LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Dicembre 29, 2007, 12:02:32 pm



Titolo: DOMENICO QUIRICO -
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2007, 12:02:32 pm
29/12/2007 (8:9) - 2007, L'ANNO DI...

Addio all'anno di nuovi populisti
 
Autoritari o liberali, uniti dal culto di sé e dal decisionismo

DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI


La storia per loro è un esercizio permanente di salvazione; sono abituati a sopraffare perennemente i governati con formule nuove, più lucide, più abbaglianti; vogliono e disvogliono, incitano e trattengono, uomini perentori, infallibili, che aspirano a comandare assolutamente ma con il beneplacito di tutti. Strano anno quello politicamente trascorso, dove si è delineato, in gusci diversissimi, un nuovo prototipo di leader che sembra destinato a far fortuna, a contagiare altri Paesi con lussuriosi allettamenti. È stato infatti l’anno di Sarkozy, ovvero il populismo parigino, «people»; di Chavez, che ne è la (aggiornata) versione caudillistica; di Putin che rinnova, proficuamente, il populismo grande russo e neostaliniano; di Zuma, infine, la versione african-tribale. Cercate una parola che li sintetizzi? Eccola: i superpresidenti.

Li ha favoriti e aizzati un grande vuoto da riempire sullo scenario internazionale, quello lasciato da un Bush ormai azzoppato, ripetitivo e soprattutto pensionabile. In attesa di un nuovo presidente, resta ancora quasi un anno: gli uomini forti covano l’idea di occupare questi mesi che verranno per scardinare le regole del Grande Gioco, far spazio sul palcoscenico non solo al coro della superpotenza ma ad altri attori, ovvero loro. Tutti e tre sono convinti che, chiunque vinca a novembre, il dopo Iraq sarà più mosso, ambiguo e ghiottamente tentatore. Viva il populismo allora, che infatti nasce sempre su crisi del modello tradizionale di funzionamento e riproduzione dei rapporti di dominio, politico culturale ed economico. Nel terzo millennio c’è il rischio che non ci sia altra forma di rivoluzione. Si avverte, sotto forme diverse e contraddittorie, a Caracas come a Parigi o a Mosca, una irresistibile urgenza di darsi all’uomo potente o trionfante, a chi assicura il contrario del tirare politicamente a campare.

Sarkozy ha alle spalle una tradizione di provvidenzialismo che è vecchia come la Francia, dalla Pulzella d’Orléans al generale De Gaulle, passando per Napoleone e Pétain. Funziona benissimo, tra l’altro, in una monarchia senza trono in cui il capo dello Stato detiene tutto il potere misurandone però l’uso sul comportamento dei sudditi. Per Sarkozy è stata una buona base di partenza. Si è accorto che la Francia era stufa dei languori dell’epoca chirachiana, intorpidita da indigestioni troppo laboriose, dalla flemma metodica e da effimeri nababbi dell’eccezione francese. Li ha sedotti, da candidato, strepitando che non c’è motivo di prender la vita come esercizio di penitenza. E che sul piano storico Robespierre vale Luigi XVI, tutto è patriotticamente relativo. Il sarkosismo in una formula: il potere è una calamita. Il presidente passerà i mesi che lo dividono dalle amministrative di primavera, che immagina come un plebiscito, a perfezionare l’assorbimento governativo degli avversari, vero capolavoro dei primi sei mesi della sua presidenza.

E poi c’è la personalizzazione dell’esercizio del governo. Sarkozy fruga nei supermercati per far finta di scoprire i sabotatori del potere di acquisto, si mescola ai ferrovieri e ai pescatori mugugnanti per zittirli e convincerli, convoca i sindacalisti direttamente all’Eliseo come un ministro qualsiasi. I francesi devono avere l’impressione che la luce a Palazzo sia perennemente accesa, che si lavori ventiquattr’ore su ventiquattro. L’Eliseo è l’unico vero Ministero che tutto affronta e decide. A questa saturazione bulimica non devono sfuggire, neppure e soprattutto, i settimanali popolari: per loro ci sono gli amori e i disamori, Cécilia e Carla Bruni, il sarkosismo deve essere notizia anche quando è in vacanza.

Il venezuelano Chavez, rispetto a lui, con il suo «socialismo del XXI secolo», è assai meno innovatore. Alla frase celebre di Velasco Ibarra «datemi un balcone e vincerò», ha aggiunto i petrodollari che gli consentono, per ora, di alimentare le promesse con cui seduce le plebi venezuelane e una versione aggiornata, sub specie antimondialista, degli umori antiyankee che trasudano sempre da un continente di vinti. Poteva restare un caudillo periferico, di quelli che fanno urlare ai sostenitori come nelle mobilitazioni del primo peronismo «alpargatas sì, libros no», ciabatte sì libri no; se non avesse deciso di pensare in grande, di proporre una pestifera Internazionale degli scontenti, un Comintern radical petrolifero, perennemente tonitruante e «contro».

Il machismo del russo Putin affonda invece nella constatazione che non si può distruggere il proprio passato né quello che il passato ci fa. Il nuovo «Vozd», il padrone, ha innescato un ben rodato ritmo narrativo autoritario, punteggiato da occasionali soprassalti di enfasi, sulla antica paura russa dell’accerchiamento che parte dai tartari e arriva alla Nato. La piccola profonda umana soddisfazione di essere ancora potenti, di essere meglio di qualunque altro «come ai tempi dell’Urss», è il cuore del putinismo. Eccolo di nuovo che si appropria della fiducia della gente, con la «Gazprom» e le sue petrolifere meraviglie al posto del comunismo; una forma eccitante di archeologia vivente, in cui gli avversari sono di nuovo eliminati non per quello che hanno fatto ma per quello che avrebbero potuto fare. Come ai tempi del Padre dei Popoli. E’ il ritorno della «tuerdost», la durezza, la virtù bolscevica.

Si affaccia il populismo perfino in Africa, dove si tinge di pericolosi tribalismi. Jacob Zuma esige la successione di Mandela elettrizzando le masse dei diseredati, e soprattutto la sua tribù, gli zulu, con la promessa di dar loro quello che non hanno finora avuto, ovvero la terra e le ricchezze. Populismo.

da lastampa.it


Titolo: DOMENICO QUIRICO Un Iraq nero dimenticato da tutti
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2008, 10:54:02 am
11/11/2008
 
Un Iraq nero dimenticato da tutti
 
DOMENICO QUIRICO

 
Bisogna riconoscerlo: l’Occidente ha perso un’altra guerra, in Somalia, e per la seconda volta. D’accordo. Forse questo è soltanto un fronte secondario della jihad universale, forse la isterica Grande Crociata al terrorismo è giunta all’ultimo capitolo con l’amministrazione Bush. E la sconfitta sembrerà una liberazione. Ma è arrivato il momento di decifrare la storia di un Iraq africano da cui gli europei non hanno saputo divincolarsi in tempo, offrendo una alternativa alle strategie fallimentari di Bush. Le conseguenze nel Corno d’Africa resteranno, stanno già infettando tutta la regione. I tribunali islamici ora hanno spazzato via tutti i moderati. Suscitare il fanatismo non è impresa difficoltosa, più difficile è che la ragione senza un lavoro lungo e complesso arrivi a moderarlo. Forse è tardi persino per Obama: difficile rimediare, la guerra santa nazionaltribale ha dimostrato come si conquista un Paese che l’Occidente ha lasciato alla deriva per viltà, avarizia, ignoranza.

Ieri, ad esempio, è stata una giornata «tranquilla». I rapporti militari degli etiopici, a cui Washington ha appaltato la guerra contro i tribunali islamici alleati (dice l’America) di Bin Laden, hanno risolto la cronaca sveltamente, tirando un sospirone. Non c’era niente da raccontare neppure al pettegolo mercato di Mogadiscio. Eppure…. Due suore italiane rapite a Sud ai confini del Kenya. Nel quartiere di Taleh a Mogadiscio si è fatto un po’ di chiasso: i commandos dei fondamentalisti hanno attaccato le truppe governative, che hanno lì il quartier generale, il numero dei morti è incerto, cinque pare, di cui almeno tre civili, sprovveduti o jellati che passavano di lì. Ma niente di cui allarmarsi: è andata bene, le battaglie grosse, le imboscate con l’autobomba sono altra storia.

Il governo e i suoi invadenti alleati non sono più in grado di controllare la situazione. Addis Abeba sembra sul punto di annunciare l’avvio di un ritiro. La trionfale marcia su Mogadiscio sta diventando troppo sanguinosa, troppi funerali di soldati caduti in agguati, la gente in Etiopia comincia chiedersi se valga la pena fare il lavoro sporco per gli americani. Che dalle loro portaerei che bordeggiano nel golfo si limitano a qualche raid aereo «chirurgico» per eliminare i capi dei tribunali islamici. Che sono vivi e vivacissimi, muoiono invece spesso dei civili.

Le similitudini con l’Iraq e con l’Afghanistan sono davvero sconfortanti. La guerra santa e patriottica che gli errori americani hanno alimentato con vandalico impegno ha già provocato duemila morti e centoventimila profughi accampati e aggrappati alla carità internazionale nella regione dello Shebeli. Le solite anime morte delle tragedie africane. Barconi pieni di aspiranti profughi navigano e purtroppo spesso affondano nel Golfo di Aden cercando di raggiungere lo Yemen. Gli insorti, bisogna chiamarli così per il credito che hanno ottenuto tra la popolazione invelenita dalla incapacità del governo e dalla brutalità degli alleati etiopici, hanno copiato con cura e efficacia i manuali dei talebani e dei terroristi iracheni.

Hanno trovato, ad esempio, una buona causa da aggiungere sulle bandiere, la rivolta contro lo straniero per di più cristiano. Anche gli scettici, i renitenti alle ardue gioie della sharia detestano i vicini, hanno nel cuore e nella mente secoli di razzie feroci arrivate da oltre confine. Poi i fondamentalisti hanno dato l’assalto agli aiuti umanitari. E’ una tecnica consolidata: bisogna tagliare la vena che alimenta la quotidiana sopravvivenza di una Paese che da venti anni non produce più niente, portare la gente alla disperazione dimostrando di essere i più forti.

E poi ci sono i sequestri: di navi e di uomini. Rendono denaro con cui riempire i forzieri. E servono per la propaganda: da mesi gli occidentali strepitano che organizzeranno flotte per bloccare i pirati. Non è successo nulla.
 
da lastampa.it


Titolo: DOMENICO QUIRICO. -
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2010, 04:05:21 pm
25/8/2010

L'Africa di Bin Laden
   
DOMENICO QUIRICO

Bush aveva ragione. Quando accusava gli islamisti somali di uscire dalla officina dell’Internazionale del fanatismo, impegnata ad aprire un nuovo fronte nel Corno d’Africa.

Gli «shebab» che ieri hanno fatto strage di deputati a Mogadiscio sono diventati dei veri talebani. Nel frattempo il fronte su cui si combatte è lungo già migliaia di chilometri, va dal Mar Rosso all’Atlantico, corre lungo quella faglia traballante di miseria e disperazione che separa l’Africa del deserto da quella delle savane. La Somalia, il suo eterno orrore che dura da 30 anni, sfilando giorno dopo giorno sotto la nostra distratta rassegnazione, è diventato il capitolo di una guerra più grande. Che può riservare all’Occidente, timoroso di nuovi «crociate» scomode e impopolari, terribili sorprese. L’Africa viene islamizzata a forza, con il forcipe del terrore e del fanatismo? Non esistono, è vero, legami operativi tra le varie sigle di questa armata. Ma il risultato finale si compone come un ben dosato mosaico. L’Occidente, taccagno, pensava di poter avvolgere Mogadiscio, quel caos indecifrabile e sanguinario, nella bambagia di una dimenticanza protettiva. Le uova del serpente si sono scoperchiate, moltiplicandosi.

Al Qaeda-Maghreb, commistione di emiri fanatici e capi-briganti, tiene in pugno il nord del Mali, vaste zone del Niger e della Mauritania; fa affari con i narcos di Medellin lungo la nuova via della droga, sequestra occidentali, incassa ricatti miliardari, si fa mercante di uomini, i clandestini che sognano l’Europa. Chiama le sue squadre «katiba», legandosi al mito terzomondista della guerra di liberazione algerina. Nel nord della Nigeria, immersa nel petrolio, i «Boko haram» erodono uno Stato scardinato da odi etnici ed economici abissali. Il deserto assomiglia sempre più alle distese dell’Asia centrale, all’area pachistano-afgana: un mare attraversato da tensioni profonde dove si può costruire una minaccia globale. Gli shebab, coalizione di fanatismo e clanismo, hanno smantellato a cannonate la Somalia, setacciano facendosi pirati i mari del petrolio e degli stretti strategici. Li separa dal potere solo una scalcinata armata di africani, senza mezzi, mal pagati, ma che si fanno ammazzare senza rimpianti e senza cerimonie televisive. Al posto dei caschi blu che l’Occidente non ha mai concesso. Gli shebab hanno colpito in Uganda a luglio, settanta morti. Terrorizzano già l’Africa Australe, tiepida di genocidi e di tribalismi satanici.

Bush sbagliò affidandosi a una risposta solo militare, la guerra per procura, appaltata a regimi che erano la causa del male. Ora la nuova America di Obama, affascinata dal ripiegamento, convinta che solo l’Afghanistan valga lo scandalo di morire, rischia di regalare l’Africa a Ben Laden. Dimenticando che nessuna guerra è giusta ma ogni tanto qualcuna è necessaria.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7745&ID_sezione=&sezione=


Titolo: DOMENICO QUIRICO L'ultima recita del tiranno
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2011, 10:02:47 am
23/8/2011

L'ultima recita del tiranno

DOMENICO QUIRICO

Le agonie dei dittatori non sono tutte eguali. Ci sono quelli che fuggono, un attimo prima del disastro, con le saccocce piene, i conti già gonfi nei Paesi dove si sono creati nidi sicuri per la pensione, per il dopo. I fedelissimi, quelli che ci credevano davvero, nella lungimiranza del comandante, della guida, del presidente, del raiss, restano indietro, ingoiati dalla vendetta degli altri, i vincitori, i rivoluzionari? Non importa: si salvi chi può, questa è la regola, possibile che quegli ingenui non avessero compreso niente? Sono i piccoli satrapi voraci, come il tunisino Ben Ali, che ha ruminato, senescente, le parole d’ordine delle magnifiche e progressive sorti del suo mirabolante «miracolo economico» zeppo di miseria; e intanto comprava la villa mastodontica in Arabia Saudita, dove nessuno verrà a disturbarlo in saecula saeculorum.

E poi ci sono quelli che non si rassegnano, che hanno creduto alle parole che gridavano dai balconi e dalle logge, che giorno dopo giorno, per anni, si sono convinti parola dopo parola, slogan dopo slogan, di essere la salvezza del loro Paese, che senza di loro il futuro sono baratri spaventosi. È un destino, insomma, e contro il destino non si lotta. Anzi, bisogna battersi fino alla fine, accettare perfino di essere uccisi per conficcarsi degnamente, come un rimorso o un’accusa, nella storia del loro Paese. Eternamente i tiranni dovranno scegliere tra questi due modelli: Mussolini che fugge indegnamente camuffato o Hitler che apparecchia il suo privatissimo Walhalla nella Cancelleria; perché è certo che la Germania è destinata a perire con lui e merita una fine da quinto atto wagneriano a Bayreuth.

Per capire che Gheddafi era da incasellare nella seconda categoria bastava leggere la sua biografia. Dietro i contorcimenti clowneschi, dietro il palcoscenico di tabarri scintillanti, re africani, amazzoni e meditazioni nel deserto, le torrenziali diarree verbali, l’uomo, fin da quando scombinò con un golpe i grigi destini della monarchia senussa, ha sempre profondamente creduto alla serietà del proprio destino. Privato e pubblico. La terza via universale, gli aforismi del Libro verde non erano furfanterie di contorno: erano la sua sostanza politica e umana. Il suo potere si corrompeva nell’autocrazia e nel nepotismo, e lui continuava a esser certo di essere il destino della Libia. Ancora ieri, quando urlava ormai seppellito di macerie, con il potere ridotto ai metri quadri del suo posto di comando nel centro di Tripoli, che il colonialismo stava per impadronirsi della sua creatura politica, non mentiva.

Una follia, certo, ma lucida, degna di Macbeth. Il bunker, la tomba dei dittatori, il potere ridotto, un disperante caos di marciume, devastazione e sfinimento, era scritto come inevitabile nel suo conseguente destino. In questa conclusione si perde la vergogna di aver perduto. La scombinata commedia di un Ben Ali che sull’aereo della fuga scoppia a piangere e deve essere consolato dall’equipaggio non si addice alla Guida suprema. Alla sua fosca grandezza. L’ultima recita non sarà quella di un guitto ma quella di un attore tragico. Gheddafi ha, in questi cinque mesi, metodicamente fatto naufragare tutte le offerte per garantirgli una uscita di scena senza danni. Gli occidentali, ansiosi di far dimenticare i rapporti che hanno avuto con lui, per anni, e la rapida, troppo rapida, conversione alla guerra; i suoi alleati africani che ha pagato per anni per sentirsi chiamare Presidente, il suo ultimo delirio, in fondo non aspettavano altro: vederlo partire verso una delle ultime dittature disposte ad accoglierlo, o verso il Sudafrica dell’ospitalissimo Zuma, che fino all’ultimo lo ha tentato invano con la prospettiva di un esilio dignitoso. Ha sempre rifiutato.

Non credeva certo alla riconquista della Cirenaica. Gheddafi, dopo l’11 settembre 2001, ha dimostrato di essere ancora un realista capace di leggere (al contrario di Saddam Hussein) gli umori delle potenze e la porta stretta che gli restava per sopravvivere. Forse dovremo leggere tutti i suoi atti politici degli ultimi tre-quattro mesi come una volontaria marcia verso quel bunker nel centro di Tripoli. Gheddafi ricco esule in Venezuela o in Algeria, braccato dalle rivelazioni, dai mandati di cattura internazionali, denudato di 42 anni di potere assoluto con le sue vergogne e i suoi compromessi, non poteva ipotecare il futuro. Ucciso tra le rovine, con il mitra in mano diventa una sorta di terribile statua del Commendatore, ipoteca il futuro della nuova Libia, semina germi avvelenati, ruba agli avversari il piacere della vittoria.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9118


Titolo: DOMENICO QUIRICO. Rivolte, atto secondo
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 12:09:32 pm
11/10/2011

Rivolte, atto secondo

DOMENICO QUIRICO

Astuti, sottili, pazienti, santamente bugiardi, capaci di alternare il sorriso e la minaccia, con in mano le pietre (in attesa di impugnare altri apparecchi di ben più mortifero Jihad) e intanto spergiuranti di essere moderati e tolleranti con gli altri, i laici i democratici i comunisti, insomma gli empi. Eccoli: gli islamici, si preparano a incassare il conto, ovvero il Potere, a dipingere di verde le bandiere della Primavera araba che erano così disordinatamente cromatiche e arcobaleno. Gli occidentali, tardi, stupidi, ansiosi di farsi ingannare, si attardano ancora ad applaudire «i ragazzi di Internet» che sull’altra sponda del mare avrebbero, secondo un ben oliato luogo comune che ci accontenta e ci tranquillizza, cambiato il mondo arabo e cacciato i dittatori. E intanto loro, il partito di Dio, sono già pronti a mettere un ordine nel caos, questo sì definitivo e irrevocabile, a riportare l’igma, il consenso alla sua radice unica, cioè l’islam. Silenziosamente modificano i cromosomi della società, del costume quotidiano. La avvelenano. Ieri una giovane spadista tunisina, la Tunisia «laica e rivoluzionaria», dove a Djerba vive, ahimè, ormai blindata, una tenace e antica comunità ebraica, ai mondiali di scherma di Catania non ha voluto combattere contro una israeliana. Non è un episodio minore: è un segno di quanto il loro lavoro di erosione sia già profondo e redditizio.

Cominciano dalla Tunisia: naturalmente. Perché qui tutto è iniziato e perché il 23 ottobre le elezioni offriranno loro l’occasione più ghiotta di conquistare il potere dall’interno, secondo il manuale di tutti i moderni aspiranti autocrati, atei o religiosi che siano. Niente golpe, insurrezioni, semmai la via piana, «democratica», allo stato totalitario. Come in Algeria, eterno modello, che solo un golpe dei militari bloccò. A Tunisi già se ne parla, neppure a mezza voce, come ultimo rimedio se…

La strategia degli islamici tunisini: da manuale, superbamente duplice. Prima mossa è stata dividersi, apparentemente. C’è un partito legale, «democratico», antico, Ennadha, con stigmate di opposizione alla dittatura guadagnate nelle galere, sui patiboli, nell’esilio consumato per anni in 50 Stati. Promette democrazia ad ogni comizio e in ogni documento laicità, libertà ed economia di mercato. E poi c’è l’ala dura, «i talebani» come li chiama la gente intimorita, quelli dei bastoni, dei cortei che esigono la sharia subito e lo Stato islamico domani. Teste calde, isolati? Hanno lavorato molto e bene, questi integralisti del randello, sfruttando a dovere questi mesi di caos, con un governo asfittico, di transizione, senza alcuna investitura, guidato da notabili che nel periodo della dittatura sono sopravvissuti benissimo, sdraiati in profittevoli poltrone; con l’economia disfatta e la miseria e l’insicurezza che crescono a vista d’occhio.

Domenica si sono radunati nel campus dell’università di Tunisi, diverse centinaia, armati di coltelli e bastoni inveivano contro il rifiuto delle autorità accademiche di iscrivere una studentessa che indossava il niqab, il velo integrale; e contro la programmazione in televisione di un film, «Persepolis», che giudicano blasfemo. Si sono scontrati con la polizia al grido di «moriremo per Allah» (inquietante programma operativo). Sono spunti perfetti del lento lavoro di erosione che svolgono nella società: mutare i costumi, giorno per giorno, con la persuasione e le minacce, seppellire la laicità. E un giorno la Tunisia si scoprirà inerme, diversa dalla sua storia recente, rassegnata alle corde islamiche.

Sono giovani, usciti dalle banlieues zeppe di miseria e di rabbia, da cui sono uscite le plebi giovanili, i «teppisti», che hanno fatto cadere Ben Ali. E che ora, delusi dalla transizione democratica che ha regalato loro solo retorica e chiacchiere, potrebbero diventare le fanteria della seconda rivoluzione, islamica questa volta. La doppia campagna elettorale, come si vede, procede con regolarità. Cortei, intimidazioni nei confronti dei laici, dei liberali, delle donne che non rispettano i «buoni costumi»; e discorsi rassicuranti del leader del partito, Rashed Ghannouci, politico di antico corso, che fanno balenare il modello turco, la scopiazzatura di Erdogan, Islam e democrazia coniugati nel nome della buona volontà e dello sviluppo. «Ennadha», nel caos di 150 partitini sorti dal vuoto della dittatura, guida tutti i sondaggi per il 23 ottobre. Prepariamoci: nel Maghreb il secondo capitolo sta per essere scritto. Non ci piacerà.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9304


Titolo: DOMENICO QUIRICO. Il fruttivendolo che ha cambiato il mondo
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:31:47 am
17/12/2011

Il fruttivendolo che ha cambiato il mondo

DOMENICO QUIRICO

Ci sono eroi più grandi, più puri delle rivoluzioni che hanno inventato, creato, fatto esplodere. Uomini di impeto e di sacrifico; perché ogni rivoluzione è l’opera di un principio e solo chi segue con imperterrita fede quel principio può compierla felicemente. Poi viene il tempo degli altri, i regolarizzatori, i garbuglioni del realismo e della necessità, infidi, tentennanti, armistizianti, capitolanti, che si sono affilati i denti per distruggerla. Mohamed Bouazizi, tunisino, fruttivendolo e rivoluzionario senza ideologie un anno fa si è dato fuoco a Sidi Bouazid, città garrotata dalla miseria e dalla paura dei potenti.

Da quel tragico giorno l’aria del mondo arabo trasporta le molecole del suo gesto, leggera come il polline e dura come il piombo; e quei semi sono caduti nei solchi e nei cuori, danno alle cose aria di primavera o di battaglia, producono fiori o proiettili. Senza quel sacrificio, nella piazza principale davanti agli occhi imbambolati dei perditempo dei caffè, oggi il Nord Africa sarebbe quieto alle riverenze del comando assoluto, obbediente a Ben Ali, Gheddafi, Mubarak, sauri giganteschi, superstiti di un feudalesimo colossale in terre preistoriche. Anche il siriano Assad sarebbe uno statista ragionevole e non assediato, come Macbeth, dal conto strabocchevole dei propri delitti.

E invece quel giorno di un anno fa Mohamed fece conoscere al mondo arabo l’evidenza del vero principio rivoluzionario, che una prima ingiustizia è fonte di ingiustizie infinite. Mohamed il tunisino non ha inventato ideologie e non ha coniato gli slogan sobillatori dell’Islam politico, non ha imbracciato mitra e corano, non ha mai schiacciato un tasto per navigare su Internet, non ha fatto proseliti sulla Rete o su Facebook. Dignità: e questa la sua parola. La prima rivoluzione del terzo millennio è stata creata da un gesto antico che sa del sacrificio di Abramo. Solo così poteva dimostrare a plebi inerti sotto decennali dittature che il coraggio è attaccaticcio come la paura. E senza di lui noi, in Europa, dall’altra parte del mare, non avremmo scoperto che ogni uomo che arrivava a Lampedusa non era solo un clandestino, era un romanzo con capitoli solitudini pianti risa speranze, con in tasca una storia che sbalordiva come una rivoluzione vittoriosa.

Lo ricorderanno oggi in Tunisia, Mohamed, nella capitale e nella sua città. Ma con pudica sommessità. Non saranno celebrazioni fastose, rievocazioni da padre della patria. Eppure senza di lui Moncef Marzouki oggi non sarebbe presidente nel Palazzo di Cartagine ma un esule parigino alla ricerca difficile di intervistatori interessati a sentirlo contumeliare il padrone del suo Paese. E gli islamici che hanno vinto le elezioni, le prime libere senza brogli e che hanno in mano tutte le leve del Potere, sarebbero nelle galere o dispersi ai quattro capi del mondo a spazzolar via la patente di fiancheggiatori di Al Qaeda. Perfino a Sidi Bouazid i suoi coetanei, i primi scesi in strada con le pietre e con la rabbia del suo sacrifico hanno votato per un telepopulista che faceva opposizione, pantofolaia, da Londra e che ha promesso di donare denaro a tutti.

No, i giorni che sono venuti dopo quelle settimane di furia e di vittoria, migranti finora da una miseria cupa ad un’altra, non assomigliano a Mohamed. Lo prova il fatto che nessun partito ha osato proclamarsi erede o sacerdote del suo culto. Anzi, hanno perfino cercato di insudiciare e avvilire quel gesto, sproloquiando che non è stata una scelta volontaria ma un incidente e che la sua famiglia ha speculato sulla sua morte procurandosi denaro e vantaggi.
Eppure dal quel giorno di un anno fa i popoli arabi hanno raccolto due tesori, uno di odio verso tutti coloro, in barracano o in doppio petto, vogliono riprendersi quella loro dignità, e uno di fiducia, che una rivoluzione se sarà necessario si può ripetere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9556


Titolo: DOMENICO QUIRICO. L'avanzata dell'Islam nero
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2012, 10:11:15 pm
30/4/2012

L'avanzata dell'Islam nero

DOMENICO QUIRICO

L’Islam avanza, penetra, si insinua, conquista, rosicchia l’Africa nera, quella un tempo degli animismi e dei missionari cristiani, ha ormai scavalcato la linea del fronte che corre, sinuosamente, lungo il sedicesimo parallelo, dal Senegal islamizzato al novantacinque per cento alla Somalia degli shebab. Avanza, ahimè, con il terrorismo i massacri i kalashnikov: autobombe esplodono a Kampala e a Nouakchott, Timbuctu è loro, conquistata come, dall’altro capo del continente, Mogadiscio. È il nuovo paese della guerra, «dar al-harb»; in attesa che diventi, purificato col fuoco, «dar al–islam», pezzo di crosta terrestre sotto la quale la lava sta bollendo, pronta all’eruzione.

L’Occidente distratto non si è accorto di questo assalto, gli oppone ascari locali, corrotti e incapaci, si batte per procura, pagando vilmente etiopici e kenioti.

Ma l’Islam seduce anche con il denaro, la carità, le scuole coraniche, le moschee nuove di zecca, i centri che distribuiscono cibo e aiuti. Aggioga con il terrore, e con la forza della fede, il ricatto della necessità, la tentazione dell’ordine e della sopravvivenza. Gli africani diventano musulmani per disperazione odio seduzione speranza, seguono i profeti armati salafiti, ma anche le soavi promesse di pace dei marabutti. L’Islam nero: minaccia, ma anche travolgente tentazione della spiritualità, per il riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo viene sofferta e vissuta. Si impone attraverso un nuovo sincretismo, nato dall’andirivieni degli emigranti, e dei loro figli, tra i quartieri sensibili delle città europee e i villaggi più disgraziati della brousse, della savana, del deserto. Modernizzazione islamista da un lato (sì, non è un paradosso), e riscoperta delle radici dall’altro, sono il filo e l’ordito di un nuovo inedito tessuto identitario.

Agli inizi degli Anni Ottanta un maestro di scuola coranica, Muhamadu Marwa, proclamò una repubblica islamica a Kano nel Nord della Nigeria, popolato di «mahdis», di messaggeri divini. Ai giovani disperati dell’esodo rurale, arrivati in città in cerca di un futuro, spiegava che chiunque porta un orologio, gira in bicicletta o in auto, e manda i bambini nelle scuole di Stato è un infedele, merita la punizione. Nonostante la feroce repressione (o forse è stata la causa?) trenta anni dopo quelle terre sono infeudate ai boko haram («l’educazione occidentale è un peccato»), i talebani d’Africa. E in quegli Stati del Nord è in vigore la sharia. Ha ben fermentato la lezione di quel maestro.

In Niger lo Stato ha privatizzato l’istruzione: mandare i bambini nelle scuole private costa troppo per la maggior parte della popolazione. L’unica alternativa alla strada sono le scuole coraniche: gratuite. Così i fedeli aumentano, gli imam si fregano le mani soddisfatti.

In tutto il Sahel l’appello alla moralizzazione della vita pubblica, che incanta e fanatizza le masse disperate, principali vittime degli abusi e della corruzione di queste società guaste, sfocia nella rivendicazione di Stati islamici, arbitri di un modo di vita che non si potrebbe concepire senza la moralità. La «charia», feroce ma implacabile, riporta l’ordine e la pace laddove i signori della guerra e le tribù comandavano. Da Mogadiscio a Gaò. L’Islam è uno straordinario filo di sicurezza spirituale, un ordine strutturante, una etica e una estetica di vita, trasforma le superstizioni in misticismo e rappresenta una scuola di universalità per 300 milioni di africani, il quaranta per cento della popolazione del continente. Più di quanti vivono in tutti i Paesi arabi riuniti.

L’islam è ricco, più dell’Occidente dei tiepidi postcolonialismi. La ricerca della «zakaat», l’elemosina prescritta dal Corano, ingrossa i ranghi della Organizzazione della conferenza islamica e trasforma gli Stati dell’Africa nera in mendicanti dei «fratelli arabi», Gheddafi, i sauditi, gli Emirati. Ma anche Al Qaeda. Con o senza fondi religiosi, semplicemente facendo forza sul risentimento contro gli occidentali colonialisti, arroganti e predatori, i fondamentalismi avanzano a Sud del Sahara. Tra i ventidue terroristi più ricercati del dopo undici settembre c’erano dodici africani. Nelle periferia di Dakar e di Abuja, di Khartum, potevi vedere le magliette con l’effigie di Bin Laden, il vendicatore.

Che cosa abbiamo opposto noi, Occidente, a tutto questo? Il fondamentalismo delle sette protestanti americane, il capital-cristianesimo che cerca di comprare le anime mettendo a libro paga i presidenti-dittatori. Alla interminabile ripetizione della fatiscenza, all’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende in tutto il continente come l’acqua alluvionale abbiamo proposto non l’immedesimazione con i sofferenti ma la predicazione del liberismo: che profitta soprattutto a noi. In questo mondo di miseria e di perdite l’uomo ha fame di fede e di irrazionalità. Ma il capitalismo non è un credo e non è un magnete. E’ solo un modo di vita a cui noi, solo noi, abbiamo fatto l’abitudine.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10046


Titolo: DOMENICO QUIRICO. La Primavera tradita dei giovani egiziani
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:40:02 am
26/5/2012

La Primavera tradita dei giovani egiziani

DOMENICO QUIRICO

Piazza Tahrir: che tragico spreco di piccole vite eroiche, quanto scialo inutile di germinale sanguigna giovinezza! Una rivoluzione, tanta furia e tanto fuoco, le pietre, le barricate, la battaglie davanti al ministero dell’interno, il Palazzo imprendibile, i morti: in nome della dignità, della esigenza di essere liberi e del rifiuto della corruzione. Quegli occhi neri lucidi stupendi dei ribelli adolescenti, le risate di getto, argentine, insolenti, divine come una folgore fuor di un nuvolone, l’eco dei gemiti e singhiozzi del dolore umano prima che diventi urlo, rivolta disperazione e non resti eguale e sepolto nel cuore di tutti. C’era, è vero, in quel lampeggiare di vite di destini di speranze molto loglio ma , insieme, parecchio buon grano. Era, come sempre, una prova pericolosa di eccessiva felicità.

Cosa resta? Alla fine a battersi per la presidenza dell’Egitto, se le prime indicazioni saranno confermate, il candidato (di riserva) dei Fratelli musulmani e un uomo del regime, la faccia del potere militare, il sosia del deposto Mubarak, sacrificato perché ingombrante e impresentabile, il passato che non passa, che non muore. «Far cadere il regime», lo slogan di tutte le rivoluzioni arabe, Internet, non bastava: senza un chiaro programma di quanto sarebbe dovuto venire dopo. Sono un’eco i discorsi che ci scaldavano allora, ancora nel primo anniversario di quel rinascere, tutto razzi e lampi e scatti e colori: i Paesi-gabbia dove vivono 300 milioni di musulmani sembravano spalancarsi per forza interna. Era, dicevano, la nuova «Nahda» l’ennesimo e finale rinascimento. Invece la Città, che arde e sfavilla, domani sarà vuota di forza come un cuore che si schianta, solo con un feroce orgoglio pieno di fiele e di noia.

Sì, è difficile oggi esser ottimisti sulla rivoluzione egiziana, sulla primavera araba che un anno ha già fatto invecchiare, il rinnovamento svanisce nel buio, il Paese che nasce da quella stagione fiammeggiante sembra più vecchio del padre, più assuefatto al lato oscuro del Male arabo. Tutte le putrefazioni politiche sono messe in fermento. Nel parlamento eletto a gennaio (e che deve scrivere la nuova costituzione) dominano la frigida Fratellanza musulmana, l’islamismo di legulei e di burocrati. Trionfa la loro astuta gesuiteria che li ha tenuti, prima, lontani dalla piazza, e poi li ha guidati a rubare il Potere agli altri, ai ragazzi che avevano penato e si erano battuti. Alla fine ogni cosa è stata sistemata a modino. L’esercito, i birri di una mafia affaristica travestita dal patriottismo, controlleranno come prima il bottino miliardario. Nel patto, ormai evidente e infame, agli islamisti sono date in appalto la società e il potere. Potenze cariche di avarizia e di ingiustizia, i generali e i tartufi della Santa Politica, gli unici sopravvissuti alle «indipendenze confiscate», come diceva il politico algerino Ferhat Abbas. Certo: ognuno dei due è pronto a romperlo, quel patto, quando un giorno il vantaggio non sarà più reciproco. Era una alleanza inevitabile, coloro che agiscono per dissimularsi finiscono con l’imparare a fiutarsi. Ma per ora funziona, perché serve a schiacciare i detestati, scomodi ragazzi di Tahrir, la società civile, il Mondo nuovo. Ai tetri becchini islamisti, con la loro costola salafita, spetterà il lavoro sudicio e quotidiano di soffocare lentamente, senza far troppo chiasso (l’ipocrisia occidentale non vuol essere turbata nei suoi accomodamenti), quella rivoluzione pregna di altre rivoluzioni, il suo entusiasmo, la sua verginità spirituale, la virtù di sognare. Perché questo fu la Primavera araba, una sobillazione miracolosa di giovani, del quinto elemento del mondo, l’unica classe rivoluzionaria che ci è rimasta. Non sopravviverà a questa potatura atroce.

Oggi è di nuovo il momento dei piccoli macchiavelli della moschea, a parole anche loro rivoluzionari, ma non come i ragazzi e le piazze: non per muovere la vita, ma per bloccarla. Il termidoro islamico avanza ovunque. Anche in Tunisia la gioia della primavera si appanna, ecco di nuovo l’aggrapparsi al passato; il doppiopetto e le cravatte esibite dai nuovi dirigenti davanti agli ospiti occidentali, non ingannino. Torna la favola della grandezza salafita o la compiutezza di un islam detentore della verità assoluta, l’uso del passato come identità, un museo di illusioni che interessa solo gli arabi. L’orizzonte si rinchiude. Ed è l’Egitto il tassello decisivo, perché è stata la duplicazione della rivolta nelle piazze del Cairo e di Alessandria che ha dato a un evento limitato la dimensione di un sisma generale.

Vinceranno questi politicastri viscidi, con le loro vecchie terapie cincischiate rimesse fuori con una certa aria di pulitezza e di comodità? Ci sono cuori dove certe parole lasciano il bruciore per sempre. Erano liberi e nuovi. Lo spirito di rivolta è giovane, più che giovane è adolescente: sopra ogni mezzo, al di là di ogni mezzo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10149


Titolo: DOMENICO QUIRICO. La viltà europea in Siria come nel '36 in Spagna
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2012, 05:39:50 pm
24/8/2012

La viltà europea in Siria come nel '36 in Spagna

DOMENICO QUIRICO

La nostra è una età infida, con strane ricorrenze. Dove ho già visto i bimbi decapitati dai bombardamenti nelle strade di Aleppo, o il corpo di una ragazza, sul marciapiede, rannicchiato come dormono le donne, con quella grazia che ci è cara, ma con il filo traditore di sangue dietro il capo? Dove ho già sentito l’urlo dell’aereo che scende in picchiata, sgancia la sua bomba e poi risale indisturbato, senza rischi. Gli avversari non hanno contraerea? E questa nebbia limacciosa che ci avvolge, fatta di indifferenza noia ipocrisia viltà? I nostri volti non cambiano più, hanno assunto l’inquietante fissità della maschera. Dove ci siamo visti così rassegnati all’orrore di un carnaio in una vecchia terra sovraccarica di storia dove soffrono, lottano e muoiono creature viventi; alla complicità di accettarlo senza fare nulla, neppure gridare? Sì, ho già visto, letto, ascoltato tutto questo: è la guerra di Spagna del 1936. I paragoni storici sono sempre arbitrari.

La Storia non si specchia in se stessa, è implacabile nella sua forza di mutare. Ma servono, talvolta, a capire. Sì, le somiglianze sono folgoranti. Da una parte allora c’era Franco con un esercito potente e spietato, alimentato costantemente e spudoratamente dalle armi degli alleati, i fascismi tedesco e italiano. Oggi è il regime di Bashar, ormai deciso a seppellire la Siria ribelle in un grande cimitero di rovine. Usa aerei elicotteri carri munizioni che gli forniscono, spudoratamente, Russia e Cina. Nel breve passaggio di quindici giorni che dividono due soggiorni ad Aleppo ho assistito a un passaggio tragico e senza ritorno: il momento cioè in cui il regime siriano, sicuro dalla sua impunità, ha messo una categoria di esseri umani al di fuori di quelle per cui la vita ha un prezzo e non c’è ormai nulla di più naturale che ucciderli. Userà tutti i mezzi per annientarli, senza fare distinguo, il terrore senza ritorno.

Dall’altra parte, nel 1936, c’erano i repubblicani: mal armati, senza addestramento, operai intellettuali e contadini che si erano improvvisati combattenti. Le democrazie occidentali non li aiutarono, come non aiutano, se non a chiacchiere, l’Armata siriana libera. Le telefonate tra Obama, Cameron e Hollande, nella loro sterile minacciosità, quanto assomigliano a quelle dei leader francesi e inglesi di allora! Avevano, abbiamo paura: che i repubblicani fossero, se vincitori, un altro tassello dell’avanzata del demonio comunista. Non c’erano, a provarlo, le brigate straniere, gli incendiari della Terza internazionale, di Stalin, gli anarchici che bruciavano le chiese: la guerra santa delle sinistre? Oggi abbiamo paura che a Bashar succeda l’islamismo radicale, la nuova angoscia dell’occidente.

Non ci sono ad Aleppo i jhaidisti, gli emissari di Al Qaeda, le brigate internazionali islamiche? Abbiamo già altri mostri e abbiamo deciso di addomesticarli, nella nostra torbida e ridicola eccitazione nervosa, disgustante a vedersi, riconsegnando un popolo intero al suo rodato assassino. Quale uomo di buon senso preferirebbe un barbus al doppio petto dell’ex oftalmico che bombarda il suo popolo? Nel frastuono dei bombardamenti, nella strage dei civili di Aleppo, nonostante le buone intenzioni enunciate ieri dal ministro Terzi, si svela e muore l’ipocrisia europea.

Tutti gli errori di cui l’Europa sta mortalmente soffrendo vengono a raccogliersi e a imputridire qui. Impossibile allungare la mano senza il rischio di setticemia. Ho visto questi combattenti del Jihad in azione ad Aleppo, sempre nella prima linea che ormai gli appartiene, che si sono conquistata combattendo. Contendono ai governativi ogni mucchio di macerie, ogni muro in rovina, la lotta sale ai piani superiori delle case, si accanisce sui tetti. Li ho visti trascinare con sé un compagno caduto, la testa spappolata da una scheggia di mortaio. Non vi era odio tra quegli implacabili combattenti, nemmeno forse pietà. Alcuni piangevano apertamente: il peso, il silenzio, lo sbigottimento di una enorme stanchezza, il senso di un vuoto gelido, forse anche per loro il disgusto invincibile del sangue, del massacro, della morte. E’ vero: i jhaidisti stanno guadagnando ogni giorno che passa il controllo della rivoluzione siriana. Perché sanno combattere meglio e più ferocemente degli studenti e dei contadini che la rivoluzione hanno scatenato; perché lo hanno già fatto a Grozny, in Libia, in Afghanistan. Perché sono meglio armati, hanno finanziatori, sono più spietati.

E’ l’occidente con la sua viltà camuffata da prudenza geopolitica che sta consegnando la rivoluzione siriana al fanatismo islamico, ogni giorno. I rivoluzionari siriani non ci chiedono soldati o raid aerei, neppure la zona di interdizione al volo. Chiedono solo di poter comprare armi, antiaeree e anticarro, per battersi alla pari. Con queste vinceranno e potranno dire agli islamisti che non amano: tornate a casa, questa è terra nostra. L’armata di Bashar, il regime, può consolidarsi solo con la sensazione di avere la vittoria a portata di mano. Se non le avranno, quelle armi, dopo un lungo massacro Aleppo, capitale dell’altra Siria, simbolo e sfida indispensabile, cadrà. Allora la ribellione dovrà adottare altre forme di lotta che non ci piaceranno, che la contamineranno: il terrorismo, le autobombe. E non hanno dimenticato, non dimenticheranno quello che non abbiamo fatto. La domanda in fondo è semplice, una domanda politica: in Spagna nel 1936 la nostra scelta fu quella giusta?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10456


Titolo: DOMENICO QUIRICO. Solo la pietà può far finire l'orrore in Siria
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2012, 04:20:24 pm
6/9/2012

Solo la pietà può far finire l'orrore in Siria

DOMENICO QUIRICO

Più passano questi giorni abominevoli e il massacro, in Siria, mostruosamente, sconciamente, si gonfia, più mi convinco che la soluzione, l’unica possibile ancora per poco, ovvero un intervento dell’Occidente, non verrà dal prevalere di pur evidenti ragioni pratiche, politiche, «egoistiche»: ovvero che il tollerare un governo assassino ci macchi e ci renda infinitamente più deboli, ci esponga la prossima volta, e ci saranno infinite prossime volte, a pericoli maggiori, a vergogne più devastanti. No: questo non basterà, abbiamo torto a contarci troppo. La nostra stanca viltà è così limacciosa da soffocare anche la coscienza di ciò che ci conviene. La Turchia, perfino la Turchia che abbiamo altezzosamente respinto dall’Europa, noi sussiegosi professori di democrazia, ci dà una lezione, definisce «terrorista» il governo siriano, ribaltando efficacemente proprio l’insulto che Bashar Assad rivolge ai ribelli.

L’unica soluzione verrà dal prevalere della pietà. Sì, la cristiana antica, umilissima compassione per l’altrui sofferenza. Ma anche la pagana, laicissima «pietas», che non chiede fede, a cui basta il rispetto dell’uomo per l’altro uomo anche se vive in una terra diversa e le sue ragioni non coincidono con le nostre.

Certo tutto questo non può smuovere cancellerie astutamente parolaie e concretamente inerti: dicono di preparare il «dopo Assad», questi sofisti pretenziosi, hanno già voltato pagina, i ministri e i presidenti, e fanno finta di non accorgersi che il despota guadagna posizioni, macella gli avversari, parla di nuovo con alterigia e arroganza. Ma la compassione può accendere in una gran vampa il cuore di un’opinione pubblica finora sospettosa, mal informata, assente. E’ qui che il cuore dell’Occidente batte sempre di un sangue più ricco. Vedremo allora, finalmente!, un corteo per la Siria nelle strade delle capitali d’Europa.

Lapietàdunque.Esarannoibambini siriani che ci costringeranno a partecipare infine alla altrui sofferenza, quella che Boccaccio chiamava, mirabilmente, «umana cosa». I bambini di Aleppo bombardata, dove il sangue non ha il tempo di raggrumarsi, di Homs, di Idlib, di Hama: questa in fondo è una rivoluzione nata dall’indignazione per lo strazio di un gruppo di bambini. Bambini cheti guardanocon occhi da vecchi,tormentati, quasi fossero al mondo da settanta anni. Li hanno mai visti, finora, questi occhi, inconfondibili, indimenticabili, fissi di muto smarrimento, pieni di riflessi di fiamme e di rovine, i politici che si turbano per i rischi, in caso di aiuto ai ribelli, di una destabilizzazione del Medio Oriente, che indietreggiano davanti al pericolo di una jihad fatta da qualche centinaio di forsennati e che i siriani sono i primi a voler accantonare e rimandare a casa?NongiocanopiùibambinidiAleppo perché le strade sono spazzate dalla bombe, perché perfino andare a comprare il pane è scendere in prima linea, diventare «terrorista». Possibile che abbiamo ripudiato questa gente?

Muoiono i bambini di Aleppo, se ne è accorta, finalmente, dopo 500 giorni, anchelaCnnelomostreràagliamericani.In passato le immagini di bambini assassinati dalla carestia e dalla guerra ci ha fatto scoprire (in ritardo, quanto in ritardo) la tragedia somala. I bambini trucidati accanto alle madri ai piedi degli altari, in chiesa, ci hanno svelato l’Uganda. Allora guardiamo, imprimiamoci in mente questi bimbi uccisi dalle bombe dei piloti di Bashar; non censuriamo l’orrore anche se ci fa male, i corpicini straziati dalle schegge, le teste staccate dalle bombe termiche. Gli assassini contano su questa censura della pietà. E invece bisogna pensare a coloro che con il loro agire hanno provocato tutto ciò e a coloro che, chiudendo gli occhi e balbettando le scuse della realpolitik, se ne fanno complici. Questo pensiero è utile, questa rabbia è utile. Perché educa alla indignazione, ci rende acuti, impedisce che si dimentichi. Darà a tutti la stessa sensazione,atroce, che provachièstatoinSiriainquestimesi,lasensazionediunacapillare,invisibilepotenza del male, di una saturazione da parte di un invisibile odio corrosivo. Coloro che hanno ucciso questi bambini sono malvagi, e il male non può, non deve vincere.

Abbiamo bisogno di dare una veste politicaaquestamisericordia?C’è,esiste, è la celebre tesi della «sovranità come responsabilità». I governi, tutti i governi sono cioè responsabili sia di fronte ai propri cittadini sia di fronte alla comunità internazionale, di garantire la sicurezza e il benessere anche di coloro che vivono negli altri paesi. Dove questo neo-interventismo, questo sacrosanto diritto di intrusione ha più ragioni di essere che nella Siria che massacra i suoi bambini?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10494


Titolo: DOMENICO QUIRICO. Quei bimbi in fuga dalla disperazione
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2012, 09:55:58 pm
8/9/2012

Quei bimbi in fuga dalla disperazione

DOMENICO QUIRICO

So che cosa hanno provato, i naufraghi bambini di Lampedusa. E’ il momento in cui il motore si arresta e al gorgoglio dei pistoni rantolanti, della pompa che aspira l’acqua dalla stiva marcia si sostituisce l’immenso, fragoroso silenzio del mare. E poi: i frenetici tentativi, con un cacciavite con le mani con gli stracci con le preghiere, di far ripartire il motore esausto.

Il pilota il cui volto si fa livido di paura, il fremito che comincia a circolare tra le file dei migranti, stipati sul ponte a file fitte e ordinate con il divieto di alzarsi di muoversi. E invece i primi che si alzano, e le grida delle donne (sul mio barcone non c’erano donne, era un altro tempo: come tutto è cambiato orribilmente, nel giro di un solo anno). Nessuno all’inizio ha capito: perché ci siamo fermati? Proprio ora, dove venti ore in mare, quando pensavamo di essere ormai vicino a Lampedusa?

Ma già l’acqua comincia a salire, lenta, inesorabile: la puoi vedere, tu stesso, attraverso la piccola apertura della stiva. E’ allora che anche i bambini hanno capito che «il viaggio», quel viaggio straordinario che sembrava svolgersi, il mare, bagnati dall’acqua e da pallide onde di sole giallo, come un’affascinante avventura si convertiva, malvagio, in tragedia e paura e morte. La tensione che penetra in tutti i pori della mente, quel tipo di tensione che si avverte negli incubi infantili quando da un momento all’altro, sbucando da un mobile o dietro una porta, può accadere qualcosa di vago e di ignoto.

Queste vecchie barche, come era la mia, muoiono lentamente, lasciano che il mare le abbracci e le soffochi. C’è tempo per pensare: allora è questa la sensazione che uno avverte al momento della morte: questo vuoto, questa sospensione tra essere e non essere? se è così, non c’è quasi da averne paura.

Bambini migranti, bambini aspiranti «clandestini», come diventeranno con parola orrenda nei verbali, nella burocrazia di questa tragedia senza fine. So che cosa hanno provato quando sono partiti. La barca che li aspetta su una spiaggia fuori mano della Tunisia, le raccomandazioni dei nonni, dei parenti che li hanno accompagnati al luogo di raccolta e li hanno consegnati al passeur, con i soldi per il passaggio: come se fossero cose, oggetti da spedire. Loro sono soli felici eccitati. Deve essere la felicità questa, ma non lo sanno ancora. Hanno raccontato loro, per invogliarli, di un altro mondo al di là del mare, dove ci sono parenti o amici che li accoglieranno, città dove, al calar del sole, la vita invece di finire sembra cominciare.

Nel Maghreb, in Africa, come tra tutti i poveri del mondo, l’età tramonta di colpo come il sole; prima sono bambini, un attimo dopo già vecchi. Come assomigliano ai ragazzi con cui sono salito, un anno fa, su un’altra barca della speranza, tutti popolo di questo Mediterraneo così gonfio di speranze e di divieti. Erano più grandi, allora, erano i giovani ribelli che avevano appena cacciato il tiranno e esercitavano il loro diritto di partire, di andare a scoprire altri mondi. In fondo il loro era un atto politico, quasi rivoluzionario. Ma questi bambini di quale nuova delusione, di quale nuova disperazione sono figli, naufraghi, vittime? Al confine tra gli Stati Uniti e il Messico raccontano che sempre più spesso a tentare di attraversare il deserto (in fondo un altro mare pieno di insidie e di vuoto) sono minorenni, soli. Tentano di raggiungere i genitori che sono già dall’altra parte, nel mondo dei ricchi: perché la miseria è tanta e i parenti non riescono più a mantenerli; perché pensano che la nostra soglia del rifiuto e dell’indifferenza si abbassi e sia più clemente con chi è piccolo, che riconosceremo in loro più facilmente la vittima a cui destinare la nostra misericordia, più che ai fratelli ai genitori ai nonni. L’indifferenza: la perfezione dell’egoismo.

Un anno fa il popolo di Lampedusa era fatto di ragazzi ardenti indomiti, in loro una insofferenza, un furore, un miscuglio, direi, di odio e di amore. Ma questi bambini cosa si portano dentro? Sono partiti per l’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende come l’acqua alluvionale nel mondo. Ecco la verità: nulla è cambiato dall’altra parte del mare, c’è lo stesso riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo che lì viene vissuta, senza lavoro e senza speranza, che prosegue monotonamente il suo cammino. Il dopo primavera araba è una cosa molto ordinata e pulita, ma dalla distanza da cui noi la guardiamo: certo ora votano liberamente, i giornali sono liberi, si può perfino manifestare. E’ tanto, è molto. Ma i rivoluzionari vittoriosi sono poveri come un anno fa, forse ancor più perché hanno perso la speranza. E ora fanno partire i bambini.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10503


Titolo: Domenico QUIRICO. L’Occidente paga i suoi ritardi
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2013, 04:43:18 pm
Editoriali
13/01/2013

L’Occidente paga i suoi ritardi

Domenico Quirico

Il Mali è come una partita a poker, ciascuno dei giocatori - gli islamisti, il governo di Bamako, i Paesi della regione saheliana, l’Occidente - aspetta l’ultimo momento per calare le carte. E una delle chiavi del gioco è naturalmente il bluff. 

Un mese fa, a dicembre, il voto alle Nazioni Unite della risoluzione che poneva le (laboriose) premesse per un intervento militare internazionale, faceva fibrillare illusioni. 

Si diceva in qualche mal informata e ottimistica cancelleria occidentale che il panico dilagasse nel sinedrio degli emiri di Timbuctu e di Gao. 

E invece i narco-salafiti di al Qaeda e i loro alleati tuareg convertiti alla jihad nazionalista con una calca estremista dove brulicano sicari, predoni gentucola escandescente, erano così poco tremebondi da decidere di venire a «vedere»: se quello dei «crociati» vicini e lontani era soltanto un bluff. 

In fondo noi non muoviamo da aprile dito, perdiamo tempo, emettiamo parole vuote anche quando, per provocarci, gli islamisti mozzano mani e polverizzano a colpi di piccone i mausolei di Tombuctu. Due giorni dopo la risoluzione Onu! L’orda ha capito a volo la nostra viltà. Hanno attaccato verso Sud, dunque, verso Mopti, l’ultima grande città, oltre la capitale Bamako rimasta nelle mani della debole giunta militare al potere sotto mentite spoglie borghesi, che rischiava sotto il nuovo cozzo dei nordisti di disintegrarsi. Il pandemonio viene loro utile. Le bandiere nere dei salafiti sulle rive del Niger, il fiume dio che disseta e nutre un pezzo di Africa. Era troppo: la Francia, per salvare la faccia con i suoi alleati-clienti africani, ha dovuto accorrere a soccorso. Con a rimorchio gli Stati Uniti finora timidissimi: entrambi sedotti del progetto di una comoda guerra per procura, secondo la retorica utilitarista «L’Africa e i suoi guai agli africani!». 

Ora Aqmi può proclamare a gran voce di essere in guerra con i colonialisti occidentali e i loro servi. Eccellente arma propagandista in un’area gonfia di miseria e di biliose «doléances», di plebi che aspettano solo una bandiera per insorgere e risorgere. È stata una scelta tattica, dunque, per costringere l’avversario ad accettare battaglia subito e in prima persona, quando gli ascari africani sono ancora divisi e sulla carta. I droni non basteranno, ci vogliono le fanterie. Aqmi, secondo gli ordini di al Zawahiri, può davvero sperare di «ficcare ancora più a fondo un osso nella gola dei crociati». 

La posta è gigantesca, il contradditore è tignoso. L’Africa saheliana, il deserto, è il nuovo terreno di battaglia scelto dall’islamismo combattente. Non più le periferiche montagne afghane dove le mosse della internazionale islamica erano subordinate alle strategie dei taleban. Questa volta, per la prima volta, al Qaeda dispone di uno Stato, ovvero di un territorio che controlla direttamente, con grandi città e una superficie grande due volte la Francia. È deserto, è vero, sabbia e rocce, ma questo è un vantaggio, perché riconquistarlo sarà impresa difficile. (Forse solo i tuareg sono in grado di farlo, ma sono alleati con Aqmi). Una guerra da vincere a un’ora di volo dal Mediterraneo e dall’Europa, un aculeo estremista conficcato nei grandi giacimenti di petrolio, di gas, di fosfati e di uranio, sulla rotta della nuova via della droga e sul sentiero dei clandestini che salgono dall’Africa nera. Ai confini delle rivoluzioni dalla Primavera araba, diventata islamica e che si può storpiare con strategie ancor più radicali ed estremiste. Questo è il Grande Gioco oggi in Mali. E l’Occidente, pavido e distratto, non ha finora le carte migliori.

da - http://lastampa.it/2013/01/13/cultura/opinioni/editoriali/l-occidente-paga-i-suoi-ritardi-ELgFKDrbxouyqewtg8eZtM/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Da 5 mesi era prigioniero in Siria
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2013, 08:56:56 am

Liberato il giornalista Quirico.

Da 5 mesi era prigioniero in Siria


L'inviato de La Stampa era stato rapito il 9 aprile, da allora solo una telefonata a giugno alla sua famiglia. Libero anche il cittadino belga Pier Piccinin. In serata l'arrivo a Ciampino. Calabresi: "Magnifica notizia".

Il ministro degli Esteri Bonino: "Grande soddisfazione". Quirinale: "Vivissimo apprezzamento per Farnesina e Servizi"


ROMA - È libero l'inviato della Stampa Domenico Quirico, di cui si erano perse le tracce in Siria dall'aprile scorso. Il giornalista di La Stampa, rapito il 9 aprile mentre si trovava in Siria, è tornato in Italia. E' atterrato a Roma Ciampino poco dopo la mezzanotte.

"Ho cercato di raccontare la rivoluzione siriana, ma può essere che questa rivoluzione mi abbia tradito. Non è più la rivoluzione laica di Aleppo, è diventata un'altra cosa", ha detto all'arrivo scambiando alcune parole con i giornalisti presenti. Hai avuto paura? "Si penso di si. È stata durissima". Come ti hanno trattato? "Diciamo non bene", ha concluso il giornalista, apparso stanco ma in buone condizioni, dopo l'abbraccio con il ministro degli Esteri Emma Bonino che lo ha accolto sulla pista.

Oltre a Domenico Quirico è stato liberato il cittadino belga Pier Piccinin (rapito con l'inviato della Stampa), tornato con lo stesso volo dell'inviato della Stampa.

"Siamo emozionate e felici. Lo aspettiamo a casa e non vediamo l'ora di abbracciarlo": queste le uniche parole giunte dalla famiglia Quirico dopo che si è diffusa la notizia che Domenico Quirico era stato liberato.

"Abbiamo avuto la notizia dal ministro Bonino" ha detto la figlia Eleonora che si trova nella casa di Govone, in provincia di Cuneo, con la sorella Metella e la mamma Giulietta.

Quirico ha parlato con la sua famiglia prima di imbarcarsi, dopo la liberazione in Siria. La famiglia lo incontrerà probabilmente a Roma, dove oggi il giornalista sarà ascoltato dalla Procura.

Calabresi su Twitter: "Magnifica notizia". "Abbiamo avuto la magnifica notizia da Emma Bonino e Enrico Letta. Sappiamo che hanno già contattato la famiglia. È una notizia magnifica": così il direttore de La Stampa, Mario Calabresi, ha dato la notizia della liberazione del giornalista, postandola subito su Twitter.
 
"Non ho avuto la possibilità di parlare con Quirico" ma "ho parlato con i familiari, che sono emozionatissimi" e "quasi increduli", ha aggiunto Calabresi, intervistato da RaiNews24. "Immaginate 150 giorni di attesa", ha aggiunto, spiegando che anche in redazione "sono stati cinque mesi onestamente molto faticosi anche perché non sono mancate notizie che circolavano e dicevano che Domenico e altri ostaggi erano stati ammazzati".

