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Autore Discussione: DOMENICO QUIRICO -  (Letto 32640 volte)
Arlecchino
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 04, 2015, 06:31:16 pm »

“Nei luoghi della mia prigionia tutto è in rovina, anche il dolore”
Domenico Quirico ripercorre le tappe dei cinque mesi ostaggio degli islamisti.
L’incontro con padre George: «I ricordi non si devono rivivere, sono spazzatura»
Duma, città a meno di dieci chilometri da Damasco aveva 110mila abitanti prima dell’inizio della guerra civile. Da 4 anni è un campo di battaglia dove si scontrano l’esercito di Assad e i ribelli. Una situazione che l’Isis ha sfruttato per infiltrarsi in diversi quartieri


01/12/2015
Domenico Quirico
Inviato a YABRUD

Due anni dopo il sequestro e i 152 giorni prigioniero dei suoi carcerieri, Domenico Quirico è tornato in Siria, a Damasco. Questa è la seconda tappa del suo reportage. 

Un pallido ineguale mondo disseccato mi accompagna verso Yabrud, dove sono stato prigioniero degli islamisti siriani. Un mondo pallido di siccità, inumano: come avanzare sul letto di un mare immenso seccato da incalcolabili età e ora più arido di ogni altro deserto; eppure che ancora ricorda il fondo del mare con le sue colline e i suoi picchi e le sue piatte pianure tutte fratturate come di fango secco. 

Chiudo gli occhi e penso: eppure devi scoprire che razza di ferita è la tua due anni dopo e se ritrovi la tua vecchia prigione. 

Ma tutto ciò, ora che sto per arrivare, mi sembra freddo e indifferente come se mi avessero portato attraverso il museo di una città morta, attraverso un mondo che mi è non meno estraneo che indifferente; benché i miei occhi lo riconoscano, i miei occhi soltanto. Sfioriamo Tal, città di cinquantamila abitanti, le case della periferia sfumano sulla grande strada verso Nord, verso Aleppo. Ad Aleppo dove c’è la postazione dei militari: «Per metà è in mano agli islamisti, e a destra in lontananza vedi quei fumi alti? Bombardamenti! Quella è Duma, Isis è anche lì...».

PRIMA TAPPA “Io per le strade di Damasco due anni dopo il rapimento” 
 LA STESSA SALITA 

Chi mi accompagna racconta la vicinanza di questa guerra con voce suadente, come un confessore accorato e stanco quando attinge dal suo ministero la pazienza che l’aiuti a ripetere inattuabili ammonimenti. Come se un malefico astro avesse crocefisso questa gente alla infelicità. 

Inizia la salita per Yabrud, quando ho percorso questa strada sul cassone di un pick up, prigioniero, era fine maggio, i ciliegi erano gonfi di frutti. Quando partii l’estate aveva bruciato tutto e ancora molti mesi mi attendevano. Le cose, come tutto ciò che ormai giace salvo nel mosaico di ciò che è accaduto, non mancano dunque all’appuntamento, si danno a me nella lealtà di ciò che non può esser altro da ciò che è stato. E chiedono solo di venir riconosciute, oscuramente, come ansiose di placarsi nella coincidenza della memoria con cui io le sto ricercando.

Foto: soldati di Damasco pattugliano Yabrud. La città è stata per tre anni una delle roccaforti dei ribelli anti Assad, prima di tornare sotto il controllo del regime nel marzo 2014 

AMARE SENZA PERDONARE 
Le porte della città, ingenua, una cerniera, un grande respiro prima di liberare tutto in uno sforzo delirante. Yabrud sembra intatta, è incredibilmente intatta. Bancarelle di frutta, grassa e brillante, imperlata d’acqua. La piazza con un goffo monumento - mappamondo tenero e commovente, i palazzi gialli, le cupole delle moschee, donne per la strada, i gatti. Una bellezza che dà il gusto della povertà. I miei passi ritmano i ricordi. È quasi inutile chiedere: so dove trovare la chiesa, la splendida cattedrale di Costantino ed Elena dove, allora, incontrai padre George. 

