febbraio arriva sempre un ottobre. E dobbiamo accettare, noi uomini del ventunesimo secolo, che non esista una strada facile e poco costosa per l’utopia.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/05/esteri/quei-binari-del-treno-di-lenin-che-rovesciarono-la-storia-ZuXc2ALBh4ZVp8pSbdzPgJ/pagina.html
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 28, 2017, 12:46:27 pm »

L’ultimo sopravvissuto di Guernica: “Quel massacro parla al presente”
Ottant’anni fa il bombardamento dell’aviazione tedesca dipinto da Picasso.
Luis Iriondo era un adolescente: “L’orrore è arrivato nel giorno del mercato”
Luis Iriondo, 94 anni, sopravvissuto al bombardamento di Guernica, davanti a una riproduzione del quadro di Picasso nel museo della Pace
Pubblicato il 23/04/2017

DOMENICO QUIRICO
GUERNICA
Sì. Uomini come Luis Iriondo mi lasciano sempre senza fiato. Aveva quattordici anni il 26 aprile del 1937 quando i bombardieri tedeschi e italiani scesero su Guernica per stuprarla a colpi di bombe, per innaffiare le strade di fuoco, di esplosivo e di ferro: un cimitero di civili, un grido straziante che Picasso fissò sulla tela. Lo incontro vicino alla chiesa di Santa Maria. Si è salvata dalla distruzione, i «moros» di Franco la usarono come accampamento dopo la «reconquista», poi le donne di Guernica dovettero ripulirla in segno di umiliazione. 
 
Luis è un sopravvissuto, parola terribile del Novecento. Bisogna esser folli per credere, dopo aver vissuto il primo bombardamento terroristico della Storia, credere ancora nel potere dell’uomo sul suo destino. Sperare in una vittoria dello spirito sulle forze del male, credere in dio, credere nell’uomo e in una riconciliazione tra loro. E invece Luis comincia a raccontare e la muraglia sembra meno alta, meno invalicabile. D’un tratto tutto diventa presenza, tutto diventa semplice, vero, possibile. Significa che non siamo soli e vinti, che le forze disperse si riuniscono, sempre, da qualche parte. 
 
«Era una bella giornata come oggi, il cielo chiaro, pregna di umidità e di fermenti. Era lunedì, il giorno del mercato, dicevano l’avrebbero sospeso, la guerra si avvicinava, ma la piazza era piena di contadini e di bestie. Il mercato per noi di Guernica era la festa, al pomeriggio c’era la partita di pelota. Fu per questo che proprio quel giorno mia madre mi autorizzò per la prima volta a indossare i pantaloni lunghi: dai, ero un uomo adesso, non ero più un bambino, solo per la festa, ammonì mia madre. Non andavo più a scuola, c’era la guerra, il mio istituto l’avevano ultimato nel ‘33 ed era già chiuso, diventato caserma! Mia madre non voleva che ciondolassi senza far nulla e aveva chiesto al direttore della banca di impiegarmi come apprendista, portare le lettere, piccole commissioni, non maneggiavo certo i soldi. Ero al lavoro quel pomeriggio, io e un rifugiato di Lekeitio, un paese già occupato dai franchisti. Il bombardamento venne alle 16 e 20. Fu allora che le campane di Santa Maria cominciarono a suonare. No, non era per la messa, era l’allarme per gli aeroplani che si stavano avvicinando. Prima si usavano le sirene della fabbrica d’armi che era in città. 
 
Poi si erano accorti che creava confusione, molti pensavano che segnalasse la fine del turno e restavano a casa, sulla montagna che sta proprio sopra Guernica, il Kosnoaga, alcuni soldati dalla vista lunga quando scorgevano gli aerei nemici, c’erano solo aerei nemici ormai in cielo, salire da Burgos o da Vitoria facevano segnali agitando bandiere e allora giù, le campane suonavano, suonavano, ma c’erano stati molti allarmi, il fronte era a venti chilometri, ma non era mai successo nulla. Per questo non volevo correre nei rifugi ma il profugo di Lekeitio insistette: non sfidiamo la fortuna, mi costrinse, io sono vivo per questo lui invece è morto nel bombardamento». 
 
La Maginot disfatta 
Sono salito a Guernica in un paese ariostesco di rocce a picco e mare spumoso, frondami umidi e torrenti sonori, annegato nella luce ardente della primavera. Ascolto la lingua basca residuato, forse, dei primi idiomi del mondo. Da quassù scopro Bilbao, la profonda «ria» fino all’oceano. Bilbao era il «cinturon de hierro», la cintura di ferro, una sorta di Maginot costruita con l’aiuto di tecnici russi e francesi. Per il governo di Valenza era impenetrabile. Come tutte le Maginot si disfece in un istante. Seguo la strada da cui avanzarono le frecce nere della Agregation legionaria italiana, i requetés con le boine, i berretti a cencio, rosso sangue, e i terribili tabores marocchini del generale Mola. 
 
Non sono venuto qui per una guerra antica, di ieri: Guernica è stato un orrore sperimentale, i suoi trecento morti sono state vittime esemplari. Già. Quante Guernica abbiamo vissuto dopo? Coventry, Dresda, Hiroshima e poi le città violentate del nostro tempo senza guerre, Aleppo, Grozny… città che sembran aver perduto la loro ombra. In questi ottanta anni quante volte abbiamo pensato che fosse l’ultima volta? Funziona sempre così: c’è l’impressione di un malinteso che confonde tutte le cose, (fino agli anni settanta la versione ufficiale nella Spagna franchista era che Guernica fosse stata incendiata dai rojos prima di fuggire…) si mescolano inestricabilmente bene e male, i colpevoli e gli innocenti, entusiasmo e crudeltà. Ho visto bene? ho ben capito? e poi vi dicono che tutto è finito che non si ripeterà… in fondo il mondo migliora si respira. Si respira fino al prossimo massacro che giunge di colpo, il tempo passa, passa.
 
«Ah i rifugi! l’avevano costruiti con sacchi di sabbia e qualche trave di ferro, alla buona, ma che sapevamo dei bombardamenti aerei a quel tempo? Il rifugio più vicino alla banca era nella piazza del mercato, già si sentivano le prime esplosioni, erano gli aerei italiani che cercavano invano di colpire il ponte all’ingresso della città, ma noi non sapevano nulla di questo. L’ingresso del rifugio era sotto una terrazza che chiamavano “el sacafaltas”: quando si ballava nella piazza le ragazze si radunavano lì per vedere lo spettacolo e scegliere l’innamorato, era la vita prima, prima della guerra, eravamo un centinaio in quel rifugio non c’era ventilazione né luce, eran rifugi fatti così, alla buona, dopo due minuti già urlavamo perché ci sentivamo morire soffocati, allora qualcuno ordinò di sederci a terra, perché c’è più ossigeno in basso, io ero in fondo al tunnel dove la volta era più bassa e c’era meno aria. Ma il pavimento era umido e sporco e la paura di rovinarmi quei magnifici pantaloni e dei rimproveri di mia madre era più forte del senso di soffocamento, rimasi in piedi, le esplosioni cessarono, uscimmo a respirare aria buona a sentirci rivivere, e invece era solo l’inizio».
 
La voce della morte 
So cosa vuol dire essere sotto un bombardamento aereo, ciò che provarono per primi, nel Novecento, gli uomini le donne i bambini di Guernica. Oggi gli aerei sono così veloci che quando la bomba cade sono già lontani, senti solo il sibilo, la voce della morte. Gli junker tedeschi della legione Condor e i Savoia Marchetti della Aviazione legionaria, invece, erano lenti. Avanzarono da Nord a Sud usando come traccia il percorso della ferrovia, quasi ala contro ala, ben allineati, squadriglia dopo squadriglia, e sganciarono spezzoni incendiari mescolati a bombe perforanti. Cinquemilacentodiciassette ordigni. Un torrente di fuoco e di polvere.
Ho visto anch’io come Luis, in altri luoghi del mondo, case sollevarsi lentamente e sfasciarsi nell’aria per poi ricadere. E il rumore, il rumore che ti inghiotte, devi scrollare la testa per poter ragionare e vedi gente attorno a te che ha la bocca aperta, sai che sta urlando disperatamente ma non li senti. E fiamme escono da terra, vortici d’aria ti afferrano facendoti ruotare, una via intera in un attimo diventa un mare di fiamme, luci gialle e rosse ricadono dal cielo come un nubifragio. Fu così: Guernica in poco tempo prese fuoco, fatta, com’era, di legno. Ascolto Luis raccontare: sì, si respira fuoco in quei momenti.
 
Che sappiamo di questo stare sulle soglie della morte e forse un po’ più in là, quando le bombe smantellano una città, di come si cammini nudi sotto lo sguardo di dio? Avvengono in quelle ore (tre ore durò Guernica) confidenze che voi riceverete di rado, per la semplice ragione che le soglie della morte non sono scritte da nessuna parte. E se voi tornate in quel luogo dove avete subito la prova del fuoco, con gente che non era là, vi sembrerà di non ricordare più nulla e di raccontare bugie. Giacché i ricordi di un bombardamento assomigliano ai ricordi di infanzia.
 