L'unico contatto a giugno. Il primo giugno le figlie Metella ed Eleonora avevano lanciato un appello attraverso un video che aveva fatto il giro di tv e web del mondo arabo. A giugno il giornalista si era messo in contatto con la famiglia, dicendo di stare bene. Poi più nessuna notizia.

Ancora nessuna notizia di padre dall'Oglio. Ancora nessuna notizia, invece, di padre Paolo dall'Oglio. "Non sono tornati a casa tutti, c'è ancora da portare a casa Padre Dall'oglio", ha detto Calabresi, ai microfoni di RaiNews24.

Quirinale: "Vivissimo apprezzamento per Farnesina e servizi". Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso "vivissimo apprezzamento per l'impegno dispiegato dal ministro Emma Bonino, dal ministero degli Esteri e dai Servizi per il successo di tutti i delicatissimi passi volti a garantire la libertà di Domenico Quirico".

La soddisfazione di Bonino. "La notizia della liberazione di Domenico Quirico mi riempie di grande gioia e di soddisfazione. Il mio pensiero va prima di tutto ai parenti che potranno finalmente riabbracciare Quirico dopo  tanti mesi e numerosi momenti di ansia". Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, che ad agosto si era detta ottimista sulla sorte dell'inviato, ha espresso la sua soddisfazione e ha aggiunto: "Il mio ringraziamento va a chi ha contribuito sostanzialmente al felice esito della vicenda: la Farnesina e la sua Unità di crisi, gli altri apparati dello Stato che insieme hanno con grande determinazione seguito ogni possibile canale per portare a soluzione un caso particolarmente complicato in un contesto ambientale cosi difficile come quello siriano. La liberazione del giornalista è anche una bellissima notizia per tutti i rappresentanti dei media che rischiano la vita sui fronti di guerra per raccontare la verità in situazioni estreme".

Letta: "Mai persa speranza". Anche il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha espresso alla famiglia del giornalista della Stampa, al direttore Mario Calabresi e per suo tramite a tutta la redazione la sua più viva soddisfazione. "La speranza non era mai venuta meno e vengono ora coronati dal successo tutti gli sforzi messi in campo per un esito positivo della vicenda".

Le reazioni. "Come Governo non abbiamo mai smesso di crederci. Ma la felicità di questo momento è comunque difficile da spiegare. Una felicità che condividiamo con Mario Calabresi, i giornalisti de La Stampa e con tutti gli italiani", ha detto il ministro della Difesa, Mario Mauro. "Finalmente una buona notizia. Un grande giornalista come Quirico ha riacquistato la libertà. Vanno lodate tutte le strutture dello Stato, dalle unità di crisi ai servizi, che hanno lavorato per ottenere questo risultato", ha affermato Fabrizio Cicchitto, presidente della Commissione Esteri della Camera.

Il suo paese in festa. Govone in festa per la liberazione di Domenico Quirico. "Siamo felicissimi", dice Giampiero Novaro, primo cittadino del paesino in provincia di Cuneo dove l'inviato della Stampa vive con la moglie e le due figlie. "Per fortuna - aggiunge - tutto si è concluso nel migliore dei modi".

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/09/08/news/liberato_il_giornalista_quirico-66150229/?ref=HREA-1


Titolo: Il racconto di Domenico Quirico: Io, tra bombe, fughe e umiliazioni
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 05:47:59 pm
Esteri
10/09/2013 - Il racconto di Quirico

Il racconto di Domenico Quirico “Io, tra bombe, fughe e umiliazioni”

La prima telefonata di Domenico Quirico

La prigionia lunga 152 giorni: «Credevo mi avrebbero ucciso, la Siria è in mano al demonio»


Domenico Quirico


La notte era dolce come il vino: l’8 aprile ad al Qusayr, Siria, per raccontare un altro capitolo della guerra siriana, dove la Primavera della rivoluzione sembrava poter durare per sempre e capovolgere il mondo. E invece sono stati 152 giorni di prigionia, piccole camere buie dove combattere contro il tempo e la paura e le umiliazioni, la fame, la mancanza di pietà, due false esecuzioni, due evasioni fallite, il silenzio; di Dio, della famiglia, degli altri, della vita. Ostaggio in Siria, tradito dalla rivoluzione che non è più ed è diventata fanatismo e lavoro di briganti. L’ostaggio piange e qui tutti ridono del suo dolore, considerato come prova di debolezza. La Siria è il Paese del Male; dove il Male trionfa, lavora, inturgidisce come gli acini dell’uva sotto il sole d’Oriente. E dispiega tutti i suoi stati; l’avidità, l’odio, il fanatismo,
l’assenza di ogni misericordia, dove persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi. I miei sequestratori pregavano il loro Dio stando accanto a me, il loro prigioniero dolente, soddisfatti, senza rimorsi e attenti al rito: cosa dicevano al loro Dio? 

 

Il racconto integrale 

 

Siamo entrati in Siria il 6 aprile con il consenso e sotto la protezione dell’Armata siriana libera, come tutte le volte precedenti. Ho cercato di raggiungere Damasco e di verificare di persona le notizie sulla battaglia decisiva di questa guerra civile, come faccio sempre. Ma ci hanno detto che avremmo dovuto aspettare alcuni giorni prima di poter raggiungere la capitale siriana e così abbiamo accettato la proposta di andare in una città che si chiama Al Qusayr, vicina al confine libanese, che in quei giorni era assediata da Hezbollah, fedele alleato del regime di Assad.

 

Siamo arrivati ad Al Qusayr con un convoglio di rifornimenti della stessa Armata siriana libera, un lungo viaggio nella notte a fari spenti passando sulle montagne perché il regime controllava la strada. Siamo stati bombardati da un Mig vicino a un Ticunin, un mulino dell’epoca bizantina. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati. Lì si è combattuta la battaglia fra Ramses II e gli Ittiti. Lì la storia è ovunque, nelle colline, nelle pietre. La città era già devastata e distrutta dai bombardamenti dell’aviazione e così la sera successiva abbiamo deciso di tornare dal luogo in cui eravamo partiti per sapere se era possibile intraprendere il viaggio verso Damasco. fidati. Invece probabilmente sono stati loro a tradirci e a venderci. All’uscita della città siamo stati affrontati da due pick-up con a bordo uomini con il viso coperto. Ci hanno fatto salire sui loro mezzi, poi ci hanno portato in una casa e ci hanno picchiato sostenendo di essere uomini della polizia di regime. Nei giorni successivi invece abbiamo scoperto che non era vero, perché erano dei ferventi islamisti che pregavano cinque volte al giorno il loro Dio in modo flautato e dotto. Poi, il venerdì hanno ascoltato la predica di un predicatore che sosteneva la jihad contro Assad. Ma la prova decisiva l’abbiamo avuta quando siamo stati bombardati dall’aviazione: era chiaro che quelli che ci tenevano in ostaggio erano ribelli.

 

L’emiro Abu Omar 

L’ideatore e capo del gruppo che ci teneva prigionieri era un sedicente emiro che si chiama, anzi, si fa chiamare, Abu Omar, un soprannome. Ha formato la sua brigata reclutando gente della zona, più banditi che islamisti o rivoluzionari. Questo Abu Omar copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite, e collabora con il gruppo che successivamente ci ha preso in carico, Al Faruk. Al Faruk è una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stato creata da un generale ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera di Homs, fra i più dimenticati dalla mafia di regime. L’Occidente si fida di loro ma ho imparato a mie spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e allarmante della rivoluzione: l’emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare sequestri e riempirsi le saccocce di denaro.

 

La prima prigione 

Inizialmente ci hanno tenuto in una casa di campagna alla periferia della città di Al Qusayr. Siamo rimasti lì per una ventina di giorni. Poi è accaduto il primo fatto terribile di quella che io chiamo la matrioska di questa storia, un evento all’interno di un altro evento: Hezbollah ha attaccato le posizioni dei ribelli e l’edificio in cui eravamo prigionieri è diventato la prima linea. È stato bombardato e attaccato. A quel punto ci hanno portato in un’altra casa, all’interno della città. Ma era come se il destino si accanisse contro di noi e continuamente ci ponesse nuovi terribili scenari, come se ci ricacciasse sempre indietro, sempre più lontano dalla prospettiva di essere liberati. Alla fine anche questa casa è stata attaccata e per una settimana siamo stati affidati ad una brigata di Jabat Al Nusra, l’Al Qaeda siriana. È stato l’unico momento in cui siamo stati trattati come esseri umani, per certi aspetti persino con simpatia: ad esempio ci hanno dato da mangiare le stesse cose che mangiavano loro. I qaedisti in guerra fanno una vita molto ascetica e sono dei guerrieri radicali, islamisti fanatici che si propongono di costruire uno stato islamico in Siria e poi in tutto il Medio Oriente, ma nei confronti dei loro nemici - perché noi, cristiani, occidentali, siamo loro nemici - hanno un senso di onore e di rispetto. Al Nusra è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche degli americani ma sono gli unici che ci hanno rispettato. Poi siamo tornati nelle mani di Abu Omar.

 

La fuga da Al Qusayr 

Al Qusayr era sotto assedio e diventava ogni giorno sempre più piccola, veniva demolita mattone su mattone. All’inizio di giugno l’assedio stava per finire con la vittoria degli Hezbollah. Intorno al 9 del mese tutte le varie fazioni della ribellione (fra cui anche la «katiba» di Abu Omar), hanno deciso di sfondare le linee nemiche insieme alla popolazione per provare a fuggire in un altro luogo della Siria. Incredibilmente ce l’hanno, ce l’abbiamo, fatta. È stata un’epopea straordinaria e terribile, con uomini, donne, bambini, handicappati e vecchi che hanno marciato a piedi per dodici ore, per due notti consecutive, attraverso la campagna. Erano 5-6 mila persone. Durante la marcia sui ciottoli questa folla faceva un rumore sordo, come se a spostarsi fosse un unico corpo. Quando i razzi lanciati dai soldati del regime per permettere all’artiglieria e alle mitragliatrici di colpirli illuminavano la scena, la campagna diventava abbagliante e tutte queste migliaia di persone si gettavano a terra improvvisamente creando un silenzio incredibile. Subito dopo, quando i razzi, che scendono lentissimi, si spegnevano per terra, tutta la folla si rialzava e riprendeva il cammino lasciando dietro di sé la catena dei morti.

 

Pesche acerbe 

Alla fine della prima notte l’esercito è riuscito a bloccare l’avanzata e tutte queste persone si sono disperse nei frutteti e nei campi, senz’acqua e senza cibo, aspettando un’altra notte per tentare di proseguire. Non c’era nulla da mangiare. C’erano solo le pesche degli alberi, che essendo giugno erano ancora lontane dall’essere mature. Ci siamo nutriti schiacciandole e mangiando la parte più interna e il nocciolo, che erano abbastanza molli. C’erano anche alcuni vecchi personaggi omerici che si avviavano da soli verso le linee dell’esercito di Bashar e venivano falciati dalle mitragliatrici. Ma la cosa più straordinaria è stata che all’imbrunire, quando è scesa la sera, tutto questo popolo si è fermato e ha pregato. E gli uomini di Abu Omar hanno incrociato due kalashnikov davanti alle fila dei combattenti per intonare una preghiera della guerra. Il canto modulato si è levato sui campi sui boschi per chiedere a Dio di vincere la guerra, di uccidere i loro nemici. Dopodiché questa gente si è avviata verso il nemico, ha sfondato le linee e incredibilmente è avanzata oltre i soldati.

 

Verso Homs 

Siamo scesi verso Homs dall’altopiano. Io credo di aver pensato di sognare, che non fosse una scena reale. Nella notte stavamo camminando verso questa grande città, la città nella quale è iniziata la rivoluzione. Una parte della città era già stata distrutta dai bombardamenti ed era vuota, l’altra parte invece era ancora abitata e i combattimenti continuavano. Per uno strano e incredibile effetto ottico l’immensa distesa di queste case bianche si proiettava al contrario verso il cielo: una parte, quella distrutta, aveva la fissità e il silenzio di un cimitero, di una tomba, l’altra invece era tutta luce, scoppi, razzi e rumori. Siamo scesi verso la pianura di Homs. Camminavamo in mezzo a due colonne di fuoco circondati da ombre: la gente correva tenendosi bassa perché le mitragliatrici tiravano ad altezza uomo, inciampavamo sui morti, finché alla fine non siamo arrivati in una piccola città di cemento, una delle tante piccole orribili città della Siria, mal costruite, approssimative.

 

Come Ulisse 

Dopo quella notte ci hanno riportato nella città in cui era iniziato il nostro viaggio, come in una sorta di Odissea. Ulisse va verso Itaca, vede la sua casa, la sua isola là in fondo, ma il Dio feroce, implacabile, il destino, si accanisce contro di lui e una tempesta lo ricaccia indietro e quella è la sua condanna. A noi è successa la stessa cosa. Tornati a Reabruc, la città da cui eravamo partiti, ci hanno venduto al gruppo di Al Faruk. Il vortice è ripreso perché dopo due giorni ci hanno detto che ci avrebbero portato verso nord, verso il confine con la Turchia, e che ci avrebbero liberato. Abbiamo trascorso due notti in viaggio su questi pick-up sulle strade di montagna, con gli autisti che ogni tanto guardavano con il cannocchiale a infrarossi se i militari preparassero agguati sulla strada. Dopo la seconda notte di viaggio al freddo dentro il cassone del pick-up, ricoperti di polvere, siamo arrivati nella zona di Idlib, dove ci hanno tenuto per altre tre o quattro settimane in una base militare. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati come quello degli Ittiti... Il capo dei sequestratori si faceva chiamare Abu Omar. Copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite Noi lo chiamavamo l’infame.

 

La telefonata 

Dopo il primo giorno di marcia questo Abu Omar era seduto come un pascià sotto un albero circondato dalla sua piccola corte di guerriglieri. Mi ha chiamato perché voleva che mi sedessi accanto a lui, voleva fingere di essere nostro amico per ingannare un po’ anche la gente che era lì intorno e che si chiedeva chi fossero questi due occidentali malvestiti e distrutti dopo due mesi di prigionia. Gli ho chiesto il telefono per chiamare casa, dicendo che i miei probabilmente pensavano che io fossi morto e che stava distruggendo la mia vita, la mia famiglia. Lui rideva. E mi mostrava il suo telefonino mentendo e dicendo che non c’era campo, che non si poteva telefonare. Non era vero. In quel momento un soldato dell’Esercito siriano libero, ferito alle gambe, ha tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un telefonino e me l’ha dato davanti a lui. È stato l’unico gesto di pietà umana che ho ricevuto nei 152 giorni. Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po’ troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell’urlo disperato che ho sentito dall’altra parte, la linea è caduta.

 

La prigionia 

Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale, non ho mai provato cos’è l’umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e sentirsi sempre dire no. Credo che c’era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l’occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero.

 

I tentativi di fuga 

La prima volta, il nostro custode probabilmente quella sera si era addormentato, siamo usciti dalla casa e ci siamo diretti verso delle luci,pensavamo fosse AlQusayr. Dopo duecento metri ci hanno ricatturati. La seconda volta invece, eravamo in un’altra località, nell’ultimo periodo della nostra detenzione. Abbiamo approfittato della distrazione di questi quattro ragazzi, che la sera spesso non badavano alle loro cose, ai loro giubbotti con i caricatori, ai kalashnikov, abbandonati vicino alla nostra stanza. Abbiamo preso due granate, pensando di utilizzarle per aprirci la strada. Le ho nascoste sotto un sofà distrutto. Pensavamo di sorprenderli, prender loro un telefonino, telefonare a casa, in Italia, per farci guidare in questa fuga. Purtroppo, o per fortuna, perché credo che un simile tentativo mi avrebbe creato enormi problemi morali, la cosa non è andata in porto. Ma una sera non hanno chiuso con la catena la porta della casa, siamo usciti, dopo aver preso i due kalashnikov, siamo fuggiti verso il confine di Bab al Hawa. Conoscevo quella zona, perché ci ero stato a gennaio.

 

Ridotto a merce Ci siamo nascosti in una specie di rudere nella campagna. Abbiamo cercato di attraversare il confine di notte, ma abbiamo scoperto che c’erano i campi minati. Siamo arrivati fino al filo spinato e siamo dovuti tornare indietro. Abbiamo fermato un’auto col kalashnikov, abbiamo chiesto al guidatore di portarci in un villaggiolì vicino. Ma c’era un posto di blocco.Ci hanno sparato, fermato e riportato verso la casa dove ci tenevano e ci hanno consegnato ai carcerieri per punirci. Ci hanno chiuso in una specie di sgabuzzino con le mani legate dietro la schiena, quasi incaprettati e ci hanno tenuti così per tre giorni. Il nostro valore era quello di una mercanzia. Non si può distruggere la mercanzia, se no si rischia di non ottenere più il suo prezzo. E ti senti veramente come un sacco di grano, un oggetto che vale in quanto vendibile. Ti possono prendere a calci ma non ti possono ammazzare perché se ti guastano troppo, o definitivamente, non ti possono più vendere. È l’orribile legge dell’ostaggio.

 

Le cose semplici della vita 

Una volta ho parlato con Georges Malbrunot, giornalista del «Figaro» che è stato forse uno dei più celebri ostaggi, molti anni fa, durante la guerra Iraq-Iran. Credo che sia stato ostaggio quattro mesi, in condizioni forse addirittura peggiori delle mie, in una grotta. E raccontava questa depauperizzazione di tutto ciò che uno è, che sono le scarpe, i vestiti... Io sono stato cinque mesi senza scarpe, camminando a piedi nudi. Per cinque mesi il mio ritmo di vita è diventato il sole che spunta e il sole che tramonta. E poi l’impossibilità di fare tutte le cose che costituiscono la vita: camminare, muoversi, incontrare altre persone, scrivere leggere, guardare il paesaggio, sognare di fare delle cose che poi magari non fai, che sono il tuo modo di vivere. Io per cinque mesi ho vegetato, nel senso stretto della parola, cinque mesi in cui mi è stata succhiata la vita ed è stata sostituita con qualche cosa di artificiale, che è essere un oggetto e lottare contro il tempo. Ho imparato il carattere straordinario di alcune cose semplici, come un bicchiere d’acqua fresca. E poi vedere il sole, perché le finestrelle erano piccole e spesso c’era l’oscurità totale. Camminare, parlare con qualcuno che non fosse sempre questo mio compagno di sventura. E meno male che c’era, perché altrimenti sarei impazzito.

 

I carcerieri Erano di un gruppo che si professa islamista ma in realtà è formato da giovani sbandati che sono entrati nella rivoluzione perché la rivoluzione oramai è di questi gruppi che sono a metà tra il banditismo e il fanatismo. Seguono chi gli promette un futuro, gli dà le armi, la forza, gli versa il denaro per comprarsi i telefonini, computer, vestiti. Le Adidas sono estremamente diffuse in Siria, tutti hanno magliette Adidas, scarpe Adidas, sembra una specie di sponsorizzazione. Questi ragazzi vivono una vita di maschi, senza femmine, comunitaria in cui non fanno nulla e passano la giornata sdraiati sui materassi a bere mate. Credevo fosse una cosa sudamericana invece è estremamente diffuso in alcune zone della Siria. E fumano Marlboro originali americane che fanno arrivare dalla Turchia. Io sembravo più islamista di molti di loro perché non fumo e non bevo. E guardavano la televisione ma l’informazione era l’ultima cosa che gli interessava. Solo filmetti vagamente osé della televisione del Qatar o vecchi film egiziani sentimentali degli anni 50 in bianco e nero o gare di lotta, il wrestling americano oppure una terribile forma di lotta praticata nei paesi arabi in cui tutto è permesso...

 

Le finte esecuzioni 

Per due volte hanno finto di mettermi al muro. Eravamo dalle parti di Al Qusayr. Uno si è avvicinato con la pistola e mi ha fatto vedere che la pistola era carica poi mi ha detto di mettere la testa contro al muro, mi ha avvicinato la pistola alla tempia. Lunghi momenti in cui ti vergogni... io mi ricordo la finta esecuzione di Dostoevskij... ti viene una rabbia perla paura che hai, senti che l’uomo che è vicino a te respira, trasuda il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e sentire che tu hai paura, e ti viene la rabbia perché tu hai paura. È un po’ come quando i bambini, che sono spesso terribilmente crudeli, strappano la coda alla lucertola o le zampe alle formiche. La stessa ferocia terribile.

 

Le trattative Per ridere di noi i nostri carcerieri ogni tanto ci dicevano «due o tre giorni, una settimana, e poi via liberi in Italia» per vedere poi la nostra disperazione... perché aggiungevano una parola... Inshallah... che è il loro modo di mentire senza avere il senso di mentire, inshallah, è successo... Dicevano continuamente «bukrah» che vuole dire domani... poi l’indomani non partiva nessuno. Un gioco veramente crudele, ma negli ultimi tempi quando ci dicevano così noi a nostra volta rispondevamo: «inshallah...» per far capire che avevamo capito. Alla fine, domenica, ho sentito che sarebbe stata la volta buona. Forse per bruciare le piste, abbiamo praticamente attraversato tutto il paese, fin quasi a Deir Azor, nel grande deserto siriano. Ci siamo fermati in una città di cui non saprei dire il nome e poi siamo tornati indietro rifacendo la stessa strada. Una sorta di depistaggio. E poi siamo stati liberati. E questa volta non era Inshallah. Ci hanno fatto scendere dalle macchine dall’altra parte del confine, dicendo di camminare. Confesso di aver pensato che ci avrebbero sparato nella schiena, era buio, era notte, domenica dopo il tramonto. Ho pensato che se avessi sentito il rumore del caricatore mi sarei buttato per terra. Ero sicuro che mi avrebbero eliminato, avevamo visto le loro facce, sapevamo i loro nomi. E invece nessuno ha caricato il kalashnikov. E poi ho sentito voci italiane. Inshallah, questa volta era la volta buona.

 

I libri 

Io viaggio sempre con i libri, piuttosto rinuncio a tre ricambi di magliette. Questa volta ne avevo quattro. Due libri di un autore che sciaguratamente oggi è stato dimenticato, Erich Maria Remarque, due opere forse un po’ minori «Tempo di vivere, tempo di morire» e «La via del ritorno» che è la storia del ritorno di alcuni reduci tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Un po’ il simbolo anche della mia via del ritorno che non riuscivo a trovare. Norman Mailer, «Il nudo e il morto» e poi «Delitto e castigo» di Dostoevskij. Li ho letti e riletti. Posso raccontare tutti i personaggi, recitarli all’indietro. Li ho portati dietro di me con fatica perché pesavano, ho marciato con loro per due notti e per due giorni durante la ritirata di Al Qusayr. Me li hanno sequestrati l’ultimo giorno. I libri ti parlano. Ma per un certo periodo non mi hanno parlato più, scorrevano le parole, le storie i personaggi... Se farò altri viaggi del genere mi porterò sempre la «Recherche» di Proust, il «Don Chisciotte», libri lunghi, molto lunghi... aiuta.

 

La fede 

In tutta questa esperienza c’è molto Dio. Pierre Piccinin è un credente. Io sono un credente. La mia è una fede molto semplice, la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere.È la storia di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito. Avevo anche un mio bloc notes e ogni giorno segnavo ciò che succedeva.L’avevo quasi finito, mancavano due pagine. L’ultimo giorno me l’hanno preso. Mi è servito soprattutto a tenere il conteggio dei mesi, dei giorni,perché se uno perde il senso del tempo affonda in un pozzo da cui non esce più.


da - http://lastampa.it/2013/09/10/esteri/il-racconto-di-domenico-quirico-io-tra-bombe-fughe-e-umiliazioni-zkKhtCQSKkvLZOxHfADAlO/pagina.html


Titolo: Domenico Quirico: “Ero pronto a morire ma uccidere è difficile”
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2013, 07:44:50 pm
esteri
14/09/2013 - il racconto di Domenico Quirico: “Ero pronto a morire ma uccidere è difficile”

Tutto esaurito al Teatro Carignano per l’inviato rilasciato in Siria: “Il mio errore? La vanità”

Marco Bardazzi
[marco bardazzi su g+]


Si può essere pronti a morire, in cambio di un’ultima corsa «nella notte meravigliosa della Siria» e della libertà di sentire ancora una volta una voce amata al telefono. Si può essere pronti a uccidere, anche se le persone a cui stai per togliere la vita sono ormai parte della tua.
Si può chiedere scusa pubblicamente dal palco a due figlie, davanti a centinaia di sconosciuti in platea, «perché la mia vanità le ha rese vittime». Domenico Quirico non è più solo un grande reporter di guerra: gli eventi degli ultimi cinque mesi lo hanno reso un inviato alla scoperta delle domande ultime dell’uomo. 

Vita, morte, vanità, umiltà, paura, peccato, grazia, Dio: nel suo racconto dei 152 giorni di prigionia in Siria, c’è ben più della narrazione di eventi e dell’analisi geopolitica di un Medio Oriente che ama e che l’ha tradito. I suoi lettori lo hanno capito ed è anche per questo che ieri il Teatro Carignano, nel cuore di Torino, è stato preso d’assalto per ascoltare il colloquio sul palco tra Quirico e il direttore de «La Stampa», Mario Calabresi. Tutto esaurito all’interno, in centinaia all’esterno davanti a un maxischermo, migliaia collegati su LaStampa.it per seguire la diretta streaming, realizzata con l’ausilio della Web Car, la redazione mobile de «La Stampa» per i collegamenti via satellite.

Giovani e anziani, autorità e gente comune: c’era un popolo variegato al Carignano. «Mi interessava tantissimo vederlo e ascoltare il suo racconto dal vivo, dopo aver sempre seguito quello che scrive», ha detto all’ingresso Maria Grazia Pronzati, torinese, una delle centinaia di persone che un’ora prima dell’evento erano disposte in una coda che si snodava per tutta la piazza. «Posso solo immaginare cosa abbia passato quella sua povera famiglia, in tutti questi mesi», ha aggiunto un’altra lettrice, Angiola Aluffi, stringendo il cartoncino che dava diritto all’ingresso gratuito all’incontro, organizzato da «La Stampa» con il Teatro Stabile di Torino.

Proprio alla famiglia, in particolare alle figlie Eleonora e Metella sedute in prima fila, Quirico ha voluto riservare le prime riflessioni, rispondendo alle domande di Calabresi. «Mi sono chiesto più volte - ha detto - se ho commesso errori tecnici in questa storia. Il mio errore è stata la vanità. L’idea che nel mio mestiere sono in grado di arrivare dovunque. Per la prima volta mi sono accorto che la mia vanità fa delle vittime.
Ci sono le mie figlie qui, a cui ho provocato un dolore immenso. Se uscirò migliore da questa storia, avrò imparato che non sono solo.
Avrò imparato l’umiltà nel mio mestiere».

A una platea che lo ha seguito in un silenzio assoluto - interrotto da esplosioni di applausi -, Quirico ha spiegato di avere una strada precisa da imboccare: «Se scegliessi di odiare chi mi ha rubato questi mesi di vita, resterei ostaggio. Non posso, l’unica speranza che ho è recuperare
l’umiltà e chiedere perdono alle mie figlie».

Quegli uomini che si sforza di non odiare, Quirico con il compagno di prigionia Pierre Piccinin è arrivato a un passo dal provare a ucciderli.
I due ostaggi si erano impadroniti di due granate e hanno discusso a lungo su se e come usarle per ammazzare i quattro carcerieri.
«Avevo un problema morale: ero in grado di farlo? Erano i miei torturatori, ma in qualche misura erano diventati parte della mia vita. Di uno sapevo che aveva famiglia, dei figli. Un altro era un ragazzo di campagna. Un terzo mangiava in continuazione, con la fame bulimica dei poveri e dei miseri. Il quarto era sempre al telefono, con presunte fidanzate». Privato di tutto, Domenico Quirico ha provato il tormento di dover decidere se privare altri della vita. 

Gli eventi lo hanno aiutato. Impugnati due kalashnikov (ma purtroppo nessun telefonino), Quirico e Piccinin sono riusciti a fuggire verso il confine turco mentre tutti dormivano. Una fuga andata male, ma che Domenico ricorda come un momento di liberazione che va al cuore del desiderio di libertà di ogni uomo. «Sentivo il bisogno di correre, di parlare al telefono, di sentire la voce di mia moglie e delle mie figlie. Le notti siriane sono meravigliose. Sentire l’aria della notte, conquistare di nuovo quella notte dopo tanta prigionia: per quello, per correre ero disposto a pagare qualsiasi prezzo, anche la vita».

«Siamo arrivati così tante volte vicino alla libertà - ha raccontato Quirico - ma ogni volta svaniva. Abbiamo pregato molto, Dio era con noi in quella cella. Ma a un certo punto ho pensato che fosse evaporato. Invece era sbagliato il modo in cui ci rivolgevamo a lui.

Dio non fa patti, non è un supermercato. Questa è la lezione di Dio: bisogna saper attendere. Aspettare. Come Giobbe, che attende, perde tutto e lo riavrà moltiplicato per dieci». 


da - http://lastampa.it/2013/09/14/esteri/quirico-ero-pronto-a-morire-ma-uccidere-difficile-xVg5f6jPdt6nMASIgG3YfK/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO: la guerra che stiamo sottovalutando
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2013, 04:46:37 pm
EDITORIALI
22/09/2013

Quirico: la guerra che stiamo sottovalutando

DOMENICO QUIRICO

Eccola la prossima guerra che ci attende, si avvicina, già incombe, da una parte l’Occidente, noi, dall’altra l’Islam radicale determinato a vendicare i secoli dell’umiliazione, a ricostruire con i soldi dell’Arabia Saudita e del Qatar, grande invincibile, la terra del vero dio.
Oggi ad essere colpita è Nairobi, e a colpire sono gli shebab. Domani sarà la Tunisia, la Siria, l’Egitto. 

E poi toccherà, almeno nei loro sogni, a Al Andalus, la Spagna che, come mi hanno raccontato gli uomini di Al Qaeda di cui sono stato prigioniero, è «terra nostra e la riprenderemo». All’Occidente, spaurito e volutamente distratto e saldamente deciso a seguire un mito di un Islam moderato, educato che esiste solo nei libri (e nelle bugie), disperatamente aggrappato al calendariuccio delle nostre nobili comodità, sfugge la semplicità brutale del problema. L’Islam fanatico che era un semplice guaio di polizia che ci costava soldi e rendeva complicata la vita, ma non era letale, sta per diventare un problema militare. Quando si è deboli e brutali, come lo è oggi l’Occidente, si è molto più odiati di quando si è forti e brutali ed è ciò che sta accadendo ora. 
 
I folli di dio somali che separano i musulmani dagli «altri» e cominciano a giustiziare i secondi, sono il segno manifesto di questa dichiarazione di guerra, a Nairobi ci sono i primi morti della guerra che verrà. Gli shebab sono la metastasi della tragedia somala, il paradigma di un Paese dove il radicalismo religioso era in passato sconosciuto. Soltanto attraverso la brutalità di una guerra civile, approfittando dell’indifferenza dell’Occidente che non ha saputo intervenire, sono diventati padroni del Paese. Bisognava emarginarli, ma non distruggerli. 
 
Ci sono voluti molti anni, ora sono ricomparsi. Controllano ancora buona parte del territorio, possono colpire e vendicarsi nel vicino Kenya colpevole di aver occupato, con la scusa di riportare l’ordine, una parte del territorio somalo (tra l’altro ricco di petrolio).
Una storia somala sta per ripetersi in Siria: una rivoluzione troppo debole, gli islamisti che si preparano dopo la cacciata di Assad a imporre la loro legge. Il Califfato, una società olistica ripiegata su se stessa e sul passato, sembrava un sogno retorico, ma si materializza ogni giorno di più nei fatti. Il partito di dio e i suoi eserciti dimostrano di essere in grado di aprire nuovi fronti. In una guerra santa la morte diventa un combustibile, un mezzo per un fine in sé.

da - http://www.lastampa.it/2013/09/22/cultura/opinioni/editoriali/quirico-la-guerra-che-stiamo-sottovalutando-BfnqpsYbaJorcuxRaDKjdK/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - In Mali Al Qaeda uccide la Primavera dei tuareg
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 07:12:49 pm
Esteri
25/04/2012 - REPORTAGE

Droga, fucili e Corano

In Mali Al Qaeda uccide la Primavera dei tuareg

Secondo l'ultima stima i tuareg sarebbero 5,2 milioni. La popolazione berbera africana vive nel Sahara. 1,4 milioni abita in Mali. (Foto Afp)

Viaggio nella terra di nessuno dell'Azawad, dove gli uomini blu hanno proclamato il loro Stato e
i fondamentalisti l'hanno invaso
domenico quirico

Ho attraversato il confine del “Malistan” e non me ne sono accorto. In un punto c’era una linea invisibile, un uadi o un cespo di capanne, ed era il confine, il pickup l’ha passato come se niente fosse. In ogni confine c’è qualcosa di terribilmente definitivo, una linea e addio. Le ruote ci passano sopra come passerebbero sopra un corpo, anche se fosse un uomo vivo. Forse avrei dovuto intuirlo: quando gli uomini che erano con me si girarono - il panno dei turbanti stretto attorno al capo, all’altezza del naso - e tirarono fuori la piega della stoffa, sopra gli occhi, come la visiera di un elmo medioevale, lasciando solo una stretta e mobile fessura per gli occhi.

Dunque è così, che sarebbe avvenuto, impercettibilmente: sono nell’Azawad. Una parola cupa, bella e piena di dolore. L’Azawad, «la terra dove c’è pascolo» in tamasheq, la lingua dei nomadi, che il pollice di Dio ha fissato una volta per tutte, al momento della creazione. Il Mali, lo stato e i suoi soldati, sono fuggiti due settimane fa. Ora ci sono i tuareg ribelli, e i salafiti e Al Qaeda, ed è un caos che nessuno comanda.

Si ha sempre un senso di colpa quando si entra in abiti civili nelle regioni dove c’è la guerra e la morte: dopo tutto non si va a visitare un disastro se non per portare soccorso. Ci si sente come dei voyeurs della violenza. Lo confesso: i tuareg mi piacciono, per quella autonomia piena di giubilo, esaltante, che reca l’immensità. Perché la loro vita zoppica sempre di più, hanno ucciso le loro bestie, avvelenato i loro pozzi, violentato le loro donne, li hanno strangolati con le siccità e il sottosviluppo, i governi dei neri. Noi con il finto esotismo, e l’oblio.

Per Ali che guida il pick-up verso Menaka ogni giro di ruota dopo il confine strappa un pezzo della sua vita, una vita infelice. Per lui quella ricchezza di verde, le colline tonde e vanitose lungo il Niger , avevano qualcosa di indecente, di ostentato. Sentiva, prepotente, la nostalgia di paesaggi spogli. Ha gli occhi pieni di tutto il divertimento della vita. È tuffato nel ricordo di menestrelli, guerrieri, grandi gazzelle che non ci sono più perché il governo ha concesso ai ricchi arabi di sterminarle sparando gioiosamente dai fuori strada climatizzati; di marabutti come Askja Mohamed, che nel grande pellegrinaggio seminò dietro di sè, nella sabbia, uomini stanchi e non abbastanza saldi nella fede; e quelli divennero i cittadini di Gao e di Agadez.

«Peccato, c’è un po’ di confusione». Così l’ha chiamato, Ali, il tumulto che fa paura all’Occidente: «Non possiamo salire fino alle “chele del granchio”, peccato, è un posto pieno di magia, perfino pericoloso. Molti lì hanno visto il diavolo e sono diventati pazzi». Lo so che, in tasca, lui tiene i gris gris, gli amuleti, e ne ha uno efficace perfino contro l’indifferenza delle donne. Non gli basteranno i gris gris, povero Ali.

Sono venuto qui convinto di raccontare un sogno che si realizzava, uno Stato per i tuareg popolo senza terra, sì, un’altra primavera come quelle arabe a Nord. E invece devo raccontare la loro fine. È l’ultima sconfitta degli uomini blu, e stavolta non risorgeranno. Annegheranno nel grande mare arabo e non saranno più nulla. Sono arrivati nel deserto fuggendo gli arabi invasori, questa era la loro trincea, hanno resistito, si sono battuti. Il fondamentalismo e Al Qaeda sono nient’altro che l’ennesima invasione. Solo che questa volta non resisteranno. Noi, l’occidente, potremmo aiutarli. Invece li chiamiamo terroristi e salafiti. Sono soli come sempre. Bajan ag Hamatou è il sultano di Menaka e deputato di questa regione da trent’anni: «La proclamazione della indipendenza dell’Azawad? È l’invenzione di qualche tuareg che vive a Parigi e sta seduto comodo davanti al computer: un clic ed ecco inventato l’Azawad! Noi spariremo come sono già sparite le gazzelle. Tutto era di cartapesta: lo Stato del Mali, lo Stato dei tuareg, tutto costruito sul niente come in Africa. Tutto deve crollare, poi forse si potrà ricostruire. Come l’Italia dopo la guerra. Quando c’è stata la grande siccità e noi tuareg morivamo di fame e di sete, hanno creato un’associazione, per sedentarizzarli e salvarli. Sono andato a Parigi a cercare aiuto, eravamo di moda, allora; gli uomini blu, i guerrieri del deserto ... Mi hanno detto: ma no! Sei pazzo, fare delle case per i tuareg, fissarli a un luogo! Ma è la vostra cultura! Capisci: volevano amare i tuareg più e meglio di me! Adesso i salafiti mi hanno detto: vieni a pregare con noi a Gao liberata: ho risposto no, ho 64 anni ed è troppo tardi perché cambi modo di pregare».

Il vento, adesso che attraversiamo vasti campi di lava scura e catene di roccesabbiose, e il moto del pick-up pare quasi un’immobilità di sforzi vani, ha un sapore di fornace. Eppure il khamsin seduce, forse è per un certo impegno di cosciente, meticolosa malevolenza che mette nella sua lotta contro gli uomini e le cose.

Anche «il Maggiore» all’inizio mi piaceva. È tuareg, era nell’esercito del Mali, prima. E comandava la zona. Come ora. Si muove a scatti come chi è inseguito e si tiene pronto a nascondersi o fuggire con la massima rapidità, il suo volto di lince piccolo, appuntito, sorride sempre. La corruzione, in fondo, ha un suo spiccato fascino, e non si può dubitare della sua: l’ha come fosforo, inequivocabile, alla superficie della pelle. Poi l’ho visto mangiare gli spiedini, vorace, due, quattro, dieci, intinti fino all’orlo nella salse; e il dito medio dall’unghia lunga e puntuta che serviva alla pulizia dei denti. Tutto, soggiorni nelle accademie militari, l’imitazione borghese, è crollato di colpo. E allora ho pensato che la pista di atterraggio nel deserto di «Air cocaine», il Boeing 727 zeppo di dieci tonnellate di droga, non era lontano. In Colombia, da dov’era partito, la cocaina costava mille euro al chilo; in Africa, dove transita verso l’Europa, sono già diventati dodicimila. A fare i conti di quanto incassano i funzionari corrotti, e Al Qaeda che permette e protegge il passaggio, viene la vertigine. E inizi a capire questa guerra. In soli tre giorni l’esercito dei sudisti, smunto da generali addetti al contrabbando e da soldati neri che non ricevono la paga e le armi, è fuggito. Gli ufficiali felloni hanno organizzato a Bamako un putsch grottesco per non essere giudicati e non tornare a combattere. Il Nord è diventato un Paese terremotato, deteriorato, una gigantesca avaria; il nichilismo militare è diventato nichilismo politico, come nella Somalia dei signori della guerra e degli islamisti. I tuareg, che hanno fatto da miccia , non controllano più la loro terra. Perché sulla scena sono saliti, nello sperdimento di ogni regola e ordine, i salafiti, goccianti fanatismo, riuniti nel gruppo Ansar Dine; e i loro alleati di Al Qaeda.

Gli emiri del deserto, barbe brigantesche e teologiche certezze. Piccoli, feroci Bin Laden algerini con le loro bande, gente da sacco e da forca, viaggiano pregano, amministrano fanno discorsi, controllano Gao, Timbuctu, la città dei 333 santi, Mopti, dove scalmana l’avvio ancora tiepido della sharia più integrale e nefasta. Un altro veicolo ci viene incontro nei vapori ondeggianti della polvere. Chi sono ? Questi giorni, con le scorrerie e il caos, non conoscono amici nel Nord del Mali. Sono tuareg di scorta, solo occhi ci guardano nella fessura del turbante, al riparo dall’aria ardente che passa sui volti come una maschera di metallo. Moulaye, come succede a chi è uso a stentare la vita ha un dolore virile e pudico e non fa storie È un «ishomar», una deformazione del francese «chomeur», disoccupato, un tuareg che la miseria ha sradicato dalla sua tradizione ed è entrato nella modernità per vie traverse, un figlio dell’oblio e della siccità finito nella legione verde di Gheddafi a guadagnarsi il pane e la sopravvivenza. Uno dei duemila che con armi pesanti sono venuti ad accendere la rivolta a Kidal, la prima città liberata. Moulaye combatte da sempre, vecchio soldato cuore di bronzo.

Ma anche lui sa di essere vinto: «Noi tuareg non esistiamo più, ormai, noi che siamo statiper anni in Libia siamo arabi, il tamasheq lo parlano solo alcuni in casa. Se tutto andrà bene chissà un giorno mi comprerò due cammelli e un pezzo di terra nella brousse per andare il fine settimana a fare il tuareg. Come ho visto fare ai libici ricchi». La città di Menaka, nella regione di Gao, prima contava 40 mila abitanti dentro la sua cintura di immondizia e di plastica che l’avvolge come le spire di un pitone. Metà almeno sono fuggiti, trovi nelle strade solo gente sparpagliata, a grumi allarmati e diffidenti, gente sul chi vive che non sa come si metteranno le cose. Per ora comanda la tribù di questa zone, una sorta di comitato di autodifesa, ma i salafiti possono arrivare. Donne e bambini sono fuggiti, sono rimasti gli uomini a tener d’occhio gli «affaires», che più sono miseri più sono indispensabili alla vita. In questa guerra che non ha contato vere battaglie ma solo ritirate precipitose e avanzate fulminanti, e le città sono cadute come un frutto troppo maturo, da sé, i morti sono pochi. Ma l’ospedale, che la cooperazione italiana aveva finanziato, è stato saccheggiato, non ci sono più medicine. Anche la grande scuola per mille allievi e alcuni uffici pubblici, simbolo dei sudisti, sono stati saccheggiati.

Forse perché amano lo spazio aperto, le case dei tuareg sono catacombe immerse nell’ombra. I salafiti di Ansar Dine sembrano più forti, hanno denaro e armi: «Noi siamo gente semplice, la più grande paura è sentirsi dominati, dover obbedire. Perfino quando combattiamo non accettiamo di essere comandati. Se qualcuno ci prova gli diciamo: non sei padrone della mia coscienza. Per questo neppure Al Qaeda potrà darci ordini. Oggi discutiamo con i salafiti, ma per esempio non potranno certo imporci di velare le donne». L’orgoglio: non ostentato in superficie neanche fosse una malattia della pelle e sensibile al minimo tocco. Il loro è sepolto in profondità. È quanto resta all’occidente distratto e pauroso che non si è ancora accorto di avere un Afghanistan alle porte del petrolio libico, dell’uranio del Niger, del gas algerino. E sulle piste dei nuovi schiavi che salgono, pieni di rabbia, verso l’Europa. È Iyad Ag Ghali l’uomo decisivo; dicono che ha incontrato alZahawiri. Ma ha fondato Ansar Dine per sottrarre i giovani tuareg alla tentazione di Al Qaeda. L’occidente e il governo del Mali devono fargli offerte per convincerlo a battersi contro Al Qaeda, a non imboccare una via senza ritorno. Far parte del deserto, e i tuareg lo sanno, significa essere condannati a una eterna battaglia contro un nemico non di questo mondo né di questa vita né di null’altro. Se non, forse, la stessa Speranza.

Da - http://www.lastampa.it/2012/04/25/esteri/droga-fucili-e-coranoin-mali-al-qaeda-uccidela-primavera-dei-tuareg-rvVqxN83zKV3G9jiHtBdCK/pagina.html


Titolo: Domenico Quirico Così mi ha tradito la rivoluzione siriana
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2013, 11:28:08 am
Cultura
21/11/2013 - Domenico Quirico

Così mi ha tradito la rivoluzione siriana

L’inviato della Stampa e il suo compagno di prigionia raccontano in un libro i loro 152 giorni nel Paese del Male
Domenico Quirico

Esce oggi per Neri Pozza Il Paese del Male. 152 giorni in ostaggio in Siria (pp. 175, € 15), il libro in cui l’inviato della Stampa Domenico Quirico e il suo compagno di prigionia, il belga Pierre Piccinin da Prata, raccontano la loro esperienza. Tutto era cominciato lo scorso 9 aprile, nei pressi della città di al-Qusser, quando l’Armata siriana libera li aveva consegnati a un gruppo jihadista. Trascorsero cinque lunghi mesi, intessuti di angoscia e di incertezza sulla loro sorte, prima della liberazione, l’8 settembre. Nel libro i loro ricordi si alternano, di capitolo in capitolo. Anticipiamo quello che Quirico dedica al momento della cattura. 

«Andiamo alla collina di Qadesh…» annuncia il nostro accompagnatore, Trad Zawri, a cui siamo stati affidati dal centro stampa dell’Armata libera. «Centro stampa»: in realtà dietro il nome pomposo ci sono soltanto lui e il suo capo, Abu Shams. 

Qadesh: gli ittiti, Ramses il grande… Qui imperi sono nati e si sono spenti. Quanta Storia. Prima che gli assalti dei ribelli la prendessero di mira, la collina era una base dell’esercito. Sulla cima c’è una moschea sbocconcellata dalle cannonate, dove il vento gioca tra le rovine e le macerie, con uno strano suono simile a un disperato respiro umano. Le trincee che ancora si distinguono sono ingombre di cassette sventrate, fucili distrutti, elmetti, baionette sparsi per il terreno. Pierre raspa un po’ la terra vicino alla buca di un cecchino: spuntano frammenti di antica argilla… La Storia, eccola, dove ora soffrono, lottano e muoiono creature viventi.

Zawri racconta: qui c’erano i tiratori, là sono salite le nostre squadre d’assalto… Pare di assistere alla spiegazione di un gioco, alla tranquilla constatazione di una scoperta sulla quale non è nemmeno necessario spendere troppe parole. La quiete, il silenzio tolgono ogni voglia di ragionare: pare di vivere un sogno col timore di non goderlo abbastanza. 

Torniamo ad al-Qusser. I piccoli calibri del nemico aprono il fuoco nel momento in cui imbocchiamo la strada che si perde nella pianura. Sotto un cavalcavia, che un bombardamento ormai antico ha lentamente demolito e sconvolto, un gruppo di ribelli sfiniti dalla fatica, con grandi occhi pieni d’ombra, ci guarda passare senza un gesto, masticando gli avanzi di una pagnotta. Nel luogo della strage dell’alba non sono rimasti che crateri di un colore grigio che sfuma al nero sui bordi. L’aria è limpida, di una trasparenza che dà il capogiro. 

 
Al cimitero si raduna una folla silenziosa: il funerale di uno dei morti del bombardamento al mulino. I cimiteri musulmani: così diversi dai nostri, senza marmi, gessi, angeli dalle ali ammuffite. C’è un senso di appartenenza, si può andare ovunque e vedere qualsiasi cosa. Da questo posto la vita si è ritirata, completamente. In Siria ho assistito a molti funerali. Ma mai a uno come questo. In passato avevo visto rabbia, volontà di battersi, di vendicare il «martire»; qui c’è soltanto puro dolore, vuoto, silenzio. Ciò che il mondo conosce meglio di qualunque altra cosa – la speranza – qui ci si è abituati a perderla, a vederla svanire.

La folla passa, in una lenta processione, accanto ai parenti del ragazzo ucciso e stringe loro la mano. Un vecchio cade in ginocchio, protendendo le braccia. Sono tutti uomini: alle donne l’Islam assegna il dolore del giorno dopo, senza testimoni, senza voce. Lì vicino, una madre accarezza il semplice tumulo di terra dove è sepolto un figlio; piange, senza lacrime, con un suono come di qualcosa chiuso in trappola che cerca di liberarsi. 

 Nello spiazzo hanno già scavato altre buche, grattando a fatica nella terra dura e asciutta: sanno che non resteranno vuote per molto tempo. Teneri mucchietti ondulati con una cura che fa sentire il palmo della mano. Certo, il giorno in cui nessuno se ne occuperà più, verranno disfatti dal vento. Sembra assurdo che quella terra tutta dissociata atomo per atomo, senza germi di vita o goccia di umore o ombra di foglia, possa accogliere la morte. Assurdo quanto un cadavere seppellito nell’aria. 

Questo è un carnaio, un carnaio di principî veri e falsi, di buone e cattive intenzioni.

Ricordo un’altra guerra, il momento in cui ho creduto di aver imparato la mia prima lezione: quando non c’è più nulla da fare dimentica, voltati, tieni duro. La pietà è una cosa da tempi di pace, non quando in gioco c’è l’esistenza. Seppellisci i morti e divora la vita! Ne avrai bisogno, il dolore è una cosa, la realtà un’altra. Solo a questa condizione si sopravvive. Ma ora so che non bisogna rassegnarsi a questa filosofia. 

Riprendiamo la strada verso il comando dell’Armata siriana libera, dove abbiamo lasciato i nostri zaini, e ci sentiamo come due che ancora una volta se la sono cavata. D’un tratto il giorno mi sembra di nuovo caldo e sfavillante. Ancora una volta, dunque, la grigia posta della vita è pietosamente velata dal dono di alcune ore. Ma forse è solo una menzogna: nulla è donato, questo è solo un rinvio. Ma che cosa nella vita, nelle vicende, guerre, rivoluzioni, che racconto da vent’anni, non lo è? Non è un continuo rinvio, una pietosa dilazione? 

Abbiamo chiesto di essere riportati a Qara. Ci presentano un miliziano che ci accompagnerà. È grosso, ha una lunga barba rossa e le mani callose da contadino, sorride in modo strano, sfuggente, non parla ma con gli occhi sembra ferire tutto ciò che vede. Insieme a lui e ad alcuni ribelli mangiamo un piatto di fagioli, per terra. Quando usciamo dalla casa, dei ragazzi armati ci guardano e ci lanciano strani saluti ironici: «Bye bye». 

Tacciono le armi nella quiete della notte, la città sembra riposare. Scalpiccio di scarpe nella via, passano due miliziani con i mitra tenuti tra le mani come fossero arnesi da lavoro. La notte si richiude su di loro. Prendiamo posto a fianco dell’autista. La macchina parte sollevando turbini di polvere bianca. La città ci sfila davanti nel buio che nasconde le sue ferite, arcanamente bella. Nulla vive, nulla sembra vivere.

Passano cinque minuti da quando ci siamo lasciati alle spalle le ultime case: un’auto avanza verso di noi con i fari accesi. Strano: qui di notte si viaggia con tutte le luci accuratamente coperte, il nastro adesivo nero perfino sul quadro dei comandi, anche una sola bava di luce può richiamare l’attenzione mortale degli elicotteri e dei cecchini. L’auto misteriosa punta verso di noi, e il miliziano che ci guida abbozza una manovra a dir poco bizzarra: rallenta e si arresta a metà strada, la portiera rivolta verso le luci che si avvicinano sempre più rapidamente. 

«È un’imboscata» grido, ma invece di ripartire l’uomo sembra impacciato con le marce e lascia spegnere maldestramente il motore. Dalla luce emergono figure scure di incappucciati che sparano raffiche di mitra e gridano: «Police, police». 

«Pierre! Sono gli uomini di Bashar…!». 

Non faccio quasi in tempo a dirlo che ci sono già addosso, spalancano la portiera, ci trascinano verso il loro pick up. Mi volto e l’ultima cosa che vedo è il nostro autista che passa gli zaini a uno degli assalitori. Ci hanno venduti, traditi! 

Ci gettano nel cassone dove, ora che ho gli occhi bendati, sento la presenza di altri uomini. 

«Pierre, sei lì?». 

«Sì». 

E subito piovono pugni e calci per farci tacere. Il pick up riparte, dritto su uno sterrato dove sobbalza e sbanda. Dieci minuti di viaggio a velocità sostenuta, poi si ferma. Ci gettano giù, ci fanno inginocchiare a terra, e sono già certo che arriverà una raffica di mitra. Invece ci spogliano e mani brutali ci fanno indossare una maglia e i pantaloni di una tuta. Ci fanno proseguire a spintoni, a calci, ho i piedi nudi, sento la rugiada, il freddo che sale dall’erba. Inciampando mi arrampico lungo una breve scala ed entro in una stanza. Lo so perché attraverso la benda intravedo una luce forte e sento delle voci, i rumori di molti uomini riuniti. Mi gettano a terra e a pedate mi sistemano con la schiena contro il muro.

Una mano grossa, nodosa mi afferra alla gola e stringe.

«Lo sai dove sei?». 

«No».

«Sei con la polizia di Bashar Assad. Io sono un colonnello della polizia di Bashar». 

L’uomo mi colpisce una, due, tre volte alla testa, ma non è questo che mi fa paura: è la sua voce, profonda che raschia la pelle, la voce di un orco. Attraverso la sua mano, una mano che stringe di colpo senza bisogno di tastare, dura, impietosa, e il suo fiato a due passi dal mio viso, avverto il piacere fisico, bestiale che quell’uomo prova a sentire la mia paura, il mio sudore. Ci chiedono come ci chiamiamo, da dove veniamo, Italia, Belgio, il mestiere, giornalisti, giornalisti, sghignazzano: si capisce che già sapevano. Quando vogliono appurare se ho figli, mento, dico che ho due maschi, «Alberto e Giuseppe» mi invento. Non so perché lo faccio, forse non voglio che i nomi delle mie figlie striscino in mezzo ai lazzi di questa gente, a parole che spesso non posso decifrare. Se ne vanno, ordinandoci di stare in silenzio e di non muoverci. La luce si spegne.

LUNEDI’ A TORINO 

Il libro di Domenico Quirico e Pierre Piccinin da Prata sarà presentato lunedì prossimo alle ore 21 al Circolo dei lettori di Torino (via Bogino 9). Con Quirico interverrà il direttore della Stampa Mario Calabresi. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/21/cultura/cos-mi-ha-tradito-la-rivoluzione-siriana-lv3nDYaKP7Box9PMY9t4fJ/pagina.html


Titolo: Domenico Quirico. - Fra i reduci di Maidan “La rivoluzione? È appena iniziata”
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 05:54:26 pm
Esteri

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 26/02/2014.

Fra i reduci di Maidan “La rivoluzione? È appena iniziata”
La piazza mugugna e non rinuncia alle barricate “Non abbiamo dato il sangue per tornare al passato”

L’antica città è morta. La città ha mille anni. La sera è stato un lungo crepuscolo giallo. Il cielo ora è venato di azzurro e di infinito. Un sogno da svegli: Kiev rivoluzionaria. Non un popolo esaltato e vincitore, ma dolore e incertezza. Tutto è provvisorio qui: il Parlamento che emana leggi in un palazzo controllato da rivoluzionari armati di bastoni, la pazienza dei giovani di Maidan, i rapporti con la Russia, l’economia sospesa sul baratro... Nel deserto silenzio della notte le campane del museo delle marionette non squillano più cristalline. 

In giorni come questi si sogna da svegli. All’ingresso delle barricate ci sono ancora sentinelle. Anche se il nemico è fuggito. Lunghe file di lumini guidano nel buio verso i luoghi dove i martiri sono stati uccisi. Enormi mazzi di fiori, montagne di garofani e di tulipani si levano come tumuli tra trincee ormai inutili. Inutili: chissà! Copertoni travi sacchi rifiuti fuochi quieto cielo viottoli di lumini. Che talora si fondono, e formano una sola grande strada. Per questa strada è passata la rivoluzione ucraina. 

In fondo alle luci sta Maidan Nezalezhnosti, esausta di molte tragedie. Il grande edificio dei sindacati, il quartiere generale della rivolta che avevo visto pulsare di vita: il fuoco lo ha reso bruno, assomiglia a una scenografia teatrale. Fiori e nerume, ti porti dietro la terra di Maidan, la colla dei copertoni bruciati, come se il suo messaggio, la sua voce non volesse lasciarti. Qui sono morti esseri umani. Il bosco invaso da alberi con i tronchi ramati è una liberazione, da lassù si vede il Dniepr non più gelato; e oltre il fiume, oltre le isole e le insenature si scorgono bianchi campanili e ancora più lontane spuntano le nere ciminiere delle officine, e questo è già qualcos’altro. 

Kiev, rivoluzione. La città di pietra e di barricate di ghiaccio è morta. A ciascuno il suo.

Vicino all’hotel Dnipro si riuniscono uomini in tuta mimetica e elmetti di acciaio. I rivoluzionari. E di questi ragazzi ciascuno è prestante, è un bel ragazzo, ciascuno vigoroso con i riccioli della acconciatura cosacca che spuntano sotto l’elmetto inanellandosi alla nuca, ciascuno ha gli zigomi tesi, pieghe ai lati delle labbra e i gesti di ciascuno sono decisi. Non la fai a queste giubbe mimetiche. Esigono il massimo, è nel loro diritto. Ci vogliono altri uomini, qui. Vadin, il comandante di una Centuria, ad esempio: ci vogliono i romantici, la salita è stata troppo ripida, l’aria rarefatta e i polmoni bacati non resistono se non sei come lui.

«Come faccio a raccontarti tutto quel che è successo? All’hotel Ukraina, al primo piano curavamo i nostri feriti, sul tetto un cecchino sparava, ragazzi protetti da ridicoli scudi di lamiera sfidavano la morte per soccorrere i colpiti… Non riesco più a leggere ad andare al cinema, la rivoluzione è in noi, solo questo ci assorbe… ».

Le tute mimetiche. I rivoluzionari. Sì: così. Ecco chi sono i rivoluzionari. Il buio intorno si fa minaccioso. Le immagini rievocate prendono, nell’emozione, sostanza di creature vive. E essi vivono con loro. «Una donna ucraina che vive in Italia ci ha inviato 150 euro per aiutare la rivoluzione…», Vadin si arriccia la barba: «Maidan è la mia vita… abito qui da tre mesi, ho lasciato il lavoro, ho un bambino piccolo una moglie giovane… Le ho spiegato ha capito. Era, la casa, un porto un rifugio dove tornare dopo gli scontri. Ma sono conosciuto, hanno dovuto cambiar casa, nascondersi presso amici. In casa è rimasto solo il gatto a cui mia madre porta da mangiare…». «Komuniaki, comunisti schifosi, via dall’Ucraina!» intima un manifesto. «Lustratzia, lustratzia!» pulizia invoca un altro in piccoli coni di luce. Dai muri busti di eroi bolscevichi fissano implacabili i loro sguardi di bronzo.

«Non riesco a ricordare certi momenti, certi particolari… La prima barricata: perché l’abbiamo costruita, come? Non riesco a collegarlo alla lunga storia di questi giorni… guardo i video su Internet e capisco che ho avuto fortuna a restare vivo. Questa è la vittoria del sangue, ci è costata troppo cara. E sono già riapparse le facce dei partiti, i vecchi personaggi, il passato che ora dice l’opposto di quello che diceva prima, si scalpella davanti a Maidan, emana leggi a raffica per blandirci… Anche tra noi molti sono stanchi, abbiamo vinto che vogliamo ancora? Non capiscono che questa piazza è la nostra possibilità, l’unica. Che non dobbiamo gettarla via per quanto ci è costata cara! …Sì, la difficoltà maggiore per una rivoluzione è sempre l’ultimo metrò, la tentazione di andare a casa perché è tardi, la notte è lunga e fredda, qualcuno ti attende…». 

A Oriente si libra la striscia vermiglia dell’aurora. Le nebbie risalgono strisciando verso il cielo, per un istante il mondo Kiev e la piazza le chiese le strade sono azzurre come l’acqua.

Sul palco sale una donna russa: «Soffro con voi, onore ai vostri eroi morti, non si dovrà più mentire, siete un popolo nuovo il futuro è vostro...».