Adesso il dolore c’è. Vorrei che svanisse al più presto e sparisse anche il ricordo. Ecco il lungo muro bianco, le possenti pietre del tempio romano con le iniziali di Caligola che i cristiani, furenti, trasformarono in basilica. Eternità dei fanatismi… Qui sentivo insieme dalla mia cella le campane della chiesa e gli appelli del muezzin. Non so verso cosa inclinare, amo tutto questo con rimpianto, amo con ferocia e non perdono alla Siria di avermi costretto a dei sentimenti fra i quali non mi è consentito scegliere. Se almeno potessi starmene indifferente a guardare le sue piaghe!

LA MADONNA E HEZBOLLAH 
Padre George esce dalla canonica e mi abbraccia: «Hai solo meno capelli di allora...». Sento tra le mie braccia quel fragile busto, il respiro breve che sale a sfiorargli la barba. Sentire il suo racconto annegare nel suo volto appassionato di prete e questo è il miracolo senza passioni, senza più orgasmo di agguati del tempo. «Quando tu eri qui ostaggio, comandavano i banditi qui, di Yabrud, pagavi e ti lasciavano vivere. Poi sono arrivati quelli dell’Isis. Mi ha detto uno, dammi duecentomila dollari o ti uccido, prete! Gli ho risposto che con quel denaro si potevano far studiare almeno cento preti. Poi un giorno ho nascosto le icone più preziose della chiesa nel baule dell’auto e sono fuggito a Damasco. Quarantacinque giorni sono rimasto con gli stessi vestiti. Gli Hezbollah hanno liberato la città, gli altri sono fuggiti senza distruggere nulla. La madonna e Hezbollah hanno fatto il miracolo».

Entro nella chiesa: i volti dei santi e degli angeli rimasti sono tanto celesti da far credere che il giorno abbia anch’esso oltrepassato la soglia e sia venuto a porre all’ombra il suo cielo puro. In una cappella una riproduzione della madonna di Raffaello donata a questa chiesa nell’ottocento da Francesco Giuseppe: nello sguardo convergono tutte le possibilità di disperazione e di amore. Padre George mi porta a visitare la chiesa nuova, frenetico percorre le distruzioni: le immagini sacre decapitate, gli occhi delle icone distrutti a colpi di mitra, tutte le croci e l’altare spezzati con metodo. Sulla porta della chiesa i soldati di Hezbollah hanno scritto: cristiani e musulmani insieme per sempre. 

LA «STANZA» 
Ora bisogna salire verso la parte alta della città. L’odore di sesamo è più forte delle immondizie. Mi orizzonto con il minareto, ecco, una casa sbrecciata dalle bombe, vuota, ma ancora intatta all’interno. Vicino alla finestra la stanza. Quel luogo mi è estraneo come un luogo in cui si è appena giunti, che ancora non ti conosce o che ti ha dimenticato. Non posso più dirgli nulla di me, non posso lasciare che una parte di me vi si appoggi. È inutile che cerchi di riallacciare il mio pensiero a quell’edificio in rovina. Spogliato e dissolto nei suoi volgari elementi materiali quel luogo mediocre mi pare lontano. Scende il buio su Yabrud, bisogna partire perché di notte è pericolosa la strada, e le bande islamiste scendono dalle colline. Ha ragione padre George: «I ricordi non sono fatti per essere rivissuti, ma per gettarli via, nella spazzatura».

IL RIENTRO A DAMASCO 
Torno a Damasco. Intorno al nucleo centrale della città, i palazzi del potere e della sicurezza, i quartieri eleganti o antichi, con cerchi concentrici si allargano circonvallazioni sempre più vaste, segnano fasci di destino e di anime. Il primo cerchio inizia proprio su un lato di piazza degli Abbasidi dove le spose per tradizione vengono portate su auto scoperte a fare un passaggio di buon augurio.