«Quando è arrivata la nuova ondata, siamo di nuovo corsi nel rifugio. Stavolta avevo deciso che sarei rimasto per ultimo, mai più in fondo a quel tunnel, a costo di morire. Mi tirai dietro i sacchi di sabbia per fermare le schegge, adesso era come una unica esplosione, sembrava che entrasse da uno dei bracci della piazza dove è la scuola femminile e la percorresse tutta intera, allargando un lungo suono lugubre che sembrava entrarci dentro e poi c’erano raffiche di aria calda, un calore ripugnante che aveva il gusto di morte avevano raccomandato a noi ragazzi: se c’è un bombardamento stringete un oggetto tra i denti, dicevano che una esplosione più forte avrebbe potuto farci esplodere i visceri. Io mi ero portato dietro un bastoncino di dieci centimetri che stringevo in bocca fino a farmi male».
 

La preghiera spezzata 
«Nel rifugio cominciammo a pregare, la preghiera che ci avevano insegnato al catechismo: Nostro signore Gesù cristo, dieci volte provammo e dieci volte una bomba ci spense la voce. Infine uscimmo dal rifugio: tutta Guernica era un braciere, la gente fuggiva verso la montagna, incontrai salendo un mio compagno di nome Eloy. Ci fermammo a guardare la città bruciare sotto di noi, le nostre case erano vicine, vedemmo le mura della sua crollare in un mare di fumo. Calmo, freddo, gelandomi il cuore Eloy mi disse: mia nonna e mia zia sono là: una è sorda e l’altra paralitica». 
 
Allora Guernica non è il passato: è il presente. È una guerra che ci parla, ci spiega, ci offre terribili insegnamenti. Come assomiglia a quella di Siria, ad esempio! Guerre che avanzano con andamento di epidemia. Bashar come Franco, con potenti, determinati alleati totalitari, allora Germania e Italia, oggi Russia e Iran, contro le democrazie, timide e ipocrite. A Hitler e Mussolini che gli mettevano fretta, chiedevano avanzate risolutive, Franco rispondeva che in una guerra civile occorre una sistematica occupazione dei territori, che bisogna «ripulire», una rapida vittoria ti lascia invece il paese pieno di nemici. Anche Assad lo sa: è ostinatamente paziente, avanza da sei anni con metodo, riprende città e paesi uno ad uno, lascia che i suoi avversari li abbandonino, attende che le loro mischie interne li indeboliscano. 
 
E poi come in Spagna la guerra serve come sanguinoso laboratorio, sulla pelle di un popolo intero, di nuove armi: i tedeschi misero alla prova i loro aerei micidiali, i russi di Putin esibiscono la tecnologia della morte ad alta tecnologia con cui hanno sostituito la ferraglia sovietica. Guerre feroci, entrambe: ottanta anni fa i generali africanisti ribelli, formati nei massacri delle terre del Rif, dove saccheggio tortura e assenza di pietà erano la norma, oggi i fanatici di dio della mischia siriana.
 
Gli altri curdi 
E poi i baschi: i baschi che sono i curdi di oggi nel vicino oriente. Aspiravano, con vigore antico e disperato, alla autonomia. In nome di essa un giovane industriale dolciario, il lehendakari Aguirre, aveva proclamato lo stato separatista. La Repubblica faceva promesse. Chi potevano scegliere? Erano disposti a tutto, anche ad allearsi ai rossi, una incongruenza perché le pietre e le foglie della Biscaglia, dal ponte di Irun alle rocce oceaniche della Galizia, erano ferventemente cristiane e nulla avevano a spartire con i massacratori di preti e gli incendiari di chiese. Come i baschi i curdi resteranno con un pugno di rovine in mano. In questi luoghi, in fondo, quella guerra è finita solo due settimane fa, con la consegna delle ultime armi dell’Eta. Forse conviene attendere che la Spagna si disintegri da sola.
 
No, Guernica non è il passato. La memoria è rimasto un terreno di scontro politico: da una parte il partito conservatore, la Chiesa con i suoi 498 martiri, l’estrema destra, dall’altra una rivendicazione di memoria che si mescola a una revisione critica della transizione democratica da parte della sinistra radicale, Podemos, i neo comunisti. La guerra civile è lo specchio davanti a cui si rigiocano molti conflitti politici dell’oggi. 
 
La canzone 
E poi con Amaya, una giovane signora basca, vado a visitare il museo di Guernica intitolato alla pace. Quando una suggestiva rievocazione interattiva di quel giorno di 80 anni fa sfuma in una straziata canzone di bimba Amaya scoppia a piangere. Il passato con i suoi echi è in agguato dentro di te, primo o poi te lo ritrovi davanti, imperioso. Allora non puoi più scantonare. Sì: Guernica è davvero un macigno sul cuore.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/23/esteri/lultimo-sopravvissuto-di-guernica-quel-massacro-parla-al-presente-vrskoHa2TY6HMyp2tWI5QO/pagina.html
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 29, 2017, 09:01:40 pm »


Viaggio nei luoghi di Israele dove cinquant’anni fa morì il nazionalismo arabo

Dopo i conflitti con gli Stati ora le minacce arrivano dai gruppi islamici

Pubblicato il 29/05/2017

Domenico Quirico
TEL AVIV

Passata avanti la guerra non si possono riconoscere i luoghi. Ai luoghi restano i nomi della geografia, e alle battaglie la data. Quello che conta non sono le battaglie, ma i giorni e i mesi e gli anni che sono durate con gli uomini aggrappati alla terra, alla sabbia, alle pietre in una lotta sepolta. Qui cinquanta anni fa, sei giugno 1967, una data densa della storia del mondo, tutto durò appena sei giorni. Una guerra breve, un lampo, eppure in un tempo così breve molte cose che sembravano eterne morirono: il nazionalismo arabo, innanzitutto, sconfitto e archiviato. Su quelle rovine l’Islam politico iniziò a costruire i suoi disegni. E anche Israele cominciò a morire: sì, il trionfatore. Quello eroico dei pionieri, degli irriducibili sopravvissuti fondatori di uno Stato, nel momento della vittoria, come spesso il ghigno della Storia decide, raggiunsero l’apogeo e iniziarono il declino. Israele invincibile peccò della greca hybris, l’arroganza. 

Mezzo secolo fa Israele sconfisse alcuni Stati, la Siria l’Egitto la Giordania. Oggi combatte con Daesh, Hamas, Hezbollah, Al Nusra, gente che prescrive e dogmatizza, perseguita e punisce, dà degli esempi. Messi, investiti, scomunicatori, giustizieri: l’abiezione fanatica. Con gli Stati, seppure autocrazie spietate, si poteva trattare, fare la pace come è accaduto, faticosamente. Ma oggi?

Percorro luoghi delle guerre di ieri per capire le ragioni di quelle di oggi. Il tempo si vendica come si vendica di chi non riesce ad adoperarlo o lo usa per uccidersi. La guerra è purtroppo la cosa più semplice del mondo. Se non fosse così, se i soldati dovessero conservare a giustificarla un’ombra solo dei discorsi e delle polemiche, gli resterebbe in mente di aver patito il più grande sopruso, l’inganno più scellerato. Ma alla guerra si dimentica tutto. Gli israeliani 50 anni fa, rialzando il capo dopo la mischia breve e crudele, guardando il Canale e l’Egitto davanti a loro, e il Muro di Gerusalemme riconquistato, e Damasco laggiù nella bruma calda a un passo dal monte Hermon, dissero: è finita. E invece le nazioni, vinte e vincitrici, hanno i loro fornitori di miserie e di illusioni e dopo quella vennero altre guerre, il ’73 il giorno più lungo di Israele, e Beirut, e ancora il Libano e l’intifada. La guerra così diventa un mestiere e una obbedienza. 

 Salgo dalla Galilea verso il Golan, sfioro il monte delle beatitudini e il lago di Tiberiade folgorato dalla luce sciancata dell’alba. Il Golan è paese proprio alla guerra. Non ci sono distrazioni di cieli, albe e tramonti vi sono lenti, le acque se le bevono le rocce e i calcari, le quote si allineano per lungo e per largo guardate dalle nevi ormai minime del monte Hermon e dalla rocca crociata di Nimrud, castello ariostesco tra boschi fitti e piantagioni. È un paese che permette soltanto lontani orizzonti di pianura di mare e di montagne, privo di vicinanze. Quel che fa l’idea di andare sono le strade. Qui le strade spariscono alle svolte oppure lontane conducono a quei luoghi di orizzonte, borghi di cui si chiede il nome con cautela. Lì comincia il Libano laggiù è Siria qui la Galilea con la sua campagna sfruttata di tutti i suoi succhi. Paese adatto a viverci nelle pietre fino al mento e che nasconde due eserciti l’uno all’altro. Sembra fatto da dio con i sassi avanzati dalla fabbrica del mondo, mi ha detto un kibuzzin guardando soddisfatto l’opera sua che ha corretto e fecondato quella distratta di dio. 

Del Golan conquistate all’esercito siriano) 
«Il confine è a un passo» mi hanno avvertito, venti minuti a piedi e sei davanti alla Siria. E pure quando il dirupo finisce e mi affaccio sulla pianura siriana mi manca il respiro. La valle a perdita d’occhio ben spezzata di campi segnati e macchie di verde e di giallo, è piena di aria cruda, di estraneità e di sofferenza. In quello spazio stanno palesi le ragioni di una tragedia infinita. Sotto di me, li tocco, due villaggi con grida di bimbi e minareti. E poi, di colpo, in mezzo a un gregge, un uomo comincia a gridare e a fare segni verso di me, sì verso di me, agita uno straccio per richiamare l’attenzione, le sue parole arabe me le porta via il vento. Rispondo agitando la mano e allora lui grida con gioia e ripete, e stavolta lo sento, in inglese grazie grazie. 