«Nel 2004, la prima rivoluzione, comandavo la sicurezza del palazzo dei sindacati. Avevo 21 anni mi sembrava di fare la storia… ero pronto a morire pensavo che servissero degli eroi. Dieci anni dopo non volevo più far colare sangue, sono cambiato, sono diventato un altro… avevo in questi giorni paura di dare ordini che portassero dei ragazzi a morire. Ho trent’anni e ho già i capelli bianchi… noi e loro... Maidan e i politicanti… la Timoshenko: di nuovo lì, pronta a ricominciare. Ma no, grazie: riposati, curati, vai in vacanza. Per loro la rivoluzione è finita per noi è solo al primo atto. Per questo non andiamo via!». 

La grigia torbida luce dell’alba scivola via come una veste dalla terra, si accende il giorno. Le sentinelle gridano qualcosa, i falò si spengono, frammenti di canzoni, i primi impiegati che vanno al lavoro. Non possedere nulla, rinnegar tutto, essere poveri e le notti e i giorni le albe e i soli e le nebbie, non conoscere il proprio domani. Le tute mimetiche, sì, i rivoluzionari. 

Il giorno è padre Michail, barba grigia, la croce sul petto, lo zaino, gli scarponi, ficca i piedi quasi con ira nella terra: è entrato in questa rivoluzione come si entra in un convento, nelle sue parole senti lo sforzo per risalire un fiume di ribellione, di disperazione, un fiume così potente, così rapido che la creatura da sola sarebbe presto travolta. Ma non è sola: è con gli altri, a Maidan, è legata al suo dio, inchiodata con Lui. Una fermezza che non lascia scampo. È arrivato qui insieme agli studenti della università cattolica di Lvov, a novembre, cercavano un padre spirituale: «Sono loro il mio spirito di libertà, io non amo le istituzioni». Tra allora e oggi ci sono 86 omelie, sulla piazza, ogni giorno, anche il giorno in cui la polizia ha attaccato e ucciso. E il suo altare e il calice e il telo sacro della messa e le icone sono bruciati davanti ai suoi occhi.

«Questa lotta ha portato più luce, ha illuminato il Male. Qui c’è gente che non ha paura di interrogarsi e senza le domande esistenziali non ci sarebbe stata Maidan. È questo il suo sublime».

Una folla sciama tra le tombe, tocca le foto, prega si inginocchia piange: non è l’osceno turismo delle rivoluzioni vittoriose. La giovinezza di quei morti si è già sparsa e perduta. Ma questa gente ha contratto con loro una alleanza che credono sarà eterna.

«Questo è lo spirito di Maidan, gente di diverse origini lingue, che pregano diversamente ma si capiscono. Per la Chiesa sarà un esperienza unica, questa cappella in una tenda tre volte distrutta e tre volte ricostruita è la prima cattedrale ucraina. Qui il sacrificio di milioni di persone, non solo di quelli che sono morti si riversa, in quell’altare si sublima, non c’è odio qui. La teologia di Maidan: l’ecumenismo senza gerarchia!».

Attorno a noi la folla sembra sforzarsi di camminare senza rumore. I passi le voci i tonfi le auto lontane si allontanano a poco a poco, muoiono in remoti golfi di ombra. 

«Certo: il dopo Maidan è già iniziato, ci sono tanti che vivono il vuoto la solitudine ma anche nascono movimenti, associazioni. Qui anche l’aria ha un altro odore. Il mio Maidan finirà alla centesima predica o tra dieci giorni, con la quaresima, chissà. L’importante è aiutare questa gente. La rivoluzione ucraina è stato uno sforzo collettivo ma anche lo sforzo di ognuno: c’è chi ha dato anche troppo e ora soffre e bisogna ricompensare questo troppo». 

Domenico Quirico

da - http://lastampa.it/2014/02/26/esteri/fra-i-reduci-di-maidan-la-rivoluzione-appena-iniziata-dB8q45OUyRGI3IeyZDsupJ/premium.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Crimea, blitz russo in aeroporti e tv
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2014, 07:41:06 pm
Esteri
01/03/2014 - reportage

Crimea, blitz russo in aeroporti e tv
Kiev: “Questa è un’invasione”
Operazione con 13 aerei e duemila uomini. Il governo ucraino chiude lo spazio aereo


Domenico Quirico
inviato a Simferopoli

«Corri, i russi sono all’aeroporto!». Quando il telefono suona e un amico ucraino mi avverte, l’alba si è appena levata su Simferopoli, questo orribile minuzzolo di capitale. Cade una neve incerta, sobborghi squallidi sfumano nel cielo grigio come una immensa lastra di ardesia, accanto alla strada un piccolo, triste, fiume color dell’alluminio. Eppure lo scalo è aperto, le luci sono accese, sulla pista rulla già il primo volo per Kiev previsto alle sette. Davanti all’ingresso del vecchio aeroporto, un incredibile tempietto con colonne, capitelli attici, frontoni (Stalin amava la Grecia antica…) ora ristorante, sono parcheggiati alcuni grossi camion.

Eccoli! Soldati in mimetiche verdi, zainetti leggeri da combattimento, le canne dei mitra rivolte verso il basso, pattugliano placidamente il piazzale, il parcheggio dei bus, vanno e vengono affaccendati dal ristorante scelto come posto comando. Non bloccano nessuno, non hanno chiuso porte e scale, non minacciano. Sono silenziosi, corretti, tranquilli. E soprattutto non hanno insegne o mostrine. I miliziani delle forze di autodifesa dei russi di Crimea, che li affiancano come per un servizio d’ordine, quelli sì, sono più agitati e non si nascondono: al braccio hanno il fiocco con i colori arancione e nero, l’ordine di san Giorgio, una sorta di croce di ferro dell’antica Russia.

Colpo di mano in sordina 
Ci avviciniamo a uno dei soldati misteriosi: «Buon giorno, siete ucraini?». Gli occhi del soldato ci attraversano come se non esistessimo, continua la sua ronda senza fermarsi. Questa è una invasione muta. Ma parlano le loro armi: ad esempio i fucili per cecchini di cui dispongono gli «spetnaz», le truppe speciali dell’esercito russo. È cominciata così, dunque: secondo lo stile da iceberg di Putin, non si a mai dove è la parte sommersa. Basta con i distinguo, le scioccherie, di colpo freddo arcigno spaurevole manesco come un facchino. È un intervento bonsai, senza bandiere, riscalducciato, ma forse per questo ancora più brutale degli antichi cainismi di stile sovietico. In fondo si tratta pur sempre di spremere la gente come uva nel frantoio. Di colpo la originaria assenza di buon gusto mette in mostrale proprie viscere così educatamente nascoste. In Ucraina Mosca ha subito, con la rivoluzione, un rovescio, ma non accetta, non vuole uscirne pesta e sbaragliata. Dopo aver vilipeso per una settimana alla televisione «i nazisti di Maidan», e aver aizzato i russi della Crimea mettendo loro la benda agli occhi e l’arma in pugno, colpisce. Con l’arroganza insulsa e distratta di chi riapre la porta di casa, recupera roba sua.

 

«Stato di emergenza» 
Per molte ora la corbellatura degli uomini armati senza etichetta continua, come si avesse paura a riconoscere la realtà. Intanto altri soldati russi hanno preso il controllo anche dell’altro aeroporto, Belbek, vicino a Sebastopoli, dove atterrò Gorbaciov per la sua fatale vacanza in Crimea. «Le nostre forze sono circondate dall’ottantunesima brigata della Marina russa, 2mila uomini, ci sono i cecchini» strilla Kiev. Otto elicotteri eruttano rinforzi. Bloccano anche il comando della Marina ucraina. E sono arrivati i soldati muti anche davanti alla sede della televisione di Crimea, a Simferopoli. Anche qui stile di velluto, beffardo, di chi bussa: tenendo i kalashnikov in mano. Hanno annunciato al direttore che dovevano entrare. Sudando sangue dagli occhi ha chiesto: Chi siete?, voleva le carte le autorizzazioni, il poverino.«Ci spiace. Non possiamo dir nulla» e sono entrati. Spuntano, discretissimi, sullo sfondo delle trasmissioni. I soldati sarebbero entrati anche nella sede delle telecomunicazioni. Infine il ministro degli interni dell’appena costituito governo ucraino, Avakov, si è rassegnato alle parole terribili: «Siamo di fronte a una invasione, a una occupazione che viola tutte le norme della comunità internazionale e che può portare a un bagno di sangue». Circola la frase fatale: «Stato di emergenza». A sera l’Ucraina annuncia che all’aeroporto di Simferopoli atterrano tredici aerei russi con altri rinforzi, duemila paracadutisti. E che il suo spazio aereo è stato violato. L’ingranaggio della crisi fa un altro passo. All’aeroporto i viaggiatori per Kiev si imbarcano con l’aria di chi si chiede quale bandiere troverà al ritorno. Anche loro in silenzio, come se si adeguassero al dramma in corso, per non disturbare. Una ragazza con sguardo languido e ciò nondimeno vigoroso, uno sguardo impaziente, accarezza i suoi russi in mediocre incognito: «Aspetto questo giorno da venti anni, la mia capitale è Mosca…». Non sanno di essere tra gli ultimi a poter partire. Da ieri lo scalo della capitale è chiuso, gli addetti annunciano che anche i voli di stamane sono cancellati. Torno in città, spuntano le prime auto con le bandiere russe dai finestrini.

Verso la secessione 
Torno in città, spuntano le prime auto con le bandiere russe che sporgono dai finestrini. Piotr, aggomitolato in una logora poltrona del suo caffè, sembra l’unico a Simferopoli a non esser contento, ha la voce lontana, lo sguardo umiliato: «I russi son sempre gli stessi, un po’ lenti ma alla fine… A Mosca siamo davvero legati con catene di ferro, odiate, ma che non si possono spezzare. Di errori ne hanno fatti anche a Kiev, le chiacchiere le provocazioni: vietiamo la lingua russa, mandiamo quelli del Settore destro a metter in riga l’est e la Crimea... gli elmetti le maschere… complimenti!». In tv scorre il faccione un po’ stralunato di Yanukovich, il ricercato per 82 omicidi, avvolto in bandiere ucraine, in diretta da Rostov, in Russia: chiede scusa per esser fuggito, dice che tornerà se ci sono le condizione di sicurezza perché il presidente è sempre lui… Nessuno lo guarda: «Quello che dice quel tipo non ci interessa è fuori tempo massimo...». Se i russi coltivano qualche idea di usarlo come Quisling di ritorno fanno calcoli sbagliati. Davanti al palazzo del parlamento bandiere russe, ondate di pop patriottico russo a tutto volume, tè e salsicce russe: tumulto assordante e perpetuo, un brulicare da accampamento, gente che adora una esplosiva fraseologia radicalpopulista: viva la Russia e gli altri all’inferno. Il nuovo primo ministro della Crimea è Serghei Aksenov, uomo di affari, capo del partito «Unità russa»: ovviamente. È ancora incerto il numero dei deputati che nel parlamento occupato dagli armati di Mosca lo ha eletto, qualche formalista sostiene che erano sotto il numero legale. Dettagli, in fondo, con quello che è accaduto dopo. Occhi grigi, acuti come punteruoli, annuncia che si sta procedendo alla formazione del governo (ma restano posti liberi); sì, il 25 maggio si voterà il referendum, ma niente secessione, per carità! solo per dilatare un po’ l’autonomia. Chi paga, chiedono alcuni scettici indomabili, visto che le casse sono vuote? «Abbiamo chiesto un aiuto alla Russia, ma secondo le regole il finanziamento dovrà passare per il governo ucraino…». I nuovi ministri non avranno privilegi e solo un modesto stipendio... non come gli spilla quattrini di Kiev.

I tartari resistono 
Arriva, con studiato colpo di scena, in aereo da Kiev un deputato eccellente, Piotr Poroshenko, milionario del cioccolato favorevole alla rivoluzione, possibile candidato alla presidenza. Vuole discutere con il parlamento della Crimea. I forsennati che circondano l’edificio lo hanno bloccato. Usciamo da Simferopoli per incontrare uno dei capi dei tatari, mezzo milione su tre milioni di abitanti della Crimea, saldamente ostili alla Russia, un altro enigma di questa crisi. Sulla strada per Bakhi Sarai, la loro capitale non ufficiale, un colonna di camion avanza verso Simferopoli: sotto i tendoni altri soldati in mimetica verde. Fanno cenni di saluto all’autista che li supera con lieti colpi di clacson. Il muezzin chiama alla preghiera nella splendida moschea del palazzo dei khan, nel centro la fontana cantata da Puskin. Incombono straordinarie «falaise» di calcare. Ismail Memetov ha gesticolazione a larghe ruote, parole che sono morsi, e una storia personale che spiega molte cose. La sua famiglia, con altri centomila tatari, nel 1944 fu deportata da Stalin in Uzbekistan. Li punivano per aver aiutato i tedeschi durante la guerra («una scusa, voleva la nostra terra») viaggiarono sui carri bestiame, gettati senza cibo nella steppa: molti miei parenti sono morti di fame. Io sono a nato a Samarcanda, e tornato qui, tra i primi, negli anni Novanta: la vita era dura, non c’erano permessi, case, lavoro, le terre concesse come riparazione erano steppa dura, con l’affondamento dell’Urss i nostri risparmi son diventati carta straccia». Memetov ha guidato i suoi in piazza nei giorni scorsi per gridare la fedeltà all’Ucraina: «Anche se i governi nati dalla rivoluzione arancione ci hanno usati. Abbiamo difeso i loro comizi durante la campagna elettorale, i russi volevano cacciarli a sassate, li abbiamo votati, e loro ci hanno dimenticato. Ma sappiamo come si vive in Russia, non vogliamo ritornare sotto di loro. Mai». E adesso? I russi sono qui… ha paura? «Gente che ha la nostra storia ha smesso da tempo di avere paura».

Da - http://lastampa.it/2014/03/01/esteri/crimea-blitz-russo-in-aeroporti-e-tv-kiev-questa-uninvasione-m5jD3h0nDSrEyozjcDTyTL/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Il senato spinge Putin al blitz Kiev: dichiarazione di guerra
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 05:28:32 pm
Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 02/03/2014.

Il senato spinge Putin al blitz Kiev: dichiarazione di guerra
Il leader russo ottiene l’autorizzazione dal Parlamento per “l’invio di truppe” Kiev protesta ma le milizie della Crimea esultano: “Si torna alla nostra patria”

Forse scrivo già da un altro Paese. Simferopoli: non più Ucraina, ma Russia. I nuovi colori, bianco rosso e blu, sono ovunque, sui palazzi del Potere, intrecciati nei nastri nei capelli delle ragazze, i soldati russi sono nelle strade, negli aeroporti, già stamane rimetteranno sulle maniche le mostrine che tenevano nascoste, basta un piccolo gesto con la mano. La Crimea torna russa. E poi, forse, tutto il sud est che ieri era in fiamme, assalti ai Palazzi, feriti, bandiere russe, richieste di aiuto a Mosca: siamo in pericolo, gli estremisti di Kiev ci attaccano. È il congegno applicato qui, con successo. «Putin ci dichiara guerra… è pazzo», mi ha gridato, sconvolto, un giovane rivoluzionario di Maidan al telefono da Kiev. Gli ho risposto: «No, è solo molto astuto, implacabile e tenace».

Come sempre gli uomini entrano nelle tragedie cantando, berciando, ignari, indifferenti, stoltamente felici: anche qui ieri, a Simferopoli, fredda e grigia, come sepolta sotto la cenere. Il centro era fitto di gente, anziani, famiglie, fidanzati, venuti ad applaudire i soldati russi, la foto con il telefonino sotto la statua di Lenin, con aria accesa e imbambolata, costumi cosacchi, fruste, vecchie divise della marina rossa con i cappelli da ammiragli, cori: una festa con i caffè e i cinema pieni. Ha riaperto anche il circo. Così maciullati dal troppo udire e dal troppo vedere si diventa folla, si crede agli auspici, si trasforma la realtà in simbolo, il fatto in leggenda. Alla radio annunciavano che Putin ha ottenuto i pieni poteri per «entrare in Ucraina». A Kiev si gridava alla guerra, alla mobilitazione. Che importa! Il conto è regolato, torniamo a casa. Bravo Putin!

Il palazzo dei sindacati è caduto alle 13,30. In punto. Non è stato difficile. Lo difendeva - uffici, scaloni, targhe con i nomi dorati degli stakanovisti degli eroi del lavoro delle alacri formiche del socialismo - soltanto la vecchia signora Irina, vigile e piccolina, con il suo grembiule verde, le ciabatte, lo strofinaccio con cui da più di trent’anni lotta contro il tempo e le scarse cure degli uomini. 

Gli assalitori: erano terribili gli assalitori. Una centuria ben inquadrata di energumeni, il volto coperto da passamontagna, torsi e bicipiti che tendevano le tute mimetiche. Sono arrivati in fila per tre, passo militare e la bandiera (russa) in testa. I bellicosi apostoli del neonato «Fronte della Crimea» liberata. La porta del palazzo era chiusa, sabato giorno di festa anche se c’è la rivoluzione e si parla di guerra. «Aprite!» hanno urlato e giù calci e pugni che squassavano i cardini. La vecchia custode si è affacciata da una finestra, sembrava volessero scardinarla di urla, ordini, imprecazioni. Impavida, ha fatto gesti energici: andate via. Il capo dei forsennati, l’unico a viso scoperto, ha dato un ordine. Hanno portato una lastra di cemento e la finestra è andata in frantumi. Una folla imbandierata applaudiva. Un’auto della polizia è arrivata sgommando scenograficamente. 

 

L’ha chiamata la custode. Non aveva capito che era il primo giorno della nuova era, le vecchie regole, i violenti, la polizia, l’ordine, tutto finito, abolito, scomparso. Due agenti, le mani sulle pistole, si sono lanciati verso l’ingresso devastato, quando hanno visto i miliziani e la bandiera hanno fatto dietrofront scusandosi. La signora Irina è dignitosamente al suo banco, lacrime lente scendono sulle guance. Ieri hanno rotto con la finestra il vaso della sua vita e da questa incrinatura l’acqua buona corre via impercettibilmente. È nata nelle terre del gulag, a quattro o cinque fusi orari di qui, il padre era militare a Sebastopoli, guarda in fondo a se stessa e non capisce il mondo nuovo: «Sono pazzi. Questo palazzo appartiene a tutti noi. Perché fanno così?» 

Già. Bisogna chiederlo a Costantin Nerik che comanda il gruppo degli incappucciati. Il Fronte della Crimea è destinato a un sicuro avvenire: di braccio politico della riorganizzazione dopo l’intervento russo.

Hanno anticipato ieri la data dell’autoproclamato referendum sulla autonomia: il 30 marzo. Perché nessuno si faccia illusioni sul risultato loro hanno attaccato una bandiera russa nella sala che diventerà il centro stampa del nuovo movimento: «Ma non è una bandiera straniera! È il simbolo delle aspirazioni di quelli che abitano in Crimea. Che volete che facciamo? A Kiev sono gli estremisti armati che dettano le leggi in parlamento, dobbiamo difenderci da soli. I terroristi ucraini ci scrivono che verranno a impiccarci sulla piazza Lenin. In Crimea regna la calma e l’ordine, non vogliamo il caos e il fascismo. La porta rotta? Pagheremo i danni e anche l’affitto. Le maschere sono per la sicurezza dei nostri uomini».

I russi marciano svelti, le cadenze dei loro piani sono giornaliere, Putin ha in mano il gioco, non intende lasciarlo. L’annuncio del premier ucraino che Kiev non intendeva reagire con la forza l’ha interpretato come un segno di debolezza e non di prudente ragione. I soldati russi dopo 24 ore erano più spavaldi, scoperti, l’aria di padroni di casa. Segno ancor più preoccupante i gruppi di autodifesa si inquadrano militarmente, hanno sostituito la vecchia polizia. Il governo di Crimea dichiarato illegale da Kiev nomina ormai i funzionari, anche il capo della sicurezza. Quello inviato da Kiev è stato respinto. Si forma un esercito collaborazionista, con i reduci del Berkut, il nucleo antisommossa che ha cercato di schiacciare ferocemente Maidan. Il nuovo governo ucraino lo ha sciolto. Un errore. Perché la Crimea russa li ha arruolati.

Ma questo ormai è il passato. Già incombe il nuovo capitolo, l’est, le folle russe scatenate a Kharkiv, a Donetz, a Dniepropetrovsk, nel feudo del padrino-presidente deposto dalla rivoluzione. Dopo la Crimea è qui che Putin vuole smontare Maidan, rimettere il morso ai ribelli di Kiev, ricacciare indietro l’Europa. Manovrando sulla differenza tra le due parti del Paese diviso dal Dnipro, l’est dove la presenza russa e russofona è più forte ma soprattutto la storia è diversa, la terra delle miniere, dei grandi Kombinat industriali integrati con l’economia russa, dove i gregarismi postsovietici sono più stretti e le seduzioni dell’Europa più fragili. 

Nelle strade ieri si rovesciavano le scenografie di Maidan, come in uno specchio: fiori e lumini in lunghe file, e le foto, ma per ricordare i morti del berkut «uccisi dai terroristi mentre facevano il loro dovere», l’omaggio a Lenin, la caccia ossessiva ai «tituski», i provocatori, l’Europa là idolatrata e qui derisa e maledetta. Perfino le milizie di autodifesa sono il rovescio dei gruppi rivoluzionari, fitte di un lumpenproletariat che cerca spazio e voce.

«Ci hanno divisi in centuria, un colpo di telefonino del capo e arriviamo. Siamo pronti a ricevere quegli schifosi di Kiev. Il parlamento, il nostro parlamento non lo hanno toccato. Le armi: sono gli altri che le usano. Per ora non ne abbiamo bisogno, ma se occorre...». Li domina la teoria del complotto, della congiura, che giustifica tutto. Ha ben lavorato la propaganda russa: Maidan non è stata una rivoluzione ma un colpo di Stato, oligarchi contro oligarchi. È una macchinazione dell’Occidente che è dietro a tutto, ma lo sai che ci sono 200 organismi in Ucraina messi in piedi negli anni scorsi e pagati con cento milioni di dollari per finanziare quello che è successo e impadronirsi del Paese? Soldi polacchi, americani, tedeschi, francesi che in ogni settore, educazione, cultura, assistenza hanno lavorato per destabilizzare, indebolire, condizionare? Davanti al monumento per la riunificazione della Crimea alla Russia ai tempi della Grande Caterina le corone di fiori sono freschissime. E un grande cartello: «Stiamo liberando la Crimea dall’occupazione degli Stati Uniti e dell’Europa. Poi sarà la volta di tutta l’Ucraina». 

Domenico Quirico

Da - http://lastampa.it/2014/03/02/esteri/ora-putin-vuole-anche-lest-la-dichiarazione-di-guerra-TWz0UMGktGb7yUarXuSTAP/premium.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Le lacrime degli ucraini nella Crimea occupata “Ci portano...
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2014, 05:31:28 pm
Esteri

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 03/03/2014.

Le lacrime degli ucraini nella Crimea occupata “Ci portano via la patria”
I russi prendono il controllo delle navi di Kiev e della basi “Dovevamo entrare subito nella Nato, ora siamo spacciati”


Ho visto gli ucraini piangere per la morte del loro Paese. Ieri nel centro di Simferopoli. Le parole scorrevano limpide, semplici, e senza pietà. Sentivi l’odio che si addensava come la nebbia in una vallata. I propagandisti dei movimenti pro-russi, nella piazza sotto il Parlamento, ora parlano non più della Crimea, ma della parte Est del Paese, il nuovo capitolo, la prossima mossa. «La primavera di Crimea è solo l’inizio, la natura si sveglia, la vita, le coscienze, siamo il modello per i nostri fratelli dell’Est, a Karkhiv, a Cherson, a Donetsk. Vi gridiamo: state saldi, non abbiate paura. Putin ci aiuterà». Le canzoni di fondo erano quelle di Vladimir Visostzkj, era idolo canoro della vecchia Urss. C’è molto di stantio in queste adulterazioni della Storia tirate a servire passioni e fazioni del momento. Tutto vi è autenticamente falso. 

In un angolo vicino a me un uomo ascolta: «Non è così, non è così, è l’Ucraina il nostro Paese. Sono andato all’estero per lavorare, per vivere e adesso mi portano via la patria». Silenziose lacrime gli scorrono giù dalle guance: «Mi chiamo Volodimir, mi raccomando Volodimir: in ucraino. Non Vladimir». Si concede quel pianto pubblico. Come se tutto il pianto represso nel suo cammino doloroso di questi giorni, furore e guerra che lievita, riservato per le ore solitarie quando nessuno lo vedeva, gli fosse improvvisamente venuto su dal cuore e chiedesse liberazione. Piange la fine della Crimea, e forse la fine dell’Ucraina come nazione libera.

Prove di guerra 
Rimbalzano, febbrili, stordenti, le notizie: Kiev ha richiamato i riservisti (era una volta l’inizio ufficiale delle guerre), il primo ministro Iatseniuk non si attarda, non pospone più: «Non siamo di fronte a una minaccia, ma a una dichiarazione di guerra russa, siamo sull’orlo del disastro». E poi le voci, ancor più fitte: le trincee e le postazioni per cecchini alzate ad Armiank, dove passa il collegamento terrestre con l’Ucraina, caserme e basi circondate dai soldati russi, gli ultimatum, a Kerch dove il comandante ha invocato aiuto, a Teodosia che sarebbe assediata dalle forze di autodifesa ormai armate. E ondate di rinforzi rovesciati da aerei ed elicotteri, Kiev annuncia anche il nome del comandante dell’operazione, il generale Galkin. Mosca e i filo-russi che annunciano, esultanti, basi e depositi sono abbandonati, militari ucraini che si dimettono o passano al nuovo governo filorusso, anche il comandate della marina ammiraglio Berezovskiy; seicentomila profughi che avrebbero già passato la frontiera russa in cerca di salvezza, «una catastrofe umanitaria se non prosegue il caos della rivoluzione».

Il pianto di Volodimir 
Volodimir fino ad ora ha lottato, deciso a resistere. Ma adesso questi avvenimenti sono superiori alle sue forze. Le guance rigate di lacrime, alza verso di me i suoi occhi: «Andiamo via di qui, non è prudente parlare». Nella folla che applaude gli oratori pro-russi girano uomini dalle giacche di cuoio, al braccio il contrassegno delle milizie, la polizia del nuovo Potere. Hanno notato il pianto, sospettosi se interpretarlo come gioia o dolore.

Entriamo nel cortile di una casa dalla facciata elegante; dentro tutto, dall’intonaco dei muri alla vernice delle persiane, tutto precipita dall’opulenza nella miseria, è come ficcarsi dal palcoscenico tra le quinte polverose e vedere le scene dalla parte dei rattoppi e dei chiodi. La stanza sembra l’antro di un mago: stracci, ferri trespoli, vecchi giornali. E un cane che si chiama Dantés che ci guarda immobile (Dantés sì, come il Conte di Montecristo). «Da giovane ho tentato di fare l’attore, mestiere difficile, le parole sono come l’aria e l’acqua, le stringi e non trovi niente. Ma guarda le mie mani, non era destino, non c’era lavoro, sono andato in Polonia e in Germania, muratore, benzinaio, giardiniere». Dall’appartamento vicino, nitido come se la parete non esistesse, giunge il pianto di un bimbo. La immensa Ucraina dei poveri, di quelli che vivono con duecento euro al mese, che non ha altro soccorso se non la sua forte e sobria pazienza. Guardo quest’uomo: nella sua chioma canuta, i pochi capelli che sono rimasti neri, le labbra larghe e dritte, gli occhi di volontà di un grigio azzurro. E penso a coloro che qui in Crimea non esultano, ma piangono. Lacrime: come quelle dei cecoslovacchi invasi da Hitler, anche allora «per salvare tedeschi in pericolo» fu il pretesto e gli ungheresi. Ombre, tutte ombre.

I morti di Maidan 
«Quando sono arrivati i russi ho pensato ai morti di Maidan, a come erano giovani, diciassette diciotto anni, belli come angeli, disarmati. E qui invece i fucili e i blindati. In Crimea la presenza ucraina è sempre stata quasi assente, soffocata, i giornali, i libri in ucraino quasi introvabili, le tv fanno solo propaganda per la Russia; i deputati della Crimea, ostentatamente, a Kiev parlavano in russo alla tribuna. Se fossimo entrati in Europa e nella Nato! Saremmo salvi, e io potrei avere un visto per girare il mondo liberamente». Ma cosa potete fare, ora? «Ascolta: negli Anni 80 c’era ancora l’Urss, sono stato tra i primi a manifestare contro le centrali nucleari, avevamo montato una tenda, mi hanno condannato a pagare duecento rubli per turbamento dell’ordine: c’era scritto che la nostra tenda “disturbava l’aspetto architettonico della città!”. Occorre che in Russia tornino in piazza per dire no al martirio dei fratelli ucraini, no a Putin. Dobbiamo restare fedeli a questa terra, per quei ragazzi che non hanno visto nulla della vita, dovremmo scrivere i loro nomi sulle pietre di Maidan innumerevoli volte».

Il referendum in Crimea 
Via via, ho bisogno di andare, di muovermi, di liberarmi dall’angoscia. In tv, a casa di Volodimir scorrevano le immagini della manifestazione a Maidan, a migliaia di nuovo insieme per fermare le guerra e Putin. Su un’altra piazza, quella del governo a Simferopoli, si raccoglievano invece le schede del referendum sulla statua di Lenin: tre domande, volete che resti, che venga abbattuto, che venga spostato? Ho votato anche io: firma e residenza in Crimea. Ho segnato l’indirizzo dell’albergo. Un giovane del partito comunista locale sta attaccando sulla base del monumento un cartello: «Non toccate il nostro leader!»: «Da 20 anni mi inculcano una nuova ideologia, da 20 anni cercano di spiegarmi che mio padre e mio nonno erano degli occupanti e dei bugiardi. Da 20 anni mi fanno imparare a memoria lo scrittore ucraino Scevchenko invece che Gogol. Da 20 anni tutto ciò che è russo è uno spazio bianco sulla carta del mondo. Basta! Non sono un malato di mente, sono per l’amicizia dei popoli, il rispetto e la dignità. Ma so che lingua parlo e in che terra vivo. Io sono russo, sono a casa mia. La mia terra è la Crimea!». Penso alle lacrime di Volodimir.

Domenico Quirico

Da - http://lastampa.it/2014/03/03/esteri/le-lacrime-degli-ucraini-nella-crimea-occupata-ci-portano-via-la-patria-eHWMnnBpO2SdN9uLS5iJgI/premium.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Se il califfato sbarca sul Mediterraneo
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 05:44:21 pm
Se il califfato sbarca sul Mediterraneo
Partiti da Tora Bora, gli jihadisti sono ora in Iraq e hanno preso Bengasi. E l’Occidente batte in ritirata
Militanti del gruppo siriano Jabhat al-Nusra, il Fronte della vittoria affiliato ad Al Qaeda, marciano
a sud di Damasco per protestare contro i raid israeliani nella Striscia di Gaza

04/08/2014
Domenico Quirico

Da Tora Bora a Bengasi: avanzano, galoppano davvero i fattucchieri della devozione islamica, i grandi e piccoli sensali del nuovo Califfato universale, quelli che vivono di santa guerra, le fronti aggrottate da una lugubre dottrina, le facce serrate come casseforti.

E in mano sempre il coltello per liquidare, redimere, punire. La rivoluzione, anche quella fanatica in nome di Dio, si apre silenziosamente, come un fiore di ferro. La abbiamo tra i denti, la mastichiamo. Questo vento che si leva. Così avvengono i grandi rivolgimenti umani, semplici e tremendi. 

Li avevamo lasciati, (ricordate i tempi preistorici di Al Qaeda, gli untorelli del terrore planetario, gli antemarcia dell’islamismo trionfante?), braccati dalle bombe americane tra i remoti graniti delle montagne afgane: periferici, isolati, vinti. Sì, vinti! E adesso i loro eredi hanno quasi scardinato la terra e presidiano il giallo adusto delle pietre mediterranee fulminate dal sole. Sprofondati nel passato e sulle labbra solo le parole del tempo che fu, tradizionalisti per cui un abuso diventa legge solo perché dura da sempre, che aspirano ad essere guidati dai morti, che si sforzano di relegare l’avvenire e la palpitante passionalità del progresso al mondo delle favole, già reggono, da padroni, la Mezzaluna fertile, Siria e Mosul, le terre dell’acqua e del petrolio. Questa canaglia barbarica si prepara a riprendere Kabul; salmodiando con la morfina del loro paradiso obbligatorio e le raffiche dei kalashnikov tiene le rive del Niger e percorre, di nuovo spavalda, le piste del Sahara e le savane della Somalia e del Kenya. La dossologia di questo colossale, sanguinoso Salmo della penitenza diventa territori, Stati, frontiere, eserciti: ecco la novità. I terroristi si son trasformati in soldati, i congiurati ora sono califfi, emiri, qaid.

L’avanzata impetuosa della Insorgenza Globale islamista è ormai un fatto: e i fatti sono assoluti in se stessi e in tutte le loro peripezie. Improvvisamente, dopo Bengasi, tutta la Storia diventa sinottica e simultanea a tal punto che è possibile sovrapporre e annettere strettamente sotto il nostro sguardo gli avvenimenti che finora ci sembravano più disparati e distanti.

 Eppure la proclamazione dell’Emirato a un’ora di volo dall’Europa, l’annessione esplicita della prima tra le primavere arabe non sembra sollevare attenzione. La sensibilità resta intorpidita, attonita in questa Europa dalle cattedrali ingiallite, dalle risse medioevali, dalle economiche rivalità belluine. Un eguale fatalismo riconcilia nella stessa ebetudine le vittime e i carnefici. Sì, la avanzata dell’islamismo fa veramente paura il giorno in cui ti accorgi che ne respiri, tra ciucche parolaie, quasi inconsapevolmente e senza trasalire l’aria insulsa e sanguinosa. Tutto il mondo musulmano è chiuso e incatenato, milioni di sudditi recalcitranti e impauriti si dibattono già nell’Interdetto islamista. Ogni giorno depenniamo lembi che non possiamo più percorrere. A Tripoli, a Baghdad si sbarrano le ambasciate, fuggono i residenti occidentali, le imprese indietreggiano abbandonando mezzi e denaro: segni chiari della ritirata, della sconfitta. Il nostro mondo democratico e tollerante si restringe, si rannicchia, in attesa dello schiaffo e della iniziativa degli Altri. Abbiamo accettato come un fatto compiuto il califfato a Mosul; la annunciata controffensiva dei Nostri, gli alleati dell’America, eran solo parole. Ora accetteremo l’emirato di Bengasi e poi quello di Tripoli e di Maiduguri e di Gao e chissà quali altri. Fidando nella decrepita sottigliezza del nostro genio del compromesso e del distinguo.

In Libia gli islamisti mettono mano su un bottino che vale mille volte più che le armi moderne razziate in Iraq. Non è il petrolio. L’oro nero non interessa gli islamisti: Allah l’ha dato e può toglierlo. Quello che interessa loro sono gli uomini, la loro obbedienza, le loro anime. In Libia ora diventano padroni di decine di migliaia di disperati, i fuggiaschi dell’Africa, i migranti, i «subsahariani», i sudditi della crudeltà di questo tempo che pone ciascuno davanti a una legge di violenza e di sangue e fa l’uomo nemico di se stesso fin nelle inclinazioni più limpide e naturali. Depredati e respinti, alla spiaggia dell’ultimo balzo, quello verso il mondo dei ricchi, cercano qualcuno che ridia loro una fede. Gheddafi ne aveva intuito il potenziale nocivo, ma li usava per i suoi mediocri ricatti minacciando di scagliarceli addosso come onde umane.

Ma erano le braverie di un baro. Ora con gli islamisti sarà diverso, non possiamo blandirli con dollari e inchini. Hanno manipolato le menti e i cuori di migliaia di ragazzi europei, trasformandoli in zelanti mujaheddin in cerca del martirio in Siria e altrove. Lo rifaranno, ancor più facilmente, con i dannati dell’Africa.

Le nostre carte? Erano mediocri e mal scelte. Come sempre. In Iraq masse urlone e raccogliticce di sciiti corrotti; a Bengasi Khalifa Haftar, un generale fellone che Gheddafi liquidò non perché ne temesse i sussulti democratici, ma perché con un esercito sterminato si era fatto umiliare nella famosa «guerra dei Toyota», dai predoni ciadiani. Era a libro paga della Cia, ovviamente. Per anni ha abitato a due passi dalla sede dell’Agenzia, a Langley. A questo velleitario golpista hanno dato soldi e armi. È scappato: di nuovo. 

Ci rassicuriamo da questa parte del mare in discussioni ridicole e infantili, ne vengono fuori goffaggini crudeli, strepitose: «… in Libia in fondo gli islamisti hanno perso le elezioni … ci penseranno i deputati a tenerli a bada a colpi di costituzione ...addestreremo la polizia…». 

Intanto, loro, rapidissimi, trasformano la miseria di un Paese in una specie di famelica patologia. La fede la trasformano in una concezione estranea alla vita, squilibrata rispetto al mondo, una specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, (così è stato in Siria, in Iraq, in Libia, in Somalia, in Nigeria), che occupa tutti gli spazi, schiaccia la vita e diffonde il contagio fino al culmine della guerra oppure all’asfissia soffocante di un ordine senza pietà. 

Da -http://lastampa.it/2014/08/04/esteri/se-il-califfato-sbarca-sul-mediterraneo-kLYCHuftwyS3LqFagmBoXN/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - I killer di Foley coprivano i ruoli più “occidentali” ...
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2014, 09:35:17 am
Medico, rapper, spacciatore. La nuova jihad nasce nelle file degli “integrati”
I killer di Foley coprivano i ruoli più “occidentali” della società

26/08/2014

Domenico Quirico

Un rapper; o un medico; o uno spacciatore: nei tre possibili assassini britannici di James Foley, nel loro contegno di belva, c’è per noi, europei, occidentali, come un sociologico soffio di ghiaccio. In quei minuscoli fili delle trame che la vita continuamente ordisce, sperde e ricompone intorno a ogni persona umana c’è, forse, la complessità e il pericolo della nascita di una infezione nascosta, il jihadismo europeo, composta cioè da ragazzi che hanno vissuto tra noi e come noi.

Non marginali, esclusi, ribelli in nome del Passato estraneo: no, protagonisti invece normali della nostra società, della sua oltranza titanica e della sua spossatezza morale, il vagheggiamento e la ripulsa del niente. E un giorno l’improvviso impero di un destino, un lievito amaro, la vertigine di perdersi e di negar tutto, di non assomigliare a niente, di spezzare per sempre ciò che ci definisce, di ritrovare la piattaforma unica da cui i destini possono ad ogni istante ricominciare. 

Che cosa governa un cuore? Qui è privazione, rimpianto, mani vuote, partenza, costrizione, rottura, vuoto. Il medico, il rapper, lo spacciatore lasciano come un vestito vecchio tutto ciò che noi crediamo fondamentale e attraente, la scienza che salva, la musica, il malaffare redditizio; e vanno a uccidere e morire per un Assoluto così crudele, in un paese che non è il loro, neppure quello dei padri o nonni dove aleggia l’alito dei luoghi infausti. C’è di che sconcertare i settatori delle magnifiche sorti e dei fatali progressi. 

Il jihadista mostruosamente perfetto è qualcuno con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, a cui chiediamo aiuto per guarire, che ascoltiamo nel cd, con cui alimentiamo i nostri vizi. Dunque non l’allievo di «madrase» in luoghi dove dominano la polvere e il sasso, bambini analfabeti a cui hanno insegnato il Libro a memoria, i vinti di modernizzazioni autoritarie. È Lyristic Jinny, che hai ascoltato sulla Bbc e che diventa Abu Kalashnikov. Ha torto Obama quando dice che il califfato rinascente è qualcosa di estraneo al ventunesimo secolo: purtroppo è vero il contrario, è semmai conficcato in questo secolo, ne è il nuovo cuore di tenebra. 

Un giovane medico londinese è apparentemente un successo della integrazione, li mandiamo nel Terzo Mondo, i medici, come prove della volontà di fare il bene, non più conquistatori e mercanti ma medici… E costui diventa boia, un individuo segnato, non ha interessi affari né sentimenti personali né legami, nulla che sia soltanto suo. Tutto in lui è in funzione di un solo interesse esclusivo, di un solo pensiero, di una sola passione: la rivoluzione islamica.

 
Oppure il suo contrario, il mercante di droga, eroe dell’intraprendenza mercantile applicata al morale: lo spacciatore vive nelle pieghe della nostra degradazione, se ne arricchisce. Conosce la profondità dei vizi e la sfrutta. Cosa c’è di più occidentale? È lercio di vizio. Poi un giorno parte e annulla il curricolo nero della sua deroga. Ora ha il «qamis» e la barba, e in mano un coltello e parla di dio. 

Forse il califfo di Mosul ha scelto volutamente una di queste tre biografie per il video sanguinario e i suoi irriferibili orrori: il mio boia me lo avete fornito voi, io sono già tra voi, posso reclutare chi voglio.

Ho parlato, un lungo pomeriggio di due anni fa, in un luogo della Siria che oggi è califfato con un gruppo di giovani jjhadisti francesi, tutti di Tolosa, tutti venivano dalla stessa banlieue, studenti, due meccanici, disoccupati. Parlavano degli orrori di quella guerra con la indulgente sicurezza propria dei preti, che vivono le miserie di questa terra come l’avessero lette nel Libro, ne parlano, vi stanno in mezzo con l’indifferenza di chi ha piena conoscenza delle cose umane. Avevano studiato sui manuali de la République, fatto il tifo per la squadra di calcio della città, ascoltato la musica rock. La morte in Siria era per loro piuttosto un buon amico, un compagno, un lavoratore con cui si è stati nello stesso ufficio, nello stesso reparto o nello stesso campo. Quando viene, non fanno storie, si amano i propri amici, ma non si importunano, si lascia che vadano e vengano come loro conviene. 

Avevano compiuto il passaggio chiave, deciso cioè di considerare nemici altri uomini, di renderli astratti. Li avevano cioè allontanati da sé, non volevano più sapere che potevano ridere fragorosamente e piangere di dolore, erano diventate sagome che si possono colpire e sgozzare. 

 Da - http://www.lastampa.it/2014/08/26/esteri/medico-rapper-spacciatore-la-nuova-jihad-nasce-nelle-file-degli-integrati-nPTBmzmdHdJMg31KqR8u6K/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - La globalità del nuovo islamismo
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 04:13:31 pm
La globalità del nuovo islamismo

10/01/2015
Domenico Quirico

Nei jihadisti che ho conosciuto, platealmente feroci o ipocritamente machiavellici, c’era un elemento comune: ciascuno di loro si sentiva la piccola parte di un tutto, e il tutto era visibilmente una parte di loro. E se fosse questa globalità, psicologica ma anche pratica, operativa, militare, il segreto della loro pestifera potenza, e quello che ci impedisce di capire? Il totalitarismo islamico è, nella sua essenza, senza confini. Li vuole distruggere i confini, le frontiere, le nazioni: un’unica ecumene, quella di Dio. Mentre noi occidentali, laudatori della globalizzazione, in realtà, penosamente, continuiamo a ragionare nei limiti dei vecchi confini nazionali: soprattutto quando sono i nostri. 

In fondo cosa può legare il cuore di Parigi con una città di lamiera e capanne nel Nord della Nigeria e il deserto della Libia? Apparentemente nulla, se non qualche slogan «non c’è altro dio fuori che dio» che noi, autoproclamati sudditi della modernità ascoltiamo distrattamente e archiviamo come medioevali ed esotiche sopravvivenze. I boko haram annichiliscono intere città come nelle guerre assire? Ma quella è l’Africa… La Libia è in pezzi, un emiro buccina fatwa omicide a Bengasi?

Periferie desertiche, alla fine il dio petrolio riunirà tutti attorno a un assegno, pagato da noi… 

Un commando colpisce a Parigi? Una scaglia sciaguratamente immigrata della follia siriana. Il «nostro» Islam resta acquattato sotto la giacobina uniformità francese, largamente maggioritario, tollerante e tollerato. 

Bin Laden era una provvidenziale semplificazione. Comandava già il terrore diffuso, non più localistico. Un Serpente terribile e velenoso, macchinante continue vendette. Ma bastava tagliare una testa e il resto del corpo dopo una serie di frenetiche convulsioni, sarebbe morto. Un assolutismo criminale che poteva avere mediocri epigoni, non eredi.

Oggi l’Internazionale islamista non ha testa, al Baghdadi è soltanto un nome, la pedina di una globalità. La Bestia non è più il serpente che esiste in natura, è il Leviatano, l’idra che rinasce ad ogni testa mozzata, si ricostruisce per partenogenesi. Il commando francese è annientato? Un altro colpirà, senza ricevere ordini, come in una catena di montaggio. Qualche forza militare al servizio dell’Occidente, curdi, sciiti, nigeriani, kenioti, riconquista zone di territorio piegate alla Sharia? La ribellione globale in nome del califfo si reinfiamma in un’altra parte del mondo, non hanno fine le terre del jihad. 

E’ il fochismo guevarista convertito al teologico, un ingranaggio che si autoalimenta, inghiotte come un combustibile soldati martiri vittime… Non ci sono gerarchie, parole d’ordine, tutti sanno per cosa si battono: allargare la terra della sharia, riconquistare terreno alla vera fede, disarticolare il mondo di apostati e empi. Non c’è nessuno che da Mosul o da Raqqa ha inviato un messaggio in codice, via internet, ai killer di Parigi o ha ordinato al capo dei boko haram di dar fuoco a una città.

La intuizione «politica» della ricostruzione del Califfato ha trasformato, con la predica di uno sconosciuto ribelle iracheno nella moschea di Mosul, i fanatismi di migliaia di singoli e una manciata di insurrezioni tribali in un Tutto: le ferite che ciascuno riesce a infliggere allargano lo squarcio, la smagliatura, un colpo dopo l’altro arriveremo ad essere assediati nelle nostre città. 

E’ come se negli Anni Trenta il Comintern della rivoluzione permanente si fosse affrancato dalla dispotica centrale moscovita, muovendosi come un corpo autonomo.

Solo se riusciamo a leggere il nuovo islamismo nella globalità riusciremo a capire la minaccia. Il califfato è un libro di ferro, squadrato, atroce, un libro che nessuno leggerebbe volentieri, ma i cui capitoli sono collegati. Per noi invece la terribile strage di Parigi è un attacco alla civiltà universale, il massacro nigeriano un episodio di una remota guerra locale, l’assassinio di due giornalisti tunisini cronaca nera sahariana… I governi occidentali sono certi di controllare tutto: con i satelliti i servizi di sicurezza, la tecnologia. Invece il califfato muove migliaia di uomini da un continente all’altro con armi piani informazioni senza che nessuno riesca a fermarli: forma reggimenti in Siria Iraq Libia e commandos sulle rive della Senna. Ammettiamolo: non conosciamo chi ci sta di fronte, le nostre onnipotenze sono fittizie. Se prendete la metropolitana in boulevard Saint-Germain arrivate direttamente nel califfato: sì, ci sono città intere attorno alla capitale francese che vivono in un altro universo, dove si possono comprare armi da guerra, avere più mogli, ascoltare, non su internet, dal vivo, le prediche di ossessi, come nelle madrase afghane o della Arabia salafita. I ragazzi di banlieue hanno cominciato a partire per la guerra santa quando si combatteva contro Bush, in Iraq. Allora la prospettiva era il martirio, oggi si battono per il califfato «che sarà più grande della Francia». Sanno che un giorno i bravi musulmani moderati e pazienti a cui noi chiediamo di isolare il fanatismo accetteranno le loro regole, per paura o per comodo, con la stessa obbedienza con cui hanno accettato le regole dei tiranni «laicisti», dei bizzosi sultani e dei pascià della loro storia immemorabile. «Al sabr gamil» la pazienza è bella, un proverbio arabo.

«L’Islam è una grazia, cristiano – mi ha detto un capo jihadista di cui ero prigioniero – vi illudete che abbiamo bisogno delle vostre porcherie per vivere, che siamo ormai deboli e obbedienti… ti racconto una storia: c’era nel deserto un cucciolo di leone che era cresciuto tra le pecore e il cucciolo pensava di essere una pecora anche lui, e belava e scappava di fronte ai cani. Poi un giorno un leone passò di lì e gli mostrò il riflesso in una pozza d’acqua e scoprì ciò che era davvero. Cominciò a ruggire. I cani fuggirono. Ecco: noi siamo musulmani non pecore, non dimenticarlo più, ci avete umiliato e sfruttato per secoli. E’ finita».

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/10/cultura/opinioni/editoriali/la-globalit-del-nuovo-islamismo-9IissarxWMzUwsOefqieOI/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - La Storia vittima del fanatismo
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2015, 05:14:12 pm
La Storia vittima del fanatismo

27/02/2015
Domenico Quirico

Perché il bassorilievo di un toro antropomorfo del primo millennio assiro fa paura al califfato? 
Perché statue della meravigliosa arenaria di Mosul spaventano lo stato islamico, occupano i suoi sgherri come i bombardamenti americani: tanto che li fanno a pezzi, si accaniscono sudando nella polvere, li gettano al suolo sbriciolati come se fossero nemici armati o ribelli? Perché la Storia è il principale avversario dello stato totalitario, di ogni Stato totalitario: come gli uomini, più degli uomini. Per il califfato c’è, infatti, una Storia impura come ci sono uomini impuri: ed è tutto quello che è esistito prima della linea tracciata sul passato, il nostro e il loro. 

Le pietre, le statue, i templi parlano. Tutti li possono leggere. Parlano più dei sermoni e dei discorsi: sono lì, esistono per smentire chi vuole semplificare, annullare, maledire: chi esige un passato senza sfumature periodi svolte. Allora bisogna ucciderle, quelle pietre, polverizzarla per affermare che la Storia è stata scritta di nuovo e definitivamente. Altrimenti l’impalcatura della finzione cade, l’avvento islamista diventa arbitrario, incerto, una parentesi che finirà, prima o poi. 

Per questo in Iraq, come prima in Afghanistan, e poi per i libri e le tombe di Timbuctu, la storia e l’archeologia sono diventate ostaggi e vittime: come gli uomini, anche loro sono finite nella lista di ciò che contamina la società perfetta. Che è solo quella omologata da questa sterminata ubriacatura di fanatismo che, come la peste, marcia dall’oriente verso occidente.

Hanno scelto male il luogo del loro primo califfato, gli uomini di Daesh: hanno scelto proprio la terra tra i due fiumi dove la Storia è nata, si è composta e scomposta mille volte, ha cancellato imperi e città, invasori e vittime nutrendosi delle pietre dove passavano il vento e la sabbia, ne ha consumato le brevi glorie per trasformarsi e costruire di nuovo. Continuamente. Intarsiata come le opere della partica Hatra, ieri distrutte, di innumerevoli vibrazioni interne. Altre civiltà, altri mondi, altri uomini.

Per secoli, qui, sul ciglio del deserto e delle montagne dove si annidavano i nomadi, gli invasori, affacciata sul verde come sul mare, la civiltà ha ordito il tempo mai omogeneo dell’uomo. Dietro, il deserto; come riserva inesauribile di fame di sete di morte. In mezzo il fiume con le città, la scrittura, i templi di dei sempre diversi, le palme, i canali per l’irrigazione, la vita. E poi il verde dell’altra riva e poi, subito dopo, come un bastione, l’altro deserto, quello degli arabi invasori. Senza questo spazio fisico non si può leggere ciò che nei millenni è stato costruito, ricostruito, copiato. Gli scalpellini assiri rinettavano i blocchi di materia non ancora incompiuti. Sembra di udire il suono argentino di quei colpi minuti levarsi nell’aria come il frullare delle ali di uccelli. I raggi del sole come zagaglie sembrano scheggiare ancora la pietra arrostita dolcemente, cotta e ricotta e poi mielata. Quei raggi sembrano ancora sfiorare, dopo secoli, la materia di quei tori giganteschi che, all’ingresso del Palazzo, scandivano magiche formule di buona fortuna e di benevolenza degli dei. 

Erano divinità crudeli, spietatamente immanenti sugli uomini come il dio che, illecitamente arruolato, muove il trapano iconoclasta di questi lanzichenecchi che credono di essere santi.

Ancora, come per le infami esecuzioni degli ostaggi, non siamo noi i destinatari di questi delitti. Sono gli altri musulmani. Sono loro che devono imparare il brusco messaggio: la Storia non esiste più, è iniziata la Storia nuova, assoluta e unica, che è quella dello Stato islamista.

Forse i fanatici possono cacciare e uccidere tutti i cristiani, gli alauiti, gli yazidi, i musulmani tiepidi. Ma la Storia è troppo grande per essere uccisa. Ogni qualvolta, grattando la terra come accade in Siria e in Iraq, spunta un frammento di argilla o di arenaria, grida la irrevocabile complessità del Tempo dell’uomo.

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/27/cultura/opinioni/editoriali/la-storia-vittima-del-fanatismo-DBP7WPFDCsC34qKJnlXv1K/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Sono uomini e donne, non numeri. Guardiamoli e non ...
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2015, 11:11:43 am
Sono uomini e donne, non numeri. Guardiamoli e non dimenticheremo più

21/04/2015
Domenico Quirico

Settecento morti! Settecento vite inghiottite dal mare più bello della Terra per opera e responsabilità dell’uomo. Sì, dell’uomo bianco che per secoli ha colonizzato, sfruttato e derubato. Credo, davanti a questa tragedia, che nessuno possa trattenere le lacrime, l’angoscia e l’indignazione per frasi atroci pronunciate nei confronti delle vittime, come se si preferisse che morissero in silenzio, sdraiate nelle coste caotiche della Libia.

Come di consueto ora dovremo subire per giorni la presenza ormai insopportabile di politici e giornalisti, che esprimeranno sul tema discorsi privi di fondamento, ma abbondanti di gestualità. E mentre loro discuteranno seduti e a pagamento nei salotti televisivi, il Mediterraneo continuerà a generare vittime. 

Le storie di emigrazione non sono quasi mai belle, sono sempre forzate. Ad «autorizzarmi» ad usare queste parole è il mio percorso di donna emigrata, con nonni, padre, marito e anche figli accomunati dello stesso destino. Concludo con una giusta frase del poeta friulano Leonardo Zanier: «Chi emigra non lo fa per vivere, ma per non morire». 
Inés Kainer 

 
Gentilissima signora Inés, credo che lei abbia colto il cuore del problema: trattiamo i migranti e i drammi degli emigranti come numeri e non come persone. Bisogna avere il coraggio di ripetere quelle che sembrano consolidate normalità: solo le tragedie oltre le cifre a due zeri ci turbano e mobilitano. Ogni volta è, ovviamente, l’ultima volta. 

Le confesso che davanti al grande barnum dell’informazione, di cui io stesso faccio parte, che attendeva ieri sul molo di Catania l’arrivo di morti e sopravvissuti lucidando le macchine da presa e ungendo la prosa delle domande, ho sentito un grande senso di scoramento. E di personale sconfitta. Aggiusteremo ancora una volta i numeri: ottocento, novecento … e poi? Non riusciremo mai a compiere l’unico vero atto umano che ci è imposto di fronte a questo immenso dolore: cercare di immaginare ciascuno di quei novecento, e di quelli che già sono periti, ahimè quanti!, come qualcosa che vive. Sì: vive, ci guarda, ci interroga, ci accusa, grida verso di noi. Perché non lo abbiamo salvato? Perché? Ci sono casi in cui la colpa diventa collettiva perché solo così genera il rimorso e la coscienza.

Il problema dell’emigrazione è diventato un problema sociologico, un problema di modelli di tendenze, di flussi di tollerabilità. Credo invece sia, insieme all’esplodere del fanatismo politico religioso, a cui è strettamente intrecciato, il problema centrale del nostro tempo. 

Guardiamo, almeno una volta, e poi non potremo più dimenticare, questi uomini che sono tra noi nella consapevolezza di essere ancora vivi e di poter sfruttare la vita. In loro è il senso di un disperato inizio. Disperato perché nulla si può far rivivere. Stragi e torture che sono stati non sono più riparabili. Nulla può più mutare, tranne l’altro lato degli eventi. A noi tocca ricordare che un delitto, quello commesso verso di loro, non dovrebbe andare impunito perché altrimenti tutte le fondamenta morali crollerebbero e soltanto il caos regnerebbe. Uomini dunque, non numeri o cose.

Domenica Quirico, inviato de «La Stampa», è stato capo-servizio degli Esteri e corrispondente da Parigi. Ha raccontato le tragedie africane, è affondato su un barcone di migranti nel 2011, è stato sequestrato dai soldati di Gheddafi e dai jihadisti siriani. Ha scritto numerosi saggi, tra cui il recente «Il grande califfato». 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/21/cultura/opinioni/secondo-me/sono-uomini-e-donne-non-numeri-guardiamoli-e-non-dimenticheremo-pi-a6bCUubDj845iVR7kpCtcK/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Migranti, finora dall’Europa solo errori e tanta retorica
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2015, 11:16:04 am
Migranti, finora dall’Europa solo errori e tanta retorica

22/04/2015
Domenico Quirico

Caro Quirico, sulla tragedia del mare nostrum io, comune cittadino, ho ben chiare solo due posizioni, tra loro in antitesi: quella di papa Francesco e quella di Matteo Salvini, come dire l’acqua santa e il «diavoletto». Quello che non sento e non conosco, forse perché non vivo in quei Paesi forti, bandiere della democrazia, sono i pareri di interi parlamenti e capi di Stato. Cosa pensano degli sbarchi continui di migliaia di immigrati, la regina d’Inghilterra, la cancelliera Merkel, il presidente francese Hollande e altri governanti dell’Europa del Nord? Non lo sappiamo. Mentre i citati capi di Stato giganteggiano quando si tratta di difendere i loro forzieri economico-bancari, imponendo sanzioni d’ogni tipo agli Stati membri, tacciono invece e giocano a nascondino di fronte a questi irrefrenabili fenomeni migratori, che rivoluzioneranno a breve gli assetti demografici, politici e geografici dell’intera Europa, demandando di fatto l’intera faccenda a due Stati considerati generalmente ultime «ruote del carro»: Italia e Grecia. Vorrei un suo parere, caro signor Quirico, sul Grande Silenzio dell’Europa «forte».

Stefano Masino, Asti 

Gentile signor Stefano, lei evoca un fantasma. Mi parla di cose che non esistono: la politica europea, i leader europei, la coscienza europea… Suvvia! Tutte cose che bisognerà prima o poi dichiarar scadute, come merci rimaste troppo a lungo in frigorifero.

Ritorno indietro di quattro anni: qualche migliaio di ragazzi tunisini che si erano sbarazzati del dittatore (da soli, non certo con l’aiuto delle democrazie dell’altra parte del mare) salirono sui barconi e iniziarono ad arrivare a Lampedusa. Viaggiai con loro, affondai con loro, gioii con loro per essere sopravvissuto. Drammi, entusiasmi, sacrifici, morti, la felicità stanca che segue i grandi dolori e le grandi lotte. E invece: gli stessi discorsi di oggi, le stesse fruste polemiche, la stessa evocazione dell’invasione, la stessa retorica. Eppure erano poche migliaia, non una migrazione di popolo. L’Unione europea nel suo complesso, e la Francia per la verità con assai più foga e sguaiataggine nel chiedere espulsioni, blocchi e pugni di ferro degli altri (l’Italia, forse per obiettiva necessità, soccorse salvò e sfamò chi arrivava) sanzionò che tutto questo non era sostenibile. Il nostro paradiso di democrazia e di diritti umani, di accoglienza e di condivisione delle vittime e dei derelitti, era certamente vero, per carità, ma era afflitto da obbligatoria avarizia, non sopportava i grandi numeri, doveva occuparsi di non far diventare meno povero chi già lo abitava. Si offrirono soldi per far sì che «gli invasori» trovassero qualche ragione per restare nel loro Paese. A molti parve una soluzione progressista e intelligente. Forse i soldi non arrivarono neppure. 

Fu il primo tragico errore: errore politico prima ancora che morale. Respingendo quei ragazzi dimostrammo loro che quello che predicavamo era falso o quanto meno che eravamo deboli e uniti solo nel dire no. Se lo ricordarono diventando elettori del partito islamico e qualcuno, ancor peggio, islamista. 