Il quartiere di Jobar, un posto come tanti che ho conosciuto qui in Siria dove si ascolta il rumore che risuona quando cade una bomba ad alto potenziale, un vento pieno di morte e il rumore del dolore fisico. Prospettive immense rotte e terribili di un quartiere inghiottito dalla guerra. Le costruzioni nuove, le costruzioni vecchie e decrepite che si accavallano come scoscese montagne sulla pianura. Un groviglio geologico a seracchi, sezionato dalla battaglia, da cui sfilano in alto le torri più alte. Qui la città è davvero grandiosa e terribile, premeditata e improvvisata dalla violenza dell’uomo. Mondo grande, lunare, tutto è chiuso in se stesso. Come una maledizione: la sofferenza per aver la fortuna di avvicinarsi alle sorgenti stesse della vita, alle sue palpitazioni, ai suoi misteri. Perché la vita non si svela che ad occhi iniettati di sangue?

MAPPA - I LUOGHI DELLA PRIGIONIA 
LA GUERRA DELLE FORMICHE 

Il generale Amer, cristiano, mi racconta la sua guerra di talpe, di formiche. I combattenti islamisti hanno costruito una rete di tunnel, una città sotterranea che vive sotto l’altra. Si combatte a colpi di gallerie contrapposte, di mine che fanno crollare edifici interi dove si appostano i cecchini, con la fame.

Mi sposto in un altro quartiere: Barzi, centomila abitanti, metà ancora in mano ai salafiti. Qui è iniziata la rivoluzione, c’erano un tempo islamisti, ma anche intellettuali. Un’aria sospesa, un silenzio composto di occulti ronzii l’avvolge e sale nel cielo. Qui incontri ancora nelle via asinelli e pecore, banchetti dove spremono in succhi di miele e freschezza i melograni; e qui trovi le ragazze come Sabrine, che per disperazione si vende per dieci dollari. È bellissima, ha occhi pallidi come se portassero lo stupore di una cecità dissigillata. «Mio marito è un combattente islamista, sono fuggita con i due bambini, ma devo mangiare. Lui è rimasto dall’altra parte del quartiere, forse a un chilometro da qui... Se è ancora vivo». In Siria: la morte di ogni giorno che ci fa immortali.

Davanti all’Empresso, al Majestic, locali alla moda, lunghe file di auto nuove, ragazzi sono seduti sui cofani, fumano, chiacchierano, ridono forte. Le ragazze sono in macchina, telefonano freneticamente. Perché non siete partiti? Rispondono con cauti discorsi da filosofi: «Quando devi morire puoi andare sulla luna e morirai lo stesso. Forse siano stati più fortunati o coraggiosi o pazzi dei nostri coetanei che sono partiti».

Il nunzio Monsignor Zenari mi mostra il biglietto che ha scelto per gli auguri di Natale: su un lato un’icona della chiesa di Yabrud, la fuga in Egitto; sull’altro una foto dei profughi siriani nel deserto. Un verso di Geremia dice: «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché non sono più». 

Volevo andare ad Al Qusayr dove la mia prigionia è cominciata. Rinuncio. Dello stato d’animo che in quei lontani cinque mesi furono solo una lunga tortura, non sopravvive nulla. Perché in questo mondo dove tutto si consuma, dove tutto perisce c’è una cosa che cade in rovina, che si distrugge ancor più rapidamente, lasciando ancor meno segni: ed è il Dolore.

Da - http://www.lastampa.it/2015/12/01/esteri/nei-luoghi-della-mia-prigionia-tutto-in-rovina-anche-il-dolore-nOuNA0DaZQw0eTkoYLb7ZN/pagina.html
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 25, 2016, 12:00:48 pm »

Le rivoluzioni chiedono il visto ai reporter

23/01/2016
Domenico Quirico

Che il mondo stia cambiando non solo di scorza ma anche di midollo più che le planetarie turpitudini del fanatismo califfale me lo illustra un dettaglio che attiene al minuto orizzonte giornalistico: ovvero anche le rivoluzioni, le ribellioni più o meno globali, in evi difficili come questi, hanno scoperto la burocrazia, la carta da bollo, soprattutto il visto sul passaporto e simili chiappolerie amministrative. Altro che guerre bastarde come le ha rampognate qualche fantasioso analista. 