(Le alture del Golan oggi. Un carro Merkava israeliano sorveglia il confine con la Siria. Oggi la minaccia viene dall’Isis) 

In quei villaggi, nel mistero che li avvolge, non c’è l’esercito siriano ma le sigle nere del califfato. Ogni tanto qualche colpo che scambiano con i soldati di Bashar Assad cade per errore nella zona controllata di Israele. Per sbaglio: non hanno tempo per occuparsi dei sionisti, devono regolare i conti tra loro. E forse il calcolo israeliano è questo e non so se sia segno di lungimiranza. Ogni guerra sosta di tanto in tanto. Il sole accolto risale e trabocca dai sassi del Golan. Colonne di blindati candidi, i mezzi della annosa missione Onu di interposizione, risalgono le strade degli escursionisti e dei gitanti, salutano con larghi cenni chi accosta per lasciarli passare. Oltre questa frontiera di guerra sospesa è diventato indebito il mio contegno con gli uomini e le cose di questa parte di mondo. L’appello di quel pastore siriano oltre la griglia di questo confine di odio mi spoglia di guerra e di passione, anzi di umanità di qua e di là del fronte troppo stanca. Come loro non saprei dire cosa mi duole, come loro, ebrei e arabi, ho nella mia costituzione il dolore.

Appena dentro la frontiera dell’armistizio c’è il moshav, che è una versione addolcita del kibbuz, di Majdal Shams. Religiosi, anche se non ultra-ortodossi che ormai hanno in ostaggio la politica di Israele. Questa era Siria fino al ’67, l’unico confine dove la guerra non è mai finita con un accordo di pace. Ci aspetta Rifka, Rebecca, che è arrivata bambina da Parigi. E ha vissuto prima in una colonia a Hebron, terra dura e feroce di scontro. Mi parla con entusiasmo goloso del fatto che sta per iniziare la raccolta delle fragole, la stagione è buona e ricca, e dice che non lascerà mai questo posto perché qui può ascoltare gli uccelli e il vento. E capisci che non potrebbe mai accettare la relegazione in un altro posto che la escluda dalla cornice dei frutteti, dei poggi e delle casette del moshav con il suo rifugio antibombe. Poiché ha compreso che quei contorni sono i soli, gli unici a poter racchiudere i suoi giorni futuri.

Ora pieghiamo di nuovo verso Ovest e questa è frontiera del Libano, che ormai per gli israeliani equivale a Hezbollah, il partito-esercito sciita. Siamo al punto 105, ogni sezione della frontiera è segnata per consentire in caso di infiltrazione ai soldati di intervenire più rapidamente. Solo qui ho sentito voci preoccupate, sguardi farsi attenti scrutando i villaggi sciiti sulle colline di fronte. Hezbollah è l’unico nemico di cui Israele ha rispetto, forse paura: più dell’Isis, più dei siriani. Davanti a me c’è Marum Harash dove nel 2006 i combattimenti costarono a Israele molti inutili morti. Le montagne fitte di boschi impenetrabili sono come scalpate dalle scavatrici, affiorano ferite larghe, lingue di terra rossa e nuda al sole. Non sono cave o disboscamenti. Israele scoperchia gli angoli morti della frontiera dove possono passare gli uomini di Hezbollah senza essere scorti, li costringe al terreno aperto. Un muro anche questo, fatto di amputazioni e non di reticolati o blocchi di cemento. 

Scendiamo di nuovo verso il mare, si sente la cadenza delle onde del Mediterraneo, delle onde che battono contro la Palestina come contro una parete, il bordo estremo della grande vasca d’acqua fra Europa Asia e Africa. Penso che non ci sia Paese al mondo lungo come Israele, lungo nel tempo intendo, non nello spazio. Non esiste Paese i cui lineamenti abbiano la lunghezza di tempo che va dalla nascita di Abramo alle biotecnologie. Lineamenti concreti limpidi vivi da toccare con il dito: vivo il vecchio Testamento con le sue valli coperte di erbe e di fiori, con le colline fitte di agrumeti e di viti; e viva la modernità più avanzata e audace. Mi raccontano di un progetto di quindici miliardi di dollari per costruire l’auto robot, di ricerche per creare serre dove per risparmiare energia si scalderanno solo le radici delle piante e ahimè anche di nuovi carri armati e cannoni. Se il tempo è davvero una dimensione non esiste paese più esteso di Israele. Dove la fisica e la biologia fino alla partenogenesi convivono con chi vuole ricostruire il sinedrio e il terzo tempio di Salomone (spianando le moschee musulmane!).

Il deserto nasconde i fatti di guerra, il tempo fa alla memoria quello che gli anni fanno al vino. Nasconde i morti. La sabbia è gialla e monda, come la cenere, come la polvere antica. I morti son troppo lontani e vicini qui, al confine con Gaza e Hamas.

Al kibbuz di Nirim oggi è iniziata la stagione dei bagni, ha aperto la piscina, incontri ragazzi forti. Come tutti i contadini del mondo hanno il viso bruno, meta carne e metà cuoio, lo sguardo duro, le mani nodose, come tutti i contadini del mondo parlano con frasi corte secche e hanno risate profonde.

 
Adel, americana, fragile e antica, con un gran cappello di paglia contro il sole mi racconta la regola dei dieci secondi: il tempo in cui bisogna esser pronti a fuggire, in caso di allarme per il lancio di razzi di Hamas, nella stanza blindata di casa o rannicchiarsi a terra come le mani serrate attorno ala testa. Sono gesti che conosco, come conosco luoghi dove le vittime non hanno nemmeno la possibilità dei dieci secondi perché nessuno farà mai suonare la sirena o un appello sul telefonino. Gaza è lì, appena oltre il reticolato e i campi di grano: due minareti come matite verdi puntate verso il cielo. Gaza con i suoi ventimila combattenti ormai ben addestrati e armati, dove il radicalismo politico religioso si insinua e fa proseliti e non rispetta la tregua tacita con Israele: la prova di come la guerra di 50 anni fa non risolse nessun problema. 

Sui confini Israele dei pionieri che esportavano il comunismo, un comunismo puramente empirico al di fuori di ogni enunciato razionale, anche se le punte di collettivismo integrale sono state uccise dal tempo, pare ancora vitale. Giovani famiglie, a decine, fanno domanda per venire nel kibbuz. Nel resto del Paese, invece, ho l’impressione di una sorta di smobilitazione dell’animo degli ebrei in Israele: alla fine della loro alta tensione. Non so quanto sia giusto rimproverarli per non essere rimasti se stessi come avremmo voluto, quelli della epopea del 1948, quelli che abbiamo ammirato increduli nel ’67: rimproverarli per l’arroganza, per aver scambiato la potenza per virtù. In fondo la perdita della loro eccezionalità per forza maggiore, al loro ingresso nella media di virtù e difetti comuni a tutti i popoli che hanno una patria, è inevitabile. Il male di cui soffrono, la mediocrità della classe politica rispetto alla vivacità della società e alla grandezza dei problemi, è il difetto di tutto quello che un tempo chiamavamo Occidente.

Adele, che mi racconta come è sopravvissuta ai razzi, aggiunge: «Perché dovrei odiare i palestinesi? Non sono miei nemici sono miei fratelli». L’eterna, splendida ragionevolezza delle minoranze che sono ahimè! minoranze. Se devii dalla autostrada che porta al Mar Morto verso il tranquillo confine giordano in pochi minuti arrivi alla tomba di Ben Gurion, sul ciglio di una montagna che guarda il deserto. Gazzelle brucano l’erba senza paura, un battaglione di giovani soldati seduti all’ombra ascolta la lezione di storia del suo ufficiale. Tagliato dal sole a picco il paesaggio offre il fascino triplo della bellezza, del mistero e della minaccia. Forse qui si comprende che la forza di questo popolo, con i suoi innumerevoli errori, è in questa pazienza inesauribile, tessuta, intrecciata nel corso dei secoli con il destino nemico, le sue ombre, il suo frastuono che ritmano l’esistenza. Una pazienza di cui nessuno è riuscito ad avere ragione, che niente ha potuto incrinare. Sanno soffrire come nessun popolo ha sofferto e sanno sperare contro ogni speranza. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/29/esteri/viaggio-nei-luoghi-di-israele-dove-cinquantanni-fa-mor-il-nazionalismo-arabo-HAND2INge9vyyzOqH21juO/pagina.html
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 10, 2017, 01:47:49 pm »

Come i migranti vedono gli italiani
In viaggio con quattro profughi su una corriera del Monferrato: “Vedendo i turisti ci eravamo illusi che gli italiani fossero ricchi”
Pubblicato il 09/07/2017 - Ultima modifica il 09/07/2017 alle ore 15:58

DOMENICO QUIRICO

Lo so che è una sciocchezza. Anzi: peggio, è inutile. Capovolgere il discorso, non quello che noi pensiamo dei migranti, ma tentare di definire il contrario.

Cioè quello che loro pensano di noi, italiani, ospiti renitenti, samaritani ringhiosi o turbati dal dubbio di commettere, accogliendo, un errore. Che strana domanda: a chi mai potrebbe interessare il giudizio di un migrante? Diamine: non è un turista o uno scrittore o un uomo d’affari. Un migrante.
 
È vero. Non bisognerebbe chiederlo: lui, il migrante, è un uomo che ha solo un minuto di speranza, di farcela di essere accettato di avere il pezzo di carta, un minuto contro, due, tre, cinque anni di disperazione. Che è il tempo del suo viaggio. Lui vive di questo: del minuto di speranza. Come puoi chiedergli di buttarlo via con una risposta incauta? Non è molto, è una realtà quasi impalpabile. Non sa se la mia compassione sia finta. Forse lo è. Ma come rischiare? La sua inquietudine, sì, quella è sincera e ha ben motivo di essere inquieto.
 