L’Europa, allora e oggi, fa lunghe discussioni come se il mondo nascesse ora. L’Europa esiste se è quello che dice di essere, che scrive e proclama nei suoi libri fondatori, nella sua Storia faticosa e contraddittoria. E invece... Le fedi sono state sostituite da opinioni, credenze, pregiudizi, egoismi e inutilità attorno a cui le divergenze sono accanite quanto una volta le lotte di religione. 

L’Europa di oggi, grandi e piccoli, del Nord e del Sud, ricchi e meno ricchi, ha come unico problema quello di far pagare i debiti a un greco insolvente: un pettegolezzo paesano! Il resto, ahimè, è retorica. Cioè parole.

Domenico Quirico, inviato de «La Stampa», è stato capo-servizio degli Esteri e corrispondente da Parigi. Ha raccontato le tragedie africane, è affondato su un barcone di migranti nel 2011, è stato sequestrato dai soldati di Gheddafi e dai jihadisti siriani. Ha scritto numerosi saggi, tra cui il recente «Il grande califfato». 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/22/cultura/opinioni/secondo-me/migranti-finora-dalleuropa-solo-errori-e-tanta-retorica-WaYU68y5nepuwUQLQdKCSL/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - La Coalizione contro l’Isis è la vergogna dell’Occidente
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2015, 11:19:54 am
La Coalizione contro l’Isis è la vergogna dell’Occidente

23/04/2015
Domenico Quirico

Caro Quirico, ormai da mesi è stata annunciata la coalizione di 40 nazioni, poi aumentata, contro l’Isis e il califfato. Fatto sta che non mi pare che la strategia adottata da questa «squadra», senza un esercito terrestre, stia risultando vincente visto che, a rimo cadenzato, il mondo dell’informazione ci propina filmati di carneficine messe in atto dall’Isis. A questo punto sorge il dubbio sulla compattezza di questa coalizione che, evidentemente, alle parole non fa seguire i fatti. Quali possono essere i motivi di questo quasi fallimento, almeno in questa fase? 

Giovanni Attinà 

La cosiddetta Coalizione è il Baedeker delle vergogne dell’occidente e delle sue macerie eloquenti. I nostri alleati sono impresentabili: regimi pestiferi non diversi nella natura sozza e violenta dal califfato che dovrebbero combattere, finanziatori per vile tornaconto dei catecumeni del terrorismo, emiri gaglioffi e ayatollah assassini, europei in ordine sparso bigi, prudenti e pantofolai, che si preoccupano di esserci ma soprattutto di non correre rischi. Ecco la Coalizione. Che non abbia combinato nulla non dovrebbe stupire. Le guerre, come è noto, non sono né morali né immorali. L’importante è vincerle. Attività che sembra fuori portata per i coalizzati la cui strategia è un alfabeto di misteri. 

La propaganda bugiarda non appartiene, purtroppo, solo agli sgherri giulivamente comunicativi del califfo. Da mesi i telegiornali rigurgitano di filmati di scenografici bombardamenti ovviamente chirurgici. Posti comando, convogli di blindati, capi sottocapi e gregari di ogni ordine e grado islamista, depositi di armi, tutto è stato sbriciolato per le edizioni della sera. Non dovrebbe esistere più nulla, visto anche i numeri riferiti dalla solita intelligence, di quei forsennati tra il Tigri l’Eufrate e i monti del Libano. E invece la non metafisica presenza di quelle forze terribili e crudeli continua. Abu Bakr è già morto e risorto almeno quattro volte. Le annibaliche avanzate degli eroici peshmerga curdi e delle legioni sciite a comando persiano sono servite in realtà per qualche conferenza stampa di notabili mediorientali e statunitensi. 

Purtroppo sta per arrivare il primo anniversario della proclamazione del califfato di Mossul. Un anno. Un infinito tempo nella Storia: perché quella micidiale e sanguinaria costruzione politica si è conficcata nel territorio e nelle coscienze di coloro che vivono laggiù, sta pericolosamente diventando, ovvia, naturale e permanente nello spazio e nel tempo. Mentre i droni affilano i denti, il califfato con le giaculatorie sorrette dagli sgozzamenti amministra e plasma le coscienze di centinaia di migliaia di sventurati «sudditi». Srotolando tappeti davanti all’Iran e affidandogli la «riconquista» del Nord dell’Iraq abbiamo garantito al califfo l’alleanza eterna delle tribù sunnite che costituiscono la massa delle sue fanterie. Cosa potrebbero fare di diverso? L’arrivo dei «liberatori» iraniani e sciiti significherebbe per loro la necessità di fuggire o di essere ridotti, al meglio, al ruolo di iloti.

La Coalizione lambiccata da Obama per non far nulla pone già le premesse per massacri e caos per i prossimi trent’anni. Proprio ciò che serve al Califfato!

Domenico Quirico, inviato de «La Stampa», è stato capo-servizio degli Esteri e corrispondente da Parigi. Ha raccontato le tragedie africane, è affondato su un barcone di migranti nel 2011, è stato sequestrato dai soldati di Gheddafi e dai jihadisti siriani. Ha scritto numerosi saggi, tra cui il recente «Il grande califfato».

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/23/cultura/opinioni/secondo-me/la-coalizione-contro-lisis-la-vergogna-delloccidente-aGnMPjR4FXY4Xd7PjM5iKN/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - “Terrore, morte e schiavitù: ecco da cosa scappiamo”
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 04:38:40 pm
“Terrore, morte e schiavitù: ecco da cosa scappiamo”
Nel racconto dei migranti che ce l’hanno fatta ad arrivare in Europa le immagini di una violenza che non lascia alternativa. “Nel mio Paese ero uno schiavo, fin da bambino, arruolato a spaccare pietre. Ora almeno sono vivo”. “Qui possiamo sperare”
Rifugiati eritrei in arrivo dal Sudan. Hanno intrapreso la traversata del deserto per raggiungere il nord della Libia. Nell’area non ci sono Ong o gruppi umanitari
21/04/2015

Domenico Quirico
Inviato a Catania

Sul molo dieci, al porto, l’unica voce che voglio sentire è quella di un pescatore che vicino alle barche dai dolci nomi di donna, «Paola», «Maria Lucia», guarda la folla dei giornalisti e delle televisioni, le autorità, i soccorritori, che preparano l’arrivo della nave che trasporta i pochi superstiti della tragedia dei migranti. Parla sottovoce, riflessivamente, con quella discrezione che è propria dei marinai; la cautela, quasi il timore, di guastare col pensiero qualcosa che è accaduto e che dipende da elementi tanto incerti, il mare.

Qui, al riparo del molo, non è inospitale, nemico e intrattabile come quello che ha ucciso, continuamente all’assalto della terra, lava perennemente il cemento che regge sicuro l’approdo.

«In mare tutto è matematico, se carichi troppo la barca o sposti il peso ecco che affonda… Non si può barare con il mare». 

Via da qui, dunque, via dallo striscione «mai più naufragi», dalle scritte in tre lingue, atrocemente beffarde, che augurano «benvenuti a Catania». Come posso qui, su questo molo, nel vuoto dei morti, spiegare perché i migranti partono e vengono da noi; e perché muoiono. La domanda, l’unica domanda.

Bisogna aprire, anche in me, un sepolcro da gran tempo murato. Io che pure ho accompagnato il loro viaggio, ma per scrivere un articolo e ora mi sembra bestemmia, devo buttarmi con avidità nella loro coscienza, nella parte che sta fitta nella loro carne come una spina: partire. Fino a diventare per tutto il resto ciechi e sordi. Rivedere questi uomini che si muovono, parlano, hanno rapporti, storia drammi, la vitalità, la forza, l’istinto è come ritrovare la vita del creato, degli animali e dei pesci. Bisognerebbe per capire raccontare tutto il dolore del mondo, un mondo di sconfitti a cui stiamo attenti come a una epidemia. Mentre nasconde l’unico vero tesoro.

Ho chiesto ieri a un ragazzo nigeriano, uno che ha fatto il viaggio dalla Libia sulle barche della morte, davanti al campo siciliano di accoglienza che da due anni è la sua casa, se qualche volta aveva rimpianto: sarebbe rimasto a Benin City se avesse saputo ciò che lo aspettava nel viaggio e poi in Europa? Ma poi mi sono accorto che erano pensieri simili al vento, non si condensavano in lacrime né in disperazione perché una cosa non era possibile senza l’altra e quindi neanche l’altra è più ammissibile. Non si poteva restare, non possono restare. Nulla sta fermo, né noi né gli altri. Tutto ciò che restava nel magnifico pomeriggio siciliano nella pianura di Mineo, tra gli ulivi di un verde arrogante, era la malinconia, la malinconia che l’uomo sente per tutto ciò che passa. Ed egli è l’unico essere che lo sa, come pure sa che questo è un conforto anche se non lo comprende.

Per capire è meglio lasciare Catania, la Catania del dolore ufficiale e pubblico, e andare proprio verso Mineo, sulla strada di Caltagirone e di Gela, dove è il più grande centro di accoglienza d’Europa, 3500 ospiti. Perché quella è davvero la destinazione finale del viaggio, non il molo delle autorità e delle telecamere. Mineo dove andranno magari già oggi i sopravvissuti e sarebbero entrati i novecento che invece sono rimasti laggiù, nel mare.

Lungo la strada, ancora lontani dal campo, file di prostitute africane presidiano una campagna vuota di uomini e di campi, dove splendidi fiori gialli che coprono il lordume di pneumatici gettati, mucchi di calcinacci di qualche cantiere, antiche conduttore dell’acqua divelte. Escono con un guizzo dal loro silenzio di agguato, si disputano ogni raro automobilista con grandi gesti di invito. Alcune sono grosse, altre giovani e graziose: vite, tutte, trangugiate e sfiorite. Molte di loro vengono dal campo di Mineo, ma si allontanano per non «dare scandalo», per non attirare con il loro offrirsi le punizioni dei responsabili. 

Un gruppo di giovani neri arranca sulle infinite sconnessure della strada spingendo vecchie biciclette. Si vede che hanno appena imparato, sbandano, rischiano ad ogni istante di cadere. Vengono dal Mali, la terra lungo il fiume dove il deserto si spegne ansando nell’Africa dell’acqua e dei giganti vegetali. Conosco la loro città, dove ho visto Al Qaeda uccidere e prosperare.

Hanno lasciato il Campo, si offrono lungo la strada per lavorare in nero per i contadini. Mi raccontano che qui non è come nel Sahel, dove la sabbia avanza e bisogna liberare ogni giorno la poca terra che è buona, bionda e fertile. Intanto la popolazione aumenta e bisogna dar da mangiare ai ragazzi. La guerra degli islamisti scesi dal nord ha completato la rovina. Con le mani diventate aride di cavatori di sabbia che non riescono a stringere un’altra mano tanto sono abituate a una fatica troppo pesante hanno attraversato mezza Africa per venire qui a piantare altri germogli e a raccogliere il frutto di altri. «Tutto cresce così in fretta, una meraviglia, come potevamo restare là a morire? Ci hanno detto che c’era un posto dove scendevano in mare flotte che partivano per il paradiso. Che cosa possono fare gli uomini se non correre dove si posa ricavare dalla natura qualcosa?».

Già. Li lascio all’imbocco di un viottolo che si perde tra gli aranceti, una grande montagna di ceste di plastica gialla li attende. Riconosco questa gente paziente, forte di una forza quasi naturale che noi disprezziamo.

Ecco il campo, il residence delle arance, è scritto nei cartelli segnaletici. Villini lindi un tempo destinati agli americani, il centro sembra essersi cacciato nella valle e essersi addormentato nel sole. Proprio all’ingresso si giocano partite accanitissime di calcio. I soldati presidiano l’uscita e i loro gipponi percorrono costantemente i reticolati che lo cingono. Per entrare occorre un permesso della prefettura: mi spiace, non le faccio perder tempo, mi dice gentilissimo e risoluto un funzionario. 

I migranti domani verranno qui, scopriranno che possono assentarsi dal campo per 48 ore. Ma dove possono andare? Un bus è fermo in attesa, fa servizio per Mineo, la cittadina sulla montagna. Lunghe file di auto guidate da gente del posto si allungano intorno: fanno servizio a pagamento per Catania e Messina. Dove i migranti vanno a mendicare, dove c’è meno rischio che vengano individuati. I superstiti del naufragio scopriranno i traffici che sono possibili, vendere comprare scambiare. Fino a ieri avrebbero incontrato gli organizzatori dei viaggi, che vivevano qui e che ora sono in prigione. Si accorgeranno che devono far code per tutto e che è meglio dormire quindici ore, per non finire in qualche rissa o traffico pericoloso. 

Sono morti per tutto questo? Per odiare questo lindo carcere aperto nel nulla e per sognare «il documento», l’ossessione che apre le porte del mondo? 

«Lo sai perché comunque sono venuto qui?», mi dice un eritreo seduto sul guard-rail come su un mondo: «Perché nel mio paese ero uno schiavo, un vero schiavo fin da bambino, arruolato a spaccare pietre. Qui almeno sono vivo...».

Davanti a queste storie, come possiamo proporre la domanda: perché? Viene tristezza a chiederlo a questo gruppo di ragazzi che si rincorrono sulla strada vuota davanti al campo e ridono di un riso naturale, sano, nuovo, una espressione non consumata da convenienze. Uno è un poco più avanti negli anni e già con un viso più forte e solcato; gli altri, come se il rischio e il pericolo li avesse sfiorati al primo vento della gioventù, si capisce che tutti ubbidiscono a una occhiata di quell’uno. 

Lui, che è siriano, infatti risponde: «No, nessuno ci vuole qui, sono uno straniero e potrò esser contento che non mi si scacci in un campo peggiore. Non sono né libero né ricco ma nel mio paese era la stessa cosa. Questo è già un paradiso, un paradiso di ombre se vuoi, separato da tutto ciò che importa agli altri e anche a me. Un paradiso per sperare un momento. Ma mi guardo indietro, dove vivevo io sono solo rovine, due miei fratelli sono stati uccisi, suo fratello, lo vedi quello piccolo?, è stato sgozzato perchè non aveva soldi per pagare il riscatto… dovevano star dietro una ringhiera a guardare i massacri, la gente seppellita viva sotto le macerie? Mentre il sangue monta di un centimetro ogni giorno ringraziare perché voi invece potete alzarvi, bere il caffè, leggere le notizie di noi sul giornale?».

Un ragazzo del Mali e una giovane del Gambia mi chiedono di portarli fino a Catania. Accetto. Gli parlo dei morti in mare, il mare dove anche loro sono passati. Restano in silenzio. La campagna è come tramortita. Stanchezza, vecchiaia, rovina del mondo. Sembra impossibile che possa resuscitare.

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/21/italia/cronache/terrore-morte-e-schiavit-ecco-da-cosa-scappiamo-INhEbWHAkLA5xgcbZlUfaP/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - “Nei luoghi della mia prigionia tutto è in rovina, anche...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 06:31:16 pm
“Nei luoghi della mia prigionia tutto è in rovina, anche il dolore”
Domenico Quirico ripercorre le tappe dei cinque mesi ostaggio degli islamisti.
L’incontro con padre George: «I ricordi non si devono rivivere, sono spazzatura»
Duma, città a meno di dieci chilometri da Damasco aveva 110mila abitanti prima dell’inizio della guerra civile. Da 4 anni è un campo di battaglia dove si scontrano l’esercito di Assad e i ribelli. Una situazione che l’Isis ha sfruttato per infiltrarsi in diversi quartieri


01/12/2015
Domenico Quirico
Inviato a YABRUD

Due anni dopo il sequestro e i 152 giorni prigioniero dei suoi carcerieri, Domenico Quirico è tornato in Siria, a Damasco. Questa è la seconda tappa del suo reportage. 

Un pallido ineguale mondo disseccato mi accompagna verso Yabrud, dove sono stato prigioniero degli islamisti siriani. Un mondo pallido di siccità, inumano: come avanzare sul letto di un mare immenso seccato da incalcolabili età e ora più arido di ogni altro deserto; eppure che ancora ricorda il fondo del mare con le sue colline e i suoi picchi e le sue piatte pianure tutte fratturate come di fango secco. 

Chiudo gli occhi e penso: eppure devi scoprire che razza di ferita è la tua due anni dopo e se ritrovi la tua vecchia prigione. 

Ma tutto ciò, ora che sto per arrivare, mi sembra freddo e indifferente come se mi avessero portato attraverso il museo di una città morta, attraverso un mondo che mi è non meno estraneo che indifferente; benché i miei occhi lo riconoscano, i miei occhi soltanto. Sfioriamo Tal, città di cinquantamila abitanti, le case della periferia sfumano sulla grande strada verso Nord, verso Aleppo. Ad Aleppo dove c’è la postazione dei militari: «Per metà è in mano agli islamisti, e a destra in lontananza vedi quei fumi alti? Bombardamenti! Quella è Duma, Isis è anche lì...».

PRIMA TAPPA “Io per le strade di Damasco due anni dopo il rapimento” 
 LA STESSA SALITA 

Chi mi accompagna racconta la vicinanza di questa guerra con voce suadente, come un confessore accorato e stanco quando attinge dal suo ministero la pazienza che l’aiuti a ripetere inattuabili ammonimenti. Come se un malefico astro avesse crocefisso questa gente alla infelicità. 

Inizia la salita per Yabrud, quando ho percorso questa strada sul cassone di un pick up, prigioniero, era fine maggio, i ciliegi erano gonfi di frutti. Quando partii l’estate aveva bruciato tutto e ancora molti mesi mi attendevano. Le cose, come tutto ciò che ormai giace salvo nel mosaico di ciò che è accaduto, non mancano dunque all’appuntamento, si danno a me nella lealtà di ciò che non può esser altro da ciò che è stato. E chiedono solo di venir riconosciute, oscuramente, come ansiose di placarsi nella coincidenza della memoria con cui io le sto ricercando.

Foto: soldati di Damasco pattugliano Yabrud. La città è stata per tre anni una delle roccaforti dei ribelli anti Assad, prima di tornare sotto il controllo del regime nel marzo 2014 

AMARE SENZA PERDONARE 
Le porte della città, ingenua, una cerniera, un grande respiro prima di liberare tutto in uno sforzo delirante. Yabrud sembra intatta, è incredibilmente intatta. Bancarelle di frutta, grassa e brillante, imperlata d’acqua. La piazza con un goffo monumento - mappamondo tenero e commovente, i palazzi gialli, le cupole delle moschee, donne per la strada, i gatti. Una bellezza che dà il gusto della povertà. I miei passi ritmano i ricordi. È quasi inutile chiedere: so dove trovare la chiesa, la splendida cattedrale di Costantino ed Elena dove, allora, incontrai padre George. 

Adesso il dolore c’è. Vorrei che svanisse al più presto e sparisse anche il ricordo. Ecco il lungo muro bianco, le possenti pietre del tempio romano con le iniziali di Caligola che i cristiani, furenti, trasformarono in basilica. Eternità dei fanatismi… Qui sentivo insieme dalla mia cella le campane della chiesa e gli appelli del muezzin. Non so verso cosa inclinare, amo tutto questo con rimpianto, amo con ferocia e non perdono alla Siria di avermi costretto a dei sentimenti fra i quali non mi è consentito scegliere. Se almeno potessi starmene indifferente a guardare le sue piaghe!

LA MADONNA E HEZBOLLAH 
Padre George esce dalla canonica e mi abbraccia: «Hai solo meno capelli di allora...». Sento tra le mie braccia quel fragile busto, il respiro breve che sale a sfiorargli la barba. Sentire il suo racconto annegare nel suo volto appassionato di prete e questo è il miracolo senza passioni, senza più orgasmo di agguati del tempo. «Quando tu eri qui ostaggio, comandavano i banditi qui, di Yabrud, pagavi e ti lasciavano vivere. Poi sono arrivati quelli dell’Isis. Mi ha detto uno, dammi duecentomila dollari o ti uccido, prete! Gli ho risposto che con quel denaro si potevano far studiare almeno cento preti. Poi un giorno ho nascosto le icone più preziose della chiesa nel baule dell’auto e sono fuggito a Damasco. Quarantacinque giorni sono rimasto con gli stessi vestiti. Gli Hezbollah hanno liberato la città, gli altri sono fuggiti senza distruggere nulla. La madonna e Hezbollah hanno fatto il miracolo».

Entro nella chiesa: i volti dei santi e degli angeli rimasti sono tanto celesti da far credere che il giorno abbia anch’esso oltrepassato la soglia e sia venuto a porre all’ombra il suo cielo puro. In una cappella una riproduzione della madonna di Raffaello donata a questa chiesa nell’ottocento da Francesco Giuseppe: nello sguardo convergono tutte le possibilità di disperazione e di amore. Padre George mi porta a visitare la chiesa nuova, frenetico percorre le distruzioni: le immagini sacre decapitate, gli occhi delle icone distrutti a colpi di mitra, tutte le croci e l’altare spezzati con metodo. Sulla porta della chiesa i soldati di Hezbollah hanno scritto: cristiani e musulmani insieme per sempre. 

LA «STANZA» 
Ora bisogna salire verso la parte alta della città. L’odore di sesamo è più forte delle immondizie. Mi orizzonto con il minareto, ecco, una casa sbrecciata dalle bombe, vuota, ma ancora intatta all’interno. Vicino alla finestra la stanza. Quel luogo mi è estraneo come un luogo in cui si è appena giunti, che ancora non ti conosce o che ti ha dimenticato. Non posso più dirgli nulla di me, non posso lasciare che una parte di me vi si appoggi. È inutile che cerchi di riallacciare il mio pensiero a quell’edificio in rovina. Spogliato e dissolto nei suoi volgari elementi materiali quel luogo mediocre mi pare lontano. Scende il buio su Yabrud, bisogna partire perché di notte è pericolosa la strada, e le bande islamiste scendono dalle colline. Ha ragione padre George: «I ricordi non sono fatti per essere rivissuti, ma per gettarli via, nella spazzatura».

IL RIENTRO A DAMASCO 
Torno a Damasco. Intorno al nucleo centrale della città, i palazzi del potere e della sicurezza, i quartieri eleganti o antichi, con cerchi concentrici si allargano circonvallazioni sempre più vaste, segnano fasci di destino e di anime. Il primo cerchio inizia proprio su un lato di piazza degli Abbasidi dove le spose per tradizione vengono portate su auto scoperte a fare un passaggio di buon augurio.

Il quartiere di Jobar, un posto come tanti che ho conosciuto qui in Siria dove si ascolta il rumore che risuona quando cade una bomba ad alto potenziale, un vento pieno di morte e il rumore del dolore fisico. Prospettive immense rotte e terribili di un quartiere inghiottito dalla guerra. Le costruzioni nuove, le costruzioni vecchie e decrepite che si accavallano come scoscese montagne sulla pianura. Un groviglio geologico a seracchi, sezionato dalla battaglia, da cui sfilano in alto le torri più alte. Qui la città è davvero grandiosa e terribile, premeditata e improvvisata dalla violenza dell’uomo. Mondo grande, lunare, tutto è chiuso in se stesso. Come una maledizione: la sofferenza per aver la fortuna di avvicinarsi alle sorgenti stesse della vita, alle sue palpitazioni, ai suoi misteri. Perché la vita non si svela che ad occhi iniettati di sangue?

MAPPA - I LUOGHI DELLA PRIGIONIA 
LA GUERRA DELLE FORMICHE 

Il generale Amer, cristiano, mi racconta la sua guerra di talpe, di formiche. I combattenti islamisti hanno costruito una rete di tunnel, una città sotterranea che vive sotto l’altra. Si combatte a colpi di gallerie contrapposte, di mine che fanno crollare edifici interi dove si appostano i cecchini, con la fame.

Mi sposto in un altro quartiere: Barzi, centomila abitanti, metà ancora in mano ai salafiti. Qui è iniziata la rivoluzione, c’erano un tempo islamisti, ma anche intellettuali. Un’aria sospesa, un silenzio composto di occulti ronzii l’avvolge e sale nel cielo. Qui incontri ancora nelle via asinelli e pecore, banchetti dove spremono in succhi di miele e freschezza i melograni; e qui trovi le ragazze come Sabrine, che per disperazione si vende per dieci dollari. È bellissima, ha occhi pallidi come se portassero lo stupore di una cecità dissigillata. «Mio marito è un combattente islamista, sono fuggita con i due bambini, ma devo mangiare. Lui è rimasto dall’altra parte del quartiere, forse a un chilometro da qui... Se è ancora vivo». In Siria: la morte di ogni giorno che ci fa immortali.

Davanti all’Empresso, al Majestic, locali alla moda, lunghe file di auto nuove, ragazzi sono seduti sui cofani, fumano, chiacchierano, ridono forte. Le ragazze sono in macchina, telefonano freneticamente. Perché non siete partiti? Rispondono con cauti discorsi da filosofi: «Quando devi morire puoi andare sulla luna e morirai lo stesso. Forse siano stati più fortunati o coraggiosi o pazzi dei nostri coetanei che sono partiti».

Il nunzio Monsignor Zenari mi mostra il biglietto che ha scelto per gli auguri di Natale: su un lato un’icona della chiesa di Yabrud, la fuga in Egitto; sull’altro una foto dei profughi siriani nel deserto. Un verso di Geremia dice: «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché non sono più». 

Volevo andare ad Al Qusayr dove la mia prigionia è cominciata. Rinuncio. Dello stato d’animo che in quei lontani cinque mesi furono solo una lunga tortura, non sopravvive nulla. Perché in questo mondo dove tutto si consuma, dove tutto perisce c’è una cosa che cade in rovina, che si distrugge ancor più rapidamente, lasciando ancor meno segni: ed è il Dolore.

Da - http://www.lastampa.it/2015/12/01/esteri/nei-luoghi-della-mia-prigionia-tutto-in-rovina-anche-il-dolore-nOuNA0DaZQw0eTkoYLb7ZN/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO Le rivoluzioni chiedono il visto ai reporter
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 12:00:48 pm
Le rivoluzioni chiedono il visto ai reporter

23/01/2016
Domenico Quirico

Che il mondo stia cambiando non solo di scorza ma anche di midollo più che le planetarie turpitudini del fanatismo califfale me lo illustra un dettaglio che attiene al minuto orizzonte giornalistico: ovvero anche le rivoluzioni, le ribellioni più o meno globali, in evi difficili come questi, hanno scoperto la burocrazia, la carta da bollo, soprattutto il visto sul passaporto e simili chiappolerie amministrative. Altro che guerre bastarde come le ha rampognate qualche fantasioso analista. 

Siamo di fronte a guerre che aspirano ad essere infaldonate. Con le carte in regola. Con tanto di addio alla globalizzazione: visto che così si serrano nientedimeno i confini che non esistono!

Laddove prima era sregolatezza e caos, l’eldorado dei free-lance disinvoltamente privi di tessere, attestati, certificati di assunzione e visti direttoriali, si intravede, mortuaria e mortifera, la silhouette della burocrazia avvilita ed ottusa, destinata a spegnersi nella impotenza e disutilità dei faciloni che impugnano un timbro. In qualche conventicola insurrezionale certo già si lavora al pestilenziale «badge», come per entrare alla Nato. Per chi vuole testimoniare è un inventario di strazi.

Dieci anni fa volevo raccontare la rivolta dei tuareg nei deserti saheliani e feci tappa in un alloggino alla Villette, a Parigi dove il sole, universale pastore, si era mai arrischiato. Un gruppo di uomini blu, che apparivano ben insabbiati nella capitale francese, si appisolavano al suono dell’imzad e dei loro sogni di piogge infinite. Nessuno chiese di firmar carte o di inviare mail. Per sgranocchiare l’appetitosa guerriglia saheliana mi diedero semplicemente appuntamento in un certo deserto pietroso del Sud dell’Algeria. L’incredibile fu che i loro pick-up si presentarono quasi puntuali. E pure lì niente passaporti foto-tessera attestati della congiunzione amministrativa a qualche setta giornalistica. Al massimo alcune avvertenze per evitare la curiosità pestifera di soldati e gendarmi algerini: A farti passare la frontiera provvediamo noi… siamo o non siamo ribelli?

Per entrare in Siria nella parte controllata dai rivoltosi, non ancora trasmutati in apostoli di un dio intrattabile, si attraversava semplicemente a piedi la frontiera turca: dopo la terra di nessuno c’erano loro. Nessuna domanda superflua, si sospirava la parola giornalista e tutto filava ad olio. I gabbiotti delle guardie di confine li avevano fatte saltare per non farsi venire tentazioni.

I ribelli banyamulenge in Congo li ho trovati lungo la pista, quasi per caso, seduti sotto un’acacia che giocavano con i machete come noi con l’ombrello.

Così scorreva disinvoltamente il mondo delle ribellioni nel secolo appena defunto. La maggior parte di quel formicolaio (con l’esclusione di qualche milizia che praticava la terribile ideologia del massacrare l’uomo per renderlo perfetto) non aspettava altro che l’occasione di raccontare e raccontarsi, di spiegare a un registratore o di trasformare in inchiostro chi erano, e di inargentare i loro progetti. In quel tempo in cui c’era minor etichetta e più cortesia la Rivoluzione era disposta svelarsi al nostro mondo «corrotto e perduto». Oggi il tempo dell’embedded è entrato nella seconda rifioritura, la versione rivoluzionaria, etnico tribale, mistico politica. I giornalisti o vengono uccisi o si cerca di limarli con infiniti impicci come regimi e governi. Le ribellioni non hanno più nulla da raccontarci. Ed è molto pericoloso.

Quando il terzomondismo stantuffava dall’Africa alla America Latina si uncinavano le guerriglie direttamente nella giungla; insurrezioni impazienti, pronte per aver l’eguaglianza a calpestare la fraternità, erano in nostra attesa in bettole fumose, come nei romanzi di Graham Green. 

Oggi anche il più scalcinato movimento vanta uffici di rappresentanza, legazioni, perfino «ambasciate». A cui bisogna fare la fila, metaforicamente su internet o più banalmente di persona. Occorre redigere formulari con domande complesse, nomi di ascendenti frequentazioni geografiche e politiche durata del soggiorno…! Entrare nei territori «liberati», nei «santuari» aggrappati a impervi dorsi montagnosi o perduti in inospitali deserti è diventato più lungo e complicato che entrare nel sospettoso regno del dittatore nordcoreano. Scavalcare frontiere infrante non è più problema logistico, trovare auto, guidatori spericolati e fedeli, evitare i regolari e i falsi rivoluzionari: è diventato un problema di silenzi, attese e pazienze.

Da - http://www.lastampa.it/2016/01/23/cultura/opinioni/editoriali/le-rivoluzioni-chiedono-il-visto-ai-reporter-OeceUbTlIkuame6Sja8gPL/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO Sabratha, i due ostaggi italiani uccisi con un colpo alla nuca
Inserito da: Arlecchino - Marzo 04, 2016, 12:24:13 pm
Sabratha, i due ostaggi italiani uccisi con un colpo alla nuca prima del blitz delle forze libiche
Fausto Piano e Salvatore Failla erano stati rapiti in luglio da miliziani vicini all’Isis.
Affidati a un altro gruppo gli altri due connazionali


04/03/2016
Domenico Quirico
Inviato a Sabratha

La vigilia è finita, la ebbrezza sanguinaria comincia. Il cannone tuona. La terra fuma. È vero? Incredibile sembra l’evento dopo tanta esitazione. Invece l’uccisione comincia, la distruzione comincia. È vero. Perché ci sono già due morti. Fausto Piano e Salvatore Failla, ostaggi di questa eruzione demoniaca, della metastasi libica del califfato, dipendenti della impresa Bonatti di Parma, rapiti nel luglio dello scorso anno. Da banditi si diceva più che da islamisti: ma dove inizia il confine che separa gli uni dagli altri? I banditi non diventano spesso combattenti di dio? 

Si può morire così, con una pallottola alla nuca, a Sabratha, l’esecuzione prima che gli assassini a loro volta venissero uccisi, a settanta chilometri da Tripoli, in una città di fastose rovine romane e di sanguinosi fanatismi.
I sanguinari piromani del Califfato universale sono arrivati anche qui. Una casa nel nulla, una prigione rifugio usata forse prima di un altro, ennesimo spostamento. Gli italiani usati - secondo quanto racconta un testimone – come «scudi umani», per coprire la fuga. Dentro la casa un pugno di armati non si sa esattamente quanti, una donna e un bambino. Sì, in mezzo alle cartucce, ai mitra, alle salmodianti preghiere e all’odio, una donna e un bambino, il jihad come fatica quotidiana, banale. 

Sono gli unici sopravvissuti alla battaglia tra una milizia fedele del governo di Tripoli e un gruppo di combattenti di Isis. Sarebbero tunisini: ancora il marchio della Tunisia, terra che qualcuno descrive giulivamente fuori pericolo, sollevata per miracolo dalla peste del fanatismo armato. Sabratha a 170 chilometri dal confine tunisino: lì c’è un campo di addestramento da cui sono partiti i responsabili degli attentati al Bardo e a Sousse.

Alla fine hanno contato nove morti e una donna che urla e un bambino ferito; ed è lei a raccontare di essere moglie di uno dei combattenti e che tra i cadaveri ci sarebbero anche degli stranieri: ostaggi italiani. In quattro erano stati rapiti nel 2015, altri due dipendenti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, della ditta italiana. Non sono lì, ha detto la donna, perché sono stati affidati a un altro gruppo in un altro luogo. A venderli sarebbe stato l’autista libico ora sotto interrogatorio. 

Mentre viaggio verso Misurata penso che il nulla esiste più di tutto ciò che esiste. E che non si minacciano le guerre se poi non si ha il coraggio di farle davvero. Che attendere i comodi dell’Onu, il girovagare di mediatori senza forza e l’interminabile arte del rinvio dei politicanti libici impegnati a spartirsi poltrone e rendite petrolifere, è più che un errore. La guerra non è qualcosa che si annuncia, che si dibatte, su cui si fanno circolare «voci»: la fai e basta, se pensi sia giusta e necessaria, attacca, spara, mettiti al riparo quando devi. Tutto qua. E poi recupera i morti. L’occidente non ha fatto la guerra e recupera già questi poveri morti. 

La faremo questa guerra, prima o poi, cinque anni dopo aver annientato il regime psicopatico di Gheddafi torneremo qui per riparare alle nostre colossali e colpevoli imprevidenze. Torneremo certo «per finire il lavoro», triste formula con cui copriamo la nostra passata incapacità. Torneremo, questa volta, non per smontare un tiranno (amico nostro), ma per un obbiettivo totalmente egocentrico: difendere i nostri interessi economici (la maledizione libica: avere le più grandi riserve di idrocarburi dell’Africa) e fermare i migranti in un altro possibile stato terrorista. 

Ma Piano e Failla, e i loro due compagni ancora scomparsi, in questo disegno che posto avevano? Qualcuno aveva pensato a loro, quando annunciava azioni di corpi speciali, raid di bombardieri e altre meraviglie belliche prossime e venture per sgretolare gli assassini di Dio? Ed erano solo annunci.

Li dimenticheremo in fretta i due lavoratori inghiottiti da una normale storia del nostro tempo, ovvero il restringersi del mondo che possiamo vivere e percorrere: sì, li dimenticheremo come abbiamo dimenticato il giovane cooperante Lo Porto, ammazzato dagli americani in Afghanistan «per errore», ucciso da coloro da cui attendeva in fondo al suo martirio la liberazione. Come abbiamo dimenticato Lamolinara, l’ingegnere ammazzato in Nigeria in un blitz tecnicamente imperfetto. 

Non è facile raggiungere Sabratha, eppure sarebbero solo settanta chilometri. Ma a Janzur, appena superato il vecchio aeroporto internazionale di Tripoli ora chiuso e distrutto, scontri tra le infinite milizie rivali hanno interrotto la strada: muri alzati con la sabbia e grandi trincee che hanno tranciato l’asfalto. Bisogna scendere a sud, allora, compiere una grande diversione nel deserto e poi riguadagnare la strada litoranea. Ma ad Al Azazyiah, quando pensi che il peggio è dietro di te e le milizie di Sabratha ostili a Isis hanno il controllo, il deserto è ancora più pericoloso: perché i gruppi jihadisti, costretti a lasciare le posizioni in città, si sono dispersi per render la maggior parte del territorio impraticabile. L’auto avanza e vedo alla mia destra rupi che precipitano verso il mare e le palme che sono più grigie che verdi e ogni tanto una certa erba verde e crudele, un’erba al sangue. Dopo tanti chilometri di sabbia, c’è qualcosa di miracoloso e ancor più meraviglioso perché a contatto con il deserto: il mare, che richiama con le onde infiniti pensieri. La Libia come la Siria e lo Yemen, il Paese delle maledizione e dei miti, le intatte solitudini, quella che un tempo era l’ultima verità concessa ai nostri sogni.

Penso a ciò che nessuna ricostruzione potrà mai colmare. Al vuoto dei sette mesi di prigionia dei poveri morti. Posso farlo, ne ho un poco il diritto. Conosco i sogni di liberazione che ti trascinano ininterrottamente, e ininterrottamente si spezzano come fili marci. E il tempo che non esiste, il giorno e la notte, le ore e i minuti che si confondono. L’attesa è una dimensione spaziale così come il tempo. 

Duadi, è il sindaco di Sabratha, come tutti gli arabi si muove e parla come se avesse nel petto una perenne tempesta. Racconta la dinamica dello scontro in cui hanno perso la vita gli italiani; e come sia difficile cacciarli via. Qualche giorno fa il governo a Tripoli con molto ottimismo aveva annunciato che il problema era risolto.

Qui come nel califfato della terra dei due fiumi il reclutamento delle milizie Isis è internazionale ma la sua anima è locale, radicata nelle mille contraddizioni di questo posto violento. Ancora la micidiale capacità del califfato di mescolare forze diverse. Sirte che era il feudo della tribù di Gheddafi, duramente bombardata dagli occidentali nel 2011, è stata poi malmenata dai successori del dittatore: come le tribù sunnite di Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Imitando gli ufficiali di Saddam molti pretoriani del Colonnello hanno raggiunto le file dell’Isis per cercare la rivincita. E nuovo potere. Così in Libia dove l’internazionale islamica progetta di creare una nuova provincia del califfato o di trasferirsi in caso di sconfitta in Medio Oriente, la generazione di Gheddafi ha fatto alleanza con quella di Saddam per combattere il jihad. Feroce malizia della storia: entrambi sono passati dall’anti-islamismo originario all’islamismo più radicale.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/03/04/esteri/sabratha-i-due-ostaggi-italiani-uccisi-con-un-colpo-alla-nuca-prima-del-blitz-delle-forze-libiche-2V6auiY4JT0rBir2ElXieI/pagina.html   
   
   


Titolo: D. QUIRICO Le milizie che guidano Sabratha hanno rotto con l’Isis e con Tripoli
Inserito da: Arlecchino - Marzo 06, 2016, 07:02:00 pm
Così le milizie che guidano Sabratha hanno rotto con l’Isis e con Tripoli
Pochi mesi fa tra le rovine dei monumenti romani sfilavano i mezzi degli jihadisti ma dopo il bombardamento Usa di febbraio tutto è cambiato nei rapporti di forza


06/03/2016
Domenico Quirico
Inviato a TRIPOLI

Marzo è un mese misterioso. Il mese delle rivoluzioni, il mese delle guerre. Anche nella vita individuale, in questo mese, qualcosa si mette in moto, silenziosamente.

È così che lavorano le guerre e le rivoluzioni, silenziosamente, come la terra. 

A marzo la Libia si è rimessa in movimento. Dall’Italia arriva l’eco di sbarchi già (quasi) pronti e di risolutorie operazioni occidentali, si contano gli uomini e le navi… Come un ingranaggio, dente dopo dente, rotella dopo rotella, il caos libico comincia ricomporsi ad assestarsi su nuove faglie e a rovesciare sulla testa ciò che era in piedi.

Questa geografia delle alleanze tra gruppi armati è la vera politica di qui. Non quella delle trattative per assegnare ministeri che corrono tra i «governi» di Tobruk e di Tripoli e quello, un po’ pirandelliano personaggio senza persona, che appassisce e intristisce a Tunisi e negli alberghi di mille capitali «amiche», ma lontanissime. Cinque anni fa qui c’è stata una esplosione atomica, il nucleo si è frammentato in migliaia di parti. In perenne movimento e in perenne processo di accrescimento o diminuzione della massa critica. Ci sono processi che si possono vincere solo in seconda istanza. Le rivolte quasi sempre sono un processo di questo genere. In prima istanza viene annientata oppure diventa sé stessa. In seguito, nel periodo del purgatorio, ciò che ne costituiva il significato si depura. A volte occorre parecchio tempo. Qui cinque anni non sono bastati.

 Uno di questi frammenti è Sabratha, lo sfondo, il palcoscenico della tragedia degli ostaggi italiani. La Libia è cresciuta, su su, al nostro fianco dopo la caduta di Gheddafi, ed è come una certa parentela che c’è, che esiste anche se non ci si scrive da anni, anzi si fa finta di ignorarla, vergognandosene un po’, un antipatico segreto di famiglia. C’è, vive, prolifica e a un tratto bussa alla tua porta e ti dice: sono qua, con i migranti, il petrolio in pericolo, le turbe dei fanatici del califfato. È fatta: ora bisogna occuparsene. Così è arrivata per noi questa, a cosa disfatte, e non ne avevamo voglia. Ma neanche potevamo tirarci indietro: così ci lasciamo andare.

 
Andare a Sabratha, al di la dei pericoli, degli inciampi che la guerriglia delle bande ha sistemato sulla strada, è un pellegrinaggio in questa storia malinconica, ancora in atto e struggente per chi ha cura delle sorte e del dolore degli esseri umani. La campagna è bella, sudata di fatica come nel nostro Sud, ma la terra qui sembra degradare a sabbia anche quando non è ancora sabbia. La vegetazione in Libia è innaturale. La natura era, è il terreno brullo, piano, senza ombra; il resto è una sopraffazione meravigliosa dell’uomo. La vegetazione violenta il suolo che in realtà resta sempre calpestato da secoli, senza iniziative proprie, come una morte geologica. 

Così lo sguardo resta sempre al mare che si costeggia: denso, il mare, e innegabilmente un po’ torvo, con il suo azzurro intenso, ma senza trasparenza, e la balza dell’onda arriva verde, di uno strano verde opalino. Poco fuori dalla città, a un tratto, enorme, sproporzionato, inverosimile oggi, il teatro romano. E non sembra rovina, ma messo lì come un modello al vero, per mostrare quello che era ai tempi di Severo e Marco Aurelio. Fuori del vero e del falso, fuori della natura e della Storia. È un conflitto con il destino, oggi la rovina di Sabratha. La guerra ha azzannato questa città di forse centomila abitanti, non la lascia più. E la gente? La gente ha imparato ad essere come i bambini, persuasi che la notte non finirà più.

In mezzo ai monumenti qualche mese fa sono sfilate alcune decine di veicoli di Daesh (Isis), con le nere bandiere, le mimetiche alternate ai barracani, i volti coperti dai turbanti come elmi medioevali. Una trentina, che nei racconti fantasiosi, giornalistici e non, sono diventati centinaia. Una dimostrazione di potenza, la propaganda dei fatti in cui il califfato e i suoi vassalli sono maestri.

È passato pochissimo tempo e tutto è cambiato: le formazioni islamiste radicali sono state respinte fuori dalla città, e dalle rovine romane dove si dice nascondessero gli arsenali. Si sono ritirate in uno spazio semideserto, tra la città e uno scalino all’orizzonte, quasi tutto unito, e di un azzurro che tende al lilla, il gebel: è terra brulla, rari i campi, poche case, cespugli secchi o ciuffi di erba dura. 

Un anno e mezzo fa sono stato a Sabratha una prima volta. Non nella città, ma proprio in questo deserto, con i combattenti della montagna, la milizia di Zintan: quella che nel 2011 ha tolto Tripoli a Gheddafi e poi ne è stata cacciata da «Alba libica», i fratelli musulmani su cui noi Italia facciamo molto conto, e le formazioni armate che hanno base a Misurata. Allora gli islamisti combattevano apertamente, erano alleati, non sprecavano neppur molta fatica a nascondersi. Laggiù - mi mostrarono gli uomini di Zintan – sì, proprio tra le rovine, vicino al mare c’è al Qaeda… sarà difficile cacciarli… 

I fondamentalisti, ben armati e fanatici, erano perfetti alleati per tenere a bada gli odiati nemici, quelli del parlamento di Tobruk, i soldati del generale Aftar, uomo dell’Egitto e degli americani. Tutti sapevano che tra Alba libica il partito al potere in parte della Tripolitania e gli uomini del jihad c’erano ottimi rapporti. Poi tutto è cambiato con il bombardamento americano del 19 febbraio che avrebbe ucciso alcuni dei capi delle milizie del califfato. Le formazioni locali hanno «scoperto», improvvisamente, che i fondamentalisti erano troppo maramaldi nella loro città e che i loro alleati di Tripoli erano troppo arroganti e padroni. Alleanze che finiscono, di colpo. E si passa subito alla guerra.

Lo stesso scenario in scala più grande: in tutta la Libia, nelle centinaia di alleanze e coabitazioni tra gruppi armati che noi non conosciamo si ridisegnano in queste settimane le posizioni. Nessuno vuole trovarsi dalla parte dei perdenti, si vuole cancellare le tracce di aver diviso il pane con i fondamentalisti. 

Anche a Tripoli le voci tambureggiano. Sembra stia per compiersi ciò che prima era impossibile: la formazione di Misurata finora alleata dei fratelli musulmani, potentemente armata, guidata da Salad Badi, starebbe per saltare il fosso e allearsi sul terreno con gli uomini di Zintan per dare l’assalto a Tripoli. Con i nemici dei feroci scontri di tre anni fa!

Moltiplicate questi scenari per cento, mille volte e avrete forse compreso qualcosa della Libia. Ma chi può esser sicuro di conoscere bene questo labirinto per poter ritrovare la strada?

Da - http://www.lastampa.it/2016/03/06/esteri/cos-le-milizie-che-guidano-sabratha-hanno-rotto-con-lisis-e-con-tripoli-OuFyfFET1ot3uViZsbQyGJ/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Boko Haram ha sconfinato. Il governo svuota i villaggi: ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 10, 2016, 12:07:33 pm
In Ciad sul lago che non esiste più la trincea dei taleban d’Africa
Boko Haram ha sconfinato.
Il governo svuota i villaggi: “Chi resta sarà ucciso”


10/05/2016
Domenico Quirico
Inviato a KAYA (Ciad)

Mezzogiorno. Luce, luce. Così intensa da rimanere ammirati, stupefatti, come se uscendo da una sorta di semioscurità gli occhi si spalancassero, vedessero più chiaro, sempre più chiaro. Sulle acque del lago Ciad, che chiamiamo lago ma che è un mare, un errore della natura che ha colmato di acqua dolce questa enorme voragine nel cuore dell’Africa e l’ha imprigionata fra pareti di deserti incombenti come un lento destino e di fertili savane dai contorni azzurrognoli, danzano luminose frange di argento. 

Sempre più luce… Da quali tenebre siamo dunque usciti? Eppure questa è una parte del mondo messa a soqquadro dalla rabbia sanguinaria dei Boko Haram, i taleban d’Africa. Di che natura è questa festa di chiarori bianchi che sembra in ogni luogo avere inizio? E invece: queste ombre fatte di massacri, kamikaze bambine o travestiti da donne, pulizie totalitarie fitte di stupri e sgozzamenti… Il lago Ciad è chiuso, vietato: ai battelli, alle piroghe, impossibile attraversarlo. Bisogna penosamente aggirarlo in questo paese senza strade, con lunghi percorsi di sabbia. La setta più temuta del mondo, i miliziani di una giovinezza frustrata e inferocita, ne ha assaltato le isole fertili, saccheggiato, sgozzato. L’esercito ciadiano ha brutalmente ordinato alla popolazione di andarsene in massa: campi villaggi acque, tutto deve restare vuoto. Chi disobbedisce sarà ucciso. Centomila profughi si accalcano già in villaggi di canne senza cibo e senza assistenza, i bambini muoiono di denutrizione. I Boko Haram hanno già vinto?

A prestar fede ai geologi e alle leggende che hanno preceduto di secoli i loro scientifici vaticini, l’Africa un giorno si spaccherà in due proprio qui, all’altezza di questa lunghissima cicatrice che corre tra il Sahara e le foreste, luoghi grandiosi e subdoli dove dalla decomposizione delle foglie sale il profumo della morte. Quando il continente si spezzerà, allora si realizzerà il sogno, che il Ciad torni ad essere il mare. Ventimila anni fa era già sparito, per riapparire poi come per un sortilegio. L’Africa è un tuffo non nella preistoria, ma nell’eternità, tutto qui è possibile.

Nella geopolitica la spaccatura è già avvenuta. Questa è una delle congiunzioni del mondo che l’islamismo rivoluzionario vuole controllare. Le Afriche si incontrano qui, in questi vecchi golfi di lago caldi e languidi, sulle polveri di intere umanità scomparse: l’Est degli Shabaab e l’Ovest dei Boko Haram, il Nord jihadista della Libia, del Sahel con le nuove frontiere della guerra santa sempre più a Sud, Centrafrica, Kenya… Come è articolata ed estesa la geografia del califfato universale…
Secondo la Nasa tra quindici anni il lago non esisterà più, prosciugato dalla siccità e dall’uso degli uomini. Ma ancora oggi è bello da ferirti gli occhi, un dio, visto che dà vita a trenta milioni di persone che si affollano sulle rive, su frontiere più che mai senza senso davanti alla lotta per sopravvivere. È un dio placido, senza malumori, nulla che ricordi le burrasche degli astiosi laghi dell’Africa australe. Le acque sono diventate basse, non più di tre metri. È perfino difficile pescare. Ma ora il problema non esiste più. L’esercito ha vietato di utilizzare le piroghe, non vuole impicci e testimoni mentre sul lago conduce una guerra senza sfumature e innocenti.

I pescatori sono filosofi come in tutto il mondo, gente che vive senza fare rumore come se temesse di far male al dio, un malato fragile come è. Uomini e bimbi sparuti, strozzati dal bisogno, continuano a lavorare attorno alle loro canoe sempre più inutili, ne ricuciono le slabbrature con stoppie e argilla. Dove le hanno tirate in secco una lunga macchia scura ricorda che lì, solo poco tempo fa, c’era ancora l’acqua. Acque stanchissime, quasi impaludate, che avanzano senza un tremito, come di un canale morto. Lunghi gemiti rompono l’aria, uccelli spiccano il volo e palpitano come scossi da morte… Su un arenile nascosto qualcuno pesca ancora, di frodo, gettano a riva strani pesci di un verde splendido, dalle squamose branchie di corallo, che lasciano nella polvere le tracce della loro agonia. Tre pescatori hanno visi famelici di barbareschi. Non so qual muta disperazione infiammi i loro occhi, ma certo ci guardano con rabbia e paura.

Attorno al lago l’aria è fresca, la brezza porta odori di erbe giovani: dove l’acqua si è ritirata recentemente si stendono pianure umide, i contadini hanno preso il posto dei pescatori e mettono a coltura le nuove terre, avidamente. La gente è tanta. La terra non può, non deve riposare… Ma ora tutto è in pericolo: la pesca, l’agricoltura, gli uomini. 

Il terrore soffia dall’altra parte del lago. La Nigeria, una «democrazy» come dicono, la democrazia folle d’Africa ha fabbricato un mostro. I Boko Haram non sono più la setta che si batteva contro la corruzione delle élites politiche e religiose del Nord, arricchite dal petrolio, mentre il sessanta per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Adesso l’islamismo è un progetto mondiale, c’è il Califfato: i miliziani portano uniformi come veri soldati, il loro capo Abubakar Shekau, sparito per un anno, si è addestrato con gli Shabaab somali, all’altro capo dell’Africa. La setta è diventata un gruppo terroristico, ha fondato il suo Califfato, rapina banche e si arricchisce di sequestri e di usura, imita con cura gli uomini del Califfo di Mosul. I video, che all’inizio sembravano sgorbi di «Nollywood», utilizzano effetti speciali e sotto titoli in inglese e arabo. 

Il reclutamento avviene non più con l’ideologia ma con la violenza, la magia nera, il denaro e la promessa di una moglie. I nigeriani dei villaggi del Nord sono poveri, non possono pagare una dote, una giovane rapita è un richiamo seducente. Soprattutto i Boko Haram uccidono: in sei anni ventimila vittime. 

 
Seguiamo le svolte del lago, oltre Bol, alla ricerca dei segni di questa guerra spietata. Guerra tutta notturna che inizia dopo il coprifuoco. Guerra di chiatte, di imboscate, di silenziosi agguati su isole vuote e paludi fittissime. Attraversiamo villaggi di canne e di fango, qui sono di fango secco anche le moschee, non ci sono minareti e guglie che si slanciano al di sopra delle polvere, nella purezza dell’immutabile cielo. Non ci sono porte, si può guardare la miseria di ogni casa, i pavimenti di terra, le poche stoviglie. Il lago è già lontano, l’autista mostra i denti alla pista di sabbia con ringhioso accanimento. Bianca la polvere, bianche le case e la pista, bianche le vesti, bianca la folla in cammino a piedi, su asinelli, cavalli, dromedari solenni. Gli alberi ora hanno fronde di cenere, di un verde spento. 

Ormai i piani dei Boko Haram hanno scavalcato i confini della Nigeria, controllare il grande lago vuol dire mettere in ginocchio il Ciad che importa tutto dalla Nigeria; il Ciad da punire perché aiuta i francesi a combattere gli alleati islamisti nel Sahel. Mescolano tattiche di guerra e attentati suicidi, disseminano le piste di mine artigianali, li precede un terrore che crea il vuoto. Sedicimila nigeriani sono fuggiti dall’altra parte del lago in cerca di sicurezza. E poi i centomila ciadiani che vivevano nelle isole del lago, espulsi con la minaccia di essere uccisi come complici dei terroristi e di cui il governo del presidente Déby, un dinosauro al potere da ventisei anni, non si occupa. Pensa di risolvere il problema con la violenza: come i nigeriani all’inizio della epopea sanguinaria della setta. 

Il lago è ormai alle nostre spalle, la vegetazione si è rarefatta, scomparse le grandi palme, la terra non è più scura: steppe di sabbia, lande bruciate pianori salati color calce, rare acacie spossate dalla siccità gettano la loro rara ombra intorno ai villaggi. L’islam ha impresso la propria impronta su questo mondo, l’islam sempre attratto dalle regioni desolate, dallo sfavillio dei deserti. Asinelli e cavalli si rotolano nella sabbia scura, cercando di respirare, stremati, un po’ di frescura dalla terra. Il Ciad dei fuggiaschi crepita, si affila al sole. 

È un cortile tutto bianco questo mercato, gli uomini con le loro lunghe vesti siedono in gruppi, accigliati. Ma le donne no: strepitano con uno strepito di bambine senza risa, accanitamente loquaci. Hanno voci tremanti, anche se gridano, di un tono mite e denso, come d’olio, e scorrono una sulla altra. Voci cantanti, da fanciulle di sedici anni, le vecchie pure. Ci racconteranno, loro e i bimbi, le ferocie dei Boko haram.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/10/esteri/in-ciad-sul-lago-che-non-esiste-pi-la-trincea-dei-taleban-dafrica-ZJJ50PyvSr5fhdNS1JdBiO/pagina.html



Titolo: DOMENICO QUIRICO - Tra i profughi del lago Ciad dove l’Europa resta un miraggio
Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2016, 06:01:44 pm
Tra i profughi del lago Ciad dove l’Europa resta un miraggio
In pochi hanno i soldi per partire, gli altri sono bloccati nei campi in mezzo al deserto. I fondi stanziati dall’Unione europea finiscono per alimentare la corruzione

12/05/2016
Domenico Quirico

Xenofobi, innalzatori di muri, innamorati dei fili spinati e delle barriere, non state in ansia! La maggior parte di costoro non arriverà da noi su squarci di caravelle tarlate, non busserà inopportunamente a Lampedusa, Lesbo, Ceuta mossa dal fanatismo della povertà e dell’avventura. Sono troppo poveri, sono uomini, donne, bambini nudi. 

Per la Grande Migrazione occorre avere un po’ di denaro, una mucca da vendere o le capre, un sacco di miglio che doveva servire per la semina, un parente pietoso già in Europa. Loro non hanno monete per pagare il passaggio su un camion che li porti fino a N’Djamena. 

Non hanno scarpe per camminare su queste sabbie selvagge abitate dal torvo popolo dei fanatici del Dio musulmano, non hanno telefonini per cercare mercanti di esseri umani che li trasformino in un affare redditizio. Non hanno niente. 

REPORTAGE sul lago che non esiste più la trincea dei taleban d’Africa (Quirico) 

Sfollati dagli islamisti 
Sono venuto qui, a questo lago-mare, per cercarli, vederli, parlare. Solo i ciadiani sono centomila, con i Paesi vicini gli sfollati dai Boko Haram salgono a due milioni. Nulla più, qui, di aperto e di buono, di giusto e di buono, come nulla di infantile o di vecchio. Vi è solo dolore; e la ferocia, che è del dolore.

La città di Bol è di un bruno calcareo, spoglia. Pare una necropoli, che dalle finestre delle case debbano uscire corvi, in volo. Tutto è di creta secca, scura. È ancor più in là dell’Africa, in un continente ulteriore dove sia città essa sola. Ma qui il lago c’è ancora, metti le mani nell’acqua e fosforo, ti sale tra le dita. Gli schiamazzi dei bambini occupano la cittadina solo a zone, ciuffi d’alberi nel deserto. Attorno la terra sfuma in nulla rapidamente, logora di stagni e paludi che sembrano spazi vuoti, spazi puri. E il Ciad anche lui è di nulla, di una bianchezza di mare morto. 
Ora c’è nell’aria un eccitante squallore, il gran giallo delle sabbie. La canicola, la burrasca bianca dei cavalloni di polvere alzati dai pick up montati da soldati in sudice uniformi di tela e dai fuori strada delle organizzazioni umanitarie.

La gente osserva i fuori strada che passano come astronavi, qui la luce è un miracolo, l’acqua una speranza. Se vieni nel Sahel senti, non è la prima volta per me, che l’Africa entra nel tuo destino come una condanna. 

Capanne di rami e canne 
Le capanne di rami e di canne che credevamo asili per le capre si rivelano case, che sembrano, al sole, di sabbia pure esse. Ho visto il nulla della fatica quotidiana, una giovinetta che con grandi bracciate cercava di far salire l’acqua da un pozzo. Fatica che serve per un tozzo di pane, e tozzo di pane che serve alla fatica. Gli uomini stanno fuori, a crocchi, con le vesti avvolte attorno alle spalle fin sugli occhi per via della polvere. Stanno immobili come spettri che non hanno di vivo che lo scintillio degli occhi e guardano lontano senza mai dirsi una parola. Conducenti d’asini corrono agitando le braccia come indemoniati in una nuvola di polvere, emettendo brevi grida acute per impedire ai loro asini di farsi travolgere dalla vettura.

 Villaggi interi in cammino 
Dove il deserto è assoluto, sprofonda, raschiato dalla canicola incontri gli sfollati. L’avanzata degli islamisti nigeriani e la brutalità dei soldati che dovrebbero difenderli li ha cacciati dalle fertili isole del lago, e dalle rive già fin troppo abitate. Allora, a gruppi di famiglie, a villaggi interi, si sono messi in cammino dove la memoria dei vecchi li portava. Senza avere con sé più nulla. Un tempo abitavano qui, prima di spostarsi sul lago: ma allora erano terre benedette perché il lago era molto più grande. Nessuno stavolta li ha cacciati: perché qui non c’è più nulla. Qui davvero è deserto: per questa solitudine di ogni cosa, di ogni duna che par chiusa in se stessa, e di ogni albero o viandante che si incontra. E per questa luce e per questa immensità di cespugli tutti eguali, tutti rachitici. La tempesta solleva un pulviscolo che non è terriccio e non è sabbia, una specie di polline vecchio che sa di muffa e avvolge tutto come un velo sterminato. La terra è saccheggiata da questo vento, lunghe pianure appaiono sospese nell’aria. Là è il lago, quell’aria. Disabitato come la luce del primo giorno. E le capanne sono accovacciate, storpie dalla furia che trascorre.