Siamo di fronte a guerre che aspirano ad essere infaldonate. Con le carte in regola. Con tanto di addio alla globalizzazione: visto che così si serrano nientedimeno i confini che non esistono!

Laddove prima era sregolatezza e caos, l’eldorado dei free-lance disinvoltamente privi di tessere, attestati, certificati di assunzione e visti direttoriali, si intravede, mortuaria e mortifera, la silhouette della burocrazia avvilita ed ottusa, destinata a spegnersi nella impotenza e disutilità dei faciloni che impugnano un timbro. In qualche conventicola insurrezionale certo già si lavora al pestilenziale «badge», come per entrare alla Nato. Per chi vuole testimoniare è un inventario di strazi.

Dieci anni fa volevo raccontare la rivolta dei tuareg nei deserti saheliani e feci tappa in un alloggino alla Villette, a Parigi dove il sole, universale pastore, si era mai arrischiato. Un gruppo di uomini blu, che apparivano ben insabbiati nella capitale francese, si appisolavano al suono dell’imzad e dei loro sogni di piogge infinite. Nessuno chiese di firmar carte o di inviare mail. Per sgranocchiare l’appetitosa guerriglia saheliana mi diedero semplicemente appuntamento in un certo deserto pietroso del Sud dell’Algeria. L’incredibile fu che i loro pick-up si presentarono quasi puntuali. E pure lì niente passaporti foto-tessera attestati della congiunzione amministrativa a qualche setta giornalistica. Al massimo alcune avvertenze per evitare la curiosità pestifera di soldati e gendarmi algerini: A farti passare la frontiera provvediamo noi… siamo o non siamo ribelli?

Per entrare in Siria nella parte controllata dai rivoltosi, non ancora trasmutati in apostoli di un dio intrattabile, si attraversava semplicemente a piedi la frontiera turca: dopo la terra di nessuno c’erano loro. Nessuna domanda superflua, si sospirava la parola giornalista e tutto filava ad olio. I gabbiotti delle guardie di confine li avevano fatte saltare per non farsi venire tentazioni.

I ribelli banyamulenge in Congo li ho trovati lungo la pista, quasi per caso, seduti sotto un’acacia che giocavano con i machete come noi con l’ombrello.

Così scorreva disinvoltamente il mondo delle ribellioni nel secolo appena defunto. La maggior parte di quel formicolaio (con l’esclusione di qualche milizia che praticava la terribile ideologia del massacrare l’uomo per renderlo perfetto) non aspettava altro che l’occasione di raccontare e raccontarsi, di spiegare a un registratore o di trasformare in inchiostro chi erano, e di inargentare i loro progetti. In quel tempo in cui c’era minor etichetta e più cortesia la Rivoluzione era disposta svelarsi al nostro mondo «corrotto e perduto». Oggi il tempo dell’embedded è entrato nella seconda rifioritura, la versione rivoluzionaria, etnico tribale, mistico politica. I giornalisti o vengono uccisi o si cerca di limarli con infiniti impicci come regimi e governi. Le ribellioni non hanno più nulla da raccontarci. Ed è molto pericoloso.

Quando il terzomondismo stantuffava dall’Africa alla America Latina si uncinavano le guerriglie direttamente nella giungla; insurrezioni impazienti, pronte per aver l’eguaglianza a calpestare la fraternità, erano in nostra attesa in bettole fumose, come nei romanzi di Graham Green. 

Oggi anche il più scalcinato movimento vanta uffici di rappresentanza, legazioni, perfino «ambasciate». A cui bisogna fare la fila, metaforicamente su internet o più banalmente di persona. Occorre redigere formulari con domande complesse, nomi di ascendenti frequentazioni geografiche e politiche durata del soggiorno…! Entrare nei territori «liberati», nei «santuari» aggrappati a impervi dorsi montagnosi o perduti in inospitali deserti è diventato più lungo e complicato che entrare nel sospettoso regno del dittatore nordcoreano. Scavalcare frontiere infrante non è più problema logistico, trovare auto, guidatori spericolati e fedeli, evitare i regolari e i falsi rivoluzionari: è diventato un problema di silenzi, attese e pazienze.