Questa volta non vado a cercarli in mare o nel deserto, non è il suo viaggio, ora, che mi interessa; è il suo specchiarsi in ciò che gli sta intorno, il Nuovo Mondo che si è conquistato con la paura, il sudore, il dolore. Il suo Dopo nell’abnegazione di ogni istante. Non devo andare lontano: basta salire un mattino su una corriera qualsiasi di una linea locale nella zona in cui vivo, il Monferrato. 
«Lì li trovi di sicuro, si spostano in bicicletta, ma qualche volta usano l’autobus se hanno un lavoro o solo per vagare in giro, qualcuno per fuggire verso qualche confine». Ci affanniamo a discutere se siano un bene o un male, e loro sono già normalità, paesaggio.
 
Ci sono infatti: quattro. Li ho subito ribattezzati il Grosso, il Triste, il Rasta e il Filosofo, tre gambiani e un maliano. Si tengono insieme, muti, nell’autobus semivuoto, qualche anziano che si sposta da paese a paese e ragazzi con lo zaino che chiacchierano e ridono fitto. Nessuno, salvo me, sembra badare a loro. Il bus avanza sulla via provinciale, una via familiare più che di transito, dove si sentono gli uomini con i loro costumi, le loro abitudini, perfino i pensieri. Le villette dei geometri degli Anni Sessanta, le cascine rimodernate, e i bar dove c’è sempre qualcuno che sembra aspetti l’arrivo di una gara. I quattro migranti non guardano quello che sfila fuori dai finestrini, forse hanno già fatto questa strada molte volte, forse ci passano solo stamane prima di fuggire.
 
Con i migranti non bisogna fare domande, è la polizia che fa domande: bisogna ascoltarli, parlare. Se fai domande ti risponderanno che qui tutto è magnifico, che sono felici, che la gente è buona. Ne trovi a centinaia di migranti che ti parlano così, è umano, è normale. È parlando a se stesso che il migrante si confessa, non a te occidentale, straniero, infedele. Hanno tutti una storia che dividono con innumerevoli sconosciuti, le cui figure tragiche e i gesti disperati si susseguono senza mai scomparire del tutto. La mutilano, la truccano la loro storia; ma sfigurarla non è per loro l’unico modo per non riconoscerla più?
 
Il Triste è un uomo che non potrò dimenticare. È grande, alto, eppure sta piegato, guarda sempre per terra come se avesse un gigantesco peso sulle spalle che lo opprime. Non ho mai incontrato nessuno così definitivamente vinto dalla vita, così tragicamente consapevole che ha perso la scommessa, bruciato l’unica possibilità. È perfino difficile restituire il suo parlare, perché è annegato in infiniti silenzi.
 
«Perché sono qui? Perché voglio ricomprare la mia casa laggiù in Gambia, la casa che non è più mia, che mi hanno preso, e metterci dentro mia madre perché possa invecchiare e morire in pace. Mia madre! Che ha raccolto uno ad uno i soldi per farmi arrivare qui. Ho solo lei, non ho amici, non ho nessuno da nessuna parte del mondo. Tutti, nel centro dove stavo, telefonano, parlano. Io ho solo lei da chiamare, le dico che va bene, che è bello qua, che tutti sono gentili e non è del tutto vero. Io devo guadagnare quei soldi, devo. Sono qui per nient’altro. Quella casa la rivoglio. Non mi fermo, andrò in giro a cercare lavori a tempo, caporali che mi assumano in nero, va bene, così guadagnerò più rapidamente. Dormirò alla stazione, in strada, non mi importa, è la casa che devo ricomprare, la casa. Ho attraversato l’inferno, tre anni di Libia sai cosa vuol dire? Sono ancora vivo: per cosa? Per niente: ho fallito, ho perso». 
 
Il Rasta: «Che penso dell’Italia, penso che vado via, che vado a Malta, parto lunedì! Non c’è niente qua. Che ci vado a fare? A vendere sulle spiagge, affitto una cassa di roba da uno e mi tengo una percentuale di ciò che vendo. Se ho amici laggiù? Non conosco nessuno. Tutti a dirmi: sei scemo, resta qua, hai un posto dove stare e un lavoro. Ma io voglio andare a vendere a Malta. Dio sono certo che mi farà andare perché gliel’ho chiesto. Dio è buono, me lo deve dare. Voi italiani non capite, noi ci sentiamo sempre provvisori. Io so fare mille cose il muratore, il contadino, riparo biciclette, faccio miracoli con le nostre bici africane che non sono belle come le vostre. Ho trovato un posto in un vivaio in un paese qua vicino e ti racconto una cosa: quello che lavorava con me è italiano, ha la macchina, non mi dava un passaggio e dovevo fare venti chilometri in bici ad andare e altrettanti a tornare. Diceva che ha paura di avere guai in caso di un incidente. Solo se pioveva forte mi dava un passaggio, ma si faceva pagare la benzina».
 
Il Grosso: «Ero muratore al mio paese, come qui. Sì, il lavoro è lo stesso, ma non è lo stesso il resto: i soldi per esempio, franchi Cfa si chiamano, e non valgono niente. Quando c’era qualcosa da fare, facevano a metà, altrimenti niente per nessuno. Qua il padrone mi guarda e dice: i soldi, i soldi te li do a fine mese, è scritto nel tuo contratto, non siamo mica in Africa qui. Va bene: quando arriva fine mese non mi dà nulla. E dai, non c’è lavoro, mica ti devo pagare se non c’è lavoro. Voi africani siete sempre a chiedere, chiedere. Sapere se posso o non posso fidarmi di lui mi fa impazzire: forse ridacchia appena volto le spalle e le spalle me le volta sempre fingendo di avere qualcosa da fare, va su e giù, prende una martello, un secchio, fa finta lui, fa finta di essere occupato. Una volta ho fatto una prova: ho fatto un balzo in avanti e l’ho guardato. Ho visto solo un po’ di paura. Voi italiani sapete controllarvi meglio di noi, siete una cricca piena di forza e di sicurezza: noi, noi che aspettiamo, noi africani non abbiamo niente, viviamo sulla lama del coltello, ci bilanciamo da una minuto di speranza a un altro minuto di speranza. Ci tenete ben stretti al morso, due parolette e la nostra vita è di nuovo andata al diavolo. Amministrate il paradiso, amministrate la speranza, la consolazione. Avete tutto in pugno, noi possiamo solo accostare le labbra per qualche minuto».
 
Il Filosofo: «Tu vuoi sapere cosa pensiamo di voi? In Africa vedevamo i turisti, anche italiani; ricchi, tutti ricchi, spendevano, pagavano. Così pensiamo che da voi tutti abbiano soldi. Adesso, arrivati qui, sappiamo che non è così, ma nessuno lo racconta. Anzi si assicura che va tutto bene, stiamo come signori. C’è uno al centro di accoglienza che è andato via e ora fa il mendicante. Non ci crederai: si fa delle foto con il telefonino vicino ad auto di lusso o a ristoranti famosi e le manda a casa, perché credano che è così che vive. Perché? Perché in Africa non si racconta agli altri il tuo problema, è tuo e basta, e nessuno può fare niente per noi». 
 
Dove e quanti migranti sbarcano in Italia, i dieci porti con più arrivi aggiornati al 4 luglio

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/09/esteri/in-viaggio-con-quattro-profughi-su-una-corriera-del-monferrato-vedendo-ricchi-turisti-ci-eravamo-illusi-che-gli-italiani-fossero-IUdZAao8Ub508vimn874qL/pagina.html
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« Risposta #54 inserito:: Agosto 16, 2017, 08:57:05 am »


Libia, nella roccaforte degli scafisti dove inizia l’inferno dei migranti
Viaggio sulle spiagge di Sabratha: da qui partono i barconi di disperati per l’Italia. Tra trafficanti di uomini, mediatori e miliziani: «Queste sono acque di nessuno»

Pubblicato il 15/08/2017
Ultima modifica il 15/08/2017 alle ore 07:03
Domenico Quirico
Sabratha

Le sette. Un pontile. Ora le cose e il cielo hanno colore, non splendore. All’estremità della vasta curva di terre gialle, esili palmizi che per tutta la giornata pareva si disseccassero lentamente cominciano a vivere. Due pescherecci si incrociano lentamente davanti a noi. Alcune grandi navi immobili sembrano incastrate nella dura superfice della baia. Il mare è un’acqua di laguna così densa che dondola appena. La Migrazione, alla fine, è storia di mare. A queste spiagge bisogna arrivare, loro per partire e noi per capire. 

Mi viene una idea vaga: che questa estate di Libia è un’estate guasta, un’estate che va a male. Nessuno confessa a se stesso che la guerra ai migranti non somiglia a nulla, che nulla vi ha un senso, che nessuno schema vi si adatta, che crediamo di tirare solennemente dei fili i quali non sono più legati alle marionette.

Per esempio: sappiamo che le regole del «viaggio» nel Mediterraneo sono cambiate? E che lo hanno imposto loro, i migranti? Non cercano più lo scafista direttamente, lo pagano e partono, affidandosi a dio. Non si fidano più: troppi morti, troppi naufragi, troppi inganni. Ora c’è un mediatore, sempre libico, riunisce i gruppi, marocchini senegalesi eritrei, raccoglie il denaro e lo custodisce. Paga lo scafista solo quando una telefonata del migrante conferma che è arrivato in Italia o è al sicuro su una nave di soccorso. Il viaggio con l’assicurazione. 