È vecchio, robusto, faccia dura, occhi duri, capelli fitti e crespi. Si dice contadino e se ne vanta. Ma la voce è un soffice brontolio, come di lana. È vestito di stracci che gli svolazzano addosso come piume, non ha più campi, o bestie. «I Boko Haram sono belve, serpi, ma è fare alle bestie un’ingiuria a dire così. Venivano, rubavano portavano via le donne, e i ragazzi giovani per farne sollazzo e combattenti. E noi ad aspettare i gendarmi e i soldati…. Sono venuti, dopo, e ci hanno detto: via, toglietevi di qua se no vi tratteremo da Boko Haram. Volete sapere dove andare? Dove vi pare, il Ciad è grande».
Ci guarda: «Non bisogna piangere per nessuna delle cose che ci accadono». «Non bisogna piangere? Uomini, donne, bambini sono morti e non bisogna piangere?». «Se piangiamo li perdiamo, non bisogna perderli, se piangiamo rendiamo inutile ogni cosa».

Le donne passano invisibili sotto le grandi cappe colorate tra le cui pieghe si apre una specie di fenditura da dove sporge la testolina incantevole di un neonato tenuto in braccio. 

A colloquio con i morti 
Il terrore dei Boko Haram lo capisco quando uno psicologo ciadiano che lavora in un campo di rifugiati mi racconta che le vittime hanno difficoltà a parlare con lui, non svelano gli orrori di cui sono stati vittime o testimoni: non parlano con me, vanno al cimitero, a parlare con i morti… a loro si possono confessare».

La morte è lì nel cimitero e diventa liberazione quando sulla terra più che per viver bene, ci si dura per prepararsi a morire. Conoscono la luminosa spiegazione che la loro fede dà della morte, per averla sentita nella preghiera o per averla quasi respirata nell’aria. Ricacciano il dubbio: il Dio in nome del quale sono stati martoriati non è lo stesso che li accoglierà alla fine dei giorni? 

Ci prepariamo a rovesciare su questi Paesi altro, molto denaro: perché non abbiano più ragione di partire. Se percorrete la pista che dalla capitale porta qui, e sono trecento chilometri, nove, dieci ore, ad ogni villaggio trovate grandi cartelli colorati, in metallo, con la bandiera ciadiana e quella dell’Unione europea. Alcuni sono vecchi, semisommersi dalla sabbia, sghembi, altri hanno colori ancor vivi. Simboleggiano centinaia di progetti: acqua per il villaggio…; riabilitazione rurale del distretto…; progetto di incremento agricolo…; sviluppo sanitario… Non c’è nulla di tutto questo. Polvere, sabbia, pianure di terra riarsa, fiumi rinsecchiti. Dove sono finiti i soldi che abbiamo rovesciato qui, da decenni? Chi li ha rubati?

I nostri amici laici 
A N’Djamena ho visto solo tre cose nuove, moderne: la Versailles del presidente, una residenza-città lunga chilometri; i fucili e le uniformi dei soldati che fanno la guardia che sembrano cadetti usciti da Saint-Cyr; e il nuovo ministero degli Esteri, in vetrocemento, per un Paese così povero da non avere ambasciate. In Niger, in Mali, in Mauritania, in Nigeria è lo stesso. Ecco la spiegazione. Qui finiscono i soldi. E le cancellerie occidentali lo sanno: ma questi sono i nostri alleati, i nostri amici laici, organizzatori di elezioni, che si può fare? La volontà di aiutare c’era, il fallimento dà le vertigini. Oggi per svincolarci dall’incomodo dei sudditi di questi satrapi, sguaiati e maneschi inettitudini diplomatiche ripescano la stessa formula: aiutare l’Africa in Africa, ci pensino loro. È falso che la storia sia maestra di vita: e non perché la maestra non insegni ma perchè gli scolari sono zucconi, non imparano.
Il Ciad è proprietà personale del presidente Deby: che abbia conquistato il potere con un colpo di Stato non lo ricorda nessuno, forse perché è avvenuto ventisei anni fa. E dopo? Elezioni su elezioni, con tanti partiti e bandiere colorate di simboli. Solo che le vince sempre il suo, che ha come simbolo una zappa e un fucile. L’ultima due settimane fa, i rivali gridano alla ennesima truffa, lui festeggia e parla di sviluppo e rinascimenti. Durante i giorni del voto ha spento tutti i telefonini del Paese, inchiavardato Internet. Non si sa mai: questa è la modernità. Lo hanno suggerito forse i francesi, a cui è simpaticissimo e da cui trae importanti beneplaciti padronali: ovvio, fornisce loro economiche fanterie per combattere i jihadisti e soprattutto tenere in riga la «Francafrique». 

Ah la «Francafrique»! Non tramonta mai, la conservano, Gauche e Droite, meglio del Louvre. Nell’albergo uomini di affari francesi si distendono tra un contratto e l’altro, a bordo piscina, con signorine locali la cui gentilezza ha curve commisurate alle grazie effettive. È incredibile quanto denaro si può estorcere nei Paesi più poveri del mondo! All’ingresso dell’enorme base militare francese vicino all’aeroporto ci sono gli stemmi della République: come in una qualsiasi gendarmeria dell’Exagone. È nelle tasche di obbedienti palafrenieri della Francia come Deby a cui l’idea del «nòmos» non entra in testa, che rovesceremo i miliardi per evitare i migranti: noi avremo ancora i migranti e la Versailles di Djamena sarà ancora più vasta e scintillante.

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Titolo: DOMENICO QUIRICO - Sulla montagna di Gourougou, dove Dio ha altro da fare
Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2016, 06:02:47 pm
Sulla montagna di Gourougou, dove Dio ha altro da fare
Nell’estremo lembo settentrionale del Marocco, in vista di Melilla, tra i migranti più derelitti che tentano il passaggio in Europa e a volte restano qui per anni. Dal nuovo libro di Domenico Quirico
Giovani migranti del Mali osservano dal monte Gourougou la linea di confine che divide il Marocco dall’enclave spagnola di Melilla

09/05/2016
Domenico Quirico

Il brano che anticipiamo è tratto da Esodo. Storia del nuovo millennio, il nuovo libro di Domenico Quirico, a giorni in uscita per Neri Pozza (pp. 174, € 16). Dall’Africa e dal Medio Oriente sconvolti dalla guerra, dalla povertà e dalla minaccia islamista, fino alle sponde dell’Europa, l’autore racconta il dramma della Grande Migrazione che ha seguito per La Stampa e in cui si è calato fino al punto di affrontare con un centinaio di disperati, nel marzo 2011, la traversata dal porto tunisino di Zarzis su una carretta del mare che in vista di Lampedusa fece naufragio. 

La foresta di Gourougou! Pronunciatelo il nome, fate scorrere le sillabe ritmate... Gourougou: sembra uscito dalle Mille e una notte, un nome sacro alle favole e agli idilli, che risuona di voci, di fatti misteriosi e di oscure magie. Una leggenda dice che in cima al monte hanno trovato un’antica ancora di nave: perché un tempo un’onda è arrivata fin lassù. Sì, in fondo sono venuto fin qui attratto dal nome, dall’incanto di un nome... Gourougou... 

E invece... invece Gourougou non è un luogo di fate, è un terribile luogo di uomini, è veramente lo smemorato regno della tristezza e del dolore. Tutta la malinconia degli uomini del nostro tempo, i migranti, razza inquieta e infelice, si raccoglie in questo lembo di Marocco, in questa estrema regione dell’Africa, goccia a goccia, come acqua in terra cava. 

Per queste alte terre deserte, dove le greggi abbandonate belano roche tra le agavi e le erbe, ho raccolto l’ennesimo filo della Grande Migrazione. Non una casa, non una capanna, non un viso di uomo per miglia e miglia, i villaggi e le città, Melilla e Nador, affondate giù nelle valli come in un’acqua cupa, balzano a galla ogni tanto, appena un raggio di sole percuote le pareti bianche. Qui tutto è aria, luce, erba, vento, roccia e acqua. Il riflesso del Mediterraneo spalanca sul monte cieli esangui. Ma l’alta, splendente malinconia di questa terra, ha il suo male segreto, gli «africani», i migranti. 

 MALEDETTO PARADISO 
Li chiamano proprio così, i marocchini, senza odio e senza rabbia: gli «africani», come se loro fossero altro e non figli della stessa patria, immensa. Un altro rivolo dell’Esodo si raggruma in questa terra vicina, troppo vicina al primo cielo d’Europa. 

Mai come sulla montagna di Gourougou, in questi anni in cui inseguo i migranti, ho visto il contrasto profondo e duro. I migranti con la loro viva e rossa forza che batte loro nei polsi e l’Europa che è morta. 

A Melilla, l’enclave spagnola che si stende ai piedi del monte, l’Europa è, infatti, visivamente morta. In questo anacronistico antemurale assediato, difeso da un Muro, noi europei siamo già stati smascherati, spogliati delle nostre seduzioni e dell’arroganza legata alle nostre realizzazioni. Qui possiamo toccare con mano quanto c’è di illusorio nei nostri sforzi e nelle nostre convulsioni. 

Dalla montagna dove vivono in covili da bestie, ridotti ad affamato popolo delle selve, i migranti lo vedono, lo spiano, lo maledicono il loro ipotetico paradiso, è laggiù in fondo, un chilometro in linea d’aria, sdraiato davanti al mare: dodici chilometri quadrati, Melilla, la Spagna d’Africa. Dell’impero su cui non tramontava mai il sole, l’impero degli hidalgos e dei re cristianissimi, restano solo questi dodici, sonnolenti chilometri quadrati di case giallastre, come le città povere del nostro sud. 

Ma per i migranti questa terra è d’oro, perché è già Unione europea, chi riesce a calpestarla è già in Europa. Niente viaggi mortali nel Mediterraneo crudele, niente passeur che chiedono migliaia di dollari. Si entra direttamente in paradiso, a Melilla. [...]

LE SCIMMIE COME CIBO 

La montagna di Gourougou sfuma quasi sul posto di frontiera. Ho faticato a trovarli, i migranti, arrampicandomi su per sentieri di pietra. Ma la polizia marocchina li bracca e si nascondono sempre più in alto, in gole sempre più impervie. Tutto questo versante spruzzato di polvere, di sole, di luce è ostruito da vegetazione selvaggia e vigorosa. Attraverso questo viluppo di pini ed eucalipti si incrociano, legandosi come maglie di catena, una moltitudine di piccoli sentieri polverosi che, visti dall’alto, somigliano a una grande rete stesa sul fianco del monte ad asciugare. Più giù, al di là delle linee delle case di Melilla, appare la tovaglia blu del mare. 

Eccoli: un gruppo mi scende incontro, hanno in mano bottiglie di plastica, vanno a cercare l’acqua che sul monte non c’è. Hanno un aspetto di vergogna, di impudicizia senza scampo. È per me come rincontrarli ogni volta. Hanno dentro di loro la natura delle loro terre magre, le zolle scure e la sabbia dei deserti, le piste polverose, i greti bianchi nel sole tra gli argini alti di fiumi immensi, le acacie in fiore e i rovi. Questi sono i poveri dei poveri, hanno scelto questa via tra le tante perché non hanno i soldi per pagare il passaggio del deserto e della Libia verso il mare. Hanno camminato a piedi attraverso l’Algeria, lavorato a Tamanrasset e a Orano per pochi denari, e ora sono qui, sulla loro montagna, a centinaia, a migliaia. C’è tutta l’Africa dei derelitti, «ma viviamo insieme come fratelli, dividiamo il poco che abbiamo». 

Le «tende» sono fatte di sacchetti di plastica, pezzi di cartone, stracci. Si odono strilli di bimbi e le voci pazienti delle madri. «Vieni, ti mostro la mia casa» insiste Youssef e sembra avere l’orgoglio con cui mi mostrerebbe una reggia. «Sai come la chiamo? Il bunker...». Scendono ogni mattina a Nador a chiedere la carità, per comprare un po’ di cibo, e rientrano con il buio come le bestie, nella loro tana. La notte è gelata sulla montagna e non hanno vestiti e coperte. C’è gente che è qui da due, tre, cinque anni... Il problema è il cibo: mangiare. Uccidono le scimmie e i cinghiali per sfamarsi. Posso offrire loro solo questo sollievo, essere qualcuno che ascolta. Chissà se nelle loro mitologie vi è un dio che non risponde, ma che forse sente, ascolta. Sarebbe già molto. 

«Ogni tanto la polizia e i soldati si scomodano e salgono fin qui, vengono all’alba per sorprenderci quando dormiamo. Noi fuggiamo nel fitto della foresta e loro bruciano tutto, tende, coperte, telefonini... Bruciano il nostro niente».

La peggior colpa che abbiamo verso di loro è che li abbiamo plasmati e riplasmati, li abbiamo resi informi, e tali da non potersi più inserire in nessun altro destino. Chi oserebbe raccogliere queste anime sparpagliate, argilla confusa e screpolata, ovunque, da impronte di dita?

LA BARRIERA TROPPO ALTA 
Parliamo della barriera, l’incubo, l’ossessione, le strategie per attraversare. Qualcuno ce l’ha fatta, i compagni lo mettevano in un sacco, lo facevano dondolare e poi cercavano di gettarlo al di là. C’è chi nella caduta non si è rotto testa e gambe, si è alzato ed è fuggito prima dell’arrivo dei poliziotti spagnoli. Ma ora la barriera è troppo alta e troppo larga. Possono provare di notte in due o tre, arrampicandosi. 

«Io l’ho fatto una volta, ma sono rimasto bloccato tra i due reticolati. I poliziotti marocchini mi hanno bastonato fino a farmi sanguinare le orecchie». 

Ogni tanto in centinaia danno l’assalto, soverchiano i poliziotti, e qualcuno riesce a scivolare via. Non resta allora che il mare, nuotare con l’aiuto di un copertone, ma l’acqua è gelata, la distanza infinita, e c’è chi muore.

Parliamo di Dio, ci sono cristiani e musulmani: «Guardaci! Forse Dio si occupa degli uomini solo quando non ha altro da fare... Il mestiere di Dio sono capaci tutti a farlo. Anche il Nulla è capace di essere Dio in questo modo».
 
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Titolo: DOMENICO QUIRICO - Tra gli schiavi della Mauritania: “L’Islam è per i padroni”  
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2016, 11:28:19 am
Tra gli schiavi della Mauritania: “L’Islam è per i padroni”  
Migliaia di neri continuano a essere proprietà degli arabi ricchi: “Non possiamo neanche pregare, solo ubbidire” 


08/06/2016
Domenico Quirico
Inviato a Nouackhott (Mauritania)

Esistono parole che fanno male come un morso, parole che non si possono dimenticare né perdonare. Parole che contengono veleno come il morso di un serpente. La parola schiavitù. Ma non nel senso in cui noi occidentali la usiamo, sfruttamento economico, il mal prezzo pagato a una fatica. No. Nel senso antico: la proprietà fisica di un uomo, disporre del suo destino e della sua vita, di ciò che è, fa, pensa, diventa, fin da bambino. Che puoi prestare all’amico che ne ha bisogno, cedere ai figli come dote quando si sposano. Che diventa schiavo automaticamente, nel momento in cui nasce da una schiava. 

Nel terzo millennio questa realtà che emerge e che porta addosso i segni dell’abisso come un cetaceo naufragato con le proprie alghe, insieme ucciso e vitale, me la trovo davanti sulle coste dell’oceano, in Mauritania. Dove gli schiavi sono tutti «haratines», i mori neri che rappresentano il quaranta per cento della popolazione. Inchiodati alla croce del non esistere, anche se li puoi toccare, parlare con loro, vederli vivere. Che leggono invano testi di legge dove la schiavitù è dichiarata delitto. Questo popolo che non ha niente lo disdegneremo? Immergiamoci nella sua miseria. Lo vedremo completamente nudo, senza difese, con i suoi occhi da animale domestico. La sofferenza svela l’essenza delle cose, è il prezzo che bisogna pagare per guardare la vita in modo più profondo, più vicino alla verità.

I TEMPI DELLA TRATTA 
Ai tempi della Tratta c’era un rito, il rito dell’Albero dell’oblio. Quando sulla costa del continente arrivavano le colonne degli schiavi catturati e venduti dopo guerre e raid scatenati per questo scopo, prima di imbarcarli sulle navi, attorno a questo albero si svolgeva una cerimonia per far loro dimenticare la terra, i parenti, il passato, rendere la mente vuota. Così, quando fossero morti, non sarebbero tornati a vendicarsi dei loro aguzzini. Consapevoli del loro delitto. In Mauritania non so se è esistito questo albero terribile: certo è che il rito ha funzionato, questi schiavi nostri contemporanei hanno più che dimenticato, vivono a fianco dei loro padroni felici di servirli, pronti a far scattare la loro devozione. Perfino la comune fede nell’Islam serve a tenerli in catene come un destino. 

 
Nouackhott di notte quando si sbarca dall’aereo: diritte vie deserte, tetra città addormentata, impossibile immaginare qualcosa di meno esotico, di più brutto. Un po’ di animazione davanti ai caffè violentemente illuminati, risate volgari. Bambini chiedono l’elemosina porgendo una latta vuota, agli incroci, davanti al mercato; ti inseguono per lo più silenziosamente, al massimo con un pigolio di zanzara, tenaci, pacati come chi ha tutto il tempo inesorabile per vivere e per morire. Sono figli di schiavi, piccoli schiavi, i primi che incontro.

IL QUARTIERE PIÙ POVERO 
Città allo stato larvale che pare ancora nascosta nel sottosuolo. Troppo vasta per la sua scarsa attività. Se una grazia c’è consiste nella sua indolenza. Che la prima voce sia quella lieve, noncurante di Habj Rabah tutta avvolta nel nero: «La mia storia vuoi sapere? Una storia banale di una schiava con il suo padrone. Discendo da schiavi, non sono mai andata scuola, guardo il bestiame, faccio i lavori in casa, vado a cercare l’acqua, mi picchiano. Sono musulmana, ma mi dicono che non importa se non porto il velo e che non devo pregare. Sono schiava. Dio è per il padrone, per i “mori bianchi’’, gli arabi. Quello che è obbligatorio per lo schiavo è ubbidire».

Attorno bambini, molti bambini. Non bisogna mai chiedere agli «haratines» chi è il padre, non è «educato». Gli schiavi conoscono solo la madre, il padre può essere il padrone o uno dei suoi figli o un altro schiavo. Irrilevante.

Ora è giorno, dopo una rapida alba. E c’è Riyad da vedere, uno dei quartieri poveri dove vivono gli «haratines». Il taxi, un vecchio Mercedes, rugoso sdentato e sbocconcellato, lo guida un militante abolizionista. È stato in prigione con Biram Dah Abeid, il Mandela mauritano, indomito leader del movimento antischiavitù (Ira). È come entrare nelle viscere di un grande corpo, doppie, triple file di casupole messe insieme con assi di legno, pezzi di lamiera, teli, piuttosto tane che case. Gli edifici in muratura hanno le pareti corrose dal terreno salino, una malata fatiscenza che lavora e disfa, sono vivi e decomposti. Gli «haratines» vivono qui non perché sono stati liberati. I padroni, che non vogliono mantenerli, hanno detto loro di andarsene, di cercare di sopravvivere. Sanno che quando hanno bisogno, lavori in casa, il bestiame, i campi, servire, li possono chiamare e accorreranno. Cosa potrebbero fare? Non hanno documenti, senza il consenso del padrone non possono sposarsi e non troverebbero lavoro. 

Qui gli unici arabi che vedi sono proprietari di negozi e dei grandi silos dove sono stoccati il riso e la farina: per attendere che i prezzi salgano. I loro magnifici boubous azzurri si gonfiano e fluttuano nel vento caldo come vele. I padroni, i «mori bianchi» non abitano qui, non c’è l’acqua corrente a Riyad, Riyad puzza. Infiniti asinelli dalle piaghe coperte da segni bluastri arrancano nella strade di sabbia, sospinti a bastonate, trascinando piccole cisterne piene di acqua. «Questa è l’acqua per gli “haratines’’, non è potabile, occorre farla bollire». 

BAMBINI TRA I RIFIUTI 
Il taxi passa attraverso questi luoghi umani come attraverso un muro di pazienza, secolare pazienza, piagata ma non avvilita. Queste casupole infime, barcollanti sono accanto a distese di immondizie in cui bambini cercano, tenendo in mano grandi sacchi bianchi, sopravvivenze immonde coperte di mosche. Pecore contendono loro la preda puzzolente, pecore che hanno occhi chiari, acini di uva o di vetro, che guardano in un modo particolare, uno sguardo assente, vitreo. Vibrano, a tratti, una lingua puntuta, violacea con cui leccano le immondizie. Donne e bambini stanno acquattati nell’ombra povera dei muri. Come strane creature del sottosuolo uscite ad osservarmi. Ero di un’altra materia, fatto di un altro elemento, io.

Che la seconda voce sia quella di Barka Asatin, che ha 28 anni, è giusto: oggi è libera grazie a una storia d’amore. «Mi hanno strappato a mia madre quando avevo cinque anni. Accompagnavo il padrone nella brousse per dar da bere al bestiame e poi lavoravo in casa. Un giorno il padrone mi ha stuprata. Non so nemmeno a che età, avevo appena indossato il velo, una bimba. È nato un figlio che il padrone ha regalato a sua figlia. Poi è stato il figlio del padrone a violarmi ed è nato un altro bimbo. Ma c’era un autista che non era schiavo, era pagato. Si è commosso alla mia condizione, ha deciso di cercare mia madre. L’ha trovata e mi ha portato via, ma il padrone si è infuriato e ha tenuto in ostaggio i miei figli. L’Ira ha iniziato una battaglia legale, giudici e polizia erano contro di me. Mia madre che pure mi ama mi ha denunciata per aiutare il padrone a riprendermi. Mia figlia è diventata folle, diceva. Mia madre. Alla fine abbiamo vinto, l’ho sposato, abbiamo un altro bambino e i due figli sono con me».

Riyad è un’esperienza stranamente liberatrice. Non c’è tentativo di velare, di nascondere la fondamentale ingiustizia dell’esistere, la sua qualità sporca vien vissuta con pacatezza rassegnata. Lasciamo parlare Said allora, che quando ha cercato di fuggire dal padrone aveva 15 anni e oggi ne ha 18: «La schiavitù ha segnato la mia vita, i miei fratellastri sono stati dispersi, dieci anni ho impiegato per ritrovarne uno, un’altra mia sorellastra ha rifiutato di lasciare il padrone, aveva paura. Ho scoperto che ero uno schiavo quando ho visto che trattavano gli altri bambini, i figli del padrone, diversamente da me».

Cosa è dunque la schiavitù? Sono venuto per vedere un mistero. Ma il mistero non si vede: si sente. Si esprime senza voce, come un sordomuto. Eppure ne sono piene le strade, i mercati, le campagne, le case dei ricchi. La schiavitù è un aria completamente pervasiva, ti accarezza come la lingua di un animale appena uscito dalle selve. Non dimenticare: sei in Mauritania, approdato in un pianeta dalle luci ignote e impossibili. Dunque non avete mai visto uno schiavo, nessuno vi ha detto esplicitamente di esserlo? Non siete andati allora al grande mercato di Nouackhott. Gli schiavi sono lì: spingono enormi pesi su incerte carriole, gettano il cemento in fragorose betoniere per costruire i mattoni, riempiono sacchi di carbone. Oppure non siete stati invitati a una festa nelle case ricche, di un alto funzionario ad esempio, o di un giudice, quelli che dovrebbero applicare le leggi contro «il crimine» della schiavitù.

LA LEGGE ISLAMICA 
Le donne hanno indossato i loro boubous più belli, gomitoli di capelli ornano le teste, portano oro alle orecchie, braccialetti di argento ai polsi, vanno sventolando, magnifiche, i loro ventagli di palme. Ebbene gli schiavi sono intorno a voi: hanno lustrato le scale, imbiancato i muri, hanno preparato il cibo. Quando tutto sarà finito, gli invitati partiti, torneranno a Riyad, forse con qualche avanzo.

I segni della mancanza di libertà, della miseria non sono «sventure» qui. Vengono da lontano, migrano da vita a vita. Questo ne fa un luogo tragicamente impervio, pervaso da una drammatica incomunicabile dolcezza, un’indifferenza senza sdegno, senza rimorsi, senza indulgenza.

L’ultima parola spetta ad Hamadi che a vincere la schiavitù ha dedicato la vita: «Le leggi qui sono fatte per gettar polvere negli occhi degli occidentali. Ma tu sai che sei uno schiavo, i giudici applicano la legge islamica per cui la schiavitù è lecita. È quello che insegnano nelle scuole da cui escono i giudici. È una storia antica, quando gli arabo berberi che credevano che per esser nobili fosse necessario avere schiavi, li presero tra le tribù dei vinti e li spinsero a fare figli per averne molti. E poi per renderla intoccabile l’hanno coperta con la religione. Non è una questione di pelle o di classe o di povertà, è più complicato, qualcosa che ti entra in testa dall’infanzia. Lo schiavo non ha personalità, non sceglie, fa cosa dice il suo padrone, non ha esistenza come individuo, lo ama, è pronto a morire per lui». 

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Titolo: DOMENICO QUIRICO - Perché i carnefici filmano il Male
Inserito da: Arlecchino - Luglio 05, 2016, 10:31:27 pm
Perché i carnefici filmano il Male

03/07/2016
Domenico Quirico

La cosa più spaventosa del terrorismo sta nel fatto che non te lo puoi togliere di dosso, continua: la strage di un gruppo di persone può esaurirsi in pochi minuti.

Ma l’effetto non termina per questo, prosegue, si moltiplica come un’eco.

La distruzione cala silenziosamente su di te come da corde di seta. Siamo prede. La guerra non convenzionale che ci hanno dichiarato è all’interno dei nostri Stati, li fraziona e li divide. L’attentato si muove nel senso inverso della guerra: come il martirio, come la guerriglia, sempre dai margini e lentamente verso il cuore dello Stato. È una questione di uomini e di terre, il terrorismo è un ritorno alla sanguinosa esplorazione dei margini. Più sono percorsi e più il riflusso dell’onda verso il centro è violento. Come noi superstiti viviamo l’assenza degli uccisi? Noi viviamo in un tempo sospeso.

 E’ possibile pensarci con distacco, separare queste vicende Parigi, Bruxelles, Istanbul, Dacca, dalla nostra vita reale? Io non credo. Ne siamo tutti toccati. Si finisce sempre per guardare per cercare brandelli di notizie di luoghi in cui siamo stati, delle persone che abbiamo conosciuto. Il veleno è entrato in noi, agisce, si insinua, corrompe. Come esprimere cosa si prova? E’ una sorta di attrazione fatale, il dolore per tutto ciò che abbiamo perduto in questo tempo di caos, sedersi in un caffè senza guardarsi attorno, attraversare una strada, andare ovunque nel mondo, fare la fila all’imbarco di un aeroporto; una stanchezza dello spirito che si nutre di filmati proiettati e riproiettati mille volte. Tentiamo di raggiungere il pulsante per spegnere l’apparecchio: ma non ci riusciamo. Perché non c’è. L’hanno preso altri, gli Assassini.

Ho attraversato luoghi in cui il terrorismo aveva colpito. Tutto era di nuovo a posto, accuratamente cancellate le tracce. Eppure provavi la sensazione nuova che quel luogo fosse sostanzialmente diverso. Notavi la vivacità, l’allegria esagerata sui visi delle persone, sembravano le prime ore di una festa. Era semplicemente l’effetto di ritrovarsi ancora vivi. La stessa sensazione che ti prende quando hai superato indenne un bombardamento. 

Il califfato ha cambiato il mondo ahimè, quello che ha invaso e occupato, e quello che minaccia con i suoi innumerevoli gruppuscoli di morte. Puoi ritornare a casa dopo una assenza e non appena la porta si è rinchiusa, è come se non si fosse mai partiti. Accadeva fino a ieri: era il nostro mondo, l’occidente, con i suoi guai e le sue storture, ma familiare, consolidato, confortevolmente e abitudinario. Oppure puoi ritornare dopo poche ore e ogni cosa è tanto mutata da sentirti estraneo, e questo è quello che ci è accaduto, che sta accadendo.

Le grandi parole restano lì sospese nell’aria, califfato fanatismo vendetta, ma tutto si riduce semplicemente a centinaia di assassini. E’ lì la domanda, tremenda, e, forse, la risposta. Perché il demonio (ma anche dio) si sono sempre serviti di persone banali, futili, insignificanti per i loro scopi. Quando se ne serve dio si pronuncia una parola vuota, nobiltà. E quando se ne serve il demonio, ecco pronunciamo un’altra parola vuota: malvagità. Ma il materiale in entrambi i casi è sempre e soltanto quello, la stupida, meschina, assassina mediocrità umana. La principale caratteristica di questi uomini del jihad non è tanto il fanatismo, la monomania, quanto la paura di sprecare il tempo. Il tempo porta il segno della irrilevanza finché non si compie il suo terribile ordine: uccisione e morte. 

Quanto è inadeguata la nostra conoscenza del male! Per uccidere i jihadisti di Dacca hanno usato il coltello, sgozzare è infatti il modo che usano per segnarsi. Ma poi hanno filmato i cadaveri avvolti dalle pozze di sangue e se stessi. Perché? Perché quando il Califfato ha rivendicato il massacro potesse utilizzare quelle immagini. E’ la trasposizione planetaria delle esecuzioni dei poveri ostaggi di Raqqa. La violenza di massa ha bisogno di organizzazione, una operazione di sterminio prolungata come quella dell’islamismo radicale richiede grande pianificazione e grandi obbiettivi. E’ un mezzo che permette di approdare a un nuovo ordine e l’idea di questo ordine, per quanto criminale, deve essere semplice e al tempo stesso assoluta. Per chi si accinge a uccidere un gruppo di innocenti la sete di sangue è sicuramente di aiuto. Ma non basta: coloro che hanno progettato e eseguito carneficine come questa devono nutrire la ferma volontà di vedere morte le proprie vittime, averne un desiderio talmente forte da trasformarsi in una necessità. Ora quelle immagini sono lì, davanti a noi, esposte allo sguardo nella loro intimità. Cosa dobbiamo fare? Guardarle? Sappiamo che quei cadaveri, e i loro assassini, resteranno con noi per sempre. E allora sì: vogliamo restarne segnati. 

Un capo jihadista siriano, Abu Omar, mi raccontò la prima volta in cui aveva ucciso in quel modo. Mi raccontò il calore che sentiva allo stomaco e intorno agli occhi guardando i condannati e la loro angoscia mortale, stramazzavano, strisciavano, ricadevano, si inginocchiavano per invocare pietà. Spiegava che era sempre stato un uomo qualunque, ma quando aveva visto un uomo strisciare e mendicare la vita aveva avuto la sensazione di diventare un altro più forte e più potente, aveva sentito il proprio sangue scorrere e visto allargarsi l’orizzonte. Il piccolo commerciante Abu Omar era diventato ad un tratto arbitro di vita e di morte, si era trovato tra le mani l’onnipotenza. Una acuta ebbrezza lo aveva invaso finché, poi, la lama aveva cominciato a scorrere sulla gola della vittima, il sangue schizzare… ecco: ora questi uomini lottano risoluti nel buio: al di là del bene…
 
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Titolo: QUIRICO I volti dell’innocenza cancellati dal fanatismo, così è morta la pietà.
Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2016, 12:03:34 pm
I volti dell’innocenza cancellati dal fanatismo, così è morta la pietà

16/07/2016
Domenico Quirico

Il volto dei bambini morti a Nizza dobbiamo immaginarlo. Quella serietà estremamente misteriosa, quando la morte cancella dal volto tutto ciò che prima rappresentava la giovinezza: il sorriso, la malizia, la bellezza. Quel che rimane è diverso, indefinibile. Non chiede nulla, non ci chiama, non trasmette alcun messaggio. Come se quella piccola vittima avesse appreso troppo presto qualcosa per cui avrebbe avuto diritto di attendere tutta una vita.

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Il terrorista autore della più terribile strage di bambini in Europa degli ultimi anni non ha visto e non vedrà i volti delle sue piccole vittime. Il modo di uccidere che ha scelto, calpestarli con il camion lanciato a tutta velocità, lo ha asserragliato nella corazza della bestialità, della sete di sangue, del fanatismo. In fondo l’attimo in cui la belva salta fuori dal fitto della foresta, la rabbia, l’odio, di più: una indifferenza fosca e spietata che erompe a fiammate a cui forse ci si abbandona senza rimpiangere nulla e senza compatire se stessi. 

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Solo perché non li ha guardati negli occhi prima di schiacciarli a morte ha avuto la forza di uccidere, perché ha evitato la trappola miracolosa della pietà che permette all’uomo di essere per alcuni istanti qualcosa di diverso da quello che spesso, purtroppo, è? E’ questa la soglia davanti a cui per un attimo la bestia insanguinata si arresta. La pietà che non è amore perché l’amore sa essere implacabile egoismo. La pietà non chiede di essere ricambiata, non giudica, è misericordia per un attimo, senza condizioni.

Questo terrorista franco-tunisino che per troppi, purtroppo, la illegittima qualifica di «martire» spingerà tra gli ingiudicabili profeti, ci impone la domanda terribile: come è possibile decidere di uccidere decine di bambini? Anche questa volta è stato in contatto con le sue vittime, ha guardato la folla che inconsapevole ammirava i fuochi artificiali. Fino all’ultimo ha avuto la facoltà di scegliere. 

Eppure quest’uomo è fatto come tutti noi, respira mangia dorme legge sente vede. Ma cosa c’era dentro di lui? Chi era quest’uomo? Come può esser stato quello che è stato, aver fatto quello che ha fatto, come è possibile? E quante altre persone esistono come lui nel mondo e che cosa ha prodotto in loro, sani di mente, tanta disumanità? 

È la più terribile arma del fanatismo totalitario: la capacità di eliminare l’obbligatorietà del rimorso tra i suoi combattenti e missionari di morte. Se riesci a convincere un gruppo di uomini, e sono ormai migliaia e migliaia, che le loro azioni sfuggono al giudizio morale, sono al di sopra e al di là di una condotta definita universalmente inumana, hai in mano la macchina perfetta per illimitate e pianificate atrocità. Sgozzi un innocente? Schiacci un bambino? Non temere! Sei lo strumento dell’azione di un dio terribile e immanente nella Storia. Allora l’assassino diventa, e si sente, il sacerdote di un sanguinoso ma sacrosanto sacrificio. Aiutare dio a purificare il mondo: che impresa, altro che appassire nella malinconia di certe sventure mediocri, senza nobiltà di catastrofe! 

Allora il rimorso non esiste più, ogni azione diventa legittima e neppure quegli occhi di bimbi ti fermeranno. Un mondo in cui nessuno è innocente, salvo tu: avete ucciso la pietà, adesso sì che i carnefici possono mettersi al lavoro.


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Titolo: DOMENICO QUIRICO Viaggio coi migranti sui pick up stracolmi attraverso il Sahara
Inserito da: Arlecchino - Agosto 09, 2016, 06:09:54 pm
Viaggio coi migranti sui pick up stracolmi attraverso il Sahara
Ad Agadez, in Niger, l’incontro con i trafficanti per raggiungere la Libia: la traversata costa 200 euro. Dopo ore di attesa la partenza per il deserto

07/08/2016
DOMENICO QUIRICO
INVIATO AD AGADEZ (NIGER)

Vedi! Siamo arrivati Migrante, finalmente: tu e io, insieme, ad Agadez, la città di tutti i traffici, il crocevia di ogni cosa, l’inizio della speranza, forse; il tuo Golgota di sabbia, certamente. Sì. Siamo arrivati in tempo per il lunedì, il giorno del Grande Convoglio. È stato davvero un lungo viaggio, due giorni in bus per salire da Niamey. Tanto, troppo. Forse hai ragione, questa è la saggezza che cerchi, invano, di infonderci: la sofferenza ci fa vivere il tempo minuziosamente, un attimo dopo l’altro. So che per te esiste. Per gli altri, per quelli che non soffrono, scivola via e forse non vivono nel tempo, non ci sono mai vissuti. Siamo saliti insieme sul piccolo bus sgangherato, io e i tuoi giovani compagni. Silenziosi, esitanti, sì anche sospettosi l’uno degli altri.
 
Sette posti di controllo 
Sette posti di controllo c’erano su mille chilometri di strada: ricordi? I gendarmi sono venuti, gli occhi avidi, hanno guardato il mio passaporto italiano e me lo hanno reso con un gran sorriso: buon viaggio, turista. Ma per te, per voi, ah no, è stato diverso. Tutti fuori! controllo, controllo. È anche per questo che abbiamo impiegato due giorni, non solo per la strada che è uno strazio di buche: per chiudere un occhio sul fatto che siete migranti, volevano diecimila franchi Cfa, tredici euro, ad ogni posto di controllo. A te che hai detto che eri povero: vabbè, siamo fratelli, dammene cinquemila. Quante volte hai fatto quel gesto, hai visto quel ghigno, hai raschiato in fondo alle tasche partendo dal tuo paese laggiù, in fondo all’Africa? Suvvia basta! Adesso ci siamo: hai visto come è cambiato il paesaggio? Fino a Tahua c’erano luoghi dove gli animali, cavalli, cammelli, asini, mucche sono più numerosi degli uomini, dove questi non l’hanno ancora spuntata e si vedono bei campi di miglio e di sorgo verdi come la vita che cresce e pulsa e i giovani contadini affondano con lena la corta zappa nella terra. Li invidiavi vero? Tu che vieni da un paese assetato dove è inutile gettare la semente. Sai che quei ragazzi si affannano perché se il raccolto sarà buono potranno sposarsi. Forse anche tu quanto tornerai.
 
Questo invece è il deserto. Affondi i piedi in questa sabbia che non è pura ma venata di argilla secca e friabile, ultimo indizio del livello raggiunto dall’acqua in epoche lontane, senti un crocchiare come di una crosta di farina che si spezza. Guarda la polvere che si alza in nuvole fitte, ancora più impenetrabile per il riflesso del sole.
 
Il contatto col passeur 
Siamo qui nella ressa della stazione dei bus, ora, aspettiamo. Tu il mediatore, è il numero di telefonino che ti è stato dato a Niamey, sai che verrà e ti metterà in contatto con il tuo passeur. Tutto funziona a puntino, tutti lavorano per te. Io sono più avanti, so già chi sarà il passeur che mi porterà nel deserto verso la frontiera libica a Sebah, privilegi di chi ha già pagato i 200 euro. Senti, non guardarmi in quel modo, io al passeur la domanda l’ho fatta: ma non senti rimorsi a accumular denaro sulla pelle di altri esseri umani, a diventar ricco sulla sofferenza? Sai che mi ha risposto con una sicurezza soffice e spaziosa da starci dentro supino ad occhi aperti? Guarda che è un uomo gentile, negli occhi ha una furbizia senza ironia e una parlata a strascico pieghevole e lunga, prima portava i turisti nel deserto in Libia, è rimasto senza lavoro, alla fame, e ha iniziato a trasportare voi: «All’inizio - ha detto - anche io avevo problemi morali, poi ho pensato che tanto questi ragazzi il viaggio lo vogliono fare, in un certo modo li aiuto, cerco di ridurre i rischi e la sofferenza. Due anni fa era diverso, c’erano i libici a trasportare, lasciavano la gente nel deserto con un inganno per farli crepare e guadagnar doppio. Ci siamo parlati, abbiamo deciso che non poteva andare avanti così e ora prima di partire i miei clienti li sfamo, fanno una doccia, do loro un telefonino perché chiamino casa. I miei mezzi hanno tutti il GPS. Se c’è un guaio nel deserto vado ad aiutarli, nessuno più si perde e muore. E poi se non ci fossero loro, se non ci offrono altro, qui ad Agadez di cosa viviamo, come sfamiamo i figli?».
 
Da colpevole a vittima 
Cosa rispondiamo al mio passeur, Migrante? Dimmi, per favore, come posso farlo sentire colpevole. In questa disperazione che lui stesso giudica irrimediabile quanto più è liscia e senza appigli da debitore diventa creditore, da colpevole anche lui vittima.
 
Non avrai il tempo di vedere la città, tu, neppure il famoso minareto di sabbia che spunta come la torre Eiffel sopra tutto. Sai, è meglio che tu resti nascosto, Migrante, nella stanza che ti ha assegnato il passeur, non puoi andare in giro lestamente come me sui kabou kabou, le moto taxi. Non è un buon momento questo, il ministro dell’Interno è appena venuto ad Agadez, nel Nord dei tuareg sempre infidi, sempre ribelli, ha gridato, strepitato: dobbiamo metter fine a questo scandalo della migrazione!
 
Le finte retate 
Allora la polizia ha fatto retate, arrestato qualche passeur, sequestrato un po’ di pick up che stanno immobili, prede in lunga fila nel cortile del commissariato. Ma lo capisci anche tu, è solo un po’ di scena, il mio passeur mi ha raccontato che sono stati proprio i poliziotti ad avvertirlo, li paga bene: vattene, tira aria brutta, parti con i tuoi mezzi per qualche giorno, non farti vedere. E infatti anche oggi il Convoglio si farà. Un centinaio di mezzi, anche più, migliaia di partenti, la vena che pulsa e non si esaurisce mai. Gli arrestati tra due mesi escono.
 
Migrante, ma lo sai che tu qui sei il re, un re povero, caricato come un montone su un pick up, ma senza di te non ci sarebbe nulla in questa città: niente auto di lusso, niente pick up, bar, niente prostitute e alcol e droga e negozi ripieni, niente convoglio del lunedì, nessuna tangente per la polizia. Perfino i poliziotti tu rendi ricchi. Pensa. Sei tu che fai vivere tutto questo con i tuoi poveri denari di disperato, alimenti una economia intera.
 
Quattro anni fa ero qui, la città intontita dalla guerra, dalla rivolta dei tuareg, era una città morta. Le strade vuote, i negozi sbarrati, l’aeroporto con la pista piena di immondizie. Nell’albergo, l’albergo della pace, pensa, ero l’unico cliente, mi guardavano come un totem, l’augurio che stavano tornando i bei tempi dei turisti. Poi siete arrivati voi, i migranti e tutto il mondo si è rimesso in moto. 
 
L’economia che riparte 
Guarda adesso queste strade ingombre di una folla stravolta, estenuata, venuta da ogni dove, avanzi di un Continente. Perfino l’aeroporto hai fatto riaprire, dagli americani, che ci tengono una base militare e la gente si chiede che cosa stanno a fare. E ci sono i cercatori d’oro che partono per le arcigne montagne dell’hair, il posto più pericoloso del mondo. Lo so lo so, tu non ami l’Africa dove sei nato e quella che devi attraversare, la vuoi dimenticare e la sola funzione della memoria è invece di aiutarci a rimpiangere. Per te, per voi il mondo è di là in su che comincia, questa è ormai solo un’appendice necessaria, dolorosa da attraversare a lunghi passi, quasi in fuga, senza girare gli occhi. La carta del pianeta la scoprirai al di là del mare, i segni del futuro ti aspetti di decifrarli laggiù, se ci arriverai, da quelle vie di città di cui sai solo pronunciare il nome come una magia, aspetti di arrivare nella città che sarà lo spiraglio di tutte le città, non certo questa casbah grigia e marrone, porosa come un osso spolpato con segmenti colorati di immondizia, di avvizziti cespi di erba. Non è vero che perduta la tua terra non vali più niente.
 
Alcol e prostitute 
Prima o poi anche tu Migrante dovevi arrivare al bar «Dounia», l’ufficio dei passeur. Oppure ti hanno indicato quello delle «arénes» proprio all’ingresso del palazzetto dove si svolgono le gare di lotta tradizionale? Non importa: sono eguali, infilate due porte, un corridoietto, una cucina sudicia dove miagola disperata una gatta e sbocchi in un mare aperto, resti stordito, macchie sospette sui muri azzurrini, luce, calore, su nel naso pizzica un odore micidiale: urina, sudore, alcool cattivo. Gente, molta gente sopra e sotto le panche, sbraitano, cantano, bevono. E vomitano. Dovresti esser lì quando entrano in processione solenne alcune prostitute enormi, elefantiache, si muovono, per la mole, ondeggiando come navi, hanno boubou che sembrano tessuti d’oro, e braccia cariche di monili. Insultano, lanciano inviti volgari, fanno sussultare il sedere queste signore carnali, nessuno replica, le circonda una sorta di preoccupata venerazione. Sono le prostitute dei passeur toubou, la popolazione di confine tra Niger e Libia, i più ricchi e feroci, sono loro che le vogliono così, grosse. 
 
Guarda! Entra un trasportatore di uomini, il turbante bianco, muove a scatto i fissi occhi tondi e la barbetta appuntita, resta sempre, anche quando ride o beve una birra dopo l’altra, a orecchio teso come un rapace da preda. Tutto quello che guadagnano e sono cifre enormi, i toubou lo spendono in prostitute e alcool, vivono in questi due tre bar della città. Sì, siamo tutti davvero in fondo a un inferno dove ogni attimo è un miracolo.
 
Schiere di bambini 
Adesso io e te dobbiamo parlare dei bambini, dei bambini che a torme in strada vestiti di stracci tendono mani sudice a scodelle, i piccoli migranti affittati. Non possiamo far finta di niente. Per descriverli sogno una lingua in cui parole come pugni fracassino le mascelle, un pensiero, uno solo! Perdio che mandi per l’indignazione in frantumi l’universo. Agadez è la città dei piccoli migranti affittati. Le famiglie li cedono a false madri che li portano, sette otto per volta, nei Paesi del Golfo, in Arabia Saudita, in Algeria a mendicare. Vengono dalla regione di Kanthe dove i confini sono così labili che non ti accorgi di passare dalla Nigeria al Niger.
 
Un giorno bisognerà scendere in quel cuore di tenebra, ficcare gli occhi e guardare. L’affitto vale tremila franchi cfa al giorno, meno di cinque euro, loro guadagnano mendicando per la loro finta, sozza madre anche due tre volte di più. Ad Agadez attendendo di partire ti seguono, hai visto? ovunque con un pigolio di zanzare, si allenano a mendicare, portano già denaro per pagare il passeur. Sono entrato nel cortile dove vivono nascosti con le false madri: un’aria sporca, purulenta, dolciastra, putrefatta e infantile che vi cuoce sgorga da cumuli di stracci e immondizie, cibo putrefatto, razzie nelle discariche. 
 
Il commissariato 
Ma non è quello che ti soffoca: è il pianto collettivo contemporaneo di decine di bambini, il pigolante urlo del dolore assoluto. Davanti, proprio davanti, all’altro lato della strada, non puoi crederci! c’è la sede della Croce rossa, accanto il commissariato centrale di Agadez. Un poliziotto grasso, in divisa, dorme sdraiato in fantastico equilibrio sul sellino di una moto proprio vicino all’ingresso del cortile infame.
 
Ho parlato con una delle false madri, ti racconto: mi ha spiegato che quando arriverà in Arabia Saudita legherà le braccia dei bimbi nascondendole sotto la tunica così sembreranno dei mutilati e poi spargerà dello zucchero sul volto: attira le mosche a legioni, la gente si intenerisce subito. È meglio affittare portatori di handicap, autistici, storpi incassano di più. In che mondo viviamo, tu e io? in questo preciso istante migliaia di bambini così sono in viaggio attraverso il deserto, mentre io con la penna in pugno, cerco invano qualche parola che commenti la loro agonia.

 
Nel deserto 
È mattino, lunedì: è l’ora del convoglio, per te e per me l’ora del deserto. Ricordando mi accorgo che è uno di quei vortici da cui si srotola la spirale del tempo. Eccoci qui, insieme, ad annaspare nel buio come se il mattino non volesse più cominciare, come se non riuscissimo a spiccicare gli occhi dal sonno in questo immenso cortile del quartiere dei depositi dove ci hanno nascosti in attesa che arrivino i pick up e partire per la barriera. Poi ci gridano di montare e nel formicolare di ombre tocco qualcosa di solido, infine, il fondo del cassone.
 
Vieni, Sali! Ecco che adesso il buio comincia a diventare trasparente, a filtrare le forme e i colori. Tutto a un tratto non siamo più soli nella via, la nostra colonna di una decina di mezzi marcia sullo stradone affiancata a un’altra. Il nostro mondo sarà il deserto che dovremo attraversare, questo spazio senza confini non antropomorfo in faccia al quale e soltanto lì forse l’uomo è uomo. Lì dovremo aprirci la strada senza mai uscirne fino al mare, quella strada segreta che solo noi conosceremo e che passa attraverso tutti i deserti, che unisce ogni deserto in un solo deserto, ogni luogo del mondo in un luogo al di là di tutti i luoghi del mondo.
 
So che hai paura, so che avete paura. Si stenta a credere fino a che punto la paura aderisca alla carne, le rimane incollata, ne è inseparabile e quasi indistinta. Andiamo verso la barriera del controllo, ti accompagnerò fino al primo dei due pozzi lungo i mille chilometri che portano alla Libia, quello che si chiama Itchè Tenerè, l’albero del Tenerè. E poi ci sarà ancora per voi Dirkou, con le sue miniere di sale. 
 
L’ultima cosa che la città ci lascia è il cadavere candido di una pecora abbandonato lungo la pista. Cadendo da un pick up il collo si è ritorto e spezzato in modo strano e ora ci guarda da sotto in su, riversa, con gli occhi infinitamente tristi della morte, mentre il calore del sole già la gonfia.
 
I banditi tuareg 
Lo so che hai paura, sono mille chilometri, e i banditi tuareg che ci attendono appena fuori la città. Non abbiamo nessuna ricchezza, ma a loro talvolta basta anche un vestito più colorato degli altri. La paura non puoi farci niente sarà il nutrimento della tua vita. Sei gonfio, ricolmo, obeso di paura. Ci hanno messo in trenta su un pick up, hanno alzato delle assi per renderlo più sicuro.
 
Senti cosa dice il passeur, è importante: se qualcuno cade non pensiate che ci fermiamo, sono affari vostri, nel deserto gli autisti hanno l’ordine di spingere a tutta velocità e non fermarsi mai. Non dimenticatelo. Guarda, guarda migrante come funziona bene il sistema del passaggio: l’autista del nostro mezzo sporge un biglietto al capo della postazione dei gendarmi, è il lasciapassare dove è scritto che il nostro passeur ha pagato 150 euro a veicolo. Dei gesti delle dita per segnalare quanti veicoli sono «autorizzati». Nemmeno si rallenta, ora si può andare.
 
Ci scrutiamo nella luce crudele come sorpresi di trovarci in tanti. E nel nostro guardarci resta sospeso l’interrogativo del giorno che inizia. E se la vostra forza fosse questa forza d’animo, ovvero il coraggio di non figurarsi in modo diverso il vostro destino?
 
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Titolo: DOMENICO QUIRICO - Viaggio nel cuore della Somalia fabbrica di kamikaze per...
Inserito da: Arlecchino - Agosto 15, 2016, 06:43:49 pm
Viaggio nel cuore della Somalia fabbrica di kamikaze per colpire l’Europa.
Gli jihadisti di Al Shabaab cacciati da Mogadiscio hanno ripiegato su Baidoa. Lì hanno costruito campi di addestramento per i nuovi adepti del Califfo

15/08/2016
Domenico Quirico
Inviato a Baidoa (Somalia)

Da quando ho deciso di tornare in Somalia, a Baidoa, provo una inquietudine strana, come il senso di un oscuro pericolo. Di un pericolo che sia in me, dentro la mia coscienza. Qualcosa è nell’aria che mi mette in sospetto. Sto forse per attraversare la frontiera di ciò che intimamente non deve esser ricordato o raccontato, che è meglio resti sepolto in nebbie di dimenticanze? Questa Africa impassibile e oscura in cui arrivai venticinque anni fa, al tempo della Grande Fame. Chi indaghi in questo tragico Paese scopre che non lo si può raccontare e conservare dentro di sé se non in termini di ordine morale: non storico o politico, morale. La Somalia mi batte nel petto ancora e tiene desti tutti i miei demoni. 

Il piccolo vetusto aereo compie, per atterrare, una brusca virata come impongono i regolamenti delle zone di guerra. Mi sento già stanco, come se dovessi superare una prova, varcare appunto una soglia vietata.

Perché qui mi guardai allo specchio meravigliandomi che il volto non fosse stato marchiato dall’inferno in cui ero sceso, che la realtà non avesse, con le sue trafitture, sciolto l’anima da ogni ancoraggio. 

Carestia e guerra 
Venticinque anni fa, Baidoa, la carestia e la guerra. Ascolto. Mi ricordo di tutto: sulla strada che portava in città e poi, più a Sud, verso Bardera, capitale di uno più feroci signori di quella guerra, i moribondi e i morti per fame. Bambini e ragazzi: non so perché, nel ricordo, mi pare fossero solo così. Eppure c’erano donne che gettavano i figli nei pozzi folli per non poterli nutrire e vecchi, ma all’ombra delle acacie, sdraiati senza forze, oggi ricordo solo ragazzi: sembravano dormire abbandonati all’ombra pallida dove li aveva colti l’estremo sfinimento, ogni tanto aprivano gli occhi si guardavano intorno. Pareva che qualcosa di vivo, di sveglio fosse rimasto in fondo alla loro coscienza. Era un diffidenza istintiva, incosciente ormai verso la vita che li abbandonava. 

 I morti, avvolti nelle loro fute sudice, sedevano anche loro, qua e là, appoggiati ai tronchi e alle spine, in gesti che la morte aveva interrotto, fermati in mezzo a un lentissimo, intimo moto. Dormivano anch’essi nell’aria densa di sole e di mosche, ma vi era nel loro sonno senza risveglio come una terribile pace, una confidenza, un estremo abbandono. Pick-up furibondi di mitragliere e cannoncini (l’apporto della Somalia alla scienza della morte del ventesimo secolo che ahimè ha fatto scuola in altri luoghi del mondo) passavano indifferenti coprendoli con un sudario di polvere. 

Il mondo scopriva la carestia dovuta non alla siccità o alla natura ma creata dalla guerra che aveva svuotato i granai fino all’ultimo chicco di sorgo. La strada incideva nella carne rossa dei poggi. Scendeva tra valloni coperti di macchie spinose lievemente ondulati di una tristezza deserta e piena di rancore. Poi a una svolta spuntò un ragazzo che scendeva con passo incerto sbandando: un ragazzo, proprio un ragazzo, uno straccio sulle reni, anche nello sfinimento dell’agonia con le mani appoggiate a un bastoncino posato in bilico sulle spalle, attraverso il collo, nel gesto normale dei pastori somali. Tutto ciò che era umano sembrava estraneo a quella terra di morte. Pareva di attraversare una zona di natura dove l’uomo, travolto dalla bestialità della Storia, era diventato un puro accidente, un caso. L’autista scese per aiutarlo, con una bottiglia d’acqua, del pane. Il ragazzo lo guardò come da una distanza infinita e poi crollò a terra: senza vita. Era un figlio innocente della guerra, della paura, dell’esilio, della fame.

Colera e guerra 
Venticinque anni dopo a Baidoa infuria il colera e la guerra non è mai finita: ci sono gli Shabaab, gli uomini del califfato del Corno d’Africa, i nuovi terribili signori della guerra. La Somalia è una terra di dolore, un’Africa che ti schiaccia, che ti entra nell’anima come una pugnalata di realtà dolorosa. Non ci vada chi vuole passare una vita di ottimismo. Ma chi cerca la verità deve farci una sosta rischiando: anche più che la vita, ciò che hai dentro. Trovi a Baidoa uomini che combattono contro il terrorismo fanatico. Come il Dottore, che ha insegnato in università europee medicina, odia l’antica maledizione somala dei clan, delle tribù e il nuovo fanatismo che ha contagiato la sua gente. Che è tornato volontariamente nella sua terra, lo Shebeli, «per dare volontariamente una mano». Sono uomini che ho sempre ammirato, quelli che non fanno del coraggio una sfida e non tracciano un ritratto eroico di se stessi davanti agli altri. Quelli che ti insegnano a vivere nonostante la paura attanagli anche loro. Non riconosco il paesaggio: non c’è più la terra arida, dura e rossa di aspetto, di umore, della carestia, di una povertà bellissima e aspra. Le immense distese di stoppie gialle sparse di alberi magri di disegno risoluto e insieme astratto di 25 anni fa, sono diventate, in questa stagione, un trionfo di verde, di alberi sani, di campi germoglianti il sorgo e il mais, quasi una foresta che sembra guardarti. Non ingannarti! Non dimenticare mai: qui c’è la guerra, la guerra del ventunesimo secolo, il jihad che si è fatto universale. Nei villaggi attorno a Baidoa gli Shabaab hanno costruito i loro campi di addestramento. Bambini guerrieri e combattenti che vengono dal Sudan o hanno passaporti inglesi e americani si allenano, sotto la guida di specialisti della guerra santa, a formare la nuova generazione del Califfato, a diventare kamikaze. 

 L’arrivo dell’Isis 
Gli uomini dell’Isis Mukhtar Mansur, il Siriano, e Mustaf Adow, somalo con passaporto americano, sono giunti qui nel dicembre scorso e hanno subito rovesciato i rapporti di potere: in declino Al Qaeda che aveva storiche basi, in crisi la tattica dei vecchi Shabaab, anchilosati in una pantofolaia mafia terroristica, impegnati soprattutto a raccogliere denaro con estorsioni e sequestri. Sono loro che hanno fatto strage nella base keniota e preso per qualche tempo la città di Merka. A Dale, ad appena 60 chilometri da qui, c’è una base con 450 combattenti, dove si cura l’addestramento degli stranieri che poi lasceranno la Somalia usando i loro passaporti occidentali, e la preparazione dei kamikaze Tra loro lo sceicco Towfiq, siriano e Serwan Mustar, «l’americano». A Bohosha, una zona di foresta fitta, opera Dahir Gamay, capo dei giudici di al Shabaab. A Yaqbarawe, c’è il campo più grande, 600 guerriglieri con decine di veicoli; li guida tra gli altri Ali Dere portavoce di al Shabaab. E poi altre basi a Bulafulay, a Mount Harar. Questo stato federale, il South West, ha per fortuna un presidente coraggioso, Shariff Hassan, ex commerciate di pasta che li combatte, con pochi mezzi, ma in maniera implacabile, con l’aiuto dei soldati etiopici e degli inglesi. 

I margini delle cose spiegano spesso meglio quanto accade, è lì che bisogna cercare, osservare. Perché puoi leggervi gli strati di vernice che si sono depositati sulle cose e la ruggine che le rode. Chi cerca al centro, la Siria, la Libia, si perde nella illusione di capire, tutto è troppo evidente e confuso nello stesso tempo. Qui in questa periferia del mondo, margine apparente del califfato, maturano le sue implacabili metamorfosi, si preparano le micidiali sorprese che ci riserverà domani.

Baidoa sembra una bella città colpita da decrepitezza. Solo i tetti di lamiera colorata vivacemente di rosso e di blu regalano macchie di colore ai ruderi, al sudiciume delle cose. Vecchi grinzosi ci vengono incontro nelle strade insieme a ragazze bellissime, alte e magre che portano grandi vassoi di legno. Bambini seminudi inseguono capretti neri dal viso bianco. Bande di cani famelici ruzzolano abbaiando. La scena ha un suo moto solenne, una compostezza dignitosa e antica. Al centro della città si eleva un campanile. Un tempo era la cattedrale, ora in cima c’è una mezzaluna. È stata trasformata in moschea: non mi lasciano entrare. Vergogna, dolore: una sconfitta di Dio. Non il mio, ma quello che, qualunque sia il suo nome, ci dice: sono io, non temete.

L’ex dittatore Barre 
Saliamo su una altura dove era il palazzo distrutto di Siad Barre, il dittatore che è all’origine di questa tragedia. Camminiamo in precario equilibrio sulle rovine di cemento che si disfano in polvere. Dalla montagna trasuda l’acqua di una ruscello, Isha Baidoa la chiamano, che forma una polla. Ecco i sicomori, meravigliosi alberi, si odono lontane grida di bimbi che giocano nell’acqua. Un soldato dagli occhi felini mi indica l’altura di fronte nell’aria trepidante. Di lì, la notte, gli Shabaab colpiscono la città con i mortai, uccidono. Il paesaggio si estende infinito, si scompone come se fosse dipinto su un fondo di teatro agitato dal vento. Stormi di ibis bianchi e neri roteano alti. La guerra feroce non insozza la campagna come i volti e le anime.
I militari etiopi 
Sulla strada per Dale i soldati etiopici escono sparpagliati dal sottobosco spinoso, alcuni hanno le facce grigie di sfinimento, le camicie zuppe di sudore per i pesanti giubbotti antiproiettile. Improvvisamente le campagne appaiono deserte, in guerra si nota di solito questa atmosfera di solitudine prima di entrare sulla scena della battaglia. In mezzo alla strada, il mitra in mano, con l’elmetto gettato indietro sulla nuca, uno di loro grida parole violente e dolci in amarha come se parlasse a se stesso a voce alta. Hanno baffi sottili sulla bocche grandi, sono esili, alcuni sono ragazzi, altri hanno le dure espressioni di cacciatori e di cacciati al contempo. Li pagano, per difendere Baidoa dai jihadisti, mille dollari al mese, una fortuna. Armati come sono forse potrebbero annientare gli Shabaab, metterli in fuga. E allora? Se, in fondo, non convenisse finire questa guerra che rende in mille modi? La lotta al Califfato, qui e altrove, si impingua di altri interessi, sfuma in utili, opportunistiche lentezze.