Da - http://www.lastampa.it/2016/01/23/cultura/opinioni/editoriali/le-rivoluzioni-chiedono-il-visto-ai-reporter-OeceUbTlIkuame6Sja8gPL/pagina.html
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 04, 2016, 12:24:13 pm »

Sabratha, i due ostaggi italiani uccisi con un colpo alla nuca prima del blitz delle forze libiche
Fausto Piano e Salvatore Failla erano stati rapiti in luglio da miliziani vicini all’Isis.
Affidati a un altro gruppo gli altri due connazionali


04/03/2016
Domenico Quirico
Inviato a Sabratha

La vigilia è finita, la ebbrezza sanguinaria comincia. Il cannone tuona. La terra fuma. È vero? Incredibile sembra l’evento dopo tanta esitazione. Invece l’uccisione comincia, la distruzione comincia. È vero. Perché ci sono già due morti. Fausto Piano e Salvatore Failla, ostaggi di questa eruzione demoniaca, della metastasi libica del califfato, dipendenti della impresa Bonatti di Parma, rapiti nel luglio dello scorso anno. Da banditi si diceva più che da islamisti: ma dove inizia il confine che separa gli uni dagli altri? I banditi non diventano spesso combattenti di dio? 

Si può morire così, con una pallottola alla nuca, a Sabratha, l’esecuzione prima che gli assassini a loro volta venissero uccisi, a settanta chilometri da Tripoli, in una città di fastose rovine romane e di sanguinosi fanatismi.
I sanguinari piromani del Califfato universale sono arrivati anche qui. Una casa nel nulla, una prigione rifugio usata forse prima di un altro, ennesimo spostamento. Gli italiani usati - secondo quanto racconta un testimone – come «scudi umani», per coprire la fuga. Dentro la casa un pugno di armati non si sa esattamente quanti, una donna e un bambino. Sì, in mezzo alle cartucce, ai mitra, alle salmodianti preghiere e all’odio, una donna e un bambino, il jihad come fatica quotidiana, banale. 

Sono gli unici sopravvissuti alla battaglia tra una milizia fedele del governo di Tripoli e un gruppo di combattenti di Isis. Sarebbero tunisini: ancora il marchio della Tunisia, terra che qualcuno descrive giulivamente fuori pericolo, sollevata per miracolo dalla peste del fanatismo armato. Sabratha a 170 chilometri dal confine tunisino: lì c’è un campo di addestramento da cui sono partiti i responsabili degli attentati al Bardo e a Sousse.

Alla fine hanno contato nove morti e una donna che urla e un bambino ferito; ed è lei a raccontare di essere moglie di uno dei combattenti e che tra i cadaveri ci sarebbero anche degli stranieri: ostaggi italiani. In quattro erano stati rapiti nel 2015, altri due dipendenti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, della ditta italiana. Non sono lì, ha detto la donna, perché sono stati affidati a un altro gruppo in un altro luogo. A venderli sarebbe stato l’autista libico ora sotto interrogatorio. 

Mentre viaggio verso Misurata penso che il nulla esiste più di tutto ciò che esiste. E che non si minacciano le guerre se poi non si ha il coraggio di farle davvero. Che attendere i comodi dell’Onu, il girovagare di mediatori senza forza e l’interminabile arte del rinvio dei politicanti libici impegnati a spartirsi poltrone e rendite petrolifere, è più che un errore. La guerra non è qualcosa che si annuncia, che si dibatte, su cui si fanno circolare «voci»: la fai e basta, se pensi sia giusta e necessaria, attacca, spara, mettiti al riparo quando devi. Tutto qua. E poi recupera i morti. L’occidente non ha fatto la guerra e recupera già questi poveri morti. 