Il business dei trafficanti 
Per gli scafisti è indispensabile che i migranti arrivino, e presto: è l’unico modo per avere il denaro. E questo, forse, spiega molti misteri: la ricerca delle navi delle organizzazioni non governative e altro.

Mahmud è il vecchio capo dei pescatori. «A che ora uscite stanotte? L’acqua è calma, si fila lisci sul mare». «Questo mare immobile non è buono, è un mare da migranti non da pescatori - lo dice con stizza, come se fosse qualcosa di sconveniente - è luna piena, sotto la superfice calma la corrente è forte, non ci sono pesci così. I gommoni, quelli sì, escono stanotte per andare da voi». 

Mahmud sa mille storie. «Avevo una barca con un libico e tre egiziani, cercavano il pesce spada, bisogna star fuori almeno due-tre giorni. Incontrano una barca di migranti in difficoltà che invocano aiuto. Si fermano, lanciano un appello, arriva una nave delle vostre, armate, grandi, gridano in arabo “State fermi o vi spariamo”. Prendono tutti, i miei pescatori la barca i migranti, e li rimorchiano a Lampedusa: “Siete scafisti - dicono ai miei - stavolta la pagate”. Per farli tornare, loro e la barca, ci sono volute settimane di appelli e trattative, ma il pesce quello, era perduto. Le nostre ormai sono acque di nessuno, tunisini e italiani che vengono a pescare di frodo parandosi dietro alle vostre navi, migranti». 

Che cosa è vero e che cosa è falso, qui in Libia? Le nostre soluzioni buone per tutto mi sembrano quegli aggeggi dei meccanici che sono insieme pinza, martello e cacciavite. Mi aspettavo a Tripoli chiasso e furore per la presenza delle navi italiane e il «colonialismo» di ritorno. Non ne parla nessuno, se non qualche schermaglia di politicanti. Alla manifestazione contro l’Italia c’erano 40 persone impastoiate alla svelta dai Fratelli musulmani. Tripoli ha 3 milioni di abitanti. I libici, semmai, si preoccupano dell’energia elettrica che non c’è per sei, dieci ore al giorno, e del loro denaro che resta chiuso nelle banche. Al mercato le botteghe degli orefici sono piene di ombra e di meraviglie. Intravedo monili che sembrano usciti dai tesori di Micene, così magnifici da sembrare falsi. Ma nessun avventore. I mercanti seduti sui loro banchi guardano la strada. Volgono non appena mi vedono gli occhi sugli oggetti nelle bacheche, cadono su di essi densi raggi di sole, sottili, pieni di una polvere fulva. Se dopo averli sorpassati mi volto, vedo il loro sguardo che mi segue pesante ansioso: «Se venite qua con una nave che distribuisce energia elettrica diventate i signori della Libia, altro che navi da guerra».

 L’ombra di Haftar 
Le notizie che diamo per certe assomigliano a miti che si propagano, di origine incerta? Al Sarraj è il nostro uomo, la carta su cui puntiamo tutto. Ebbene a Tripoli senti parlare solo del «Vecchio»: non osano nei caffè dirne il nome, non è prudente. Questa gente ha vissuto 40 anni sotto Gheddafi. Il Vecchio è il generale Haftar, l’uomo di Tobruk, sperano che arrivi presto perché son stufi delle milizie e del primo ministro e delle sue strategie tortuose: «Ci vuole un uomo forte che metta fine al caos». 

Le parole non corrispondono alle cose che vedo. «La stabilizzazione della Libia, grazie a noi, migliora» annunciamo. E qui invece è una guerra in cui non si viene a capo di nulla, bisogna ricominciare da principio ogni volta. Il pericolo non sta in alcun punto, non ha forma peso colore. È lì, in questo Paese immenso, sproporzionato, goffo a furia di essere grande, in questo Paese peggio che disabitato, abitato poco e male. È un pericolo dilatato, diffuso, fluttuante che ti sfugge e poi all’improvviso fa ressa in un punto, fulminante.

Per esempio. Vado a Zawia e a Sabratha, solo un’ora di viaggio, dove sono le spiagge di imbarco dei migranti. Si viaggia solo di giorno, di notte la strada è dei briganti, dei jihadisti, chissà. Ci sono molti posti di blocco, di giorno, gente armata, in mimetica. Noi li definiamo: esercito polizia sicurezza. E pensiamo a ufficiali, catene di comando, disciplina. E invece sono milizie, gente armata di gruppi diversi, ingaggiata dal governo ma che non risponde a nessuno. Il primo posto di blocco lo superiamo senza esser fermati: i miliziani son tutti intenti a prelevare il pedaggio da un camion. Il secondo è a Zanzur, il ventisettesimo chilometro come dicono qua. Un tempo era un’oasi con le palme fitte come una pineta e pozzi dove l’acqua la tirava su una vacca o un asino con gli otri, un metodo più antico di Noè. Oggi l’oasi è solo polvere e case sciupate, più grigia che verde. 

Milizie e check point 
Due ragazzi mi fanno scendere dall’auto quando si accorgono che non sono libico. Stringono in mano il passaporto e il permesso che mi è stato dato dagli uffici di Tripoli, li girano e rigirano: sono analfabeti, per loro sono incomprensibili. Uno dei due è chiaramente in preda a droghe, le parole gli escono di bocca accavallate, senza filo. Mi tirano dentro un container che fa da ufficio e casa. Mi vuotano le tasche, con metodo, ho portato con me pochi euro e soldi libici per prudenza. Sghignazzano, spingono: conosco la scena, bisogna fingersi stupidi, tacere, aspettare pazienti. Ormai non dipende da te, nulla. Con il portafoglio spariscono in un’altra stanza. Ecco: mi preparo. I rapporti con un Paese dove hanno cercato di ucciderti sono complessi, non evolvono. Tornano, mi ridanno il portafoglio e mi spingono fuori: sono rimasti solo i soldi libici che non valgono niente. Ripartiamo. 

I distributori sono chiusi o assaliti da interminabili file di auto alla ricerca di benzina. Le milizie la imboscano, la comprano al prezzo fissato dalla legge di un dinaro al litro e poi la vendono di contrabbando. Un guadagno enorme. La stabilizzazione della Libia.

Cerchiamo a Sabratha, io e il mio amico libico, un conoscente, un tempo era agente della polizia turistica. In un caffè che frequentava ne facciamo il nome, lo descriviamo. Gli sguardi si abbassano: «Lo hanno ucciso gli islamisti, gli hanno tagliato la testa». Storie libiche, sembrano senza peso, la presenza di una persona scomparsa può farsi più densa di una presenza reale. 

La città sembra intatta e viva. Un anno fa l’Isis faceva sfilare per le strade sfacciatamente i suoi pick-up e le sue nere bandiere. Ora si sono ritirati verso l’interno, sulla montagna, attendono i nostri errori. Nei negozi eleganti espongono chador di lusso e mute per le bagnanti virtuose. Accanto al municipio color caffelatte immondizia ed erba tisica: il sole mette sulla polvere bianca una luce cruda che costringe quasi a chiudere gli occhi. Manovrano contromano senza badare alle auto pick-up con mitragliere a cui si aggrappano urlando giovani barbuti. 

 Il sindaco Hasan al Dauadi è un uomo giovane, a suo agio in un elegante barracano grigio: «I trafficanti di uomini sono gente di qua, una mafia organizzata, potente, ben armata, hanno capannoni e case dove nascondono i migranti. Forse le partenze ora diminuiranno un poco: l’Italia non paga i capi del traffico e le milizie?».

Pronti a partire 
Le rovine sembrano intatte, il mare vi si infrange, col suo azzurro intenso ma senza trasparenza, e la balza a riva di un verde di pavone, opalino, misterioso. Nel teatro, sproporzionato, inverosimile, ricostruito da un archeologo un po’ mistico senza badare al vero, ci sono rifiuti, i rovi guadagnano terreno laddove tubazioni abbandonate lasciano intravedere che un tempo c’erano erba e fiori. Ci si muove in una pozza di sudore, affannosi, come bastonati. Due famigliole libiche si aggirano tra le colonne, i bimbi lanciano grida che si perdono nel silenzio del mare. La cosa che li affascina di più sono le antiche latrine, miracolosamente conservate, sotto il bel portico pentagonale e con i banchi di marmo. Penso che ci furono imperatori romani che salirono a Roma da qui e avevano la pelle scura. Oggi li avremmo forse rimandati indietro come fastidiosi migranti. 

Ogni spiaggia da qui a Tripoli è un luogo di partenza. Un gruppo di neri sono accoccolati sulla sabbia gli uni di fronte agli altri, in mezzo a loro bottiglie di acqua. Sono assolutamente immobili. Non si guardano. I loro occhi sono rivolti verso punti diversi del mare. Emanano un senso di eternità. Vedo bambini dormire come se fossero morti. Non hanno con loro alcun bagaglio, nella disperazione resta la consolazione di separarsi da tutto, di essere ridotti a se stessi. Mi guardano con la stessa innocenza con cui guardano l’orizzonte. Mi offrono l’acqua: l’ospitalità non è un rito ma un dono. 