L’innocenza dell’erba, il suo tremito affettuoso, a tratti il silenzio si fa perfetto. Tutto è abolito, l’aria sola è vivente. Tra i soldati etiopici spuntano due uniformi diverse, più chiare: ragazzoni dai capelli rossi, commandos inglesi. Nella notte hanno colpito più a Nord, con elicotteri decollati da una portaerei americana: nella rete sono rimasti cinque Shabaab tra cui un sudanese. 

Terroristi arrestati 
Vado a vedere i jihadisti prigionieri nel carcere di Baidoa. Nelle celle dei comuni in maggioranza sono soldati e poliziotti che hanno venduto i loro fucili. Da sette mesi non prendono stipendio, cento teorici dollari al mese. Come i giudici, o i medici. Penso ai mille dollari del soldato etiopico e capisco perché qui i poliziotti sono disarmati… Aleggia un odore appiccicoso come una ragnatela , vischioso, impercettibile. Lo Shabaab è giovanissimo mi scruta dal suo buio con gli occhietti piccoli affogati tra le grosse guance. Mi tuffo nel freddo vischioso di quegli occhi che fissandomi mi trapassano a succhiello. Si racconta senza palpiti: mi hanno preso con dell’esplosivo, mi hanno condannato a morte adesso attendo di sapere se mi uccideranno. La rabbia e il calore della piccola cella gli strizzano dal volto un sudore scarso come la rugiada in tempo di siccità. Non nega, non cerca scuse. Mi guarda. 

In una altra cella ci sono tre uomini, sono capi Shabaab. Stanno seduti con le gambe incrociate tutto è in ordine meticoloso, hanno barbe ben curate. Non rispondono al mio saluto musulmano, come se non esistessi, in silenzio. Vedo il loro sogghigno sprezzante. Guarda che cosa abbiamo fatto, dicono i loro occhi, guarda che cosa possiamo fare. Sappiamo quel che è bene e quel che è male. Crediamo nel paradiso e crediamo nell’inferno. Sappiamo di aver ragione.

Torno a Mogadiscio. Attraversare la città è un viaggio tra i luoghi del terrore: l’hotel Saafi, il Quarto chilometro, il Tribunale. Il tanfo soffocante della politica somala ti arriva a zaffate: si preparano le lezioni, il denaro della corruzione corre a fiumi, bisogna comprare i grandi elettori dei clan che eleggeranno a loro volta i deputati. E poi peggio: le voci sul presidente Mohamud e le sue simpatie per salafiti e Shabaab, su una delle due mogli, Zara, che vende i visti e va in carcere a far liberare terroristi arrestati. E Abdu Izak, ministro degli interni, uno Shabaab «pentito», e il gran burattinaio Farah anche lui ex ministro, fondatore del partito «Sangue nuovo», gran finanziatore di madrase e scuole islamiste, uomo di traffici e di affari con i fondamentalisti. La cattedrale devastata è diventata un parcheggio, su Casa Italia, storico e meritorio orfanotrofio di proprietà italiana, sventola la onnipotente bandiera turca. Abbiamo duecento paracadutisti di base in un albergo all’aeroporto di Mogadiscio. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/15/esteri/viaggio-nel-cuore-della-somalia-fabbrica-di-kamikaze-per-colpire-leuropa-yR4Lv5zEV8F9Q6yH4gAuCO/pagina.html


Titolo: “In viaggio con Quirico nel mondo in cui non c’è spazio per la pietà. N. FERRIGO
Inserito da: Arlecchino - Settembre 02, 2016, 05:26:32 pm
“In viaggio con Quirico nel mondo in cui non c’è spazio per la pietà”
La regista Piacenza e l’inviato rapito in Siria a confronto per raccontare “Ombre dal fondo” il documentario che sarà presentato a Venezia: “Il nostro focus è la guerra, ma vista al microscopio”

30/08/2016
NADIA FERRIGO
TORINO

Il desiderio di tornare dove si è creduto di esser morti senza accorgersene, in un inferno senza diavoli ma con i contorni di una stanza vuota, può essere bollato come folle o arrogante. Nella più benevola delle interpretazioni, di un coraggio che sconfina nell’incoscienza. Ma per Domenico Quirico, inviato di guerra de La Stampa rapito in Libia e poi in Siria per 152 giorni, voltare le spalle al Male è un tradimento insopportabile. Nel documentario Ombre dal fondo, che il 10 settembre chiuderà le Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia, non c’è la pretesa di tracciare una via per chi sogna - e tantomeno per chi fa - il mestiere più bello del mondo, ma la volontà di raccontare un viaggio che «si può concludere solo con un ritorno».
 
Ad accompagnare Quirico, da sempre abituato a lavorare solo, è Paola Piacenza, giornalista dal 1990 e al suo esordio come documentarista nel 2009. Anche lei professionista solitaria, partita per la prima volta alla ricerca di un’immagine. «Dopo molti anni al lavoro tra esteri e cinema, ho desiderato muovermi in direzione delle cose - racconta -. Con una piccola telecamera, che ho imparato a usare in fretta, sono andata al confine tra Iraq e Iran. Tra quelle valli celestiali e minate, se ne stavano colline intere di taniche da benzina, vuote». Ne è nato un documentario che racconta il traffico di contrabbando di una microscopica comunità: da una parte le taniche, dall’altra prodotti elettronici. Dopo The Land of Jerry Cans, presentato in tutto il mondo, ne sono seguiti altri due. «E poi il rapimento di Domenico. Non lo conoscevo ancora, ma ho iniziato a pensare a lui come volto e voce di questo film quando era prigioniero in Siria. È un giornalista perché ha sposato l’etica di una professione, ed è un indagatore della condizione umana. Abbiamo deciso di filmare una serie di conversazioni, ero convinta ne nascesse una pellicola di parola. Poi è nata l’esigenza di partire». 
 
Prima in Ucraina, poi in Siria, andando a cercare la stanza della prigionia del 2013, accompagnato dal senso di colpa nei confronti delle persone amate e dalla paura che il ritorno non portasse alcuna risposta. «Se fosse stato un film sulla mia storia siriana non avrei accettato - racconta Quirico -. Non è retorica, ma il discorso vero sono i siriani, i 400 mila morti. Abbiamo raccontato solo una minima parte delle atrocità della loro guerra. Ci sono terre in cui non c’è spazio per la pietà, non c’è modo di esercitarla. Iraq, Somalia, Nigeria, Cecenia. Questi luoghi si moltiplicano. Meno una terra è raccontata, più si può avere la ragionevole speranza di riuscire a cambiare il destino di quelle persone». 
 
Così il giornalista deve toccare la realtà, non avere paura di contaminarsi. Nei primi anni di lavoro agli Esteri de La Stampa, Quirico andò in Somalia e Mozambico: l’Africa interessava a pochi, «Paese derelitto per giornalisti derelitti». «Prima di partire si passava in archivio per la busta dei “ritagli” - racconta -. Così in aereo ci si metteva a studiare, con il pericolo di scrivere non quello che si era visto, ma quel che si era letto. Ora vado in un posto cercando di saperne il meno possibile, senza la pretesa di spiegare tutto quel che succede. Stringo, al microscopio. E cerco il batterio che si muove in modo terrificante in un piccolo spazio».
 
Nel film lo spettatore è accanto a lui, nella sala d’attesa di un aeroporto, nelle strade siriane. «L’ho osservato al lavoro. Silenzioso, attento - continua Piacenza -. Non prende appunti, giusto qualche foglio svolazzante. Ma quando scrive, trovi dettagli che a tutti erano sfuggiti». Con il ritorno al Male, il cerchio si chiude? «Credo che al film manchi un capitolo. Manca la risposta sulle conseguenze che questa storia ha avuto su di me. Non ho mai onestamente risposto, ora in qualche misura lo posso fare. Mi ha reso una persona peggiore. Ho vissuto tante storie di brutalità assoluta. Quello che è diverso è la lunghezza del periodo di omissione di sé: il rapimento è una parentesi che ferma quello che sei e ti impedisce di evolvere. E me ne sto accorgendo ora, con un’onda d’urto lenta. Può darsi che tra altri tre anni sarò una persona ancora più solitaria di prima. Non per scelta, ma per necessità».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/30/spettacoli/in-viaggio-con-quirico-nel-mondo-in-cui-non-c-spazio-per-la-piet-RbSdusXzYZIS6Dz9J5RfVI/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Nella città ostaggio di Idlib, la roccaforte di Al Nusra
Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2016, 04:05:56 pm
Nella città ostaggio di Idlib, la roccaforte di Al Nusra
Viaggio nella capitale dell’altro Stato Islamico che dilania la Siria. Qui l’emirato jihadista combatte Assad e lotta per la supremazia contro l’Isis

03/09/2016
Domenico Quirico
Inviato a Idlib

Presentimenti spirano indietro. Ho uggia, infine, di questa guerra siriana, una ansietà che si prolunga troppo ormai, dinanzi agli occhi da cinque anni non ho che un seguito di urti e massacri, una musica infernale fino al sacrificio inevitabile. 

Ho guardato le carte delle zone controllate dagli innumerevoli contendenti.
L’esercito, Hezbollah, i jihadisti buoni come diciamo noi in Occidente e quelli cattivissimi, il Califfato di Raqqa, adesso anche i russi e gli iraniani. Mi sembra che la guerra si sia calcificata, ossa deformi ma ormai solide, come i pini di Homs che ti accolgono piegati da un vento perenne, sciancati dal loro duro lavoro quotidiano di diga. Sì, la Siria è sepolta in un immenso campo di battaglia, impigliata tutta intera nell’obitorio della guerra. Se vieni qui vai a sfregare di continuo la vita contro la morte come un acciarino. Questo forse è il senso: se la morte e il dolore non fossero nel cuore della vita un durissimo nocciolo, la vita sarebbe un frutto troppo molle e maturo.

Mortai e cannonate 
Ma oggi queste cannonate, questi mortai, questi quartieri e terreni incolti del fronte Nord-Ovest, a Idlib, che si ingramagliano di fumo e di polvere mi irritano, il loro rumore è fisicamente doloroso, mi battono il passo mentre avanzo verso la città maledetta. Da quattro anni fa parte dell’emirato di Al Nusra: no, ora Al Qaeda si fa chiamare Fateh al Cham. Ancora mimetismi, trucchi semantici: per attrarre altri gruppi islamisti minori, Ajnad al Cham, Liwa al Haqq, piccoli ma feroci, e continuare a ingannare un Occidente che sogna sempre un Islam educato e meno assassino. Uccidono, mettono autobombe, torturano e rubano come Daesh: ma, ipocritamente. Non usano la videocamera, non proclamano ipotetiche avanzate verso Roma. Lo scopo è identico: Califfato e totalitarismo di Dio che hanno messo in pratica nella provincia di Idlib e nelle zone di Aleppo che controllano.

È grande l’emirato con la sua sharia: la spina dorsale va dal confine turco, dove passano i rifornimenti pagati dall’Arabia Saudita, ai monti di Latakia e di Idlib, taglia l’autostrada che porta ad Aleppo, e più giù, appunto, fino a Al Uar, centomila abitanti proprio a fianco di Homs. Idlib è al centro, novanta per cento della città è di al Nusra, un dieci per cento alza le bandiere di Daesh: tutto nasce e porta lì in questo macchia tenebrosa sulla mappa della terra che trabocca di ogni forma di crudeltà. Lo tengono i combattenti siriani e stranieri della ghenga terrorista. Almeno quarantamila, molti di più di quelli di Raqqa. Questa è la premessa della guerra di domani, il terrorismo che seguirà alla caduta (forse) del califfato. 

 Ho un presentimento stupido in questa mattina che si beve con abbandono il sole incandescente e inondante; la luce ci stringe come una insidia tenace, tutto il giorno si è svegliato davvero minaccioso a guardia del paese morto. Lontananze. Vivo in lontananze. Rovine bizantine ovunque, fortezze abbattute, frontiere divelte, secoli fa. Guerra. Guerre. Sempre. Lasciamo lo stretto corridoio che porta ad Aleppo, pochi chilometri e pieghiamo ad Ovest verso i villaggi sciiti di Nobbel e Zaara che l’esercito ha riconquistato. Adesso il fuoristrada corre follemente sulla via che costeggia una grande fabbrica, criniere di fiamme dalle ciminiere. 

Di corsa sulla strada 
Gelo improvviso, cuore che smaglia. Mi verrebbe voglia di gridargli, all’autista: rallenta! Perché corri così a perdifiato? Non è la morte questo cigolio di mortai che scoppia alla nostra destra, per quanti ne piovano, per ragioni di traiettoria, non possono che cadere tra gli sterpeti incolti. Idlib è lì che ci attende con i suoi ostaggi (o sudditi fedeli) dell’emirato. Non fuggirà. 

La prima volta che la vidi, quattro anni fa tutto era diverso, era inverno: vi era un oceano di nebbia nel quale nuotavano distese piatte dai fantasmi di alberi e di case, che faceva oscillare il mondo nel quale si andava annegati. L’umidità fosca cambiava il freddo in una cosa e ci applicava addosso brividi.

 La Siria è un luogo di strani commerci, di patti che sembrano impossibili. Nelle pause tra le battaglie furibonde regime ed emirato si scambiano accordi: ad al Uar per esempio gli studenti escono dalla fortezza assediata per sostenere gli esami a Homs, il governo manda i bus per i trasporti giornalieri. Ma qui non è giorno di accordi, è battaglia e dura. Aerei russi ringhiosi come bulldog sfrecciano dalla base di Palmira.

Una battaglia urbana è un complesso rompicapo di uomini che combattono, di civili indifesi e terrorizzati, di rumori, odore, colore, paura, conversazioni troncate a metà e esplosioni ad alto potenziale. 

Passiamo le postazioni dei soldati governativi, oscuri sciami di umanità, antri di oscurità e di tanfo, odori di cose vive, giacigli a cui hanno appeso, gli entusiasti, gli ossessivi ritratti della dinastia Assad. Facce arrossate o pallide, sfigurate dal sudore, arruffate da barbe incolte e incrostate da cappelli bradi. Alcuni si stiracchiano, vomitando sbadigli, mentre raccolgono fucili e bandoliere. Una radiolina rovescia la voce flautata di Nasif Zeitun, la star della canzone siriana: amori infranti ma anche la voglia di pace e di finire la guerra… L’unico elegante e pulito in camicia bianca è un borghese, disarmato, usa un telefono color avorio dell’epoca sovietica, posato assurdamente, lì all’aperto su un tavolino da ufficio. Escono voci concitate, urla, sono le indicazioni e gli allarmi sulla attività dei cecchini di Al Nusra. 

(Il 29 marzo 2015 Al Nusra, la formazione jihadista nata da una costola di Al Qaeda, strappa la città di Idlib al controllo dell’esercito di Assad dopo quattro giorni di assedio. L’organizzazione, fondata nel gennaio 2012 con l’invio in Siria di sei membri di Al Qaeda, punta a far cadere il regime di Damasco e sostituirlo con uno stato sunnita islamico. Lo scorso 29 luglio il leader Abu Mohammed al Joulani ha annunciato la «separazione consenziente» dalla rete terroristica fondata da Bin Laden per «togliere agli Stati Uniti il pretesto per bombardare indiscriminatamente i ribelli». Il nuovo gruppo è stato ribattezzato Fath al-Sham, Fronte per la Conquista del Levante) 

«Si muore una volta sola» 
C’è un soldato che ha tutti i capelli bianchi e l’elmetto lo ha ricavato da un casco da operaio coprendolo con la tela mimetica. Hanno preso anche lui a fare il soldato: scarseggiano gli uomini nell’esercito. 

«Non ti piace? Mi chiede il vecchio indicando le cannonate». «No». «Non è nulla, non è nulla passerà. E comunque si muore una volta sola...».

Hanno facce, i soldati qui, di una serietà triste e attonita, si vede che è gente sottratta a sconcianti fatiche di uomo per fare la guerra che non è cosa loro. Un senso oscuro di necessità viene dalle cose in Siria ed essi, come gli altri che gli stanno di fronte, i fanatici, non lo discutono: è quello che gli ha dato una uniforme e un fucile. Forse si sentono arnesi buoni e pronti all’uso dietro a una volontà che è inesorabilmente fuori di loro. A noi spetta la domanda: che sarà in tempo di pace, se mai la pace arriverà, di questa fredda abitudine all’omicidio, che sarà di questi uomini a cui, dalle due parti, si è insegnato ad essere uccisori tranquilli?

La guerra non rende un uomo migliore o peggiore, lavora come carta vetrata, gratta via il superfluo, mette a nudo il nocciolo, rivela la vera essenza. La Siria mi uccide, ti uccide anche così.

Non dimentico che ho conosciuto, e bene, gli altri, gli uomini di Al Nusra. Nulla li rende diversi dai seguaci del Califfato: la tortura, i mezzi diretti di disintegrazione, più ancora l’avvilimento dell’uomo, l’amalgama con il criminale cinico, la complicità forzata. Chi uccide o tortura in nome di dio non conosce che una unica ombra alla propria vittoria, non può sentirsi innocente. Deve dunque creare la colpevolezza della vittima stessa. Quando il concetto di innocenza scompare la potenza eretta a valore, il fanatismo puro, regnano definitivamente su un mondo disperato.

Ricordo un emiro, piissimo, di Al Nusra. Predicava: «Un uomo lo puoi colpire senza timore, l’uomo è moscio come un pastone. Non pensare al come e al perché. Tu sei puro e devi colpire senza ragionare. Spaccare un nemico di dio è una cosa santa. Per ogni nemico ucciso dio ti perdona un peccato, come per una serpe eliminata. L’eretico, l’infedele devi ammazzarlo senza pensarci su. Sono marciume. Sono sporchi, appestano la terra, vengono su come una specie di fungo velenoso…».

Adesso bisogna scendere dal pick up, c’è un angolo morto che ci protegge, qui, bastioni di utile terra e di pietra ruzzolata e accatastata in disordine. Ma la prima linea è laggiù e ci divide una decina di metri di passaggio scoperto. «Bisogna correre e correre svelti», mi spiega uno dei soldati, giovane questo, una spavalda faccia da scomunicato. In una trincea, in un bunker sei in una tomba, tremi come un montone. Ad andare così, all’aperto, invece senti le tue braccia, le tue gambe, anche morire è una cosa più libera.

Adesso la paura sale dalla terra contaminata, riempie i nostri corpi, si insinua come un verme nello stomaco. Tutto diventa freddo anche se il sole cuoce. Finita la guerra come si farà a bonificare il suolo da questa paura che incombe sui campi e le città come una nebbia? Sto per avviarmi. So che non ci sono molte alternative: devi sperare che il cecchino sia distratto, che la sua arma si inceppi, che la polvere gli offuschi la visuale. Altrimenti non hai scampo. Non sono un uomo per lui, sono un pupazzo, un bersaglio mobile, una cosa vuota di anima. Il mio urlo se mi colpirà sarà per lui impersonale come il vento nelle feritoie della sua tana. 

Il soldato giovane mi fa segno, inginocchiandosi, un gruppo di case rossicce: il cecchino è lì, «ne ha già sciancati e accoppati molti dei nostri. Ma qua non riusciamo a costruire una barriera di protezione…».

«Vado io per primo» 
Allora: si prende fiato un momento, tutta la vita passa in un rimpianto di un attimo, un presentimento si affaccia ed è respinto con terrore, ed ecco ci si tuffa nel rischio. «Lascia vado io per primo, ho pratica, tu corrimi subito dietro, vicino, in due non ci può prendere…».

Scatta via, e io dietro con tutte le mie forze, un metro, due metri dai, è passata. Invece apre le braccia, si gira su se stesso e cade davanti a me, in mezzo alla via. Cade con morbidezza e indifferenza come si cade quando si è colpiti. Cade ormai fuori dal varco assassino. Lo sguardo si annega nell’occhio, il sangue comincia a distenderglisi attorno sull’asfalto e io istintivamente scosto le scarpe per non calpestare quel sangue. Lo portano via su un fuoristrada guizzando, gettano terra sul sangue per coprire la macchia scura. Ancora il cannone. Battito di motore. Sono le dieci e mezza. Sollievo. I compagni del morto si tengono saldati l’un all’altro. Risa di gioia per esser passati. Vivi.
Da qui l’ingresso della zona nemica è a un passo. Un gruppetto di donne vestite di nero cammina in mezzo alla strada indifferente agli scoppi delle bombe, trascinano con la pena di formiche verso la città sacchi di plastica nera ammucchiati attorno a un camion. Una si aiuta deponendoli su un passeggino per bambini. È farina, la portano al forno che è accanto. 

Scavalchiamo con un largo giro la prima linea, entriamo in una città morta. Qui non ci vive più nessuno perché non è rimasto nulla in cui vivere. Immense cattedrali di cemento e di ferro disfatto, muraglie di lastroni, cave spalancate, rinchiuse in un freddo rancore di morte, intrusi siamo in questa nudità di catastrofe dove le macerie costruiscono straordinarie geografie di luce e di ombra. Ogni tanto fragori di seracchi scuotono le strade. Sono fiancate e pareti che precipitano in nubi di polvere che sembrano neve sporca. Ma qui regna una straordinaria orchestra di rumori. Il vento si insinua nelle rovine e produce musica: sibili rulli di tamburo crepiti fischi rombi ululi sussurri che paiono umani o di bestie inseguite. La città distrutta vive in un rumore eterno e ti parla il suo dolore. Il raschiare infinito delle serrande divelte e sforacchiate dei negozi ha toni da flauto, paiono voci che invocano aiuto. Ti volti, azzannato dall’angoscia, cerchi uomini che non ci sono più. Dove è ora questa gente? Come si chiamavano queste strade un tempo zeppe di vita? Chi ricostruirà tutto questo e chi verrà un giorno ad abitarlo ancora?

Il sorriso di Putin 
Il Generale, l’uomo dei servizi di sicurezza dell’esercito, mi ha detto: «Che ci importa di Raqqa? Non conta nulla. La Siria sono le grandi città dell’ovest. I curdi non la potranno prendere o tenere. Le tribù di laggiù li odiano e per questo si sono date al Daesh. La battaglia chiave è Aleppo. Ma la battaglia finale sarà Idlib e per questo la guerra sarà ancora lunga…».

A Damasco, di nuovo, vicino alla porta di Tommaso mi aspetta il Professore. Il caffè si chiama «Le voci del vento». Lui ha studiato in Unione Sovietica al tempo del padre di Bashar, è soddisfatto: i russi sono dappertutto, comprano case a Latakia e a Tartus, ma arriveranno presto anche a Damasco, assorbono la nostra produzione agricola, l’economia è in ripresa, commercianti che erano scappati ritornano… Si formano le prime coppie miste, sbocciano amori... la vita che riprende…adesso faremo imparare il russo ai ragazzi come un tempo… saranno loro che faranno finire questa guerra empia».

Penso ai piccoli bus stracarichi di gente e di cose che ho visto sfrecciare sulla strada verso Nord: ai finestrini oltre ai ritratti degli Assad, hanno aggiunto il sorriso di Putin, il signore della guerra. 

L’acqua scorre nella fontana del caffè, vecchio come questa città paziente, da antichi becchi di bronzo dorato; passano ragazze e donne vestite di chiari colori, che hanno occhi molto belli, assai lucidi quasi per il velo di una tersissima lacrima. 

Il Professore è davvero allegro oggi: «La Siria è un paese fortunato. Voi avete una vita così banale, quante volte hai una ragione di essere felice in un giorno tu? Una, due? Pensa invece alla Siria: oggi c’è la elettricità e siamo felici, usciamo di casa e rientriamo senza essere uccisi: siamo felici. Arriva l’acqua, che felicità. I figli soldati vanno in azione e tornano vivi, siamo felici».

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Titolo: DOMENICO QUIRICO Una giungla di antenne del Kgb: così l’Urss spiava mezza Italia
Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2016, 12:34:53 pm
Una giungla di antenne del Kgb: così l’Urss spiava mezza Italia
I documenti sottratti dall’archivista sovietico resi pubblici a Londra
Intercettate le comunicazioni di politici, militari e anche magistrati
La Lubyanka, il palazzo che ha ospitato a Mosca il Kgb, i servizi segreti russi sospettati dell’omicidio di Alexander Litvinienko

18/09/2016 
Domenico Quirico

Chissà se Vladimir Aleksandrovic Krjuckov ha distribuito, nel 1976 medaglie e premi per il successo dell’operazione «Start» a Roma. L’onnipotente responsabile del Primo Direttorato Centrale, il capo del Kgb insomma, forse considerò quel capolavoro dei suoi uomini in Italia attività «normale». Aveva un brutto carattere Krjuckov: già, preferiva, lui, i bassopiani della guerra continua agli altopiani della pace. I rapporti che gli raccontavano in presa diretta tutti i segreti d’Italia, perfino le conversazioni private tra i giudici del principale tribunale del Paese, li scorreva con la eterna espressione dura e decisa, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso, da tartaro senza sorriso. Il fedelissimo di Andropov, che aveva sollevato sconforto abolendo il mobile bar dall’arredamento e le bicchierate in onore degli ufficiali che andavano a spiare all’estero, sapeva che i sorrisi con gli americani erano commedia, commedia politica e diplomatica. Sì. Nel 1973 era stato firmato il primo degli accordi Salt sul disarmo. Ma la guerra continuava: per lui l’America restava «il Nemico principale». Come diceva benissimo il compagno Breznev «la distensione non alterava le leggi della lotta di classe». 

Semplice e geniale 
Ebbene l’operazione Start fu davvero un capolavoro, un capolavoro di creatività spionistica. Pensate! Piazzare antenne, banalissime, insospettabili antenne nei luoghi chiave di un Paese per ascoltare le conversazioni militari, politiche e giudiziarie, l’intera equazione dei Poteri. Una antenna ad esempio a piazzale Clodio, sede del tribunale di Roma; e poi ad Acilia per affatturare tecnicamente i cavi dell’Italcalble utilizzati allora dalla Marina per le comunicazioni; e alla base di monte Cavo. Questa ingegneria spionistica si deposita, non bisogna dimenticarlo, in metabolismi politico terroristici furibondi, sono gli anni delle invelenite sanguinose e opacissime trame delle Brigate rosse. Con piste e orme che portano a burattinai quanto meno di Oltrecortina. 

Un romanzo di spionaggio? Niente affatto: verità. E qui bisogna parlare degli archivi. Gli archivi sono miniere, filoni d’oro in cui, se riesci a trovare la vena, puoi riportare in superficie straordinari tesori. Ad esempio: gli archivi intitolati a Churchill all’Università di Cambridge, (luogo tra l’altro assonante con lo spionaggio visto che era uno dei maggiori centri di assunzione del Kgb che non lesinava nella compera delle spie). È lì che i servizi segreti di Sua Maestà hanno da poco depositato tutti i file con i segreti del Maggiore-archivista presso il deposito centrale di documentazione operativa del Kgb per lo spionaggio esterno Vassili Mitrokhin. Ancora archivi, come si vede, perché i regimi governano, reprimono: ma soprattutto scrivono. Figura archetipa dello sconquasso dell’Unione Sovietica giunta alla eutanasia, nell’ufficio di Balashika vicino a Mosca, Mitrokhin, nel 1992, cercava un cliente per il suo tradimento. Gli americani forse convinti del collasso definitivo dell’Arcinemico lo delusero. Costringendolo a ripiegare sulla Gran Bretagna. Non sapevano a Washington che per anni, fino all’85, nascondendolo nelle scarpe, aveva portato a casa, copiato su bigliettini, il lavoro di ufficio ovvero tutti i segreti dello spionaggio di Mosca. Che si estendevano anche all’Italia con nomi purtroppo in codice più o meno fantasiosi di infiltrati e collaborazionisti. Della operazione Start a Roma parlò per primo un consulente della immancabile Commissione bicamerale di inchiesta istituita per lo scandalo, reclutato alla Università di Stanford, Mario Scaramella, che per decifrare i segreti di Mitrokhin aveva arruolato una squadra con ex ufficiali della Cia e dell’MI6 e defezionisti russi tra cui l’ex capo dell’antiterrorismo dell’Fsb colonnello Alexander Litvinienko. Poi eliminato dai russi con una dose di polonio radioattivo che contaminò anche Scaramella. All’audizione davanti alla Commissione di inchiesta della Alta Corte inglese, e poi al processo italiano (perché nel frattempo è stato retrocesso da responsabile per le indagini all’estero della commissione a una sorta di agente provocatore), cita invano l’esistenza dei documenti sulle antenne di Roma come prova, tra le altre, della validità della sua attività investigativa. La operazione Start restò per l’Italia «una fantasia». 

Le parti mancanti 
A provarlo soccorreva un altro elemento: il materiale di Mitrokhin venne trasferito dai servizi inglesi a quelli italiani prima nel 1995 e poi dopo un’intesa tra Berlusconi e Blair di nuovo nel 2005. Tra i file consegnati dai Servizi alla procura di Roma e alla commissione di inchiesta quelli sulle antenne spia romane non c’erano. Fine della (falsa) storia dunque.

Dieci anni dopo il dossier 251 spunta all’Università di Cambridge, disponibili per qualsiasi consultazione. 

Leggiamo dunque, dal cirillico dattiloscritto con preziose annotazioni a mano dello stesso Mitrokhin che in stile burocratico essicca ogni pathos ma fissa bene i particolari.

«…Pagina 114/punto 316 Start postazione radio per l’ascolto clandestino di comunicazioni in Roma, tutto il personale consiste in 5 agenti più un ingegnere radio e quattro operatori, tutti gli operatori sono donne divenute mogli di agenti del Kgb, ogni operatore ha lavorato al suo posto di ascolto per 20 ore alla settimana, la postazione funzionava 5 giorni alla settimana e lavorava circa sedici ore al giorno dalle sette del mattino alle 11 della sera e in caso di necessità per 18 o 19 ore dalle 6,30 del mattino e a volte funzionava il sabato e in giorni festivi…». 

Mentre dunque gli americani spendevano milioni di dollari per spedire sottomarini con sofisticate apparecchiature nel Mar di Barents per connettersi ai cavi sottomarini sovietici, i russi di Krjuckov con poche migliaia di dollari e un manipolo di affaccendate e infaticabili signore del Kgb accumulavano cassette su cassette con tutti i segreti d’Italia.

Ancora: «Pagina 115 punto 317 Start è una postazione di ascolto radio, di acquisizione di informazioni in Roma che è stata istituita e organizzata con l’obiettivo di ricercare canali di informazioni, di raccogliere e organizzare informazioni di valore relative a varie operazioni del Kgb, nel 1976 ci sono state verifiche ed indagini sul funzionamento nel distretto di Roma e una operazione per installare degli apparati che somigliassero ad antenne e le prime verifiche hanno riguardato gli edifici della Ambasciata sovietica a Roma. Ovvero le postazioni fisse e permanenti localizzate negli edifici denominati Abamelik. I vari tipi di antenne e i sistemi sono stati verificati e il risultato è che molti apparati e canali di comunicazioni riguardavano le direttrici fra Roma, Pisa e Milano, cassette radio sono state utilizzate e 248 audiocassette con nastro magnetico sono state raccolte e sbobinate nel 1976. Il che ha costituito il punto di svolta con la creazione di ulteriori 18 nuove postazioni destinate a cercare informazioni e 37 messaggi segreti sono stati raccolti da cinque cavi telefonici denominati Ytk, ben noti…». 

«…Punto 318 la residenza romana del Kgb ha deciso di effettuare sopralluoghi visivi e fotografici… Sopralluoghi nelle seguenti città italiane di Acilia, Tenuta, Rocca Priora, per la zona Sud di Roma, Palo per l’Ovest di Roma e Fogliano, Morlupo, San Pancrazio per il Nord di Roma e il sopralluogo ha verificato che fosse rispettata la qualità delle informazioni ritrasmesse dalle antenne e delle radio localizzate nel distretto di Roma…».   

«…Altri nomi di luoghi dove erano installati punti di ascolto a Roma erano Inviolatella (parco a Roma Nord), Monte Mario (sopra il tribunale) e piazzale Clodio (sede del tribunale). 

«…Punto 319 postazioni radio di riascolto Start Kgb residenza in Roma, la presenza di centri operativi internazionali in questo Paese, soprattutto l’importanza del centro di Acilia ha evidenziato l’importanza dell’Italia nel sistema delle comunicazioni globali e ricopre tutti i tipi di connessioni via cavo, connessioni via reti di antenne, via radiofrequenze e Rrls e di altro tipo nei distretti fra Milano e Roma attraverso la città di Firenze. Sistemi di controllo sono stati da noi collocati anche nei distretti fra Milano e Roma attraverso la città di Pisa, sei punti di raccolta informazioni sono localizzati e controllati nel distretto fra Roma e Napoli come in altre parti del Sud Italia, nel distretto di Roma Inviolatella e del Monte Faito (o Faete) ci sono 7 posti di raccolta informazioni con antenne di differente diametro di portata di ascolto, localizzati e controllati».   

Pagina 128 paragrafo 351 «l’Ambasciatore Urss in Roma di nome Maltseev ha acconsentito alla installazione di una nuova postazione denominata Start 2 nell’edificio localizzato nella Grande Villa Balshaia e ha accettato che l’installazione sia posizionata sulla cima della stanza di soggiorno…».

 Il valore politico 
Tutto questo materiale ha un valore semplicemente storico? Sono passati quarant’anni e l’Urss è defunta, in fondo. Forse no, visto che il New York Times e la tv israeliana nei giorni scorsi, proprio con i file del Churchil Archive, hanno scatenato un putiferio politico svelando che tra i nomi sbianchettati c’era quello di Abu Mazen, ex agente a libro paga a Damasco. Per quanto riguarda l’operazione Start i documenti Mitrockin si fermavano all’85 e non comprendevano le operazioni ancora «in corso». Dunque potrebbe esserci a tutt’oggi un Start numero 20 o 30 visto che gli eredi del Kgb non si sono certo rassegnati a letarghi domenicali.   

E resta soprattutto aperta la domanda su chi e perché nascose questi documenti alla magistratura e al Parlamento. E qui i misteri non sono più russi ma italiani.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/18/esteri/una-giungla-di-antenne-del-kgb-cos-lurss-spiava-mezza-italia-JfkM1f1R1uUCjaTYOZI9yK/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Arte antica in cambio di armi, affari d’oro in Italia per...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 17, 2016, 11:11:27 am
Reportage - Arte antica in cambio di armi, così Isis e ’ndrangheta fanno affari in Italia
Arte antica in cambio di armi, affari d’oro in Italia per l’asse fra Isis e ’ndrangheta
È a Gioia Tauro la base di smistamento dei reperti saccheggiati.
La testa di una statua razziata in Libia costa 60 mila euro


16/10/2016
Domenico Quirico
Inviato a Napoli

A Vietri sul Mare dove inizia l’autostrada Napoli-Reggio: l’appuntamento con l’emissario che arriva dalla Calabria è, a metà pomeriggio, all’albergo Lloyd. Un posto «sicuro» che lui stesso ha indicato. Sono qui per comprare reperti archeologici arrivati da Sirte, bastione degli indemoniati dell’Isis, al porto di Gioia Tauro.

Sì, non è un errore: Gioia Tauro. Sono stati saccheggiati con metodo nelle terre controllate dal Califfato islamico, Libia e vicino Oriente. Gli islamisti li scambiano con armi (kalashnikov e Rpg anticarro). Le armi arrivano dalla Moldavia e dall’Ucraina attraverso la mafia russa. Mediatori e venditori appartengono alle famiglie della ’ndrangheta di Lamezia. E alla camorra campana. Il trasporto è assicurato dalla criminalità cinese con le loro innumerevoli navi e container. 

Adesso che l’ora dell’appuntamento si avvicina mi sento a disagio. Eccomi qua a ingannare il tempo, in questa parte d’Italia dove i gruppi criminali sono così parte integrante della vita urbana che i loro scontri, le loro divisioni incessanti, i loro compromessi sono più importanti della vicissitudini della politica. Un uomo della reception si avvicina, sistema dei cuscini e chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. L’uomo che mi ha procurato il contatto sembra anche lui di colpo più nervoso, e ha uno strano modo di non guardarmi, ora, mentre mi parla.

«Non illuderti, forse tutto filerà liscio ma ci sono mille possibili impicci: che il venditore ti abbia visto una volta in televisione, e ti riconosca per esempio… che abbiano fatto controlli preventivi... Bisogna fare attenzione... sono dappertutto… anche questo, dove siamo adesso, in città, è terreno loro…».

 L’uomo è puntualissimo. Sembra un ragazzone un po’ invecchiato, una certa flaccidezza nei lineamenti. Eppure, una sorta di voracità nella bocca, qualcosa di torbido nello sguardo come una vibrazione fredda che incute paura. Una mia impressione?

 
L’albergo era solo un punto di riferimento: non va bene per vedere i reperti e trattare il prezzo. Dobbiamo spostarci in un luogo meno frequentato. Percorriamo una strada secondaria, angusta, piccole Madonne spuntano a ogni punto più minaccioso della roccia. Il mare così lussuoso, così ricco di inafferrabile dolcezza, di esaltato gusto di vivere qui non si vede più. Questa è una terra dove la Storia ha passato mille volte l’aratro, grattando il suolo con il puntone dei tombaroli si potrebbe sentire il vuoto di una tomba greca o romana. Su un muricciolo stanno seduti alcuni uomini dallo sguardo impenetrabile, come uccelli sul filo della luce. Ci guardano passare.

La macelleria 
Ecco, siamo arrivati: una costruzione stranamente nuova, totalmente isolata, dove la strada asfaltata finisce. Arriva un’auto, due ragazzi scendono, aprono un portone. L’ultimo controllo. L’auto del trafficante si infila a marcia indietro. È un laboratorio di macelleria. 

Un odore intenso, che stordisce, ci investe, di sangue, di carne macellata. Appesi ai ganci pendono salumi già lavorati e quarti di animale che attendono ancora il coltello del beccaio. Dal bagaglio dell’auto avvolto in un telo bianco esce il mio possibile acquisto. L’imperatore mi fissa, deposto sulla lastra di metallo del tavolo del macellaio, con il suo eterno sguardo di marmo, il naso leggermente abraso, la barba e i capelli magnificamente incisi dal bulino dello scultore del secondo secolo dopo Cristo, pieno di rigonfia e marmorea romanità. Dal collo spunta, reciso, il perno di bronzo che lo teneva collegato alla statua. Mi fa un po’ senso: come se l’avessero appena decapitato, lì, per mostrarmelo nel suo cimiteriale splendore. 

Il trafficante mi spiega che era in un’altra Neapolis, quella libica, la romana Leptis Magna. Con Cirene e Sabrata sono i luoghi di provenienza di tutti tesori che mi mostrerà. Luoghi che jihadisti controllano o hanno controllato. Ma, rifletto, anche gli islamisti «moderati» di Misurata, quelli legati ai Fratelli Musulmani a cui sembra riconosciamo un ruolo di alleati affidabili nella lotta ai cattivi del Califfato. 

È il momento di parlare di denaro. Trattiamo. Sessantamila euro per l’imperatore. Molto meno per un delizioso cammeo con la testa di Augusto. L’emissario della Famiglia calabrese parla con proprietà di epoche storiche classiche, di marchi di scultori e di vasai. È abile, mescola agli oggetti libici anche altri reperti prelevati clandestinamente in necropoli greche in Italia, svela, racconta, ma parla di oggetti di «due anni fa»: in modo di poter negare, se necessario, le circostanze più gravi. E al massimo rischierà un accusa di ricettazione: tre anni.

 «Da dove viene questa testa? Questa viene dalla Libia. Armi in cambio di statue, anfore, urne: funziona così… Il materiale arriva a Gioia Tauro, una volta era qui a Napoli, poi qualcosa è cambiato. Adesso ci sono problemi, tanti problemi con questi migranti di merda, il mare della Libia è pieno di flotte, controlli, polizie. Volete reperti del Medio Oriente? Ci sono anche quelli ma i prezzi sono molto molto più cari e dovreste andare a trattare direttamente a Gioia Tauro… E non ve lo consiglio».

L’incredibile alleanza 
Ancora Isis e ’ndrangheta, ’ndrangheta e Isis: a ogni passo la loro traccia visibile, la loro incredibile alleanza. Anche qui davanti a questo trafficante che mi lancia occhiate furbe. Fino a poco tempo fa gli acquirenti erano americani, musei e privati. Quando hanno scoperto che i soldi servivano a comprare armi per l’Isis gli americani hanno bloccato tutto. Ora i clienti sono in Russia, Cina, Giappone, Emirati.

Per lui sono un ricco collezionista torinese che cerca oggetti delle colonie greche e romane d’Africa. Mi fingo insoddisfatto, chiedo cose ancor più rare: non ho problemi di prezzo se vale. Allora il trafficante mi mostra alcune foto: una ciclopica testa di una divinità greca.

«Un metro e dieci e un peso di undici quintali. Guardi, dottore, questo colore sopra la testa: portava una corona che poi si è consumata, non so se era di bronzo o di rame, viene dalla Libia, ma stiamo parlando di un’altra storia. Il prezzo è trattabile, per questa mi hanno chiesto un milione di euro ma se mi fa una proposta di 800.000 euro va bene. In più c’è da pagare il trasporto, deve venire con una persona che ne capisce… un archeologo. Le dico la verità, non è mia, sto facendo le trattative per conto di altri, dottore… Questa deve andare a un museo non a un privato. C’è un mercato di cui non avete la più pallida idea ma ora abbiamo dei problemi come le ho detto per la guerra. Stavo trattando con una persona mandata da un attore americano famoso, alla fine per 50.000 euro non ci siamo trovati. Questa o prende la strada di un museo o va negli Emirati arabi o va in Russia, queste sono le destinazioni».

La testa dell’imperatore 
Dico di essere molto tentato dalla testa dell’imperatore, ma come posso essere sicuro che non sono falsi? E poi non giro certo con centomila euro in tasca. «Prenda tutto, dottore, lo tiene quindici giorni, non uno di più! Fa tutte le verifiche che vuole, archeologi tutto... poi mi fa avere i soldi e noi non ci siamo mai conosciuti. Problemi a esporre la testa? Suvvia! Lo metta in salotto, bene in vista, se qualcuno gli fa domande dica che l’ha comprata a un mercato delle pulci per cinquanta euro e che è una bella copia».

Rinuncio all’offerta, dico che entro tre giorni gli darò una risposta. Ci allontaniamo. Lungo la stradina gli uomini sono sempre seduti sul muricciolo. Ci seguono con il loro sguardo enigmatico. 

La pista del Kgb 

Racconto il mio incontro a due consulenti internazionali in materia di sicurezza, Shawn Winter, militare proveniente dalle forze armate degli Stati Uniti e l’italiano Mario Scaramella. Che mi propongono una pista che porta a un burattinaio ancor più sconcertante: il traffico dei reperti sarebbe in realtà diretto dai Servizi russi, eredi del Kgb. Un altro indizio che si legherebbe, nell’organigramma del crimine, a quelli dei ceceni e degli uzbechi di cui ci sono prove siano passati per campi di addestramento russi, diventati poi comandanti di formazioni jihadiste. O la presenza tra i fondatori dell’Isis di alti ufficiali del dissolto esercito di Saddam Hussein addestrati dai sovietici. 

L’Isis ha la possibilità di piegare e usare formazioni criminali come camorra e ’ndrangheta per semplici ruoli gregari? E di montare una organizzazione internazionale in grado si superare controlli e repressione del traffico su scala internazionale affidati a corpi di grande valore e esperienza come i carabinieri italiani? Di entrare su un mercato, quello dei reperti archeologici, con gerarchie e meccanismi e regole molto rigide e consolidate? Solo uno Stato, una superpotenza è in grado di muovere un traffico così sofisticato, ramificato e «colto», non certo terroristi impegnati in una guerra senza quartiere. 

Mi mostrano un documento, inedito finora: il verbale originale degli interrogatori, nel 2005, del colonnello del Kgb Alexandr Litvinienko, grande custode dei segreti russi. Litvinienko spiegò a Scaramella come il Kgb rifornisse un museo segreto nel centro di Mosca, non lontano dal Boradinskaya Panorama, dove erano riuniti reperti di incalcolabile valore razziati in Medio Oriente e pagati con armi ai palestinesi. Un museo che non poteva organizzare visite e mostre perché i proprietari avrebbero riconosciuto i loro oggetti. Era riservato alla nomenklatura sovietica. Qualche oggetto ogni tanto veniva prelevato: un regalo alle mogli dei dirigenti supremi. 

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Titolo: DOMENICO QUIRICO - Il racconto di un estone: «Costiamo meno dei militari ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2016, 09:01:26 pm
“La mia vita da mercenario assoldato dalle compagnie per sparare ai pirati”
Il racconto di un estone: «Costiamo meno dei militari regolari. Per 3 mila dollari risolviamo problemi, anche con mezzi illegali»
Ci sarebbe un miliardario giordano dietro alla società che utilizza quattro navi e oltre 300 mercenari per la lotta contro i pirati in tutto il mondo


Pubblicato il 26/11/2016 Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 07:26
Domenico Quirico Inviato ad Anversa

Veniva chiamato… come veniva chiamato? Non lo so, non fatemene una colpa. Innanzitutto tra noi non c’era intimità, uno incontrato in un bar vicino al porto di Anversa, un locale sporco, odore di birra da poco prezzo, un ragazzo dal colore giallo di meticcio stava lavando il pavimento, in un angolo una donna dagli occhi apatici, una prostituta, aspettava, già alle nove del mattino, qualche cliente disperato.

E poi lui, quando si presentava, tirava fuori sempre nuove identità. A me ha dato il nome di battaglia, Lembitu, un eroe estone del Medioevo che aveva combattuto contro i re danesi, mi ha spiegato. 

Ma chissà quanti ne aveva di questi nomi di battaglia, uno per porto e per contratto, a Gibuti, in Sri Lanka, in Sud Africa, ad Aden. Allora per noi sarà per sempre Lembitu, mercenario estone e cacciatore di pirati, capace di raccontare storie selvagge e terribili di guerra e di mare. Perché mentre cinque o sei flotte internazionali pattugliano pigramente l’Oceano Indiano al costo di tre milioni di euro al giorno e il problema dei pirati somali è ufficialmente risolto, Lembitu su una nave di mastini della guerra assoldati in mezzo mondo, e pagati dagli armatori, dà loro la caccia senza rispettare leggi e regole internazionali, semplicemente per ucciderli. 

Ho incontrato molti combattenti duri, senza pietà, li riconosco dal volto, torva espressione di cacciatori di uomini dalle labbra compresse e dallo sguardo aguzzo. Eppure fin dall’inizio, ad Anversa, avevo la certezza che lui fosse un uomo avido di recitare la propria biografia come un attore recita una parte. Ricordo, e ricorderò a lungo, l’incontro con l’estone. Si aprì e si chiuse in quel caffè del porto come una ferita. Questo è il suo racconto. Da ascoltare con gli occhi chiusi.

AFP
(Gli assalti dei pirati sono un fenomeno in calo a livello globale. Ma in alcune zone, come in Asia, sono aumentati nell’ultimo anno) 

«…Hai sentito che freddo fuori? Dio, se mi capitasse di trovarmi di nuovo in una buona tempesta di neve, di quelle del mio Paese! Giuro che mi spoglierei nudo e mi rotolerei dentro. Quando ero in Afghanistan con il contingente estone ci gettavamo nella neve senza niente addosso. E quegli stronzi di afghani intirizziti nelle loro palandrane ci guardavano con gli occhi fuori. Ma non erano solo risate. L’Afghanistan sono montagne e le montagne se fai la guerra sono una gran fregatura. Tutto quello che ti serve devi portartelo dietro, ti servono munizioni e infili caricatori di zinco e mezza cassa di granate in tutte le tasche, nello zaino, le appendi alla cintura. Ti segano all’inguine e alle cosce, ti pesano sul collo. 

Adesso, da quando lavoro in mare, son solo luoghi caldi. Troppo, alla malora. Non posso più soffrire il mare. Non riesco a guardarlo senza sentire l’odore di quella nave schifosa, il tanfo del gabinetto otturato. Stiamo sempre in mutande, o nudi, a 42 gradi, i volti sfatti, le guance setolose, tutti scuri come negri, anonimi, puzziamo. Proprio una bella tribù di guerrieri.

E pensare che la prima volta che ho visto la nave “Ohio” mi era sembrata proprio a puntino. Forse era merito del mare, di quel mare. L’Oceano Indiano è diverso da quello delle mie parti, fosco, scuro, avvolto da nebbie. Ah, se me lo ricordo il primo giorno di ingaggio. Mentre su un gommone, all’alba ci avvicinavamo, la “Ohio” ci aspettava al largo dello Sri Lanka in acque internazionali fuori dalla curiosità della legge, il mare ancora dormiva oppresso dal grande caldo umido e pesante. Un vapore gravava su quella distesa immensa di silenzio. Poi in pochi minuti il cielo si arrossa, il mare diventa di madreperla, sonnolento, sotto il sole di fuoco riflette il cielo blu che gli assomiglia ma un poco più pallido. Una massa grigia con brillanti righe rosse dipinte sul fumaiolo e sulle murate si stacca davanti a noi. Dai, è quella. Cacciapirati “Ohio”, quarantacinque metri di ferraglia appena verniciata, trecento tonnellate messe insieme negli Anni Ottanta nei cantieri giapponesi come guardiacoste e un’enorme scritta in nero “Sea Man guard”. Il guardiano del mare. Così da lontano sembrava davvero una vera nave da guerra di qualche marina ufficiale. Era quello il primo trucco, l’avrei scoperto poi. 
 
REUTERS
Tre giorni avevamo aspettato la chiamata in quel sudicio albergo di Colombo. L’aria anche di notte si incollava alla pelle come una mano molle. Gli altri, gli altri ingaggiati, li avevo riconosciuti subito tra i clienti: grossi, i movimenti a scatti tipici dei militari, gli zaini enormi con dentro tutta la vita, c’erano altri due estoni e alcuni inglesi. Per me era la prima volta e non volevo farlo capire. Ancora non ci credevo. La “Advant Fort” aveva risposto alla mia richiesta di ingaggio! Tremila dollari al mese depositati sul conto in banca che gli indichi tu e sarebbero stati quattromila se fossi stato capo team. Ma non avevo titoli sufficienti, c’era gente lì che aveva fatto almeno un paio di guerre vere, reduci o disertori della Legione, ex Sas, qualche russo degli Spetnaz. Sono tempi duri, c’è troppa domanda, migliaia che si offrono per qualsiasi cosa preveda un fucile in mano e la possibilità di sparare e così quei bastardi della “Advant Fort” possono offrire contratti da fame.
Bella storia, stai a sentire. C’è un miliardario giordano che vive in Inghilterra, il signor Samir Farajallah, che fonda una società per distruggere i pirati nell’oceano indiano senza badare ai mezzi. Ha trecento mercenari, quattro navi, una sede in Virginia con ammiragli americani in pensione e gente dell’intelligence navale nel consiglio di amministrazione. Tanto per avere le spalle coperte. Gli armatori di tutto il mondo lo pagano perché costa meno dell’ingaggio dei militari regolari e garantisce i risultati. Con ogni mezzo.

Insomma, per raccontarti come è andata: mando la richiesta, un estone che si occupa degli arruolati del mio Paese mi contatta via Skype, mi arriva il biglietto aereo per Colombo ed eccomi qui. Ti verremo a cercare, aspetta. E infatti: saliamo a bordo della “Ohio”, il ponte sembra bello, è lustro, non c’è ruggine. La nave rulla ma in modo bonario, è piena di scricchiolii familiari. Lo scafo sembra solido e parla di viaggi che dobbiamo fare insieme e delle fatiche sopportate sulle strade del mare antiche come il mondo e nuove come i passaggi che lo solcano. Siamo una trentina di militari da molti posti, più o meno tutti parlano l’inglese. E poi ci sono sei uomini dell’equipaggio più il capitano, tutti indiani. Accoccolati a poppa gli indiani parlano tra loro fitto fitto, a voce bassa, fino a notte tarda.

Ma era sotto coperta che c’erano i guai. Nessuna doccia, l’acqua te la rovesciavi addosso, acqua gialla, puzzolente, non filtrata che dovevi usare anche per lavarti i denti, dopo tre giorni tutti avevano la dissenteria, il gabinetto otturato, odore acre di sudore che si fonde coi fetori soliti delle stive. E faceva così caldo, il termometro sale ogni giorno, i soli girano, i giorni mentre tagliamo i fusi orari finiscono per fondersi in un’unica luce appannata e abbagliante che acceca gli occhi. Così abbiamo cominciato a tuffarci in mare. Il capitano ci ha avvertito, attenti ragazzi non li vedete ma qui è pieno di squali. Chi se ne frega. Il giochino era chi non si butta è un coniglio e allora per non perdere la faccia giù in acqua. Il cibo era uno schifo totale, riso con dentro le formiche che camminavano e il cuoco, un criminale, che diceva: ma non siete contenti? Son tutte vitamine in più. 

Sai: non si diventa amici su una nave così; ci si è divide a seconda dei gruppi nazionali, si sta con gli estoni. E poi di che vuoi parlare? Di donne, delle ore a mostrarsele sui telefonini, quella più nuda e quella più puttana. Su una cosa tutti d’accordo, essenziale è non conoscere la donna con cui si va, non ha che da esser questo: sesso, l’altro sesso. 

C’era una playstation sulla nave, che lusso, e si faceva ginnastica sul ponte per ore: per stancarsi, per far passare il tempo. Raccontano che la compagnia ha un’altra nave che fa solo appoggio in mare ovvero porta viveri e munizioni ai “cacciatori” come la “Ohio”, si chiama “Sultan”, la comanda pare un italiano e tiene a bordo anche la moglie nigeriana, uno splendore. Dicono che ci sia internet a bordo e una palestra, io non l’ho mai vista e forse son solo cazzate.

La nave è come il carcere: dopo tre giorni sai tutto degli altri e gli altri di te, come reagiscono alla fatica, quello che non si lava perché l’acqua è sporca e quello che non si lava perché è un sudicio. Ci sono dei pazzi lì, un inglese che ogni tanto saltava sul ponte urlando e cominciava a sparare raffiche di mitra in tutte le direzioni. Ci sono anche le notti, in mare. Senti che tutto dentro di te si indurisce, si attorciglia, e si mette in guardia. Gli occhi vedono meglio, l’udito si affina come nei gatti. La tensione è alta, ti aspetti tutto e sei pronto a tutto.

C’è il momento in cui ti accorgi che sei entrato nella zona calda, ci siamo e cominci a pensare: cazzo, sei solo su questa nave schifosa abbandonato da tutti, se ti succede qualcosa ti pagheranno? Saltano i nervi, scoppiano risse feroci per una parola, qualcuno resta a terra nel sangue, e il capo sta a guardare.

Vivi con i tuoi pensieri, la nave ti entra nel sangue, diventa tutto per te, esci dalla realtà, non hai nulla da fare se non sparare a qualcuno che non sai chi è, il mondo diventa diverso, non so come spiegarti, non tutti ce la fanno, esser un militare non basta. Hai paura, sì, lo sai che fai cose illegali e puoi essere arrestato. E allora ti ripeti: ma sì quelli son pirati, se possono ti uccidono e allora, chissenefrega, spara.

Adesso vuoi sapere del nostro lavoro: quello normale è la scorta sulle navi, una squadra di tre uomini sale armata e già questo è al limite delle regole della navigazione. Guarda che non è uno scherzo. Salire a bordo per esempio: i mercantili non rallentano per caricarti, il tempo è denaro per gli armatori e allora accosti con un gommone una nave che se è vuota naviga a quindici nodi e cerchi di tirarti su con una scala di corda che ti gettano dalle murate alte come un grattacielo. Se non sei attento e svelto il movimento delle onde ti inchioda tra la fiancata e il barchino. Gambe fracassate, se sei fortunato.

Ma quello è niente. Un giorno il capo, un inglese alcolizzato, ex Sas, comincia a gridare: attivazione! Attivazione! Eravamo davanti a Merka si vedevano le casette bianche. Eravamo dunque armati in acque territoriali somale. Qui incrociamo altri barchini dei pirati, più a nord ci sono quelli di Eyl che si fanno chiamare «guardiacosta somali» e quelli di Haradere, i «marines somali». Che stronzi. Allora: attivazione! Ve la facciamo vedere noi, marines. 

Prendiamo le armi e corriamo alle murate. Davanti a noi c’è una piccola imbarcazione, sembra un peschereccio, i colori squamati dal tempo. Pirati? Non so come ne fossero certi, erano in contatto radio con la centrale della compagnia, può darsi che quelli abbiano informazioni. Comunque chi li conosce? All’ordine cominciamo a sparare all’impazzata. Per questo ci pagano, no? In mare il colpo singolo lo dimentichi, i cecchini se li mangia il movimento delle onde. Quello che devi fare è scaricare trenta colpi, tutto il caricatore, a raffica, senza prender fiato.

Dal barchino mi pare che rispondano al fuoco, sì, sono colpi che fanno risuonare le fiancate della “Ohio”. Ma dura poco, ormai il battello somalo è così sforacchiato che si è inclinato. Non si vede più nessuno. Fine. «Tutti sotto coperta - grida l’inglese - tutti sotto coperta branco di fottuti. Non so: forse non vuole che assistiamo al controllo dei morti. E al dopo: il fuoco o un buco nella stiva per far affondare il battello. Non bisogna lasciar tracce. Tre volte abbiano attaccato i «pirati».

Una volta, da lontano, prima di sparare mi è sembrato che sulla barca si agitassero dei ragazzini. “Ferma”, ho detto a un altro estone che stava accanto a me, non sparare, sono bambini. “Idiota, non sai che i somali addestrano i ragazzini alla pirateria spedendoli a fare da esca controllando se le navi sono armate? Spara prima che ti ammazzino loro”. 

Una notte il capitano era ubriaco: ha cominciato a gridare andiamo a divertirci un po’. Abbiamo virato verso terra, si vedevano luci sulla costa poi una più piccola in mare che ondeggiava al moto delle onde. Abbiamo iniziato a sparare come se fossimo pazzi, caricatori su caricatori, gridavamo come belve, come se su quella barca ci fossero tutti i guai e i fantasmi della nostra vita. Spero fossero davvero pirati perché non è rimasto molto di loro. La lucina si è spenta. Silenzio».

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Titolo: DOMENICO QUIRICO - Carolina Invernizio, dissepolta e viva
Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2016, 08:52:13 pm
Carolina Invernizio, dissepolta e viva
Autrice di 130 romanzi, bollata da Gramsci come “onesta gallina della letteratura popolare”, a cent’anni dalla morte rivela una sorprendente modernità nel metterci in guardia dalle insidie della bontà e dell’ottimismo
Carolina Invernizio (Voghera 1851 - Cuneo 1916)

Pubblicato il 28/11/2016 - Ultima modifica il 28/11/2016 alle ore 01:30
Domenico Quirico

È ormai matura l’ora di rileggere (anche) Carolina Invernizio? Me ne danno spunto alcune foto della alluvionale romanziera dell’Italietta fin de siècle, della autrice preferita da servette e casalinghe tra Crispi e monarchia borghese; e pazienza se Gramsci la fulminava come «onesta gallina della letteratura popolare». Come poteva sapere, l’incauto, cosa sarebbe seguito, di ben più letterariamente disonesto, nelle rastrelliere di supermercati autogrill e aeroporti? 