La faremo questa guerra, prima o poi, cinque anni dopo aver annientato il regime psicopatico di Gheddafi torneremo qui per riparare alle nostre colossali e colpevoli imprevidenze. Torneremo certo «per finire il lavoro», triste formula con cui copriamo la nostra passata incapacità. Torneremo, questa volta, non per smontare un tiranno (amico nostro), ma per un obbiettivo totalmente egocentrico: difendere i nostri interessi economici (la maledizione libica: avere le più grandi riserve di idrocarburi dell’Africa) e fermare i migranti in un altro possibile stato terrorista. 

Ma Piano e Failla, e i loro due compagni ancora scomparsi, in questo disegno che posto avevano? Qualcuno aveva pensato a loro, quando annunciava azioni di corpi speciali, raid di bombardieri e altre meraviglie belliche prossime e venture per sgretolare gli assassini di Dio? Ed erano solo annunci.

Li dimenticheremo in fretta i due lavoratori inghiottiti da una normale storia del nostro tempo, ovvero il restringersi del mondo che possiamo vivere e percorrere: sì, li dimenticheremo come abbiamo dimenticato il giovane cooperante Lo Porto, ammazzato dagli americani in Afghanistan «per errore», ucciso da coloro da cui attendeva in fondo al suo martirio la liberazione. Come abbiamo dimenticato Lamolinara, l’ingegnere ammazzato in Nigeria in un blitz tecnicamente imperfetto. 

Non è facile raggiungere Sabratha, eppure sarebbero solo settanta chilometri. Ma a Janzur, appena superato il vecchio aeroporto internazionale di Tripoli ora chiuso e distrutto, scontri tra le infinite milizie rivali hanno interrotto la strada: muri alzati con la sabbia e grandi trincee che hanno tranciato l’asfalto. Bisogna scendere a sud, allora, compiere una grande diversione nel deserto e poi riguadagnare la strada litoranea. Ma ad Al Azazyiah, quando pensi che il peggio è dietro di te e le milizie di Sabratha ostili a Isis hanno il controllo, il deserto è ancora più pericoloso: perché i gruppi jihadisti, costretti a lasciare le posizioni in città, si sono dispersi per render la maggior parte del territorio impraticabile. L’auto avanza e vedo alla mia destra rupi che precipitano verso il mare e le palme che sono più grigie che verdi e ogni tanto una certa erba verde e crudele, un’erba al sangue. Dopo tanti chilometri di sabbia, c’è qualcosa di miracoloso e ancor più meraviglioso perché a contatto con il deserto: il mare, che richiama con le onde infiniti pensieri. La Libia come la Siria e lo Yemen, il Paese delle maledizione e dei miti, le intatte solitudini, quella che un tempo era l’ultima verità concessa ai nostri sogni.

Penso a ciò che nessuna ricostruzione potrà mai colmare. Al vuoto dei sette mesi di prigionia dei poveri morti. Posso farlo, ne ho un poco il diritto. Conosco i sogni di liberazione che ti trascinano ininterrottamente, e ininterrottamente si spezzano come fili marci. E il tempo che non esiste, il giorno e la notte, le ore e i minuti che si confondono. L’attesa è una dimensione spaziale così come il tempo. 

Duadi, è il sindaco di Sabratha, come tutti gli arabi si muove e parla come se avesse nel petto una perenne tempesta. Racconta la dinamica dello scontro in cui hanno perso la vita gli italiani; e come sia difficile cacciarli via. Qualche giorno fa il governo a Tripoli con molto ottimismo aveva annunciato che il problema era risolto.