«Il mare è buono, stanotte partite?». E dico la formula rituale «Siamo nelle mani di dio». «Dio esiste». Adesso è scuro ormai. Si indovinano senza vederli gli argini del molo e il mare di ombra dove non scintillano, aderenti agli scafi dei pescherecci, che i riflessi della lampade. Qua e là certe forme allungate macchiano il cielo notturno, reti issate dai pescatori, forse.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/15/esteri/libia-nella-roccaforte-degli-scafisti-dove-inizia-linferno-dei-migranti-zOyIGR965g0JImpGz94izJ/pagina.html
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« Risposta #55 inserito:: Ottobre 09, 2017, 06:40:35 pm »


Ad Agadez con un trafficante di migranti: “Vendevo uomini e destini per fare soldi”
Il racconto di un passeur del Niger: mi riempio le tasche con i viaggi di chi vuole andare in Europa
Per tutti quelli che vivono ad Agadez, i migranti sono una fonte di guadagno
Pubblicato il 07/10/2017 - Ultima modifica il 07/10/2017 alle ore 08:18

Domenico Quirico
Agadez (Niger)

Il setaccio funziona. Ad Agadez, crocevia dei migranti verso la Libia, un luogo dove tutte le coscienze sono umiliate, il setaccio creato dall’Europa lascia cadere ormai solo pochi granelli. Ecco: da qui per noi il migrante ritorna invisibile, non esiste più. Ero stato qui pochi mesi fa ed era un fiume di uomini e donne che fluiva nel deserto. Oggi la città sembra morta in un’afa senza respiro, spariti o nascosti i passeur che ne erano i visibili padroni, ritornata la vita e il mercato alla miseria di sempre. La gente se ne sta in giro senza uno scopo, con l’aria di aspettare qualcosa. 

È l’ennesima, non l’ultima nessuno si illuda, svolta della Migrazione: che cercherà nuovi alvei e nuove strade. Per raccontarla forse bisogna cercare un altro punto di vista, un’altra angolazione. Il racconto di questo trafficante di uomini per esempio: i ministri europei non lo incontreranno mai uno così. Forse è un errore: scoprirebbero molte cose che non sanno.

Perché mi guardi? 
«Perchè mi guardi così? Perché? Non guardarmi così! Mi hai chiesto tu di raccontare tutto questo; dopo, è una parola è una parola, sì: io trasporto uomini nel deserto! Li porto da Agadez in Libia. Lo so: è per questo che mi guardi così. Sono un bastardo, mi riempio le tasche sugli uomini, e chi non guadagna sugli uomini? Lo sai che per me, per noi, per tutti quelli che vivono qui ad Agadez, i migranti sono la vita? Sono come le capre o il dromedario, arrivano spendono denaro li trasportiamo, ci fanno vivere, li facciamo vivere, è il mestiere, sono come i turisti che venivano qui una volta, sono un buon affare, perché no?». 
 
Chiedono solo una cosa 
«Quanto a questa gente, chiedono una cosa sola, andare, arrivare là. Schifo di un deserto, ne ho piena la testa, ne ho pieno lo stomaco. Soprattutto adesso che non posso più portare nessuno, finito chiuso, basta milioni di franchi Cfa, quel bel denaro sudicio che ha valore solo qua. Milionario ero, nemmeno tu lo sei, un milione di franchi dieci milioni di franchi, hop hop finito! Il mio bel pick-up, hop svanito, sai dov’è? Quando non era carico di persone, lo nascondevo con le frasche dell’ethel, che quando il vento ci passa dentro sprigiona una musica strana, venticinque migranti ci mettevo dentro, ventisette al massimo perché viaggiassero comodi e ci rimettevo un bel po’ di soldi, gli altri, i libici, i toubus, li schiacciano come pietre, i migranti, donne bambini uomini giù, stringetevi letame, anche dentro la doppia cabina, otto ne fanno stare e qualcuno lo hanno trovato soffocato, non se ne erano accorti, i migranti scemi stanno zitti, hanno paura che li facciano scendere tutti».

Il divieto è in vigore 
«Allora il mio bel pick-up sta nel cortile della polizia, da tre mesi, vicino all’aeroporto: decine e decine ce ne sono, tutti sequestrati. Non c’è un deposito così pieno in tutto il Niger, da farci i milioni e prima o poi questi merdosi poliziotti ci penseranno! Sequestrati, a noi passeur, da quando il divieto di portare migranti è cominciato e tutto qua ad Agadez è andato all’aria, ha cominciato a morire. È due mesi che non faccio niente, consumo i soldi che avevo da parte. È ormai tempo che mi dedichi al mio problema, chi non ce l’ha un problema, uno o più di uno forse, anche tu: campi bene, guadagni, ti sfianchi e un giorno il problema principale invade il centro della tua vita, caccia tutti gli altri, ti accompagna come un’ombra e ti fa scoppiare la testa. Ti sta addosso anche quando ti svegli di notte, ti salta addosso come un animale, non è la malattia, il mal di testa, qualcosa che puoi scacciare con un gris gris, no è peggio». 

L’ha deciso un tizio 
«E tutto perché da qualche parte in Europa un tizio che non ha mai visto Agadez, non sa chi sono io, decide che gli fa comodo che i migranti invece di andare in Libia e da lui restino qui e magari tornino indietro, quattro chiacchiere e così la polizia comincia a rastrellare i migranti e ci dà la caccia, ci mette in galera e ci resti degli anni, come se avessi ucciso qualcuno. I migranti sono sempre lì, dici. Dannazione, dove vuoi che siano? Sbarcano dai bus che arrivano da Niamey, come una volta, di più. Solo che una volta li andavi a prendere all’ultima fermata prima che entrassero in città e via, una quarantina di chilometri a piedi nel deserto tanto per non fare le cose proprio allo scoperto, non ti inseguiva nessuno». 

Il ciccione in divisa 
«Vedi quel ciccione in divisa che sembra un generale già mezzo ubriaco di birra, quella puttana gli gira intorno ancheggiando come una mosca attorno alla zuccheriera. È un capo della polizia, una volta gli portavamo i soldini e lui era contento, gli passavamo davanti con i pick-up pieni e lui: niente, era un reato anche allora, ma che c’è di male? Chi se ne frega di questi fottuti negri. Lascia che vadano dove vogliono andare. Adesso ci dà la caccia come se fosse lo scopo della sua vita. Mi è andata bene ad aver rinunciato, mi conosce ma sa che sono fermo, ha il mio pick-up e non mi arresta». 

 Al centro di raccolta 
«Anche i migranti adesso hanno capito l’aria che tira, molti vanno volontariamente al centro di raccolta, non c’è più nessuno che li accoglie per partire, quelli sanno tutto, addio Libia almeno per ora, almeno non crepano di fame, li tengono un po’ lì, gli danno trenta euro e li riportano a Niamey e al loro paese: tre mesi e son di nuovo qua. È colpa mia se hanno l’Europa in testa come se fuori di lì, dalla vostra merda non potessero respirare, in Europa c’è la felicità figurati. Qualcuno ancora ci prova nonostante il rischio e la galera verso l’Algeria? No! Lì sei morto, ti tirano addosso con gli elicotteri quei fuori di testa e se ti prendono ti ammazzano nel deserto. Adesso bisogna andare a Sud-Est come se ti allontanassi dalla Libia verso Zinder, poi si torna indietro e si sale verso il Ténéré. Tremila chilometri di confine, ci sono molti passaggi e nessun soldato. Allora noi siamo gli sciacalli che si nutrono di quei poveretti di migranti. Lo sai come giocavo io da bambino? Giocavo con le biglie fatte di sterco di cammello, se portavi il turbante ti prendevano a calci, te lo toglievano a bastonate. Forse dovrei essere io per primo a scappare di qua, a cercare un passaggio verso l’Europa».

 Perché sono passeur 
«Sai come sono diventato passeur? Te lo dico. Così capisci, c’era il turismo fino al 2006, europei senza tanti soldi ma bastavano, gli uomini blu, il silenzio del deserto, queste scemate. Girava denaro, vendevamo robaccia, monili gioielli finti, ci mettevamo in costume e quelli erano contenti. Poi è finito con la rivolta e la guerra, ero diventato così povero che non avevo quasi da mangiare, vivevo in una baracca accanto a un postaccio dove venivano a ubriacarsi i libici che portavano i migranti, furbi loro, li vedevo dalla mia stamberga, questa gentaglia, cattivi feroci bevevano birra a litri con le loro puttane, poi venivano a pisciare contro la mia casa, anche le donne tiravano su le sottane e pisciavano. Un puzzo che non potevo respirare, ma non potevo dire niente, quelli tagliano la gola. Un giorno ho detto: basta! voglio diventare come loro, ricco, bere birra». 

L’odore dei soldi 
«Ho affittato a credito un vecchio pick-up e ho cominciato. Dopo un po’ ho buttato giù la catapecchia e ho costruito una casa, una casa vera con un bel muro alto. Il 2011: quello è stato un grande anno, c’era la guerra in Libia migranti a migliaia, il confine aperto. Avevo quattro pick-up e un socio libico. Il lavoro non era mica facile. Tremila chilometri nel deserto in tre giorni, senza quasi fermarsi perché altrimenti l’acqua finisce e crepi anche tu. Certo sopravvivere nel deserto è come dominare il proprio destino, ma se muori? Una volta nel 2014 ho sbagliato pista, succede anche se hai il Gps e sono finito in Ciad con 27 migranti. Una pattuglia ciadiana ci ha preso tutto, soldi viveri, telefoni, ci ha riportato al di qua della frontiera con i mitra nella schiena ghignando. Non avevamo denaro, niente, ci hanno salvato dopo due giorni amici arrivati da Agadez. Sai i migranti, li osservo, li ascolto, sono ciò che mi fa vivere, li devo conoscere per non avere sorprese, hanno tutti lo stesso sguardo ho capito che quello che li muove è la paura, pensare fa loro paura, parlare gli fa paura, le parole gli fanno paura, la leggi sui loro volti. È per questo che non si ribellano, non ho mai sentito di migranti che hanno assalito il passeur, in fondo non è difficile, sono più numerosi nel deserto, ma hanno paura. 