Me le mostrano, le foto un po’ virate dal tempo, nell’anniversario dei cent’anni dalla morte, le gentilissime signore della biblioteca del Castello di Govone, residenza sabauda che l’analfabetismo culturale delle amministrazioni locali ha rassegnato a sconcio villaggio di Babbo Natale, tra casupole finta Lapponia e oggetti di un consumismo accattone. Nei saloni dove Carlo Felice meditava su fragili Restaurazioni e Carlo Alberto su ancor più contorti Risorgimenti, torme di marmocchi dilagano come innocenti coribanti di un sabba natalizio del Kitsch. È l’umiliante trasposizione di una moda imbecille che vuole l’opera d’arte, le pietre del Passato piegate alla necessità di giustificare la sopravvivenza con il rendere palanche, al prostituirsi per fare denaro…

Chissà che trama avrebbe inventato in questo sfondo infernale e di cattivo gusto che le era congenialissimo la «Madamin» che proprio nel nobile paesello del marito cavalier Quinterno mitigava la canicola all’ombra di alberi oraziani, tessendo con furore da catena di montaggio, dumasiano, una letteratura-monstre fitta di sepolte vive, incesti e malmaritate! Le foto la mostrano in grande uniforme di signora borghese, insieme a lobbie maschili e femminei cappelli a larghe falde, davanti alla scalinata d’onore del Castello.

Tra Voghera e Govone 
Govone delle vacanze, la nativa Voghera, Cuneo dove riceveva in un delocalizzato ma dicono apprezzato salotto letterario… Che strane, intriganti periferie per una odissea letteraria!

 
Prendo nella biblioteca che custodisce le sue prime edizioni un testo verrebbe da dire «classico»: La sepolta viva. Comincio a leggerne le prose con una sorta di devozionale raccapriccio. Non oso dire che scrive male, tenendo conto dei lustri passati e anche della media nazionale contemporanea, ma tuttavia… Il suo marchio di fabbrica è facilmente riconoscibile, lo stesso da cui nasce la discontinua potenza del linguaggio popolare: l’iperbole. In questa arcaica figura retorica la fantasia plebea del suo pubblico celebrava una sua libertà estetica.

Tutto qui? È dunque la Invernizio animale tra i più bizzarri e riluttanti ai recuperi e alle resurrezioni, parola perfetta vista una delle sue trame-ossessione, della nostra letteratura recente? Chissà: i giochi non son fatti. Forse nella sua storia questo è un momento delicato e difficile. E se nei suoi 130 romanzi, 130!, ci fosse qualcosa che accanto al respingerci cominciasse ad affascinarci? Ci troviamo forse ad assister, un po’ renitenti, alla commovente metamorfosi di uno scrittore in moderno o addirittura in contemporaneo, a un subitaneo scatto nella macchina del tempo?

Suvvia! Basterebbe, visti i tempi, la spintarella di una serie televisiva, o un intrigante e nobilitante accostamento biografico, che so: sapete che Tarantino la leggeva estasiato schiacciando i brufoli dell’adolescenza? Se non è vero, viste le comuni perverse sticomitie, gli eventi esemplarmente rovinosi, le scoperte di fatali e vergognosi segreti, è verosimile. E il gioco sarebbe fatto!

Trame zeppe di cadaveri 
Mi viene l’idea che ci siano altri modi di leggerla che la attenzione alla trama, spesso così fitta di cadaveri che una apposita parente-contabile provvedeva a tenere il conto dei trapassati evitando resurrezioni non volute dalla distratta e impietosa inventrice. Sublime! Ad esempio: Perché nessuno ha pensato alla qualità epifanica dei titoli della Invernizio, che equivale alla valenza poetica del catalogo delle navi di Omero e delle genealogie bibliche? lo diceva lei stessa: un bel titolo equivale alla metà del successo di un romanzo popolare. È la fede innaturale, innaturale quanto è innaturale l’intera letteratura, nel valore esorcistico, magico, cerimoniale delle parole. Proviamo dunque a recitare il catalogo infinito: La bastarda, La maledetta, Anime di fango, I misteri delle soffitte, L’impiccato delle cascine, Odio di donna, Il bacio di una morta, Satanella, Amori maledetti, La figlia del mendicante, Il treno della morte, La peccatrice, La vendetta di una pazza… e giù giù fino a Odio di araba, che negli anni del giolittiano «Tripoli bel suol d’amore» vaticinava già erotici addentellati del problema islamico.

Attenzione! Non vi suona a indizio la coesistenza della «madre e moglie esemplare» con la menade che si ritira nello studio e comincia a disegnare debosce e ingorghi di scuri irriferibili orrori, impuberi viziose e vendicativi carnefici? Pedigree letterariamente assai moderno, altro che Belle Epoque!

Ma sento le proteste di chi ancora rilutta, di chi ha ancora l’orecchio aduggiato dai dialoghi insieme languidi e presuntuosi, armature fittizie di orrori e travisamenti, sardanapalesche eroticità, un linguaggio che più repulsivo non potrebbe essere, tanto da far pensare, perché no?, a una operazione volontaria. 

Inventrice di inferni 
Eppure quando la trama prende fiato e comincia smaniare in riconoscimenti incesti materne ferocie, ecco: la macchina da romanzo, professata con accanita devozione, è esperta a destare disonesti e immaginosi terrori, è una fantastica inventrice di inferni, al centro dei quali ha collocato la solitaria femmina brutalizzata. C’è chi vi ha visto una fiancheggiatrice delle contemporanee suffragette, lei che teneva anche progressistici sermoni alle operaie della nascente questione sociale… mah! Forse è troppo. Delibando immondezze, indugiando retoricamente su ogni sorta di liquame sessuale e non, con una lingua monodica torbida e sordida, più semplicemente la scrittrice di Voghera leva una efficiente difesa contro ogni insidia dell’ottimismo e della bontà. E questo, purtroppo, è davvero moderno.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/28/cultura/carolina-invernizio-dissepolta-e-viva-OG8YpPWbHMuKNJu6LprOUM/pagina.html


Titolo: D. QUIRICO - Nel deserto che alleva i jihadisti tra cercatori d’oro e Tuareg
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 20, 2016, 06:24:53 pm
Nel deserto che alleva i jihadisti tra cercatori d’oro e Tuareg
Il viaggio del nostro inviato nelle montagne di Agadez, con la paura di essere venduto ai terroristi. La sua guida Assalan sedotta da Al Qaeda: «Mi fidavo, ora ho visto in lui l’ombra del radicalismo»
L’esercito vieta di andare sulle montagne fuori da Agadez (la seconda città del Niger): lì si rifugiano banditi e insorti

Pubblicato il 18/12/2016
Ultima modifica il 18/12/2016 alle ore 13:50
Domenico Quirico inviato nell’hair (Niger)

Perdonami Alassan, ma questa volta ho paura di te. Sì: ho paura che tu mi tradisca. Ti guardo. Abbiamo viaggiato un giorno intero nel deserto verso le nostra meta, le sfrangiature granitiche dell’Hair strette tra la sterminata sabbia del Ténéré e la frontiera algerina. Le montagne dell’Hair! Nido di tutte le mafie, sentiero di Al Qaeda, delle armi, della droga, dell’oro. Aperto solo ai jihadisti, ai trafficanti, ai cercatori disperati, ai Tuareg. Chiuso agli occidentali da almeno dieci anni. Muto, veloce prepari il tuo fornello di sterpi secchi, soffi sulla brace, riempi il bollitore. Sei tranquillo, come sempre, preso nel gioco di quando sei nel deserto, la tua vita, la tua vita di Tuareg: preparare il tè, accudire il fuoristrada, cuocere il pane nella sabbia coperta di braci. 

Forse è colpa dell’ora se ho paura, questo vasto paesaggio nerastro eppure popolato da uomini che praticano il male, come nei mondi finiti, spopolati dal fuoco e che nessuna rugiada feconderà mai più. Quattro mesi fa, non più, mi hai portato verso la Libia con un convoglio di migranti, povere cose vive trasportate come cose già morte. Tutto è andato bene eppure c’era già nel meccanismo tra noi come uno scricchiolio, la ruggine del dubbio. Anche stavolta mi hai fatto la domanda, quella di sempre da quando ti conosco, cinque anni. «Fammi venire in Europa con te, tu puoi».

Anche questa volta, dopo esserti confidato, continui tranquillo i tuoi lavori. «Alassan, vedremo, ma come faccio? Dovresti attraversare il mare e poi i visti, il lavoro. Sai cercare le tracce nel deserto, ritrovare i cammelli che hai lasciato liberi un anno fa, ma da noi?». Non mi serbi rancore per i miei rinvii, hai rivolto la supplica all’unico dio che ti può salvare, per te non sono (o non ero?) qualcuno che ti porta ogni tanto un po’ di denaro. Sono una forza da mettere in moto come un vento favorevole che un giorno forse si librerà sul tuo destino. 

Come faccio a dimenticare quando mi hai raccontato degli uomini della tua tribù, una delle più povere e lontane, che, arrivati al fiume Niger per la prima volta, piansero scoprendo degli alberi verdi e forti? Da qualche parte, forse, ci sono gli uomini di Al Qaeda che controllano, questo fuoco nel buio infinito ha dato l’allarme. Eppure abbiamo scaricato il nostro poco bagaglio, abbiamo acceso la legna secca e in pieno deserto, sulla nuda scorza del pianeta, in una solitudine da primordi del mondo, abbiamo costruito il nostro villaggio di uomini. Ecco forse questa è la vera sfida contro i fanatici: non i droni e gli eserciti. Ma essere umilmente, comunemente laddove non dovresti essere, mettere un segno sul vuoto, lasciare la traccia di noi uomini di Occidente, un fuoco, il segno degli pneumatici sulla sabbia, la fila di parole di un racconto. Lo hai detto, e bene, tu stesso: neanche tutti i droni del mondo potrebbero trovarli qui, gli islamisti del deserto. E ritrovare noi, solo due mortali sparsi tra la roccia e le stelle, consci dell’unica dolcezza del respirare.

Sì. Ho paura di te. Ho notato che non bevi più birra. Era l’unico vizio che ti teneva lontano dalle loro terribili virtù. Sento che ti sei convertito a questi idoli, che sono idoli carnivori. Tu che mi hai dato straordinarie lezioni di geografia. Non mi hai spiegato il deserto, me lo hai reso amico. Non mi parli di piste né villaggi o tribù. Mi hai raccontato di un cespuglio di tamarindo miracolosamente verde da secoli in una gola, su verso il monte Tamgak, e per me quei tre arbusti sono ormai un segno. Non mi hai indicato wadi secchi da millenni ma un pozzo che solo tu e pochi altri conoscete, la valle della fontana. E perduta nello spazio a trecento chilometri da Agadez, dai suoi caffè sudici dell’odore di uomini stanchi, la sabbia sempre fresca attorno a quel pozzo mi sembra di toccarla, mi avvolge con la sua smisurata frescura. 

Sai che ti pagherò anche questa volta. Ma non basterà, hai ragione. Nei luoghi in cui mi hai portato c’è sempre qualcuno che può pagare più di te. Io lo so bene. Quello che mi spaventa non è neppure questo. È che mi sembri diverso, come se qualcuno dotato di una forza immensa ti avesse afferrato per le spalle e adesso la creta di cui eri composto fino a ieri si è seccata, si è indurita e nessuno potrebbe ridestare dentro di te l’uomo che eri. 

 L’ultima volta mi hai fatto strani discorsi, su dio e la giustizia. E poi questa fretta che hai di portarmi subito via da Agadez, di essere inghiottiti dalle montagne più pericolose del mondo. Come se non dovessi lasciar tracce, una volta sceso dall’aereo che mi ha portato da Niamey. Rifletto: non abbiamo telefono che funzioni, nessun legame per quanto tenue ci legherà più al mondo fino a quando non torneremo in città. Siamo fuori da tutto. Siamo usciti dalla città di nascosto perché è vietato andare sulle montagne, stiamo attraversando da un giorno la grande vallata nera delle favole. La valle della prova. Nessun soccorso qui. Se mi tradirai nessun perdono al mio errore. Di nuovo. Sono affidato alla discrezione di dio. Ma quale dio, il tuo o il mio? So che non lo faresti per denaro. Ma esistono tempeste di dio che devastano così, in un’ora, le messi di un uomo. Soprattutto in questa parte del mondo dove giardini in cui scorrono freschi ruscelli esistono solo nel corano. Perché così esso definisce il paradiso.

Appena arrivato mi hai raccontato un delitto e il tuo sguardo era strano come se volessi capire se avevo paura. «Hanno rapito un americano qui vicino ad Agadez: un mese fa». «Che ci faceva un americano ad Agadez?». «Non so, era qui da anni lo conoscevano tutti. Forse gli americani lo cercano ma non dicono nulla». Forse vuoi dirmi qualcosa tu? 
Da quando ho iniziato a sospettare di te, il mio amico Tuareg, ho capito che Al Qaeda ha già vinto. Perché ha insinuato in noi sospetto e paura. A Mosul e a Raqqa ci impegna in inutili battaglie, ci costringe a gettare stanchi ruggiti prima di ricadere nella ignavia dei vinti. È in questa impalpabile presenza la sua forza, è nel fatto che io so che è qui, che questa sabbia è cosa sua e lo sarà per sempre. La sua forza sono la sabbia e il silenzio. Qui la terra è misteriosa. Il suo spazio è come quello di Milton: si nasconde in se stesso. Per coglierla bisogna rinunciare al proposito di svelarla. Affiorano dal fondo dei territori proibiti, completano i loro traffici o i loro assalti sanguinosi e poi riaffondano nel loro mistero. E noi ci illudiamo di averne addomesticato qualcuno. 

Perché mi stai vestendo da Tuareg, prima di uscire di nascosto dalla città? Avvolgi bene il turbante, arte difficile che non ha mai imparato, devo mostrare solo gli occhi. È bianco, di buon cotone. E il caffetano: scuro, con complicati disegni, elegante dici tu. A me non piace, mi sembra una di quelle tovaglie plastificate che usavano da noi nelle osterie. Non mi piace travestirmi, Alassan! Significa mentire, è faticoso mentire, deforma la tua percezione delle cose.

E adesso mi porti allo stadio: che buffa parola per questa distesa di sabbia e polvere e immondizia. A vedere 1500 bambini e le loro false madri, affittati per pochi soldi da famiglie poverissime perché li portino in giro a mendicare. Attendono da mesi che le Nazioni Unite facciano qualcosa per loro. Non dovevo venire qui, mi perseguiterà il loro sguardo da lazzari resuscitati ma prigionieri ancora delle oscure rive dove hanno vagato. C’è davvero la morte di dio, qualsiasi dio, nello sguardo di quei bambini.

Questo è l’Hair. Avanziamo con il fuoristrada tra difficili passaggi, per tre giorni siamo come prigionieri di un dopo cataclisma di appena ieri; smottamento ancora incompiuto di pietre nere, montagne ancora crollanti, vallate che si sono appena aperte segnate dalle righe sottili di erbe secche, masse di pietre ancora in bilico minacciano rovine prossime e nuove sopra di noi. È strano in questo silenzio, in questa immobilità, vedere cose che di recente hanno dovuto far tremare il deserto e riempirlo di rumori.

Tra coloro che vivono qui, jihadisti, cercatori d’oro, banditi, c’è senza dubbio come un patto ed una tregua di distruzione. Dove è l’oro? Là, nel primo girone di questo inferno di pietre, nelle vallette tra monte e monte, piene di gramigna e di serpenti velenosi. Gli uomini quaggiù sono piccoli, quasi invisibili. Si stagliano sulle creste. Spariscono nei cunicoli scavati fino a cento metri solo a colpi di vanga. La pietra fatta diventare scheggia per raccogliere spesso solo una polvere d’oro su un dito, sottile come una ala di farfalla. I loro scavi li segnano primitivi treppiede che reggono la corda per scendere e far salire il materiale, anche il verricello è fatto a mano, di legno, di artigianale bellezza. Ora qualcuno si aiuta con cartucce di dinamite o usa le mine antiuomo, ma sono inesperti e spesso una esplosione tardiva o il crollo della parete appena incisa dalla mina li seppellisce o li squarcia.

Ci fermiamo, io mi tengo di lato coprendomi il volto con il turbante. Non devo parlare. Mai. Spuntano dalla terra pattuglie mute di giganti stanchi, patinati di polvere, coperti di stracci. Crani rapati, nel passo la solennità della stanchezza. Ci sono nigeriani, ghanesi, maliani, algerini. La febbre di diventare ricchi. Diffidenza degli occhi, sguardo che sorveglia. I Tuareg li assalgono per portar via l’oro e i rari, preziosi apparecchi cinesi rilevatori di metallo. Questa gente vive qui mesi in un paesaggio che i loro pozzi mettono come in disuso. Attorno per lunghezze infinite qualche albero pesto grigio come se fosse avvolto di cenere. Eppure ti sembra meraviglioso come un fiore in un vecchio vaso. Due uomini si avvicinano esitanti, un vecchio e un ragazzo. Il ragazzo quasi si inginocchia davanti a me, allunga le mani in un gesto di resa e di preghiera: l’antica paura dei neri di fronte all’abito del Tuareg, il guerriero, il razziatore dei deserti.

Il pozzo non è loro, un ricco di Agadez li paga per scavare e prenderà poi l’oro. Il vecchio ha lasciato al villaggio la moglie e sei figli. Per mesi non li vedrà. Prima di ogni parola respira profondo. Le frasi sono un timido fosco balbettio. Non sa sorridere. Non ha mai sorriso.«Puoi trovare se hai fortuna anche dieci chili d’oro. È successo. Non è una favola. Se avessi il rilevatore di metalli, potrei cercare da solo e l’oro lo troverei. Ma costa seicentomila franchi Cfa (800 euro), una fortuna. Conoscevo sei cercatori algerini, hanno trovato qualche pepita, hanno riattraversato la frontiera. I soldati li hanno presi, gente del Nord, pazzi furiosi. Credete di esser uomini? Li hanno evirati e poi li hanno lasciati andare. Sono arrivati fino a un villaggio, prima di morire dissanguati».

Dirupi cadono verticali sugli abissi più si avanza verso i duemila metri, le pieghe del panneggio della montagna su cui arranca il fuoristrada diventano più erte, non vi è evasione possibile. È il terzo giorno, il fuoristrada come sempre per la sosta nascosto dietro un’ansa della roccia o una macchia più fitta. Il secondo girone. Dalla pista arrivano i rumori di motore, Alassan, stranamente, non si inquieta. Due pick up nuovi ma coperti dalla polvere di un lungo viaggio si fermano, come per una intesa. Saltano a terra sei ragazzi vestiti di scuro, le facce coperte dai turbanti. Solo il capo ha il volto scoperto. Strani occhi blu cenere, bellissimi, ma in terribile contrasto con un volto da assassino. Mi guarda. Si siede con Alassan su una stuoia, cominciano a parlare fitto in tamaseg, la lingua Tuareg. Gli altri che, ora mi accorgo, hanno in mano fucili, attendono come se dovesse venirne comunque una conclusione. Il capo si rialza, Alassan senza una parola comincia a impastare il pane per la sera.

Io ho rivisto gli occhi di quelli che mi vogliono bene. Come allora. Interrogano. Tutta una adunata di sguardi che rimprovera il mio silenzio. Per un attimo ho pensato che avrei di nuovo dovuto imparare che nulla, in definitiva, è intollerabile. Siamo ad Agadez, vedo la matita scura e dritta del minareto di sabbia. Ti ho sospettato a torto allora. Non so. È il momento di pagare. 

Quanto vuoi Alassan? Dammi ciò che credi, in questi giorni la cosa più importante che ti ho dato non avrai mai soldi per pagarla. Forse ho capito Alassan. Allora è vero. Anche tu hai sentito questo terribile bisogno di rinascere, canterai gli inni di guerra e spezzerai il pane del deserto con i tuoi confratelli. Ritroverete insieme quello che cercate: il sapore dell’universale. Ma del pane che ti offriranno morirai. Che il deserto ti sia comunque lieve. 

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Titolo: DOMENICO QUIRICO - “Sono diventato jihadista nelle carceri italiane.
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 08, 2017, 11:31:32 pm
“Sono diventato jihadista nelle carceri italiane. Ecco come ci reclutano”
La storia di uno spacciatore tunisino, in cella per tentato omicidio. “L’egiziano ci conosceva tutti, mi ha trasformato in un terrorista”

Pubblicato il 07/01/2017
Ultima modifica il 07/01/2017 alle ore 07:21

Domenico Quirico
Sousse (Tunisia)

L’uomo che racconta questa storia l’ho incontrato in un viottolo di campagna vicino a Sousse. Ulivi, terra e cielo. Nessuno che potesse ascoltare. Abbiamo parlato in un furgoncino bianco, che odorava di cipolle e verdura. Precauzioni. L’uomo è tunisino, come il terrorista di Berlino. Racconta di prigioni italiane e di conversioni. Terribili assonanze. Forse il segreto della jihad sanguinaria non era in Siria o nei deserti, ma qui sotto i nostri occhi ciechi.

Ecco il suo racconto. «Ecco quello che mi è rimasto in mente delle prigioni italiane, ne ho viste una infinità: Rebibbia, Civitavecchia, Firenze, Venezia, Milano. Il rumore delle porte che si chiudono è un rumore unico, come se tirassero un colpo di fucile. Ma il rumore, poi, si smorza, senza eco, i rumori di una prigione sono tetri e privi di eco. E poi, il volto del Reclutatore. Era egiziano, aveva braccia pesanti come clave e mani curate, i baffi tagliati come usano i salafiti, i radicali di Dio. Non c’era in lui alcuna traccia di senilità. La voce. Magica, ti faceva diventare un uomo. Sapeva tutto il Corano e gli hadith profetici e la sunna.

Restare con lui nell’ora d’aria e di socializzazione era una festa per i sensi e per il cuore. Con lui, persino io, giovane delinquente intossicato dall’eroina, mi sentivo purificato, elevato.

La Terra e il Paradiso 
Al sicuro. Con lui, nessuno ti guardava male, nessuno ti giudicava. Eri libero e calmo. Tutto ti apparteneva, tutto ti spettava come seguace di Dio. Al Alim, colui che sa. Il sole che entrava a fatica nel carcere, il vento che sentivi al di là dei muri, il cielo. La voce era calda, melodiosa capace di evocare la terra e il paradiso, i versetti li pronunciava in modo lento e sfolgorante, tanto che diventavano invocazioni, quando smetteva per prender fiato gli chiedevamo: ancora, ancora. “La mia comunità non sarà mai d’accordo nell’errore”. Ricordava e raccontava le storie di quando l’Islam conquistava il mondo, dei Califfi che sbaragliavano i nemici come se fossero polvere del deserto. E dell’emiro Osama, che aveva messo paura all’America. Chi ci aveva mai raccontato queste cose? Li vedevamo tutti, mi vedevo davanti a loro, mi sentivo esaltato, ispirato, arricchito di minuto in minuto, da un racconto all’altro. Gli dicevo: queste storie non le dimenticherò mai, e lui: per questo ve le affido, perché siate buoni musulmani e perché non vengano dimenticate. Eravamo in tanti in quella sezione del carcere, sapevo che lui ci sorvegliava e i suoi occhi ci benedicevano.

Droga alla Garbatella 
Dov’è ora? È morto. Tento qualche volta di immaginarlo avanzare con gli altri combattenti di Dio, tra le rovine di Homs, verso il luogo in fiamme da cui nessuno ritornava. No, non voglio pensarlo là. Non posso. Penso che l’incontro di un uomo con la Morte debba rimanere segreto. Preferisco distogliere lo sguardo, chiudere gli occhi. E lo ricordo la prima volta che mi avvicinò in prigione: nella doccia. Chi ero io allora, vuoi sapere? Fai domande, troppe. Ma tutto è scritto nelle carte, su da voi, che cosa ti nascondo? Tutto è cominciato con un gruppo di ragazzi tunisini come me, arrivati in Italia. Un giorno, mi fanno vedere la droga, spacciavano. Era marrone e io ero sorpreso: ma nei film la droga è bianca, gli dicevo. Ho provato, era buona. Spacciavo nelle strade e la prendevo, l’eroina, spacciavo per farmi, non per diventare ricco. Alla Garbatella c’era un posto semi abbandonato, quasi in rovina. Ne avevano fatto una moschea irregolare, ma era destino che fede e droga fossero per me sempre vicini. Noi la usavamo per tagliare l’eroina e per dormire. C’era un odore pazzesco di piscio di gatti, quando eravamo fatti davamo la caccia ai gatti e li ammazzavano a bastonate. 

Eravamo tunisini e qualche algerino. Non era un giro grosso e così un giorno, con altri tre, decidiamo di tentare il colpo: rapinare altri spacciatori più ricchi di noi. Scegliamo i nigeriani, perché? Sono negri. Ne adeschiamo uno, proponendogli una partita di eroina a prezzo buono, quando arriva con il denaro uno di noi, tira fuori una 7,65 e prendiamo tutto. Venne fuori una sparatoria, uno dei nigeriani fu ferito gravemente. In tre giorni, ci hanno preso. Tentato omicidio, spaccio, stavolta ero nel giro grosso, ma in galera. E in regime di sorveglianza speciale, si chiamava così, mi pare.

Allora: la doccia. Io la doccia la facevo nudo, dell’Islam non m’importava nulla, mi piacevano le donne con le tette grosse e il vino. Lui mi parla: “Perché fai la doccia senza mutande, siamo musulmani noi, abbiamo degli obblighi che ci impone Dio, e Dio non vuole”. Ma non era una minaccia, un ordine, era una conversazione tra amici. Si vedeva che mi aveva già studiato, lui controllava tutti i nuovi, quelli che venivano da Paesi dell’Islam. Sapeva tutto: perché erano dentro, la durata della condanna, quelli che avevano pene lunghe li teneva per ultimi, aveva tempo per non farseli sfuggire, quelli più interessanti erano i tossici, sapeva se prendevano il metadone. Sapeva perfino cosa compravamo allo spesino, cibo, sigarette. Sapeva, per esempio, che io compravo vino, quello da poco prezzo, ma sempre vino era. È dalla spesa che si capisce se sei un detenuto che ha soldi o sei un poveraccio che non ha nulla, una recluta più facile per Dio.

 Perché lì non hai speranze, non sei nessuno senza la droga, sei un malato. Gli educatori, lo psicologo? E chi li vede mai. Aspetti qualcuno che ti prenda con sé, che ti chiami fratello nell’Islam. Ci vediamo in paradiso. I reclutatori sono persone che ti riempiono di emozioni. 
Simile con il simile 

La seconda volta che mi parlò, fu a causa delle partite di pallone. Giocavamo a calcetto nell’ora d’aria, in genere quasi tutti in slip. E lui sempre gentile, calmo: “Sai che noi dobbiamo coprirci le gambe. Perché non vieni a pregare con noi? Non sai i versetti? Non importa, ti insegneremo. E poi, perché parli con gli italiani, Kafir, questi cani di miscredenti? Non vedi come ci trattano?”

In quella sezione, c’erano camorristi che avevano separato da famiglie rivali, e forse qualcuno che aveva cominciato a pentirsi. E poi slavi, romeni e serbi. L’odio tra noi e loro saliva, erano risse continue. Solo gli albanesi erano con noi, perché erano anche loro musulmani. In carcere ci si raggruppa subito, tunisini con tunisini, Islam con Islam. E poi, alla matricola arrivi e leggono da dove vieni: sei musulmano? Benvenuto! Ti metto con i tuoi, così vi tenete compagnia tra maomettani.

I guardiani sono stupidi: notano che, dove ci sono quelli che pregano, tutto è tranquillo, mentre gli altri fanno risse, bevono, danno problemi. Allora, quando il Reclutatore andava dal direttore a chiedergli, umilmente, una stanza per pregare il venerdì - in fondo, noi musulmani siano gli unici che non abbiamo nulla -, quello la concedeva con gioia. Anche il cappellano del carcere era d’accordo! Tra credenti, ci si dà una mano. Usavamo la stanza del biliardino, stendevamo dei tappeti. Si pregava molto, e molto si parlava: la Palestina, l’Iraq, la Siria, il Califfato, le solite storie, guarda gli infedeli come ci rubano tutto il petrolio. Uno si convertì quando gli raccontarono che le donne cecene non chiedevano cibo o aiuti in denaro, ma solo confezioni della pillola del giorno dopo, perché i soldati russi le violentavano tutte.

Ti senti vuoto 
Questo è il punto essenziale: tu entri in prigione, non hai più niente, niente droga, niente soldi, ti senti vuoto, ti pare d’impazzire. È una sorta di ingombro che senti confusamente annodarsi giù, e diventare corpo nel corpo. Scopri di punto in bianco che non sei più niente, ti palpi dentro la mente, lo spessore del buio che avanza nelle viscere. Questa è la materia prima per convertire.

Le celle, diciamo un po’ delle celle: in dieci, quattordici. In buchi che puzzano di tutti quelli che ci hanno vissuto dentro. È lì che vivi. Al mattino alle 8,30 la doccia, se è giorno stabilito, poi più nulla, fino alle 12, quando passa il carrello del cibo. Al pomeriggio, due ore d’aria, torni in cella, la conta, ti resta un’ora di socialità, passi da una cella all’altra, prima che chiudano. Non fai niente, magari per anni, perché c’è la graduatoria prima di diventare scopino o porta vitto: parli, parli e vedi la tv, sempre accesa, e vedi gli attentati, gli americani sgozzati, le bandiere con i segni islamici sulle città conquistate, e cominci a fare il tifo per Bin Laden, per il Califfo, per i vendicatori. 

Parla calmo e gentile 
E il Reclutatore parla sempre, calmo e gentile: dice che la religione vera non è quella che abbiamo imparato da piccoli, che siamo nati per una missione, combattere per il Profeta. È la jihad della comunicazione questa, la jihad della parola, più efficace delle bombe. Lui sceglie proprio i peggiori, quelli più istupiditi dalla droga e quelli poveri, a cui non arriva mai nulla dall’esterno. Offre buoni piatti di cibo, regali. I soldi non mancano, accrediti postali da spendere allo spaccio interno, che non destano sospetti. E poi ci sono i telefonini. Dal carcere i Reclutatori sono in contatto continuo con i loro confratelli, per avere i telefoni corrompono una guardia o qualche volontario ingenuo di buona volontà: devo chiamare la mia famiglia, non li sento da anni, e con il telefono fai tutto. Li si nasconde nel water per sfuggire alle ispezioni, basta svitare due bulloni, togli la memoria e lo avvolgi accuratamente in modo che non si danneggino. Oppure nel frigorifero, tra la verdura che non permette, in caso di scoperta, di risalire a un detenuto. Il Reclutatore è in carcere sempre per reati in fondo minori: documenti falsi, detenzione di un’arma. La sua è una missione specifica. Si diventa emiri così: più conversioni ottieni in prigione e più sali nelle gerarchie della jihad. 

La violenza se sgarri 
Se ti opponi, se sgarri, c’è la violenza. Un giorno, all’inizio, devo incontrare l’avvocato, prima di andare in parlatorio, bevo due sorsi di Tavernello, ti ho detto che mi piaceva il vino. Sulle scale incontro il Predicatore, lui scende, io salgo. Mi chino per omaggiarlo e lui sente subito l’odore del vino: miscredente, infame, attento a non rifarlo. Mi hanno picchiato, non so come sono rimasto vivo. 

Voi non capite niente: sempre a ragionare, ma quelli sono drogati, spacciatori, cosa c’entra l’Islam? La droga, il vizio, tutto ciò che disonora, ha in certi esseri un potere eguale a quello della fede: la stessa disperazione cerca diverse profondità. Milano è un posto importante della jihad e dello spaccio. Hanno emanato a Milano una fatwa: la droga potete venderla, per fare soldi per la causa, e poi quelli che crepano sono i figli dei miscredenti, che vadano in malora. Sui sacchetti di eroina scrivono la frase del Corano: in nome di Dio, cominciamo. Quando passa la polizia e tu sei lì che spacci, ti insegnano un versetto del Corano da dire: “Dio ha alzato una barriera attorno a noi per difenderci. I nostri nemici sono ciechi’’. E quelli sono convinti davvero che, per la polizia, loro sono invisibili.

Quando sono entrato in carcere la prima volta, quelli che pregavano erano forse il cinque per cento, ora sono la maggioranza. E quelli che resistono sono pochi e senza aiuto. Un tunisino che aveva denunciato le violenze e le minacce di morte dei salafiti al capo delle guardie si è sentito rispondere: che posso fare? Portarti a casa mia? Dio vi acceca e non vi lascia immaginare l’unica misura efficace, infiltrare detenuti musulmani che siano con voi e far cadere tutta l’organizzazione interna. Noi possiamo mentire, comportarci in modo empio, per ingannarvi meglio. Voi non comprendete che la grazia e il peccato sono spesso molto vicini. A proposito: non ti è venuto il dubbio che io potrei essere il Reclutatore?».

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Titolo: DOMENICO QUIRICO - Quei binari del treno di Lenin che rovesciarono la Storia
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2017, 04:03:02 pm

Quei binari del treno di Lenin che rovesciarono la Storia
Domenico Quirico ha ripercorso le ultime tappe del viaggio che il leader russo grazie all’aiuto della Germania, fece nel 1917 per guidare la rivoluzione bolscevica


Pubblicato il 05/02/2017 - Ultima modifica il 05/02/2017 alle ore 13:23
Domenico Quirico

Ah! il treno non è certo quello, quello su cui viaggiò Lenin nel 1917. Adesso il convoglio che fa servizio tra la Finlandia e Pietroburgo si chiama «Allegro», sì, in italiano, con bella parola presa dalla musica: l’unica cosa, in fondo, in cui siamo ancora universali. 

Non ci sono più le colonne di fumo che salivano al cielo come scale senza fine e scottavano le nubi di inverno con nuvole bollenti di vapore, non prorompono i fischietti dei manovratori e i rochi sibili delle locomotive. Alla fine del viaggio, laggiù, a mille verste, allora c’era la Russia scompigliata torbida strisciante saltante miserabile, con l’enorme macina della Rivoluzione già in moto. Oggi ci attende la Russia di Putin, capitalista, apparentemente monolitica e soddisfatta. Indecifrabile, un po’ come il suo capo, all’inizio, quando lo dicevano uomo senza volto. 

Tetra, quasi senza neve ma con blocchi di scuro fango ghiacciato, la Finlandia mi accoglie con la sua luce di sempre, artica, un cielo che pare intriso di neon e di ghiaccio, che dà alla testa. Per mezzo secolo questa è stata periferia di Europa e i rapporti con l’ingombrante, diffidente vicino comunista non erano certo agiati e ovvi. «Finlandizzazione» si diceva, ad indicare un metodo politico e ideologico per sopravvivere, improntato a una quieta reticenza: indipendenti, sì, ma con giudizio, senza mai infrangere le ferree regole di una autocensura dabbene. E mi viene in mente che la parola rischia di tornar di moda, trent’anni dopo, per soccorrere altri vicini di nuovo in affanno: la Ucraina, i baltici, la Polonia chissà… Gli imperi purtroppo non dimenticano. 

Cento anni! Cento anni dalla Rivoluzione: tanti. Forse troppi per rivivere quell’anno in cui gli uomini vissero più che non altri in un secolo intero. Anzi: le due Rivoluzioni, quella di febbraio che fu vera e popolare insurrezione. Le mani dello zar sullo Stato erano già aggranchite ma la Storia dice le cose senza fretta, perché non trova subito la parola necessaria. E poi Ottobre, che fu invece un golpe dei bolscevichi e di Lenin, e che cambiò il mondo. Come si fa a restituire nelle parole, quel senso che nelle strade di San Pietroburgo tutto fermentava, cresceva al magico lievito della esistenza, e la Storia avanzava a larghe ondate senza sapere dove come un vento silenzioso attraverso le terra e le città e i corpi, abbracciando tutto quello che incontrava sulla sua strada? L’insurrezione sembrava una poesia di Block. L’aria la trasportava sulla Neva leggera come il polline e dura come il piombo e quei semi cadevano nei solchi e nelle teste dando alle cose già aria di primavera, produceva insieme fiori e proiettili. E poi… Che ne resta oggi? Quando coloro che vorrebbero celebrarla sono sconfitti, e gli altri, i vincitori, preferirebbero dimenticarla… Eppure questo è, più di altri, un anniversario obbligatorio. Perché ci obbliga a rispondere alla domanda: dove sta il confine tra ciò che è lecito e ciò che è illecito fare in nome del fine che giustifica i mezzi. Il crimine contro l’umanità non inizia con la condanna staliniana di vari milioni di innocenti ma con la condanna già nel 1917 del primo individuo innocente. Se si comincia a usare la vita umana come un capitale di investimento subito si spalanca un abisso senza fondo. Il terribile tranello delle Rivoluzioni. Nei tempi di fanatismi non più ideologici ma religiosi rispondere è vitale.

Per questo ho deciso, ingenuamente, di arrivare a San Pietroburgo non in aereo ma con il treno: come Lui, l’esule di Zurigo, impaniato fino ad allora nel ciarpame quotidiano di quella Svizzera filistea e rancida, nei dibattiti sterili del «club dei birilli». Via, finito tutto questo, finalmente! si parte per la Russia con il plotone di moglie, amante, attendenti bolscevichi. Approfittando della strategia volpina della Germania che li vuole usare come un bacillo per atterrare il nemico russo. 

Sì, voglio scendere come fece Lenin alla stazione Finlandia quando Pietroburgo era appena stata risciacquata dalla piena della rivoluzione. Illusione, forse: cercare di far rivivere il passato come se sfregassi sui vetri. 

Provo a immaginare quell’uomo terribile, febbrile, impaziente che vede scorrere, in quel vagone che la leggenda descrive piombato e invece era teatro di incontri e trattative ambigue, le stazioni e i Paesi: la Germania, la Svezia neutrale e poi la Finlandia che era già Russia, sotto la finzione di un granducato satellite. Aveva appena annunciato, un Lenin rassegnato, ai fedelissimi che il mondo nuovo sarebbe venuto per un’altra generazione: noi non vivremo le battaglie della rivoluzione nascente… E invece! Era un regalo della storia una guerra così! 

Non assomigliava davvero ai vecchi rivoluzionari russi, imbevuti di idealismo, parolai. La sua energia era l’odio. Il partito che aveva inventato doveva essere votato alla guerra totale, allo sterminio fisico del nemico di classe, un darwinismo implacabile, animale che avrebbe assicurato la vittoria. Odio e bugie: i due fattori più importanti della educazione politica subiti dagli uomini del ventesimo secolo. E di quello che è appena iniziato.

Questa piccola, antica stazione di Helsinki ha imprevedibile quiete e paesane assonanze russe. Non solo architettoniche. Le vecchie porte di legno sono presidiate da una donna che propone icone e libri sacri. Sul legno qualcuno ha inciso una scritta: musulmani fuori! 

Il treno, russo, è modernissimo, di lusso. Solo che marcia alla tranquilla velocità dei «direttissimi» della mia infanzia. Come se la modernità si fosse fermata a mezzo, il futuro fosse rimasto in sospeso. E anche in questo assomiglia alla Russia di oggi.

I viaggiatori sembrano usciti da tempi gorbacioviani, tempi di penuria: carichi cioè di involti, pacchi e borsoni, che immagino frutto di giudiziose incursioni consumistiche nei centri commerciali finlandesi. A più basso costo rispetto a quelli putiniani? Difficile crederlo, con la svalutazione del rublo e l’inflazione.

Il treno si muove. Con poca neve i luoghi, la campagna finlandese, assumono un’aria tetra e inaccostabile. Ci lasciamo dietro le stazioni: Tikkurila, Lathi, Kuovola… Tutte deserte di uomini, scale mobili ferme e vuote, nei parcheggi auto che sembrano relitti di una immemorabile glaciazione.

Nel mio vagone una ragazza russa interrompe furibonde liti telefoniche con il fidanzato solo per bere lattine e lattine di birra. Una coppia matura, amanti moderatamente espliciti, prepara le giornate di San Pietroburgo. 

Vainnikala è l’ultima stazione finlandese. Ecco la frontiera, e la russa Vyborg. Siamo già alle permanenti conseguenze della Rivoluzione. Fino al 1940 Vyborg era finlandese, l’arraffò Stalin con una guerra brutale e il consenso dell’alleato Hitler. Violenza che è risultata indifferente alla dissoluzione dell’Urss, ai revisionismi di bandiere e frontiere. 

Adesso la ferrovia è un binario tra due alti e fitti reticolati come se fosse entrata in una gabbia. Sul treno salgono truccatissime poliziotte russe per i controlli: congegni elettronici moderni e vecchi tamponi. La ragazza, già abbastanza ubriaca, viene prelevata e sparisce con loro…

Accanto a me viaggia un professore universitario, torna da un convegno in Finlandia. Parliamo di Pasternak, il Grande Muto della letteratura russa: noi che abbiamo vissuto la seconda rivoluzione quella capitalistica degli Anni Novanta assomigliamo molto ai personaggi di «Zivago»: «Anche noi come nel ’17 abbiamo vissuto in fondo cose che accadono una volta sola nella storia dell’umanità, la fine degli zar, la caduta del comunismo, poteri infrangibili, eterni. Alla Russia di nuovo era stato strappato via il tetto e, di colpo, ci siamo trovati allo scoperto sotto il cielo. E’ stato terribile, ogni volta. Guardi: sulla rivoluzione non troverà pareri unanimi, il tema è controverso».

L’uomo dell’Est europeo costretto a cercare di sopravvivere alla storia piuttosto che compierla. Che entrati nel ventunesimo secolo può insegnarci molte cose perché come lui siamo rimasti soli in senso etico. Ci ha abbandonato il Dio universale, i nostri miti universali e ci ha abbandonato anche la verità universale. Cento anni dopo la caduta del palazzo d’inverno al posto della speranza del futuro hanno avuto il sopravvento le frustrazioni per gli errori del passato storico, i sentimenti del nazionalismo ferito e la collera del rancore. Ha ragione il professore: dobbiamo pensare a una rivoluzione lunga che inizia nel 1905 e si compie forse oggi nel fragile termidoro dell’età putiniana. 

Ecco: stazione Finlandia, sgualcita, mediocre, provinciale come allora, simile a una sosta ferroviaria a Faenza o Voghera. Arrivo per caso alle ventitré, come allora. Era in ritardo Lenin. Festeggiavano già la vittoria i giovani soldati che non volevano andare al fronte, gli operai delle Putilov che avevano conosciuto nello stesso momento alfabeto e rivoluzione. Esultavano i contadini che si erano spartiti onestamente le vacche del padrone e che temevano la resurrezione dalla tomba dei vecchi poliziotti. L’ex zar, ingenuo, spaccava legna e attendeva che «i bambini» (erano in età da marito!) guarissero dal morbillo per andare in esilio. E invece c’era, come destino, la cantina insanguinata di Ipatiev, laggiù a Ekaterinburg. Che restava da fare? Ma Lenin sapeva: che le Rivoluzioni le vincono non gli ingenui, gli eroi che le fanno sulle barricate, ma gli Altri, chi arriva dopo e ha idee e volontà. Verità amara e sempre valida come insegnano le primavere di Tunisi e del Cairo. 

Lo aspettavano, quella sera, soldati schierati e una banda che suonava in mancanza di meglio la Marsigliese! Lo portarono per le riverenze e i saluti della «delegazione» nella saletta riservata dello zar, su un’autoblinda improvvisò un comizio fustigando i suoi che già civettavano con i nemici di classe, i menscevichi, i liberali. La sua statua ciclopica oggi sembra continuare quel comizio all’infinito, con gesto perentorio, a indicare il mare e i radiosi destini. 

Esco sulla piazza, i lampioni hanno sulla neve accecanti riflessi da sala chirurgica. So che accanto, a cento metri, c’è un luogo che bisogna vedere subito: se non si vuole dimenticare che il dio ha fallito. Sì, bisogna affacciarsi sul vuoto glaciale della necessità storica, dei Grandi Fini e delle soluzioni finali. Sul lungo fiume, accanto alla stazione, incombe lugubremente silenziosa una gigantesca costruzione di mattoni rossi, piccole finestre irte di grate, una altissima ciminiera come di fornace lancia fumo verso il cielo e divide le quattro ali che divergono e gli danno il nome. Sono «le croci», la prigione delle croci. Qui passarono i primi deportati degli inverni terribili del ’17 e del ’18: era un’epoca che non teneva conto degli uomini ma imponeva ciò che voleva lei. Si nominavano già commissari con poteri illimitati, uomini dalla volontà di ferro, con nere giubbe di cuoio, armati di leggi di terrore e di rivoltelle «nagant». 

Davano la caccia ai controrivoluzionari, sembravano non dormire mai. Accanto al muro del carcere un giardino è pieno di giochi per bambini. Dall’altro lato della Neva Pietroburgo brilla ancora di luci. La città che fu la rivoluzione (Mosca le venne dietro) ed è la città di Putin, dove è nato e ha costruito la sua carriera. Una città dove la vita sembrava impossibile fra stagioni con venti ore di luce e notti con venti ore di buio, inverni che tolgono il respiro e abortiscono in primavere palpitanti, città che di questa impossibilità ha tutti i segni e i deliri e gli incubi. E’ piombata, per l’ennesima volta, in un’altra vita, vede una umanità che non riconosce per sua nessuna delle forme per cui crebbe la città e vi cammina come attraversando per errore la scena di un teatro. E chi vi giunge, straniero, ha l’impressione di trovarsi in un mondo passato e questo passato sia la sua vita stessa.

Sì, il 2017 che si annuncia di grandi sconvolgimenti, in un tempo in cui il sentimento dominante è un senso di impotente disorientamento, può iniziare qui, da una città e da un anniversario. Dove si è schiantato l’ultimo pilastro dell’ottimismo ottocentesco troncando la corsa all’ultima utopia dell’umanità. Il viaggio di Lenin ci insegna che nessun bilancio teorico delle perdite e dei vantaggi di una rivoluzione potrà cambiare il fatto che in pratica essa si rivela improduttiva. Le rivoluzioni si mantengono al potere proprio perché cessano di esser rivoluzioni, dopo il febbraio arriva sempre un ottobre. E dobbiamo accettare, noi uomini del ventunesimo secolo, che non esista una strada facile e poco costosa per l’utopia.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/05/esteri/quei-binari-del-treno-di-lenin-che-rovesciarono-la-storia-ZuXc2ALBh4ZVp8pSbdzPgJ/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - L’ultimo sopravvissuto di Guernica: “Quel massacro parla al..
Inserito da: Arlecchino - Aprile 28, 2017, 12:46:27 pm
L’ultimo sopravvissuto di Guernica: “Quel massacro parla al presente”
Ottant’anni fa il bombardamento dell’aviazione tedesca dipinto da Picasso.
Luis Iriondo era un adolescente: “L’orrore è arrivato nel giorno del mercato”
Luis Iriondo, 94 anni, sopravvissuto al bombardamento di Guernica, davanti a una riproduzione del quadro di Picasso nel museo della Pace
Pubblicato il 23/04/2017

DOMENICO QUIRICO
GUERNICA
Sì. Uomini come Luis Iriondo mi lasciano sempre senza fiato. Aveva quattordici anni il 26 aprile del 1937 quando i bombardieri tedeschi e italiani scesero su Guernica per stuprarla a colpi di bombe, per innaffiare le strade di fuoco, di esplosivo e di ferro: un cimitero di civili, un grido straziante che Picasso fissò sulla tela. Lo incontro vicino alla chiesa di Santa Maria. Si è salvata dalla distruzione, i «moros» di Franco la usarono come accampamento dopo la «reconquista», poi le donne di Guernica dovettero ripulirla in segno di umiliazione. 
 
Luis è un sopravvissuto, parola terribile del Novecento. Bisogna esser folli per credere, dopo aver vissuto il primo bombardamento terroristico della Storia, credere ancora nel potere dell’uomo sul suo destino. Sperare in una vittoria dello spirito sulle forze del male, credere in dio, credere nell’uomo e in una riconciliazione tra loro. E invece Luis comincia a raccontare e la muraglia sembra meno alta, meno invalicabile. D’un tratto tutto diventa presenza, tutto diventa semplice, vero, possibile. Significa che non siamo soli e vinti, che le forze disperse si riuniscono, sempre, da qualche parte. 
 
«Era una bella giornata come oggi, il cielo chiaro, pregna di umidità e di fermenti. Era lunedì, il giorno del mercato, dicevano l’avrebbero sospeso, la guerra si avvicinava, ma la piazza era piena di contadini e di bestie. Il mercato per noi di Guernica era la festa, al pomeriggio c’era la partita di pelota. Fu per questo che proprio quel giorno mia madre mi autorizzò per la prima volta a indossare i pantaloni lunghi: dai, ero un uomo adesso, non ero più un bambino, solo per la festa, ammonì mia madre. Non andavo più a scuola, c’era la guerra, il mio istituto l’avevano ultimato nel ‘33 ed era già chiuso, diventato caserma! Mia madre non voleva che ciondolassi senza far nulla e aveva chiesto al direttore della banca di impiegarmi come apprendista, portare le lettere, piccole commissioni, non maneggiavo certo i soldi. Ero al lavoro quel pomeriggio, io e un rifugiato di Lekeitio, un paese già occupato dai franchisti. Il bombardamento venne alle 16 e 20. Fu allora che le campane di Santa Maria cominciarono a suonare. No, non era per la messa, era l’allarme per gli aeroplani che si stavano avvicinando. Prima si usavano le sirene della fabbrica d’armi che era in città. 
 
Poi si erano accorti che creava confusione, molti pensavano che segnalasse la fine del turno e restavano a casa, sulla montagna che sta proprio sopra Guernica, il Kosnoaga, alcuni soldati dalla vista lunga quando scorgevano gli aerei nemici, c’erano solo aerei nemici ormai in cielo, salire da Burgos o da Vitoria facevano segnali agitando bandiere e allora giù, le campane suonavano, suonavano, ma c’erano stati molti allarmi, il fronte era a venti chilometri, ma non era mai successo nulla. Per questo non volevo correre nei rifugi ma il profugo di Lekeitio insistette: non sfidiamo la fortuna, mi costrinse, io sono vivo per questo lui invece è morto nel bombardamento». 
 
La Maginot disfatta 
Sono salito a Guernica in un paese ariostesco di rocce a picco e mare spumoso, frondami umidi e torrenti sonori, annegato nella luce ardente della primavera. Ascolto la lingua basca residuato, forse, dei primi idiomi del mondo. Da quassù scopro Bilbao, la profonda «ria» fino all’oceano. Bilbao era il «cinturon de hierro», la cintura di ferro, una sorta di Maginot costruita con l’aiuto di tecnici russi e francesi. Per il governo di Valenza era impenetrabile. Come tutte le Maginot si disfece in un istante. Seguo la strada da cui avanzarono le frecce nere della Agregation legionaria italiana, i requetés con le boine, i berretti a cencio, rosso sangue, e i terribili tabores marocchini del generale Mola. 
 
Non sono venuto qui per una guerra antica, di ieri: Guernica è stato un orrore sperimentale, i suoi trecento morti sono state vittime esemplari. Già. Quante Guernica abbiamo vissuto dopo? Coventry, Dresda, Hiroshima e poi le città violentate del nostro tempo senza guerre, Aleppo, Grozny… città che sembran aver perduto la loro ombra. In questi ottanta anni quante volte abbiamo pensato che fosse l’ultima volta? Funziona sempre così: c’è l’impressione di un malinteso che confonde tutte le cose, (fino agli anni settanta la versione ufficiale nella Spagna franchista era che Guernica fosse stata incendiata dai rojos prima di fuggire…) si mescolano inestricabilmente bene e male, i colpevoli e gli innocenti, entusiasmo e crudeltà. Ho visto bene? ho ben capito? e poi vi dicono che tutto è finito che non si ripeterà… in fondo il mondo migliora si respira. Si respira fino al prossimo massacro che giunge di colpo, il tempo passa, passa.
 
«Ah i rifugi! l’avevano costruiti con sacchi di sabbia e qualche trave di ferro, alla buona, ma che sapevamo dei bombardamenti aerei a quel tempo? Il rifugio più vicino alla banca era nella piazza del mercato, già si sentivano le prime esplosioni, erano gli aerei italiani che cercavano invano di colpire il ponte all’ingresso della città, ma noi non sapevano nulla di questo. L’ingresso del rifugio era sotto una terrazza che chiamavano “el sacafaltas”: quando si ballava nella piazza le ragazze si radunavano lì per vedere lo spettacolo e scegliere l’innamorato, era la vita prima, prima della guerra, eravamo un centinaio in quel rifugio non c’era ventilazione né luce, eran rifugi fatti così, alla buona, dopo due minuti già urlavamo perché ci sentivamo morire soffocati, allora qualcuno ordinò di sederci a terra, perché c’è più ossigeno in basso, io ero in fondo al tunnel dove la volta era più bassa e c’era meno aria. Ma il pavimento era umido e sporco e la paura di rovinarmi quei magnifici pantaloni e dei rimproveri di mia madre era più forte del senso di soffocamento, rimasi in piedi, le esplosioni cessarono, uscimmo a respirare aria buona a sentirci rivivere, e invece era solo l’inizio».
 
La voce della morte 
So cosa vuol dire essere sotto un bombardamento aereo, ciò che provarono per primi, nel Novecento, gli uomini le donne i bambini di Guernica. Oggi gli aerei sono così veloci che quando la bomba cade sono già lontani, senti solo il sibilo, la voce della morte. Gli junker tedeschi della legione Condor e i Savoia Marchetti della Aviazione legionaria, invece, erano lenti. Avanzarono da Nord a Sud usando come traccia il percorso della ferrovia, quasi ala contro ala, ben allineati, squadriglia dopo squadriglia, e sganciarono spezzoni incendiari mescolati a bombe perforanti. Cinquemilacentodiciassette ordigni. Un torrente di fuoco e di polvere.
Ho visto anch’io come Luis, in altri luoghi del mondo, case sollevarsi lentamente e sfasciarsi nell’aria per poi ricadere. E il rumore, il rumore che ti inghiotte, devi scrollare la testa per poter ragionare e vedi gente attorno a te che ha la bocca aperta, sai che sta urlando disperatamente ma non li senti. E fiamme escono da terra, vortici d’aria ti afferrano facendoti ruotare, una via intera in un attimo diventa un mare di fiamme, luci gialle e rosse ricadono dal cielo come un nubifragio. Fu così: Guernica in poco tempo prese fuoco, fatta, com’era, di legno. Ascolto Luis raccontare: sì, si respira fuoco in quei momenti.
 
Che sappiamo di questo stare sulle soglie della morte e forse un po’ più in là, quando le bombe smantellano una città, di come si cammini nudi sotto lo sguardo di dio? Avvengono in quelle ore (tre ore durò Guernica) confidenze che voi riceverete di rado, per la semplice ragione che le soglie della morte non sono scritte da nessuna parte. E se voi tornate in quel luogo dove avete subito la prova del fuoco, con gente che non era là, vi sembrerà di non ricordare più nulla e di raccontare bugie. Giacché i ricordi di un bombardamento assomigliano ai ricordi di infanzia.
 
«Quando è arrivata la nuova ondata, siamo di nuovo corsi nel rifugio. Stavolta avevo deciso che sarei rimasto per ultimo, mai più in fondo a quel tunnel, a costo di morire. Mi tirai dietro i sacchi di sabbia per fermare le schegge, adesso era come una unica esplosione, sembrava che entrasse da uno dei bracci della piazza dove è la scuola femminile e la percorresse tutta intera, allargando un lungo suono lugubre che sembrava entrarci dentro e poi c’erano raffiche di aria calda, un calore ripugnante che aveva il gusto di morte avevano raccomandato a noi ragazzi: se c’è un bombardamento stringete un oggetto tra i denti, dicevano che una esplosione più forte avrebbe potuto farci esplodere i visceri. Io mi ero portato dietro un bastoncino di dieci centimetri che stringevo in bocca fino a farmi male».
 

La preghiera spezzata 
«Nel rifugio cominciammo a pregare, la preghiera che ci avevano insegnato al catechismo: Nostro signore Gesù cristo, dieci volte provammo e dieci volte una bomba ci spense la voce. Infine uscimmo dal rifugio: tutta Guernica era un braciere, la gente fuggiva verso la montagna, incontrai salendo un mio compagno di nome Eloy. Ci fermammo a guardare la città bruciare sotto di noi, le nostre case erano vicine, vedemmo le mura della sua crollare in un mare di fumo. Calmo, freddo, gelandomi il cuore Eloy mi disse: mia nonna e mia zia sono là: una è sorda e l’altra paralitica». 
 
Allora Guernica non è il passato: è il presente. È una guerra che ci parla, ci spiega, ci offre terribili insegnamenti. Come assomiglia a quella di Siria, ad esempio! Guerre che avanzano con andamento di epidemia. Bashar come Franco, con potenti, determinati alleati totalitari, allora Germania e Italia, oggi Russia e Iran, contro le democrazie, timide e ipocrite. A Hitler e Mussolini che gli mettevano fretta, chiedevano avanzate risolutive, Franco rispondeva che in una guerra civile occorre una sistematica occupazione dei territori, che bisogna «ripulire», una rapida vittoria ti lascia invece il paese pieno di nemici. Anche Assad lo sa: è ostinatamente paziente, avanza da sei anni con metodo, riprende città e paesi uno ad uno, lascia che i suoi avversari li abbandonino, attende che le loro mischie interne li indeboliscano. 
 
E poi come in Spagna la guerra serve come sanguinoso laboratorio, sulla pelle di un popolo intero, di nuove armi: i tedeschi misero alla prova i loro aerei micidiali, i russi di Putin esibiscono la tecnologia della morte ad alta tecnologia con cui hanno sostituito la ferraglia sovietica. Guerre feroci, entrambe: ottanta anni fa i generali africanisti ribelli, formati nei massacri delle terre del Rif, dove saccheggio tortura e assenza di pietà erano la norma, oggi i fanatici di dio della mischia siriana.
 
Gli altri curdi 
E poi i baschi: i baschi che sono i curdi di oggi nel vicino oriente. Aspiravano, con vigore antico e disperato, alla autonomia. In nome di essa un giovane industriale dolciario, il lehendakari Aguirre, aveva proclamato lo stato separatista. La Repubblica faceva promesse. Chi potevano scegliere? Erano disposti a tutto, anche ad allearsi ai rossi, una incongruenza perché le pietre e le foglie della Biscaglia, dal ponte di Irun alle rocce oceaniche della Galizia, erano ferventemente cristiane e nulla avevano a spartire con i massacratori di preti e gli incendiari di chiese. Come i baschi i curdi resteranno con un pugno di rovine in mano. In questi luoghi, in fondo, quella guerra è finita solo due settimane fa, con la consegna delle ultime armi dell’Eta. Forse conviene attendere che la Spagna si disintegri da sola.
 
No, Guernica non è il passato. La memoria è rimasto un terreno di scontro politico: da una parte il partito conservatore, la Chiesa con i suoi 498 martiri, l’estrema destra, dall’altra una rivendicazione di memoria che si mescola a una revisione critica della transizione democratica da parte della sinistra radicale, Podemos, i neo comunisti. La guerra civile è lo specchio davanti a cui si rigiocano molti conflitti politici dell’oggi. 
 
La canzone 
E poi con Amaya, una giovane signora basca, vado a visitare il museo di Guernica intitolato alla pace. Quando una suggestiva rievocazione interattiva di quel giorno di 80 anni fa sfuma in una straziata canzone di bimba Amaya scoppia a piangere. Il passato con i suoi echi è in agguato dentro di te, primo o poi te lo ritrovi davanti, imperioso. Allora non puoi più scantonare. Sì: Guernica è davvero un macigno sul cuore.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/23/esteri/lultimo-sopravvissuto-di-guernica-quel-massacro-parla-al-presente-vrskoHa2TY6HMyp2tWI5QO/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Dopo i conflitti con gli Stati ora le minacce arrivano dai...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 09:01:40 pm

Viaggio nei luoghi di Israele dove cinquant’anni fa morì il nazionalismo arabo

Dopo i conflitti con gli Stati ora le minacce arrivano dai gruppi islamici

Pubblicato il 29/05/2017

Domenico Quirico
TEL AVIV

Passata avanti la guerra non si possono riconoscere i luoghi. Ai luoghi restano i nomi della geografia, e alle battaglie la data. Quello che conta non sono le battaglie, ma i giorni e i mesi e gli anni che sono durate con gli uomini aggrappati alla terra, alla sabbia, alle pietre in una lotta sepolta. Qui cinquanta anni fa, sei giugno 1967, una data densa della storia del mondo, tutto durò appena sei giorni. Una guerra breve, un lampo, eppure in un tempo così breve molte cose che sembravano eterne morirono: il nazionalismo arabo, innanzitutto, sconfitto e archiviato. Su quelle rovine l’Islam politico iniziò a costruire i suoi disegni. E anche Israele cominciò a morire: sì, il trionfatore. Quello eroico dei pionieri, degli irriducibili sopravvissuti fondatori di uno Stato, nel momento della vittoria, come spesso il ghigno della Storia decide, raggiunsero l’apogeo e iniziarono il declino. Israele invincibile peccò della greca hybris, l’arroganza. 