Qui come nel califfato della terra dei due fiumi il reclutamento delle milizie Isis è internazionale ma la sua anima è locale, radicata nelle mille contraddizioni di questo posto violento. Ancora la micidiale capacità del califfato di mescolare forze diverse. Sirte che era il feudo della tribù di Gheddafi, duramente bombardata dagli occidentali nel 2011, è stata poi malmenata dai successori del dittatore: come le tribù sunnite di Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Imitando gli ufficiali di Saddam molti pretoriani del Colonnello hanno raggiunto le file dell’Isis per cercare la rivincita. E nuovo potere. Così in Libia dove l’internazionale islamica progetta di creare una nuova provincia del califfato o di trasferirsi in caso di sconfitta in Medio Oriente, la generazione di Gheddafi ha fatto alleanza con quella di Saddam per combattere il jihad. Feroce malizia della storia: entrambi sono passati dall’anti-islamismo originario all’islamismo più radicale.

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/03/04/esteri/sabratha-i-due-ostaggi-italiani-uccisi-con-un-colpo-alla-nuca-prima-del-blitz-delle-forze-libiche-2V6auiY4JT0rBir2ElXieI/pagina.html   
   
   
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 06, 2016, 07:02:00 pm »

Così le milizie che guidano Sabratha hanno rotto con l’Isis e con Tripoli
Pochi mesi fa tra le rovine dei monumenti romani sfilavano i mezzi degli jihadisti ma dopo il bombardamento Usa di febbraio tutto è cambiato nei rapporti di forza


06/03/2016
Domenico Quirico
Inviato a TRIPOLI

Marzo è un mese misterioso. Il mese delle rivoluzioni, il mese delle guerre. Anche nella vita individuale, in questo mese, qualcosa si mette in moto, silenziosamente.

È così che lavorano le guerre e le rivoluzioni, silenziosamente, come la terra. 

A marzo la Libia si è rimessa in movimento. Dall’Italia arriva l’eco di sbarchi già (quasi) pronti e di risolutorie operazioni occidentali, si contano gli uomini e le navi… Come un ingranaggio, dente dopo dente, rotella dopo rotella, il caos libico comincia ricomporsi ad assestarsi su nuove faglie e a rovesciare sulla testa ciò che era in piedi.

Questa geografia delle alleanze tra gruppi armati è la vera politica di qui. Non quella delle trattative per assegnare ministeri che corrono tra i «governi» di Tobruk e di Tripoli e quello, un po’ pirandelliano personaggio senza persona, che appassisce e intristisce a Tunisi e negli alberghi di mille capitali «amiche», ma lontanissime. Cinque anni fa qui c’è stata una esplosione atomica, il nucleo si è frammentato in migliaia di parti. In perenne movimento e in perenne processo di accrescimento o diminuzione della massa critica. Ci sono processi che si possono vincere solo in seconda istanza. Le rivolte quasi sempre sono un processo di questo genere. In prima istanza viene annientata oppure diventa sé stessa. In seguito, nel periodo del purgatorio, ciò che ne costituiva il significato si depura. A volte occorre parecchio tempo. Qui cinque anni non sono bastati.

 Uno di questi frammenti è Sabratha, lo sfondo, il palcoscenico della tragedia degli ostaggi italiani. La Libia è cresciuta, su su, al nostro fianco dopo la caduta di Gheddafi, ed è come una certa parentela che c’è, che esiste anche se non ci si scrive da anni, anzi si fa finta di ignorarla, vergognandosene un po’, un antipatico segreto di famiglia. C’è, vive, prolifica e a un tratto bussa alla tua porta e ti dice: sono qua, con i migranti, il petrolio in pericolo, le turbe dei fanatici del califfato. È fatta: ora bisogna occuparsene. Così è arrivata per noi questa, a cosa disfatte, e non ne avevamo voglia. Ma neanche potevamo tirarci indietro: così ci lasciamo andare.

 
Andare a Sabratha, al di la dei pericoli, degli inciampi che la guerriglia delle bande ha sistemato sulla strada, è un pellegrinaggio in questa storia malinconica, ancora in atto e struggente per chi ha cura delle sorte e del dolore degli esseri umani. La campagna è bella, sudata di fatica come nel nostro Sud, ma la terra qui sembra degradare a sabbia anche quando non è ancora sabbia. La vegetazione in Libia è innaturale. La natura era, è il terreno brullo, piano, senza ombra; il resto è una sopraffazione meravigliosa dell’uomo. La vegetazione violenta il suolo che in realtà resta sempre calpestato da secoli, senza iniziative proprie, come una morte geologica. 