«Una volta uno grosso si è ribellato, c’erano anche le donne e bambini sul pick-up, lui si dava arie, non avevano da bere voleva da bere. Il passeur che era con me ha cominciato a colpirlo con una sbarra di ferro: le arcate spaccate, non poteva più aprire gli occhi, sgocciolava sangue da tutta la faccia e quello colpiva, l’ha lasciato per terra, la testa fracassata e la sua donna lo baciava tutto, il sangue, la faccia spaccata le tempie, gli leccava il sangue, così teneramente ed era morto. Dovevano arrivare dall’Europa molti soldi qui ad Agadez dall’Europa, dicono 150 milioni di franchi Cfa, per creare altro lavoro per noi al posto dei migranti, progetti, cose grosse, sviluppo dicono i politicanti. Beh! il solito bordello, la solita porcheria che c’è in Niger. I soldi li hanno già rubati altri, qui arrivano le briciole e non bastano per vivere. Al posto dei migranti non c’è niente. Allora ti dico: aspetto ancora un po’, affitto un pick-up e riparto».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/07/esteri/ad-agadez-con-un-trafficante-di-migranti-vendevo-uomini-e-destini-per-fare-soldi-Q8sAgTLKkzNJl1j9M1y9gM/pagina.html
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« Risposta #56 inserito:: Ottobre 12, 2017, 05:55:07 pm »

Sulle tracce dei jihadisti del deserto: “L’America non ci sconfiggerà mai”
Quattro soldati Usa uccisi in un assalto in Niger. Un miliziano: inutili i vostri droni

REUTERS

L’ultima evoluzione della Jihad saheliana è la guerra santa che contagia i pastori peul.
Sono reclute perfette che si muovono con le loro mandrie spinte dalla miseria
Pubblicato il 10/10/2017

DOMENICO QUIRICO
AGADEZ (NIGER)

Il viaggio è stato breve, ma avventuroso. Eppure siamo alla periferia di Agadez. Il pomeriggio si trascina greve in una quiete immensa sotto il peso schiacciante del sole. Case di fango cotto già in rovina, i muri cadono ogni giorno sotto i colpi del vento. Inesorabilmente Agadez torna alla terra, muore in un enorme tappeto di terra bruna che scompare in un orizzonte sbavato di sabbia e di polvere: l’Hair.

Sono venuto a cercare qui la cosa più pericolosa nel Sahel di oggi: informazioni. Quattro Berretti verdi americani sono stati da poco uccisi in un’imboscata jihadista al confine con il Mali. Un piccolo episodio, in fondo, della nuova, semiclandestina guerra africana del Pentagono avviata da Obama: eppure è come se quella sanguinosa e rapida mischia nel deserto emettesse un segnale, per rivelarci che l’islamismo del Sahel, che minimizziamo a poche unità assediate in invivibili montagne, in realtà è ferocemente vivo e vitale. E prepara sanguinose sorprese e nuovi fronti. 
 
LA GUERRA SILENZIOSA 
Gli americani sono qui, nella grande base costruita accanto all’aeroporto, 800 uomini con aerei, droni, veicoli per il deserto. Pattugliano dal cielo e da terra, il braccio più forte del Comando Africa. Sono ovunque, solo in città non li vedi mai. Una guerra silenziosa, strana, senza eroi, senza bollettini. Forse perché in anni di attività il bilancio è fallimentare: nonostante i mezzi dispiegati, le tecnologie, i corpi speciali, gli alleati africani, la jihad del deserto non è stata sconfitta. 
 
L’uomo che mi ha portato qui tra mille precauzioni non ha dubbi: «I toubus sanno tutto, non succede nulla nel deserto tra qui il Mali, l’Algeria e la Libia che non passi sotto il loro controllo: sigarette, droga, armi, medicine false, migranti. Non si mescolano ad al Qaeda e all’Isis, ma controllano la maggior parte del contrabbando nell’Est del Sahara, attività in cui anche gli islamisti sono molti implicati. Se vuoi andare nel deserto conoscono tutte le piste e se non sono aperte passano per le dune. Abdellah è un uomo che sa, un capo, ma è difficile da trovare perché è sempre in movimento nel deserto».
 
Aspettiamo sotto il sole. Piccoli esseri simili a lucertole dalle dita a cuscinetto e dagli occhi sporgenti che chiamano gechi, corrono sulle pareti e fanno balzi a caccia di insetti. Nel silenzio si sente il loro chioccio gutturale. Nella via di fronte tre vecchi, eleganti come re, stanno accoccolati in silenzio su basse sdraio di legno con le mani penzoloni tra i ginocchi, gli occhi fissi su qualcosa davanti a loro: occhi grandi e infossati, la cornea chiara, le pupille aguzze e piccole, come se tutta la vita che resta loro fosse concentrata lì. Aspettavo il toubus che sa tutto di al Qaeda e pensavo tra me e me: questo è il Sahel, questo nome è pieno di milioni di uomini, di rassegnata disperazione, di vite legate e affollate, soffocanti come l’immobile calura senza aria che prende alla gola. 
 
IL PREDICATORE 
Un vecchio fuoristrada è fermo all’angolo, dentro tre uomini immobili nei loro turbanti: dal motore l’olio sgocciola nero e denso sulla sabbia chiara come sangue da una ferita. Abdellah ha una cicatrice in volto e una luce tagliente negli occhi. Il suo modo di parlare è provocante ed esplosivo, mezzo irritabile e mezzo affettuoso. «Vuoi sapere se la jihad nel Sahelistan è ancora forte?». Estrae il cellulare, preme dei tasti. Nella stanza irrompe una voce che urla in una lingua sconosciuta, c’è rabbia odio in quella voce, e una forza selvaggia che è al di là della comprensione delle parole. «Questa è una predica di Hamadoun Koufa, il nome non ti dice niente. I militari francesi e americani erano certi che fosse morto. Invece. È un uomo di Dio, un predicatore e un capo della Jihad, di un nuovo Jihad. La lingua in cui parla è peul, lui è un peul. I suoi appelli alla guerra santa sono registrati sui cellulari di mezza africa. Perché i peul sono nomadi, 30 milioni che vivono in tutti i Paesi del Sahel e giù fino alla Costa d’Avorio, alla Nigeria, alla Guinea Bissau. Sono un popolo antico e guerriero come tutti i nomadi, un secolo fa fondarono un grande impero che si chiamava l’impero del Macina. Sai come ha battezzato il suo esercito di guerriglieri Koufa il predicatore? La katiba Macina. Ha fatto diventare il centro del Mali una regione fuori controllo, ora esporta la Jihad anche in Burkina Faso che finora era un Paese tranquillo».
 
LA RABBIA E LA SICCITÀ 
Abdellah mi racconta l’ultima metastasi della Jihad saheliana, la guerra santa che contagia i pastori peul. Reclute perfette che si muovono con le loro mandrie attraverso le frontiere dal Centrafrica al Sahel. Le ragioni della loro rabbia sono le stesse che hanno reso i tuareg dei salafiti: la miseria. Braccati dalla siccità che uccide il bestiame, dall’espandersi delle terre agricole che soffocano la transumanza, bevono i proclami alla rivolta di Koufa che si scaglia contro i privilegi delle famiglie dei marabutti e i peul detti di città, ricchi che derubano i confratelli.
Un rumore di fuoristrada si avvicina alla casa. L’uomo tace fino a quando non è ben certo che si allontani. «Voi commettete tutti lo stesso errore: collegate questi uomini solo ad al Qaeda, all’integralismo. In realtà questa gente si preoccupa di una sola cosa: i traffici nel deserto! Usano degli slogan per reclutare uomini, il nazionalismo tuareg o l’islam e il salafismo, ma alla fine tutti lavorano per il denaro. Per questo non li sconfiggerete: sono l’economia del Sahel! Una buona idea era arruolare la gente del deserto come soldati al vostro servizio. Sembrava funzionasse. Attirati dal denaro si sono moltiplicati i gruppi di autodifesa, le bande dei patrioti tutti pronti a morire contro gli jihadisti! I soldi sono finiti e le armi sono servite per regolare i conti tra le tribù».
 
LA GUERRA CHE NON SI VINCE 
Forse anche per gli americani, come per i francesi questa è una guerra che non si può vincere. Perché è una guerra contro lo spazio infinito dove i droni e gli uomini anche ben addestrati diventano nulla. Le montagne dell’Adrar des Ifoghas o dell’Hair; o il deserto vicino al confine tra Niger e Mali, a Tillabery, dove sono caduti gli americani: conosco quei luoghi, superfici morte, insensibili e morte più di un pianeta disabitato. Si marcia su una crosta dura, nemica, che non assorbe neppure i sassi che il sole fa schiantare e frantuma come se internamente esplodessero. Qui esistono luoghi come quello che i contrabbandieri chiamano Bouahaira, il lago, un centinaio di chilometri a Nord Ovest di Arlit. Non c’è in realtà una sola goccia d’acqua in questo deserto feroce, solo un’immensa distesa di sabbia accerchiata da montagne. La sua forma e il colore sotto la luce della Luna danno talora l’effetto di una distesa di acqua. Qui si riuniscono, indisturbate, le carovane dei contrabbandieri prima di iniziare la traversata del Sahara. E i convogli di Mokhtar Belmokthar, il Guercio, il capo dell’Aqmi. Qui scopri che la terra può non essere paesaggio e mostrarsi in una fase anteriore alla vita, in quanto la sua materia, sassi e sabbia, non conta come materia e supporto della vita. Qui solo gli uomini del deserto possono vivere e sconfiggere la Jihad: ma noi, con i nostri errori, li abbiamo spinti alla guerra santa. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/10/esteri/sulle-tracce-dei-jihadisti-del-deserto-lamerica-non-ci-sconfigger-mai-nY4gJgKbU7Rmf7soBDCEXJ/pagina.html
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 21, 2017, 11:55:28 am »

Aleppo, dove Dio è stato smascherato
Una città stregata, inaridita, dove la morte ha risparmiato solo le pietre.