Mezzo secolo fa Israele sconfisse alcuni Stati, la Siria l’Egitto la Giordania. Oggi combatte con Daesh, Hamas, Hezbollah, Al Nusra, gente che prescrive e dogmatizza, perseguita e punisce, dà degli esempi. Messi, investiti, scomunicatori, giustizieri: l’abiezione fanatica. Con gli Stati, seppure autocrazie spietate, si poteva trattare, fare la pace come è accaduto, faticosamente. Ma oggi?

Percorro luoghi delle guerre di ieri per capire le ragioni di quelle di oggi. Il tempo si vendica come si vendica di chi non riesce ad adoperarlo o lo usa per uccidersi. La guerra è purtroppo la cosa più semplice del mondo. Se non fosse così, se i soldati dovessero conservare a giustificarla un’ombra solo dei discorsi e delle polemiche, gli resterebbe in mente di aver patito il più grande sopruso, l’inganno più scellerato. Ma alla guerra si dimentica tutto. Gli israeliani 50 anni fa, rialzando il capo dopo la mischia breve e crudele, guardando il Canale e l’Egitto davanti a loro, e il Muro di Gerusalemme riconquistato, e Damasco laggiù nella bruma calda a un passo dal monte Hermon, dissero: è finita. E invece le nazioni, vinte e vincitrici, hanno i loro fornitori di miserie e di illusioni e dopo quella vennero altre guerre, il ’73 il giorno più lungo di Israele, e Beirut, e ancora il Libano e l’intifada. La guerra così diventa un mestiere e una obbedienza. 

 Salgo dalla Galilea verso il Golan, sfioro il monte delle beatitudini e il lago di Tiberiade folgorato dalla luce sciancata dell’alba. Il Golan è paese proprio alla guerra. Non ci sono distrazioni di cieli, albe e tramonti vi sono lenti, le acque se le bevono le rocce e i calcari, le quote si allineano per lungo e per largo guardate dalle nevi ormai minime del monte Hermon e dalla rocca crociata di Nimrud, castello ariostesco tra boschi fitti e piantagioni. È un paese che permette soltanto lontani orizzonti di pianura di mare e di montagne, privo di vicinanze. Quel che fa l’idea di andare sono le strade. Qui le strade spariscono alle svolte oppure lontane conducono a quei luoghi di orizzonte, borghi di cui si chiede il nome con cautela. Lì comincia il Libano laggiù è Siria qui la Galilea con la sua campagna sfruttata di tutti i suoi succhi. Paese adatto a viverci nelle pietre fino al mento e che nasconde due eserciti l’uno all’altro. Sembra fatto da dio con i sassi avanzati dalla fabbrica del mondo, mi ha detto un kibuzzin guardando soddisfatto l’opera sua che ha corretto e fecondato quella distratta di dio. 

Del Golan conquistate all’esercito siriano) 
«Il confine è a un passo» mi hanno avvertito, venti minuti a piedi e sei davanti alla Siria. E pure quando il dirupo finisce e mi affaccio sulla pianura siriana mi manca il respiro. La valle a perdita d’occhio ben spezzata di campi segnati e macchie di verde e di giallo, è piena di aria cruda, di estraneità e di sofferenza. In quello spazio stanno palesi le ragioni di una tragedia infinita. Sotto di me, li tocco, due villaggi con grida di bimbi e minareti. E poi, di colpo, in mezzo a un gregge, un uomo comincia a gridare e a fare segni verso di me, sì verso di me, agita uno straccio per richiamare l’attenzione, le sue parole arabe me le porta via il vento. Rispondo agitando la mano e allora lui grida con gioia e ripete, e stavolta lo sento, in inglese grazie grazie. 

(Le alture del Golan oggi. Un carro Merkava israeliano sorveglia il confine con la Siria. Oggi la minaccia viene dall’Isis) 

In quei villaggi, nel mistero che li avvolge, non c’è l’esercito siriano ma le sigle nere del califfato. Ogni tanto qualche colpo che scambiano con i soldati di Bashar Assad cade per errore nella zona controllata di Israele. Per sbaglio: non hanno tempo per occuparsi dei sionisti, devono regolare i conti tra loro. E forse il calcolo israeliano è questo e non so se sia segno di lungimiranza. Ogni guerra sosta di tanto in tanto. Il sole accolto risale e trabocca dai sassi del Golan. Colonne di blindati candidi, i mezzi della annosa missione Onu di interposizione, risalgono le strade degli escursionisti e dei gitanti, salutano con larghi cenni chi accosta per lasciarli passare. Oltre questa frontiera di guerra sospesa è diventato indebito il mio contegno con gli uomini e le cose di questa parte di mondo. L’appello di quel pastore siriano oltre la griglia di questo confine di odio mi spoglia di guerra e di passione, anzi di umanità di qua e di là del fronte troppo stanca. Come loro non saprei dire cosa mi duole, come loro, ebrei e arabi, ho nella mia costituzione il dolore.

Appena dentro la frontiera dell’armistizio c’è il moshav, che è una versione addolcita del kibbuz, di Majdal Shams. Religiosi, anche se non ultra-ortodossi che ormai hanno in ostaggio la politica di Israele. Questa era Siria fino al ’67, l’unico confine dove la guerra non è mai finita con un accordo di pace. Ci aspetta Rifka, Rebecca, che è arrivata bambina da Parigi. E ha vissuto prima in una colonia a Hebron, terra dura e feroce di scontro. Mi parla con entusiasmo goloso del fatto che sta per iniziare la raccolta delle fragole, la stagione è buona e ricca, e dice che non lascerà mai questo posto perché qui può ascoltare gli uccelli e il vento. E capisci che non potrebbe mai accettare la relegazione in un altro posto che la escluda dalla cornice dei frutteti, dei poggi e delle casette del moshav con il suo rifugio antibombe. Poiché ha compreso che quei contorni sono i soli, gli unici a poter racchiudere i suoi giorni futuri.

Ora pieghiamo di nuovo verso Ovest e questa è frontiera del Libano, che ormai per gli israeliani equivale a Hezbollah, il partito-esercito sciita. Siamo al punto 105, ogni sezione della frontiera è segnata per consentire in caso di infiltrazione ai soldati di intervenire più rapidamente. Solo qui ho sentito voci preoccupate, sguardi farsi attenti scrutando i villaggi sciiti sulle colline di fronte. Hezbollah è l’unico nemico di cui Israele ha rispetto, forse paura: più dell’Isis, più dei siriani. Davanti a me c’è Marum Harash dove nel 2006 i combattimenti costarono a Israele molti inutili morti. Le montagne fitte di boschi impenetrabili sono come scalpate dalle scavatrici, affiorano ferite larghe, lingue di terra rossa e nuda al sole. Non sono cave o disboscamenti. Israele scoperchia gli angoli morti della frontiera dove possono passare gli uomini di Hezbollah senza essere scorti, li costringe al terreno aperto. Un muro anche questo, fatto di amputazioni e non di reticolati o blocchi di cemento. 

Scendiamo di nuovo verso il mare, si sente la cadenza delle onde del Mediterraneo, delle onde che battono contro la Palestina come contro una parete, il bordo estremo della grande vasca d’acqua fra Europa Asia e Africa. Penso che non ci sia Paese al mondo lungo come Israele, lungo nel tempo intendo, non nello spazio. Non esiste Paese i cui lineamenti abbiano la lunghezza di tempo che va dalla nascita di Abramo alle biotecnologie. Lineamenti concreti limpidi vivi da toccare con il dito: vivo il vecchio Testamento con le sue valli coperte di erbe e di fiori, con le colline fitte di agrumeti e di viti; e viva la modernità più avanzata e audace. Mi raccontano di un progetto di quindici miliardi di dollari per costruire l’auto robot, di ricerche per creare serre dove per risparmiare energia si scalderanno solo le radici delle piante e ahimè anche di nuovi carri armati e cannoni. Se il tempo è davvero una dimensione non esiste paese più esteso di Israele. Dove la fisica e la biologia fino alla partenogenesi convivono con chi vuole ricostruire il sinedrio e il terzo tempio di Salomone (spianando le moschee musulmane!).

Il deserto nasconde i fatti di guerra, il tempo fa alla memoria quello che gli anni fanno al vino. Nasconde i morti. La sabbia è gialla e monda, come la cenere, come la polvere antica. I morti son troppo lontani e vicini qui, al confine con Gaza e Hamas.

Al kibbuz di Nirim oggi è iniziata la stagione dei bagni, ha aperto la piscina, incontri ragazzi forti. Come tutti i contadini del mondo hanno il viso bruno, meta carne e metà cuoio, lo sguardo duro, le mani nodose, come tutti i contadini del mondo parlano con frasi corte secche e hanno risate profonde.

 
Adel, americana, fragile e antica, con un gran cappello di paglia contro il sole mi racconta la regola dei dieci secondi: il tempo in cui bisogna esser pronti a fuggire, in caso di allarme per il lancio di razzi di Hamas, nella stanza blindata di casa o rannicchiarsi a terra come le mani serrate attorno ala testa. Sono gesti che conosco, come conosco luoghi dove le vittime non hanno nemmeno la possibilità dei dieci secondi perché nessuno farà mai suonare la sirena o un appello sul telefonino. Gaza è lì, appena oltre il reticolato e i campi di grano: due minareti come matite verdi puntate verso il cielo. Gaza con i suoi ventimila combattenti ormai ben addestrati e armati, dove il radicalismo politico religioso si insinua e fa proseliti e non rispetta la tregua tacita con Israele: la prova di come la guerra di 50 anni fa non risolse nessun problema. 

Sui confini Israele dei pionieri che esportavano il comunismo, un comunismo puramente empirico al di fuori di ogni enunciato razionale, anche se le punte di collettivismo integrale sono state uccise dal tempo, pare ancora vitale. Giovani famiglie, a decine, fanno domanda per venire nel kibbuz. Nel resto del Paese, invece, ho l’impressione di una sorta di smobilitazione dell’animo degli ebrei in Israele: alla fine della loro alta tensione. Non so quanto sia giusto rimproverarli per non essere rimasti se stessi come avremmo voluto, quelli della epopea del 1948, quelli che abbiamo ammirato increduli nel ’67: rimproverarli per l’arroganza, per aver scambiato la potenza per virtù. In fondo la perdita della loro eccezionalità per forza maggiore, al loro ingresso nella media di virtù e difetti comuni a tutti i popoli che hanno una patria, è inevitabile. Il male di cui soffrono, la mediocrità della classe politica rispetto alla vivacità della società e alla grandezza dei problemi, è il difetto di tutto quello che un tempo chiamavamo Occidente.

Adele, che mi racconta come è sopravvissuta ai razzi, aggiunge: «Perché dovrei odiare i palestinesi? Non sono miei nemici sono miei fratelli». L’eterna, splendida ragionevolezza delle minoranze che sono ahimè! minoranze. Se devii dalla autostrada che porta al Mar Morto verso il tranquillo confine giordano in pochi minuti arrivi alla tomba di Ben Gurion, sul ciglio di una montagna che guarda il deserto. Gazzelle brucano l’erba senza paura, un battaglione di giovani soldati seduti all’ombra ascolta la lezione di storia del suo ufficiale. Tagliato dal sole a picco il paesaggio offre il fascino triplo della bellezza, del mistero e della minaccia. Forse qui si comprende che la forza di questo popolo, con i suoi innumerevoli errori, è in questa pazienza inesauribile, tessuta, intrecciata nel corso dei secoli con il destino nemico, le sue ombre, il suo frastuono che ritmano l’esistenza. Una pazienza di cui nessuno è riuscito ad avere ragione, che niente ha potuto incrinare. Sanno soffrire come nessun popolo ha sofferto e sanno sperare contro ogni speranza. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/29/esteri/viaggio-nei-luoghi-di-israele-dove-cinquantanni-fa-mor-il-nazionalismo-arabo-HAND2INge9vyyzOqH21juO/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Come i migranti vedono gli italiani
Inserito da: Arlecchino - Luglio 10, 2017, 01:47:49 pm
Come i migranti vedono gli italiani
In viaggio con quattro profughi su una corriera del Monferrato: “Vedendo i turisti ci eravamo illusi che gli italiani fossero ricchi”
Pubblicato il 09/07/2017 - Ultima modifica il 09/07/2017 alle ore 15:58

DOMENICO QUIRICO

Lo so che è una sciocchezza. Anzi: peggio, è inutile. Capovolgere il discorso, non quello che noi pensiamo dei migranti, ma tentare di definire il contrario.

Cioè quello che loro pensano di noi, italiani, ospiti renitenti, samaritani ringhiosi o turbati dal dubbio di commettere, accogliendo, un errore. Che strana domanda: a chi mai potrebbe interessare il giudizio di un migrante? Diamine: non è un turista o uno scrittore o un uomo d’affari. Un migrante.
 
È vero. Non bisognerebbe chiederlo: lui, il migrante, è un uomo che ha solo un minuto di speranza, di farcela di essere accettato di avere il pezzo di carta, un minuto contro, due, tre, cinque anni di disperazione. Che è il tempo del suo viaggio. Lui vive di questo: del minuto di speranza. Come puoi chiedergli di buttarlo via con una risposta incauta? Non è molto, è una realtà quasi impalpabile. Non sa se la mia compassione sia finta. Forse lo è. Ma come rischiare? La sua inquietudine, sì, quella è sincera e ha ben motivo di essere inquieto.
 
Questa volta non vado a cercarli in mare o nel deserto, non è il suo viaggio, ora, che mi interessa; è il suo specchiarsi in ciò che gli sta intorno, il Nuovo Mondo che si è conquistato con la paura, il sudore, il dolore. Il suo Dopo nell’abnegazione di ogni istante. Non devo andare lontano: basta salire un mattino su una corriera qualsiasi di una linea locale nella zona in cui vivo, il Monferrato. 
«Lì li trovi di sicuro, si spostano in bicicletta, ma qualche volta usano l’autobus se hanno un lavoro o solo per vagare in giro, qualcuno per fuggire verso qualche confine». Ci affanniamo a discutere se siano un bene o un male, e loro sono già normalità, paesaggio.
 
Ci sono infatti: quattro. Li ho subito ribattezzati il Grosso, il Triste, il Rasta e il Filosofo, tre gambiani e un maliano. Si tengono insieme, muti, nell’autobus semivuoto, qualche anziano che si sposta da paese a paese e ragazzi con lo zaino che chiacchierano e ridono fitto. Nessuno, salvo me, sembra badare a loro. Il bus avanza sulla via provinciale, una via familiare più che di transito, dove si sentono gli uomini con i loro costumi, le loro abitudini, perfino i pensieri. Le villette dei geometri degli Anni Sessanta, le cascine rimodernate, e i bar dove c’è sempre qualcuno che sembra aspetti l’arrivo di una gara. I quattro migranti non guardano quello che sfila fuori dai finestrini, forse hanno già fatto questa strada molte volte, forse ci passano solo stamane prima di fuggire.
 
Con i migranti non bisogna fare domande, è la polizia che fa domande: bisogna ascoltarli, parlare. Se fai domande ti risponderanno che qui tutto è magnifico, che sono felici, che la gente è buona. Ne trovi a centinaia di migranti che ti parlano così, è umano, è normale. È parlando a se stesso che il migrante si confessa, non a te occidentale, straniero, infedele. Hanno tutti una storia che dividono con innumerevoli sconosciuti, le cui figure tragiche e i gesti disperati si susseguono senza mai scomparire del tutto. La mutilano, la truccano la loro storia; ma sfigurarla non è per loro l’unico modo per non riconoscerla più?
 
Il Triste è un uomo che non potrò dimenticare. È grande, alto, eppure sta piegato, guarda sempre per terra come se avesse un gigantesco peso sulle spalle che lo opprime. Non ho mai incontrato nessuno così definitivamente vinto dalla vita, così tragicamente consapevole che ha perso la scommessa, bruciato l’unica possibilità. È perfino difficile restituire il suo parlare, perché è annegato in infiniti silenzi.
 
«Perché sono qui? Perché voglio ricomprare la mia casa laggiù in Gambia, la casa che non è più mia, che mi hanno preso, e metterci dentro mia madre perché possa invecchiare e morire in pace. Mia madre! Che ha raccolto uno ad uno i soldi per farmi arrivare qui. Ho solo lei, non ho amici, non ho nessuno da nessuna parte del mondo. Tutti, nel centro dove stavo, telefonano, parlano. Io ho solo lei da chiamare, le dico che va bene, che è bello qua, che tutti sono gentili e non è del tutto vero. Io devo guadagnare quei soldi, devo. Sono qui per nient’altro. Quella casa la rivoglio. Non mi fermo, andrò in giro a cercare lavori a tempo, caporali che mi assumano in nero, va bene, così guadagnerò più rapidamente. Dormirò alla stazione, in strada, non mi importa, è la casa che devo ricomprare, la casa. Ho attraversato l’inferno, tre anni di Libia sai cosa vuol dire? Sono ancora vivo: per cosa? Per niente: ho fallito, ho perso». 
 
Il Rasta: «Che penso dell’Italia, penso che vado via, che vado a Malta, parto lunedì! Non c’è niente qua. Che ci vado a fare? A vendere sulle spiagge, affitto una cassa di roba da uno e mi tengo una percentuale di ciò che vendo. Se ho amici laggiù? Non conosco nessuno. Tutti a dirmi: sei scemo, resta qua, hai un posto dove stare e un lavoro. Ma io voglio andare a vendere a Malta. Dio sono certo che mi farà andare perché gliel’ho chiesto. Dio è buono, me lo deve dare. Voi italiani non capite, noi ci sentiamo sempre provvisori. Io so fare mille cose il muratore, il contadino, riparo biciclette, faccio miracoli con le nostre bici africane che non sono belle come le vostre. Ho trovato un posto in un vivaio in un paese qua vicino e ti racconto una cosa: quello che lavorava con me è italiano, ha la macchina, non mi dava un passaggio e dovevo fare venti chilometri in bici ad andare e altrettanti a tornare. Diceva che ha paura di avere guai in caso di un incidente. Solo se pioveva forte mi dava un passaggio, ma si faceva pagare la benzina».
 
Il Grosso: «Ero muratore al mio paese, come qui. Sì, il lavoro è lo stesso, ma non è lo stesso il resto: i soldi per esempio, franchi Cfa si chiamano, e non valgono niente. Quando c’era qualcosa da fare, facevano a metà, altrimenti niente per nessuno. Qua il padrone mi guarda e dice: i soldi, i soldi te li do a fine mese, è scritto nel tuo contratto, non siamo mica in Africa qui. Va bene: quando arriva fine mese non mi dà nulla. E dai, non c’è lavoro, mica ti devo pagare se non c’è lavoro. Voi africani siete sempre a chiedere, chiedere. Sapere se posso o non posso fidarmi di lui mi fa impazzire: forse ridacchia appena volto le spalle e le spalle me le volta sempre fingendo di avere qualcosa da fare, va su e giù, prende una martello, un secchio, fa finta lui, fa finta di essere occupato. Una volta ho fatto una prova: ho fatto un balzo in avanti e l’ho guardato. Ho visto solo un po’ di paura. Voi italiani sapete controllarvi meglio di noi, siete una cricca piena di forza e di sicurezza: noi, noi che aspettiamo, noi africani non abbiamo niente, viviamo sulla lama del coltello, ci bilanciamo da una minuto di speranza a un altro minuto di speranza. Ci tenete ben stretti al morso, due parolette e la nostra vita è di nuovo andata al diavolo. Amministrate il paradiso, amministrate la speranza, la consolazione. Avete tutto in pugno, noi possiamo solo accostare le labbra per qualche minuto».
 
Il Filosofo: «Tu vuoi sapere cosa pensiamo di voi? In Africa vedevamo i turisti, anche italiani; ricchi, tutti ricchi, spendevano, pagavano. Così pensiamo che da voi tutti abbiano soldi. Adesso, arrivati qui, sappiamo che non è così, ma nessuno lo racconta. Anzi si assicura che va tutto bene, stiamo come signori. C’è uno al centro di accoglienza che è andato via e ora fa il mendicante. Non ci crederai: si fa delle foto con il telefonino vicino ad auto di lusso o a ristoranti famosi e le manda a casa, perché credano che è così che vive. Perché? Perché in Africa non si racconta agli altri il tuo problema, è tuo e basta, e nessuno può fare niente per noi». 
 
Dove e quanti migranti sbarcano in Italia, i dieci porti con più arrivi aggiornati al 4 luglio

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/09/esteri/in-viaggio-con-quattro-profughi-su-una-corriera-del-monferrato-vedendo-ricchi-turisti-ci-eravamo-illusi-che-gli-italiani-fossero-IUdZAao8Ub508vimn874qL/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Libia, nella roccaforte degli scafisti dove inizia l’inferno
Inserito da: Arlecchino - Agosto 16, 2017, 08:57:05 am

Libia, nella roccaforte degli scafisti dove inizia l’inferno dei migranti
Viaggio sulle spiagge di Sabratha: da qui partono i barconi di disperati per l’Italia. Tra trafficanti di uomini, mediatori e miliziani: «Queste sono acque di nessuno»

Pubblicato il 15/08/2017
Ultima modifica il 15/08/2017 alle ore 07:03
Domenico Quirico
Sabratha

Le sette. Un pontile. Ora le cose e il cielo hanno colore, non splendore. All’estremità della vasta curva di terre gialle, esili palmizi che per tutta la giornata pareva si disseccassero lentamente cominciano a vivere. Due pescherecci si incrociano lentamente davanti a noi. Alcune grandi navi immobili sembrano incastrate nella dura superfice della baia. Il mare è un’acqua di laguna così densa che dondola appena. La Migrazione, alla fine, è storia di mare. A queste spiagge bisogna arrivare, loro per partire e noi per capire. 

Mi viene una idea vaga: che questa estate di Libia è un’estate guasta, un’estate che va a male. Nessuno confessa a se stesso che la guerra ai migranti non somiglia a nulla, che nulla vi ha un senso, che nessuno schema vi si adatta, che crediamo di tirare solennemente dei fili i quali non sono più legati alle marionette.

Per esempio: sappiamo che le regole del «viaggio» nel Mediterraneo sono cambiate? E che lo hanno imposto loro, i migranti? Non cercano più lo scafista direttamente, lo pagano e partono, affidandosi a dio. Non si fidano più: troppi morti, troppi naufragi, troppi inganni. Ora c’è un mediatore, sempre libico, riunisce i gruppi, marocchini senegalesi eritrei, raccoglie il denaro e lo custodisce. Paga lo scafista solo quando una telefonata del migrante conferma che è arrivato in Italia o è al sicuro su una nave di soccorso. Il viaggio con l’assicurazione. 

Il business dei trafficanti 
Per gli scafisti è indispensabile che i migranti arrivino, e presto: è l’unico modo per avere il denaro. E questo, forse, spiega molti misteri: la ricerca delle navi delle organizzazioni non governative e altro.

Mahmud è il vecchio capo dei pescatori. «A che ora uscite stanotte? L’acqua è calma, si fila lisci sul mare». «Questo mare immobile non è buono, è un mare da migranti non da pescatori - lo dice con stizza, come se fosse qualcosa di sconveniente - è luna piena, sotto la superfice calma la corrente è forte, non ci sono pesci così. I gommoni, quelli sì, escono stanotte per andare da voi». 

Mahmud sa mille storie. «Avevo una barca con un libico e tre egiziani, cercavano il pesce spada, bisogna star fuori almeno due-tre giorni. Incontrano una barca di migranti in difficoltà che invocano aiuto. Si fermano, lanciano un appello, arriva una nave delle vostre, armate, grandi, gridano in arabo “State fermi o vi spariamo”. Prendono tutti, i miei pescatori la barca i migranti, e li rimorchiano a Lampedusa: “Siete scafisti - dicono ai miei - stavolta la pagate”. Per farli tornare, loro e la barca, ci sono volute settimane di appelli e trattative, ma il pesce quello, era perduto. Le nostre ormai sono acque di nessuno, tunisini e italiani che vengono a pescare di frodo parandosi dietro alle vostre navi, migranti». 

Che cosa è vero e che cosa è falso, qui in Libia? Le nostre soluzioni buone per tutto mi sembrano quegli aggeggi dei meccanici che sono insieme pinza, martello e cacciavite. Mi aspettavo a Tripoli chiasso e furore per la presenza delle navi italiane e il «colonialismo» di ritorno. Non ne parla nessuno, se non qualche schermaglia di politicanti. Alla manifestazione contro l’Italia c’erano 40 persone impastoiate alla svelta dai Fratelli musulmani. Tripoli ha 3 milioni di abitanti. I libici, semmai, si preoccupano dell’energia elettrica che non c’è per sei, dieci ore al giorno, e del loro denaro che resta chiuso nelle banche. Al mercato le botteghe degli orefici sono piene di ombra e di meraviglie. Intravedo monili che sembrano usciti dai tesori di Micene, così magnifici da sembrare falsi. Ma nessun avventore. I mercanti seduti sui loro banchi guardano la strada. Volgono non appena mi vedono gli occhi sugli oggetti nelle bacheche, cadono su di essi densi raggi di sole, sottili, pieni di una polvere fulva. Se dopo averli sorpassati mi volto, vedo il loro sguardo che mi segue pesante ansioso: «Se venite qua con una nave che distribuisce energia elettrica diventate i signori della Libia, altro che navi da guerra».

 L’ombra di Haftar 
Le notizie che diamo per certe assomigliano a miti che si propagano, di origine incerta? Al Sarraj è il nostro uomo, la carta su cui puntiamo tutto. Ebbene a Tripoli senti parlare solo del «Vecchio»: non osano nei caffè dirne il nome, non è prudente. Questa gente ha vissuto 40 anni sotto Gheddafi. Il Vecchio è il generale Haftar, l’uomo di Tobruk, sperano che arrivi presto perché son stufi delle milizie e del primo ministro e delle sue strategie tortuose: «Ci vuole un uomo forte che metta fine al caos». 

Le parole non corrispondono alle cose che vedo. «La stabilizzazione della Libia, grazie a noi, migliora» annunciamo. E qui invece è una guerra in cui non si viene a capo di nulla, bisogna ricominciare da principio ogni volta. Il pericolo non sta in alcun punto, non ha forma peso colore. È lì, in questo Paese immenso, sproporzionato, goffo a furia di essere grande, in questo Paese peggio che disabitato, abitato poco e male. È un pericolo dilatato, diffuso, fluttuante che ti sfugge e poi all’improvviso fa ressa in un punto, fulminante.

Per esempio. Vado a Zawia e a Sabratha, solo un’ora di viaggio, dove sono le spiagge di imbarco dei migranti. Si viaggia solo di giorno, di notte la strada è dei briganti, dei jihadisti, chissà. Ci sono molti posti di blocco, di giorno, gente armata, in mimetica. Noi li definiamo: esercito polizia sicurezza. E pensiamo a ufficiali, catene di comando, disciplina. E invece sono milizie, gente armata di gruppi diversi, ingaggiata dal governo ma che non risponde a nessuno. Il primo posto di blocco lo superiamo senza esser fermati: i miliziani son tutti intenti a prelevare il pedaggio da un camion. Il secondo è a Zanzur, il ventisettesimo chilometro come dicono qua. Un tempo era un’oasi con le palme fitte come una pineta e pozzi dove l’acqua la tirava su una vacca o un asino con gli otri, un metodo più antico di Noè. Oggi l’oasi è solo polvere e case sciupate, più grigia che verde. 

Milizie e check point 
Due ragazzi mi fanno scendere dall’auto quando si accorgono che non sono libico. Stringono in mano il passaporto e il permesso che mi è stato dato dagli uffici di Tripoli, li girano e rigirano: sono analfabeti, per loro sono incomprensibili. Uno dei due è chiaramente in preda a droghe, le parole gli escono di bocca accavallate, senza filo. Mi tirano dentro un container che fa da ufficio e casa. Mi vuotano le tasche, con metodo, ho portato con me pochi euro e soldi libici per prudenza. Sghignazzano, spingono: conosco la scena, bisogna fingersi stupidi, tacere, aspettare pazienti. Ormai non dipende da te, nulla. Con il portafoglio spariscono in un’altra stanza. Ecco: mi preparo. I rapporti con un Paese dove hanno cercato di ucciderti sono complessi, non evolvono. Tornano, mi ridanno il portafoglio e mi spingono fuori: sono rimasti solo i soldi libici che non valgono niente. Ripartiamo. 

I distributori sono chiusi o assaliti da interminabili file di auto alla ricerca di benzina. Le milizie la imboscano, la comprano al prezzo fissato dalla legge di un dinaro al litro e poi la vendono di contrabbando. Un guadagno enorme. La stabilizzazione della Libia.

Cerchiamo a Sabratha, io e il mio amico libico, un conoscente, un tempo era agente della polizia turistica. In un caffè che frequentava ne facciamo il nome, lo descriviamo. Gli sguardi si abbassano: «Lo hanno ucciso gli islamisti, gli hanno tagliato la testa». Storie libiche, sembrano senza peso, la presenza di una persona scomparsa può farsi più densa di una presenza reale. 

La città sembra intatta e viva. Un anno fa l’Isis faceva sfilare per le strade sfacciatamente i suoi pick-up e le sue nere bandiere. Ora si sono ritirati verso l’interno, sulla montagna, attendono i nostri errori. Nei negozi eleganti espongono chador di lusso e mute per le bagnanti virtuose. Accanto al municipio color caffelatte immondizia ed erba tisica: il sole mette sulla polvere bianca una luce cruda che costringe quasi a chiudere gli occhi. Manovrano contromano senza badare alle auto pick-up con mitragliere a cui si aggrappano urlando giovani barbuti. 

 Il sindaco Hasan al Dauadi è un uomo giovane, a suo agio in un elegante barracano grigio: «I trafficanti di uomini sono gente di qua, una mafia organizzata, potente, ben armata, hanno capannoni e case dove nascondono i migranti. Forse le partenze ora diminuiranno un poco: l’Italia non paga i capi del traffico e le milizie?».

Pronti a partire 
Le rovine sembrano intatte, il mare vi si infrange, col suo azzurro intenso ma senza trasparenza, e la balza a riva di un verde di pavone, opalino, misterioso. Nel teatro, sproporzionato, inverosimile, ricostruito da un archeologo un po’ mistico senza badare al vero, ci sono rifiuti, i rovi guadagnano terreno laddove tubazioni abbandonate lasciano intravedere che un tempo c’erano erba e fiori. Ci si muove in una pozza di sudore, affannosi, come bastonati. Due famigliole libiche si aggirano tra le colonne, i bimbi lanciano grida che si perdono nel silenzio del mare. La cosa che li affascina di più sono le antiche latrine, miracolosamente conservate, sotto il bel portico pentagonale e con i banchi di marmo. Penso che ci furono imperatori romani che salirono a Roma da qui e avevano la pelle scura. Oggi li avremmo forse rimandati indietro come fastidiosi migranti. 

Ogni spiaggia da qui a Tripoli è un luogo di partenza. Un gruppo di neri sono accoccolati sulla sabbia gli uni di fronte agli altri, in mezzo a loro bottiglie di acqua. Sono assolutamente immobili. Non si guardano. I loro occhi sono rivolti verso punti diversi del mare. Emanano un senso di eternità. Vedo bambini dormire come se fossero morti. Non hanno con loro alcun bagaglio, nella disperazione resta la consolazione di separarsi da tutto, di essere ridotti a se stessi. Mi guardano con la stessa innocenza con cui guardano l’orizzonte. Mi offrono l’acqua: l’ospitalità non è un rito ma un dono. 

«Il mare è buono, stanotte partite?». E dico la formula rituale «Siamo nelle mani di dio». «Dio esiste». Adesso è scuro ormai. Si indovinano senza vederli gli argini del molo e il mare di ombra dove non scintillano, aderenti agli scafi dei pescherecci, che i riflessi della lampade. Qua e là certe forme allungate macchiano il cielo notturno, reti issate dai pescatori, forse.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/15/esteri/libia-nella-roccaforte-degli-scafisti-dove-inizia-linferno-dei-migranti-zOyIGR965g0JImpGz94izJ/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Ad Agadez con un trafficante di migranti: “Vendevo uomini e..
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 09, 2017, 06:40:35 pm

Ad Agadez con un trafficante di migranti: “Vendevo uomini e destini per fare soldi”
Il racconto di un passeur del Niger: mi riempio le tasche con i viaggi di chi vuole andare in Europa
Per tutti quelli che vivono ad Agadez, i migranti sono una fonte di guadagno
Pubblicato il 07/10/2017 - Ultima modifica il 07/10/2017 alle ore 08:18

Domenico Quirico
Agadez (Niger)

Il setaccio funziona. Ad Agadez, crocevia dei migranti verso la Libia, un luogo dove tutte le coscienze sono umiliate, il setaccio creato dall’Europa lascia cadere ormai solo pochi granelli. Ecco: da qui per noi il migrante ritorna invisibile, non esiste più. Ero stato qui pochi mesi fa ed era un fiume di uomini e donne che fluiva nel deserto. Oggi la città sembra morta in un’afa senza respiro, spariti o nascosti i passeur che ne erano i visibili padroni, ritornata la vita e il mercato alla miseria di sempre. La gente se ne sta in giro senza uno scopo, con l’aria di aspettare qualcosa. 

È l’ennesima, non l’ultima nessuno si illuda, svolta della Migrazione: che cercherà nuovi alvei e nuove strade. Per raccontarla forse bisogna cercare un altro punto di vista, un’altra angolazione. Il racconto di questo trafficante di uomini per esempio: i ministri europei non lo incontreranno mai uno così. Forse è un errore: scoprirebbero molte cose che non sanno.

Perché mi guardi? 
«Perchè mi guardi così? Perché? Non guardarmi così! Mi hai chiesto tu di raccontare tutto questo; dopo, è una parola è una parola, sì: io trasporto uomini nel deserto! Li porto da Agadez in Libia. Lo so: è per questo che mi guardi così. Sono un bastardo, mi riempio le tasche sugli uomini, e chi non guadagna sugli uomini? Lo sai che per me, per noi, per tutti quelli che vivono qui ad Agadez, i migranti sono la vita? Sono come le capre o il dromedario, arrivano spendono denaro li trasportiamo, ci fanno vivere, li facciamo vivere, è il mestiere, sono come i turisti che venivano qui una volta, sono un buon affare, perché no?». 
 
Chiedono solo una cosa 
«Quanto a questa gente, chiedono una cosa sola, andare, arrivare là. Schifo di un deserto, ne ho piena la testa, ne ho pieno lo stomaco. Soprattutto adesso che non posso più portare nessuno, finito chiuso, basta milioni di franchi Cfa, quel bel denaro sudicio che ha valore solo qua. Milionario ero, nemmeno tu lo sei, un milione di franchi dieci milioni di franchi, hop hop finito! Il mio bel pick-up, hop svanito, sai dov’è? Quando non era carico di persone, lo nascondevo con le frasche dell’ethel, che quando il vento ci passa dentro sprigiona una musica strana, venticinque migranti ci mettevo dentro, ventisette al massimo perché viaggiassero comodi e ci rimettevo un bel po’ di soldi, gli altri, i libici, i toubus, li schiacciano come pietre, i migranti, donne bambini uomini giù, stringetevi letame, anche dentro la doppia cabina, otto ne fanno stare e qualcuno lo hanno trovato soffocato, non se ne erano accorti, i migranti scemi stanno zitti, hanno paura che li facciano scendere tutti».

Il divieto è in vigore 
«Allora il mio bel pick-up sta nel cortile della polizia, da tre mesi, vicino all’aeroporto: decine e decine ce ne sono, tutti sequestrati. Non c’è un deposito così pieno in tutto il Niger, da farci i milioni e prima o poi questi merdosi poliziotti ci penseranno! Sequestrati, a noi passeur, da quando il divieto di portare migranti è cominciato e tutto qua ad Agadez è andato all’aria, ha cominciato a morire. È due mesi che non faccio niente, consumo i soldi che avevo da parte. È ormai tempo che mi dedichi al mio problema, chi non ce l’ha un problema, uno o più di uno forse, anche tu: campi bene, guadagni, ti sfianchi e un giorno il problema principale invade il centro della tua vita, caccia tutti gli altri, ti accompagna come un’ombra e ti fa scoppiare la testa. Ti sta addosso anche quando ti svegli di notte, ti salta addosso come un animale, non è la malattia, il mal di testa, qualcosa che puoi scacciare con un gris gris, no è peggio». 

L’ha deciso un tizio 
«E tutto perché da qualche parte in Europa un tizio che non ha mai visto Agadez, non sa chi sono io, decide che gli fa comodo che i migranti invece di andare in Libia e da lui restino qui e magari tornino indietro, quattro chiacchiere e così la polizia comincia a rastrellare i migranti e ci dà la caccia, ci mette in galera e ci resti degli anni, come se avessi ucciso qualcuno. I migranti sono sempre lì, dici. Dannazione, dove vuoi che siano? Sbarcano dai bus che arrivano da Niamey, come una volta, di più. Solo che una volta li andavi a prendere all’ultima fermata prima che entrassero in città e via, una quarantina di chilometri a piedi nel deserto tanto per non fare le cose proprio allo scoperto, non ti inseguiva nessuno». 

Il ciccione in divisa 
«Vedi quel ciccione in divisa che sembra un generale già mezzo ubriaco di birra, quella puttana gli gira intorno ancheggiando come una mosca attorno alla zuccheriera. È un capo della polizia, una volta gli portavamo i soldini e lui era contento, gli passavamo davanti con i pick-up pieni e lui: niente, era un reato anche allora, ma che c’è di male? Chi se ne frega di questi fottuti negri. Lascia che vadano dove vogliono andare. Adesso ci dà la caccia come se fosse lo scopo della sua vita. Mi è andata bene ad aver rinunciato, mi conosce ma sa che sono fermo, ha il mio pick-up e non mi arresta». 

 Al centro di raccolta 
«Anche i migranti adesso hanno capito l’aria che tira, molti vanno volontariamente al centro di raccolta, non c’è più nessuno che li accoglie per partire, quelli sanno tutto, addio Libia almeno per ora, almeno non crepano di fame, li tengono un po’ lì, gli danno trenta euro e li riportano a Niamey e al loro paese: tre mesi e son di nuovo qua. È colpa mia se hanno l’Europa in testa come se fuori di lì, dalla vostra merda non potessero respirare, in Europa c’è la felicità figurati. Qualcuno ancora ci prova nonostante il rischio e la galera verso l’Algeria? No! Lì sei morto, ti tirano addosso con gli elicotteri quei fuori di testa e se ti prendono ti ammazzano nel deserto. Adesso bisogna andare a Sud-Est come se ti allontanassi dalla Libia verso Zinder, poi si torna indietro e si sale verso il Ténéré. Tremila chilometri di confine, ci sono molti passaggi e nessun soldato. Allora noi siamo gli sciacalli che si nutrono di quei poveretti di migranti. Lo sai come giocavo io da bambino? Giocavo con le biglie fatte di sterco di cammello, se portavi il turbante ti prendevano a calci, te lo toglievano a bastonate. Forse dovrei essere io per primo a scappare di qua, a cercare un passaggio verso l’Europa».

 Perché sono passeur 
«Sai come sono diventato passeur? Te lo dico. Così capisci, c’era il turismo fino al 2006, europei senza tanti soldi ma bastavano, gli uomini blu, il silenzio del deserto, queste scemate. Girava denaro, vendevamo robaccia, monili gioielli finti, ci mettevamo in costume e quelli erano contenti. Poi è finito con la rivolta e la guerra, ero diventato così povero che non avevo quasi da mangiare, vivevo in una baracca accanto a un postaccio dove venivano a ubriacarsi i libici che portavano i migranti, furbi loro, li vedevo dalla mia stamberga, questa gentaglia, cattivi feroci bevevano birra a litri con le loro puttane, poi venivano a pisciare contro la mia casa, anche le donne tiravano su le sottane e pisciavano. Un puzzo che non potevo respirare, ma non potevo dire niente, quelli tagliano la gola. Un giorno ho detto: basta! voglio diventare come loro, ricco, bere birra». 

L’odore dei soldi 
«Ho affittato a credito un vecchio pick-up e ho cominciato. Dopo un po’ ho buttato giù la catapecchia e ho costruito una casa, una casa vera con un bel muro alto. Il 2011: quello è stato un grande anno, c’era la guerra in Libia migranti a migliaia, il confine aperto. Avevo quattro pick-up e un socio libico. Il lavoro non era mica facile. Tremila chilometri nel deserto in tre giorni, senza quasi fermarsi perché altrimenti l’acqua finisce e crepi anche tu. Certo sopravvivere nel deserto è come dominare il proprio destino, ma se muori? Una volta nel 2014 ho sbagliato pista, succede anche se hai il Gps e sono finito in Ciad con 27 migranti. Una pattuglia ciadiana ci ha preso tutto, soldi viveri, telefoni, ci ha riportato al di qua della frontiera con i mitra nella schiena ghignando. Non avevamo denaro, niente, ci hanno salvato dopo due giorni amici arrivati da Agadez. Sai i migranti, li osservo, li ascolto, sono ciò che mi fa vivere, li devo conoscere per non avere sorprese, hanno tutti lo stesso sguardo ho capito che quello che li muove è la paura, pensare fa loro paura, parlare gli fa paura, le parole gli fanno paura, la leggi sui loro volti. È per questo che non si ribellano, non ho mai sentito di migranti che hanno assalito il passeur, in fondo non è difficile, sono più numerosi nel deserto, ma hanno paura. 

«Una volta uno grosso si è ribellato, c’erano anche le donne e bambini sul pick-up, lui si dava arie, non avevano da bere voleva da bere. Il passeur che era con me ha cominciato a colpirlo con una sbarra di ferro: le arcate spaccate, non poteva più aprire gli occhi, sgocciolava sangue da tutta la faccia e quello colpiva, l’ha lasciato per terra, la testa fracassata e la sua donna lo baciava tutto, il sangue, la faccia spaccata le tempie, gli leccava il sangue, così teneramente ed era morto. Dovevano arrivare dall’Europa molti soldi qui ad Agadez dall’Europa, dicono 150 milioni di franchi Cfa, per creare altro lavoro per noi al posto dei migranti, progetti, cose grosse, sviluppo dicono i politicanti. Beh! il solito bordello, la solita porcheria che c’è in Niger. I soldi li hanno già rubati altri, qui arrivano le briciole e non bastano per vivere. Al posto dei migranti non c’è niente. Allora ti dico: aspetto ancora un po’, affitto un pick-up e riparto».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/07/esteri/ad-agadez-con-un-trafficante-di-migranti-vendevo-uomini-e-destini-per-fare-soldi-Q8sAgTLKkzNJl1j9M1y9gM/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Sulle tracce dei jihadisti del deserto: “L’America non ci...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2017, 05:55:07 pm
Sulle tracce dei jihadisti del deserto: “L’America non ci sconfiggerà mai”
Quattro soldati Usa uccisi in un assalto in Niger. Un miliziano: inutili i vostri droni

REUTERS

L’ultima evoluzione della Jihad saheliana è la guerra santa che contagia i pastori peul.
Sono reclute perfette che si muovono con le loro mandrie spinte dalla miseria
Pubblicato il 10/10/2017

DOMENICO QUIRICO
AGADEZ (NIGER)

Il viaggio è stato breve, ma avventuroso. Eppure siamo alla periferia di Agadez. Il pomeriggio si trascina greve in una quiete immensa sotto il peso schiacciante del sole. Case di fango cotto già in rovina, i muri cadono ogni giorno sotto i colpi del vento. Inesorabilmente Agadez torna alla terra, muore in un enorme tappeto di terra bruna che scompare in un orizzonte sbavato di sabbia e di polvere: l’Hair.

Sono venuto a cercare qui la cosa più pericolosa nel Sahel di oggi: informazioni. Quattro Berretti verdi americani sono stati da poco uccisi in un’imboscata jihadista al confine con il Mali. Un piccolo episodio, in fondo, della nuova, semiclandestina guerra africana del Pentagono avviata da Obama: eppure è come se quella sanguinosa e rapida mischia nel deserto emettesse un segnale, per rivelarci che l’islamismo del Sahel, che minimizziamo a poche unità assediate in invivibili montagne, in realtà è ferocemente vivo e vitale. E prepara sanguinose sorprese e nuovi fronti. 
 
LA GUERRA SILENZIOSA 
Gli americani sono qui, nella grande base costruita accanto all’aeroporto, 800 uomini con aerei, droni, veicoli per il deserto. Pattugliano dal cielo e da terra, il braccio più forte del Comando Africa. Sono ovunque, solo in città non li vedi mai. Una guerra silenziosa, strana, senza eroi, senza bollettini. Forse perché in anni di attività il bilancio è fallimentare: nonostante i mezzi dispiegati, le tecnologie, i corpi speciali, gli alleati africani, la jihad del deserto non è stata sconfitta. 
 
L’uomo che mi ha portato qui tra mille precauzioni non ha dubbi: «I toubus sanno tutto, non succede nulla nel deserto tra qui il Mali, l’Algeria e la Libia che non passi sotto il loro controllo: sigarette, droga, armi, medicine false, migranti. Non si mescolano ad al Qaeda e all’Isis, ma controllano la maggior parte del contrabbando nell’Est del Sahara, attività in cui anche gli islamisti sono molti implicati. Se vuoi andare nel deserto conoscono tutte le piste e se non sono aperte passano per le dune. Abdellah è un uomo che sa, un capo, ma è difficile da trovare perché è sempre in movimento nel deserto».
 
Aspettiamo sotto il sole. Piccoli esseri simili a lucertole dalle dita a cuscinetto e dagli occhi sporgenti che chiamano gechi, corrono sulle pareti e fanno balzi a caccia di insetti. Nel silenzio si sente il loro chioccio gutturale. Nella via di fronte tre vecchi, eleganti come re, stanno accoccolati in silenzio su basse sdraio di legno con le mani penzoloni tra i ginocchi, gli occhi fissi su qualcosa davanti a loro: occhi grandi e infossati, la cornea chiara, le pupille aguzze e piccole, come se tutta la vita che resta loro fosse concentrata lì. Aspettavo il toubus che sa tutto di al Qaeda e pensavo tra me e me: questo è il Sahel, questo nome è pieno di milioni di uomini, di rassegnata disperazione, di vite legate e affollate, soffocanti come l’immobile calura senza aria che prende alla gola. 
 
IL PREDICATORE 
Un vecchio fuoristrada è fermo all’angolo, dentro tre uomini immobili nei loro turbanti: dal motore l’olio sgocciola nero e denso sulla sabbia chiara come sangue da una ferita. Abdellah ha una cicatrice in volto e una luce tagliente negli occhi. Il suo modo di parlare è provocante ed esplosivo, mezzo irritabile e mezzo affettuoso. «Vuoi sapere se la jihad nel Sahelistan è ancora forte?». Estrae il cellulare, preme dei tasti. Nella stanza irrompe una voce che urla in una lingua sconosciuta, c’è rabbia odio in quella voce, e una forza selvaggia che è al di là della comprensione delle parole. «Questa è una predica di Hamadoun Koufa, il nome non ti dice niente. I militari francesi e americani erano certi che fosse morto. Invece. È un uomo di Dio, un predicatore e un capo della Jihad, di un nuovo Jihad. La lingua in cui parla è peul, lui è un peul. I suoi appelli alla guerra santa sono registrati sui cellulari di mezza africa. Perché i peul sono nomadi, 30 milioni che vivono in tutti i Paesi del Sahel e giù fino alla Costa d’Avorio, alla Nigeria, alla Guinea Bissau. Sono un popolo antico e guerriero come tutti i nomadi, un secolo fa fondarono un grande impero che si chiamava l’impero del Macina. Sai come ha battezzato il suo esercito di guerriglieri Koufa il predicatore? La katiba Macina. Ha fatto diventare il centro del Mali una regione fuori controllo, ora esporta la Jihad anche in Burkina Faso che finora era un Paese tranquillo».
 
LA RABBIA E LA SICCITÀ 
Abdellah mi racconta l’ultima metastasi della Jihad saheliana, la guerra santa che contagia i pastori peul. Reclute perfette che si muovono con le loro mandrie attraverso le frontiere dal Centrafrica al Sahel. Le ragioni della loro rabbia sono le stesse che hanno reso i tuareg dei salafiti: la miseria. Braccati dalla siccità che uccide il bestiame, dall’espandersi delle terre agricole che soffocano la transumanza, bevono i proclami alla rivolta di Koufa che si scaglia contro i privilegi delle famiglie dei marabutti e i peul detti di città, ricchi che derubano i confratelli.
Un rumore di fuoristrada si avvicina alla casa. L’uomo tace fino a quando non è ben certo che si allontani. «Voi commettete tutti lo stesso errore: collegate questi uomini solo ad al Qaeda, all’integralismo. In realtà questa gente si preoccupa di una sola cosa: i traffici nel deserto! Usano degli slogan per reclutare uomini, il nazionalismo tuareg o l’islam e il salafismo, ma alla fine tutti lavorano per il denaro. Per questo non li sconfiggerete: sono l’economia del Sahel! Una buona idea era arruolare la gente del deserto come soldati al vostro servizio. Sembrava funzionasse. Attirati dal denaro si sono moltiplicati i gruppi di autodifesa, le bande dei patrioti tutti pronti a morire contro gli jihadisti! I soldi sono finiti e le armi sono servite per regolare i conti tra le tribù».
 
LA GUERRA CHE NON SI VINCE 
Forse anche per gli americani, come per i francesi questa è una guerra che non si può vincere. Perché è una guerra contro lo spazio infinito dove i droni e gli uomini anche ben addestrati diventano nulla. Le montagne dell’Adrar des Ifoghas o dell’Hair; o il deserto vicino al confine tra Niger e Mali, a Tillabery, dove sono caduti gli americani: conosco quei luoghi, superfici morte, insensibili e morte più di un pianeta disabitato. Si marcia su una crosta dura, nemica, che non assorbe neppure i sassi che il sole fa schiantare e frantuma come se internamente esplodessero. Qui esistono luoghi come quello che i contrabbandieri chiamano Bouahaira, il lago, un centinaio di chilometri a Nord Ovest di Arlit. Non c’è in realtà una sola goccia d’acqua in questo deserto feroce, solo un’immensa distesa di sabbia accerchiata da montagne. La sua forma e il colore sotto la luce della Luna danno talora l’effetto di una distesa di acqua. Qui si riuniscono, indisturbate, le carovane dei contrabbandieri prima di iniziare la traversata del Sahara. E i convogli di Mokhtar Belmokthar, il Guercio, il capo dell’Aqmi. Qui scopri che la terra può non essere paesaggio e mostrarsi in una fase anteriore alla vita, in quanto la sua materia, sassi e sabbia, non conta come materia e supporto della vita. Qui solo gli uomini del deserto possono vivere e sconfiggere la Jihad: ma noi, con i nostri errori, li abbiamo spinti alla guerra santa. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/10/esteri/sulle-tracce-dei-jihadisti-del-deserto-lamerica-non-ci-sconfigger-mai-nY4gJgKbU7Rmf7soBDCEXJ/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - Aleppo, dove Dio è stato smascherato
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2017, 11:55:28 am
Aleppo, dove Dio è stato smascherato
Una città stregata, inaridita, dove la morte ha risparmiato solo le pietre.

Dal nuovo libro di Domenico Quirico
Pubblicato il 20/10/2017

Domenico Quirico

Si intitola Succede ad Aleppo ed è pubblicato da Laterza (pp. 131, € 15) il nuovo libro di Domenico Quirico, l’inviato della Stampa che ha raccontato le tragedie dell’Africa e del mondo arabo negli ultimi vent’anni. Ne anticipiamo l’epilogo. 
***

Agosto 2016: l’ultimo sussulto di Aleppo rivoluzionaria, per un attimo i ribelli spezzano l’assedio governativo ai quartieri orientali, collegano con una offensiva disperata Soukkari con Ramoussa: «È uno degli avvenimenti più importanti della rivoluzione da cinque anni e mezzo», proclama, troppo ottimista, il capo dell’opposizione politica in esilio. Poi leggi i nomi delle brigate che hanno condotto l’offensiva, sono di Fatah al-Sham, islamisti, il nuovo nome con cui al-Qaeda siriana si è mimetizzata per sfuggire ai sospetti occidentali. O di Ahrar al-Sham, brigate salafite pagate e armate dall’Arabia Saudita, il cui scopo è la sharia, il califfato. Diecimila uomini, la cui forza non è tanto nel numero ma nei metodi feroci di combattimento, con le autobombe e i kamikaze che sostituiscono l’artiglieria.

Un mese dopo: con l’aiuto degli aerei e degli specialisti russi e iraniani inizia l’attacco finale di Bashar per riprendersi la «sua» città. Nei quartieri orientali mancano i viveri, le medicine, a dicembre il territorio controllato dai ribelli si riduce a pochi chilometri quadrati che l’artiglieria serchia spietatamente, metro per metro. Il 22 dicembre, in cambio della fine dell’assedio di Foua e Kefraya, due città governative assediate a loro volta dai ribelli, i combattenti lasciano Aleppo con le loro famiglie per raggiungere la zona di Idlib, ancora sotto il controllo degli islamisti.

LA MIA STORIA SIRIANA FINITA 
Non sono più tornato ad Aleppo «liberata». Il mio sguardo non vi afferrerebbe più nulla. Città stregata, inaridita. Vi è passato un raggio della morte che ha risparmiato solo le pietre. La mia storia siriana è finita con lei, con la sua epopea.

Non è una scelta politica, è una vicenda personale. Mai più vi conoscerò l’intensità e il calore delle avventure che hanno segnato questa fase della mia vita. Dopo Aleppo non ho più paura di niente. La paura semplicemente non mi interessa più.

Com’è oggi Aleppo, dopo la conclusione della battaglia? È una città come tante altre città siriane, ma non come le altre. Rassegnata, gli spari sono un rumore lontano; ora si combatte a Idlib e nei villaggi dei dintorni. La si crederebbe pietrificata nel proprio oblio. Cerca di dimenticare il suo passato, ma ne subisce l’implacabile influenza. Condannata a vivere fuori dal tempo della Storia nuova, non respira che nella memoria di coloro che vi sono morti o l’hanno lasciata.

Questa città che è stata mia, intimamente, da un anno almeno non lo è più. La sua riconquista non mi appartiene perché non me l’hanno lasciata vivere. Eppure ne avevo, in fondo, il diritto. L’ho letta, la pagina finale, nel racconto di altri e mi è parsa mediocre cronaca: quando meritava comunque l’epopea. Nessuno con il mestiere può inventarsi o fingere la commozione. Per fortuna. La condanna alla mediocrità è quello che ci salva. Forse mento, è soltanto invidia perché non mi hanno più chiesto di andare.

Secondo quanto mi racconta chi ci vive, che è l’unico testimone attendibile, non è cambiata. Quasi per nulla. Ha ritrovato le sue rovine basse, grigie. Paiono già vecchie di cento anni. I suoi pochi quartieri a ovest rimasti quasi intatti. Il mormorio soffocato dei piccoli mercati. Il risuonare dei passi sui selciato. Perfino i rumori del traffico. La moschea distrutta è sempre lì, sembra attendere qualcuno che non verrà più.

SENZA DESTINO 
Aleppo non ha più diritto al suo nome, al suo volto. È una città senza destino. Perché Aleppo è il luogo dove tutto è cominciato, dove il terzo millennio appena nato ha perso subito la sua innocenza e Dio è stato smascherato. In questo 2016 bisogna constatare che la forza bruta, malgrado il progresso e la mondializzazione, malgrado tutti i discorsi sul diritto internazionale e la nuova diplomazia, e i tanti trattati per contenere le guerre, può esercitarsi e prevalere senza ostacolo come ai tempi di Attila e di Hitler.

Tornarci ora, ne sono consapevole, sarebbe stato un altro viaggio senza gioia e senza angoscia. Avrebbe di nuovo diviso la mia vita in un dopo e in un prima. Eppure non lo nego, la città ancora mi affascina, mi attrae. E mi spaventa. Voglio nello stesso tempo e con la stessa intensità toccarla e sfuggirle. In fondo le nuvole delle esplosioni, le urla disperate nella notte, i bambini straziati e condotti al macello potrebbero anche sfumare e potrei ritrovare la città che ho solo letto e mai conosciuto, con la sua cittadella intatta, il suk prezioso e infervorato, i caffè che profumano di legno e di cose buone, gli intellettuali raffinati e gli abitanti gentili... Basta. Non ho più voglia di affrontarli. Anche perché probabilmente questa volta non ci sarebbe più un prima.

LA CERTEZZA DEL MALE 
Non so in fondo che cosa mi avrebbe atteso laggiù, la desolazione che ben conoscevo della rovina o la necessaria bestemmia di una città rimessa in piedi in qualche modo. Il modo approssimativo con cui ricostruiscono i poveri. Quello di cui sono certo è che avrei camminato per le strade finalmente senza cecchini bombe e fumo, solo e senza una meta, soprattutto senza incontrare qualcuno da riconoscere, uno sguardo amico. E sarei impazzito di solitudine.

Non si rimuovono le tombe senza pagare un prezzo. Il prezzo è sempre la certezza del Male. Sì, non so se è stata una decisione giusta, non tornare. Quelli che avrebbero potuto consigliarmi a prendere una giusta decisione non li ho più ritrovati. Sono morti. O non sono più ritornati.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/20/cultura/aleppo-dove-dio-stato-smascherato-u3dhWbJlPGBq6XTIWmfBJO/pagina.html


Titolo: DOMENICO QUIRICO - I mille volti del Paese negli scatti di Shah, testimone ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 01, 2018, 12:04:09 pm
I mille volti del Paese negli scatti di Shah, testimone della Storia

A guardare la finale del torneo di pallavolo femminile nell'università di Kabul, 1 dicembre 2016

Pubblicato il 01/05/2018 - Ultima modifica il 01/05/2018 alle ore 08:19

DOMENICO QUIRICO

La fotografia è ricordo. E il vero ricordo non è diaristico, non è pettegolezzo della memoria. E’ piuttosto un mistero per cui un luogo, un avvenimento storico, una persona, un dolore perdurano in quell’immagine in noi incorrotti come verità oggettive. Non li ricordiamo, essi sono. Il Vietnam sarà, per sempre, la bambina di My Lai che corre verso di noi, sì noi, portando nel corpo nudo e vilipeso lo scandalo americano del napalm. Abbiamo, grazie a quell’infinito istante, il suo sguardo.

Il nostro animo è un asilo di persone e di cose che vivono indipendenti, con la loro realtà ineffabile, e che perciò, come gli esseri veri, restano misteriose. Grazie alla fotografia ne siamo responsabili e il ricordo è un dovere. Per questo l’Afghanistan, la sua tragedia infinita in cui hanno scaramucciato mille eserciti e mille bande fanatiche, la sua storia resterà tra venti, tra cento anni negli scatti di Shah Marai, reporter della «France presse» morto ieri negli attentati di Kabul: è lì palpabile, vivo, nei suoi Buddha ciclopici e straziati di Bamiyan, i suoi taleban sul carro armato, le sue donne fasciate di chador e di luce azzurra, azzurra come il fondo del mare, ma stretta come un cilicio. Soltanto fotografie, eppure meravigliosamente sonore. 

Scattate da un uomo che sembra parlarci di un avvenimento doloroso della sua famiglia, non per cercare la nostra pietà, ma per espandere la sua. Un giorno gli storici tesseranno su quegli anni le fibre complicate di un racconto esprimibile e chiaro. Ma senza quelle immagini nulla capiremo. Basterà evocarle, anche solo una, e tutto ci sarà chiaro come sofferenza sangue dolore Storia. Shah Marai: un testimone. Che vive sul filo del rasoio nell’abnegazione di ogni istante; e noi, grazie a lui, in quel luogo del mondo, esplodiamo nel Tempo che si frantuma in mille volti, in mille frammenti di esistenza. 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/01/esteri/i-mille-volti-del-paese-negli-scatti-di-shah-testimone-della-storia-CTjE9SwYDCscFwYkg6XjEL/pagina.html