Dal nuovo libro di Domenico Quirico
Pubblicato il 20/10/2017

Domenico Quirico

Si intitola Succede ad Aleppo ed è pubblicato da Laterza (pp. 131, € 15) il nuovo libro di Domenico Quirico, l’inviato della Stampa che ha raccontato le tragedie dell’Africa e del mondo arabo negli ultimi vent’anni. Ne anticipiamo l’epilogo. 
***

Agosto 2016: l’ultimo sussulto di Aleppo rivoluzionaria, per un attimo i ribelli spezzano l’assedio governativo ai quartieri orientali, collegano con una offensiva disperata Soukkari con Ramoussa: «È uno degli avvenimenti più importanti della rivoluzione da cinque anni e mezzo», proclama, troppo ottimista, il capo dell’opposizione politica in esilio. Poi leggi i nomi delle brigate che hanno condotto l’offensiva, sono di Fatah al-Sham, islamisti, il nuovo nome con cui al-Qaeda siriana si è mimetizzata per sfuggire ai sospetti occidentali. O di Ahrar al-Sham, brigate salafite pagate e armate dall’Arabia Saudita, il cui scopo è la sharia, il califfato. Diecimila uomini, la cui forza non è tanto nel numero ma nei metodi feroci di combattimento, con le autobombe e i kamikaze che sostituiscono l’artiglieria.

Un mese dopo: con l’aiuto degli aerei e degli specialisti russi e iraniani inizia l’attacco finale di Bashar per riprendersi la «sua» città. Nei quartieri orientali mancano i viveri, le medicine, a dicembre il territorio controllato dai ribelli si riduce a pochi chilometri quadrati che l’artiglieria serchia spietatamente, metro per metro. Il 22 dicembre, in cambio della fine dell’assedio di Foua e Kefraya, due città governative assediate a loro volta dai ribelli, i combattenti lasciano Aleppo con le loro famiglie per raggiungere la zona di Idlib, ancora sotto il controllo degli islamisti.

LA MIA STORIA SIRIANA FINITA 
Non sono più tornato ad Aleppo «liberata». Il mio sguardo non vi afferrerebbe più nulla. Città stregata, inaridita. Vi è passato un raggio della morte che ha risparmiato solo le pietre. La mia storia siriana è finita con lei, con la sua epopea.

Non è una scelta politica, è una vicenda personale. Mai più vi conoscerò l’intensità e il calore delle avventure che hanno segnato questa fase della mia vita. Dopo Aleppo non ho più paura di niente. La paura semplicemente non mi interessa più.

Com’è oggi Aleppo, dopo la conclusione della battaglia? È una città come tante altre città siriane, ma non come le altre. Rassegnata, gli spari sono un rumore lontano; ora si combatte a Idlib e nei villaggi dei dintorni. La si crederebbe pietrificata nel proprio oblio. Cerca di dimenticare il suo passato, ma ne subisce l’implacabile influenza. Condannata a vivere fuori dal tempo della Storia nuova, non respira che nella memoria di coloro che vi sono morti o l’hanno lasciata.

Questa città che è stata mia, intimamente, da un anno almeno non lo è più. La sua riconquista non mi appartiene perché non me l’hanno lasciata vivere. Eppure ne avevo, in fondo, il diritto. L’ho letta, la pagina finale, nel racconto di altri e mi è parsa mediocre cronaca: quando meritava comunque l’epopea. Nessuno con il mestiere può inventarsi o fingere la commozione. Per fortuna. La condanna alla mediocrità è quello che ci salva. Forse mento, è soltanto invidia perché non mi hanno più chiesto di andare.

Secondo quanto mi racconta chi ci vive, che è l’unico testimone attendibile, non è cambiata. Quasi per nulla. Ha ritrovato le sue rovine basse, grigie. Paiono già vecchie di cento anni. I suoi pochi quartieri a ovest rimasti quasi intatti. Il mormorio soffocato dei piccoli mercati. Il risuonare dei passi sui selciato. Perfino i rumori del traffico. La moschea distrutta è sempre lì, sembra attendere qualcuno che non verrà più.

SENZA DESTINO 
Aleppo non ha più diritto al suo nome, al suo volto. È una città senza destino. Perché Aleppo è il luogo dove tutto è cominciato, dove il terzo millennio appena nato ha perso subito la sua innocenza e Dio è stato smascherato. In questo 2016 bisogna constatare che la forza bruta, malgrado il progresso e la mondializzazione, malgrado tutti i discorsi sul diritto internazionale e la nuova diplomazia, e i tanti trattati per contenere le guerre, può esercitarsi e prevalere senza ostacolo come ai tempi di Attila e di Hitler.

Tornarci ora, ne sono consapevole, sarebbe stato un altro viaggio senza gioia e senza angoscia. Avrebbe di nuovo diviso la mia vita in un dopo e in un prima. Eppure non lo nego, la città ancora mi affascina, mi attrae. E mi spaventa. Voglio nello stesso tempo e con la stessa intensità toccarla e sfuggirle. In fondo le nuvole delle esplosioni, le urla disperate nella notte, i bambini straziati e condotti al macello potrebbero anche sfumare e potrei ritrovare la città che ho solo letto e mai conosciuto, con la sua cittadella intatta, il suk prezioso e infervorato, i caffè che profumano di legno e di cose buone, gli intellettuali raffinati e gli abitanti gentili... Basta. Non ho più voglia di affrontarli. Anche perché probabilmente questa volta non ci sarebbe più un prima.

LA CERTEZZA DEL MALE 
Non so in fondo che cosa mi avrebbe atteso laggiù, la desolazione che ben conoscevo della rovina o la necessaria bestemmia di una città rimessa in piedi in qualche modo. Il modo approssimativo con cui ricostruiscono i poveri. Quello di cui sono certo è che avrei camminato per le strade finalmente senza cecchini bombe e fumo, solo e senza una meta, soprattutto senza incontrare qualcuno da riconoscere, uno sguardo amico. E sarei impazzito di solitudine.

Non si rimuovono le tombe senza pagare un prezzo. Il prezzo è sempre la certezza del Male. Sì, non so se è stata una decisione giusta, non tornare. Quelli che avrebbero potuto consigliarmi a prendere una giusta decisione non li ho più ritrovati. Sono morti. O non sono più ritornati.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/20/cultura/aleppo-dove-dio-stato-smascherato-u3dhWbJlPGBq6XTIWmfBJO/pagina.html
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 01, 2018, 12:04:09 pm »

I mille volti del Paese negli scatti di Shah, testimone della Storia

A guardare la finale del torneo di pallavolo femminile nell'università di Kabul, 1 dicembre 2016

Pubblicato il 01/05/2018 - Ultima modifica il 01/05/2018 alle ore 08:19

DOMENICO QUIRICO

La fotografia è ricordo. E il vero ricordo non è diaristico, non è pettegolezzo della memoria. E’ piuttosto un mistero per cui un luogo, un avvenimento storico, una persona, un dolore perdurano in quell’immagine in noi incorrotti come verità oggettive. Non li ricordiamo, essi sono. Il Vietnam sarà, per sempre, la bambina di My Lai che corre verso di noi, sì noi, portando nel corpo nudo e vilipeso lo scandalo americano del napalm. Abbiamo, grazie a quell’infinito istante, il suo sguardo.

Il nostro animo è un asilo di persone e di cose che vivono indipendenti, con la loro realtà ineffabile, e che perciò, come gli esseri veri, restano misteriose. Grazie alla fotografia ne siamo responsabili e il ricordo è un dovere. Per questo l’Afghanistan, la sua tragedia infinita in cui hanno scaramucciato mille eserciti e mille bande fanatiche, la sua storia resterà tra venti, tra cento anni negli scatti di Shah Marai, reporter della «France presse» morto ieri negli attentati di Kabul: è lì palpabile, vivo, nei suoi Buddha ciclopici e straziati di Bamiyan, i suoi taleban sul carro armato, le sue donne fasciate di chador e di luce azzurra, azzurra come il fondo del mare, ma stretta come un cilicio. Soltanto fotografie, eppure meravigliosamente sonore. 

Scattate da un uomo che sembra parlarci di un avvenimento doloroso della sua famiglia, non per cercare la nostra pietà, ma per espandere la sua. Un giorno gli storici tesseranno su quegli anni le fibre complicate di un racconto esprimibile e chiaro. Ma senza quelle immagini nulla capiremo. Basterà evocarle, anche solo una, e tutto ci sarà chiaro come sofferenza sangue dolore Storia. Shah Marai: un testimone. Che vive sul filo del rasoio nell’abnegazione di ogni istante; e noi, grazie a lui, in quel luogo del mondo, esplodiamo nel Tempo che si frantuma in mille volti, in mille frammenti di esistenza. 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/01/esteri/i-mille-volti-del-paese-negli-scatti-di-shah-testimone-della-storia-CTjE9SwYDCscFwYkg6XjEL/pagina.html
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