Così lo sguardo resta sempre al mare che si costeggia: denso, il mare, e innegabilmente un po’ torvo, con il suo azzurro intenso, ma senza trasparenza, e la balza dell’onda arriva verde, di uno strano verde opalino. Poco fuori dalla città, a un tratto, enorme, sproporzionato, inverosimile oggi, il teatro romano. E non sembra rovina, ma messo lì come un modello al vero, per mostrare quello che era ai tempi di Severo e Marco Aurelio. Fuori del vero e del falso, fuori della natura e della Storia. È un conflitto con il destino, oggi la rovina di Sabratha. La guerra ha azzannato questa città di forse centomila abitanti, non la lascia più. E la gente? La gente ha imparato ad essere come i bambini, persuasi che la notte non finirà più.

In mezzo ai monumenti qualche mese fa sono sfilate alcune decine di veicoli di Daesh (Isis), con le nere bandiere, le mimetiche alternate ai barracani, i volti coperti dai turbanti come elmi medioevali. Una trentina, che nei racconti fantasiosi, giornalistici e non, sono diventati centinaia. Una dimostrazione di potenza, la propaganda dei fatti in cui il califfato e i suoi vassalli sono maestri.

È passato pochissimo tempo e tutto è cambiato: le formazioni islamiste radicali sono state respinte fuori dalla città, e dalle rovine romane dove si dice nascondessero gli arsenali. Si sono ritirate in uno spazio semideserto, tra la città e uno scalino all’orizzonte, quasi tutto unito, e di un azzurro che tende al lilla, il gebel: è terra brulla, rari i campi, poche case, cespugli secchi o ciuffi di erba dura. 

Un anno e mezzo fa sono stato a Sabratha una prima volta. Non nella città, ma proprio in questo deserto, con i combattenti della montagna, la milizia di Zintan: quella che nel 2011 ha tolto Tripoli a Gheddafi e poi ne è stata cacciata da «Alba libica», i fratelli musulmani su cui noi Italia facciamo molto conto, e le formazioni armate che hanno base a Misurata. Allora gli islamisti combattevano apertamente, erano alleati, non sprecavano neppur molta fatica a nascondersi. Laggiù - mi mostrarono gli uomini di Zintan – sì, proprio tra le rovine, vicino al mare c’è al Qaeda… sarà difficile cacciarli… 

I fondamentalisti, ben armati e fanatici, erano perfetti alleati per tenere a bada gli odiati nemici, quelli del parlamento di Tobruk, i soldati del generale Aftar, uomo dell’Egitto e degli americani. Tutti sapevano che tra Alba libica il partito al potere in parte della Tripolitania e gli uomini del jihad c’erano ottimi rapporti. Poi tutto è cambiato con il bombardamento americano del 19 febbraio che avrebbe ucciso alcuni dei capi delle milizie del califfato. Le formazioni locali hanno «scoperto», improvvisamente, che i fondamentalisti erano troppo maramaldi nella loro città e che i loro alleati di Tripoli erano troppo arroganti e padroni. Alleanze che finiscono, di colpo. E si passa subito alla guerra.

Lo stesso scenario in scala più grande: in tutta la Libia, nelle centinaia di alleanze e coabitazioni tra gruppi armati che noi non conosciamo si ridisegnano in queste settimane le posizioni. Nessuno vuole trovarsi dalla parte dei perdenti, si vuole cancellare le tracce di aver diviso il pane con i fondamentalisti. 

Anche a Tripoli le voci tambureggiano. Sembra stia per compiersi ciò che prima era impossibile: la formazione di Misurata finora alleata dei fratelli musulmani, potentemente armata, guidata da Salad Badi, starebbe per saltare il fosso e allearsi sul terreno con gli uomini di Zintan per dare l’assalto a Tripoli. Con i nemici dei feroci scontri di tre anni fa!

Moltiplicate questi scenari per cento, mille volte e avrete forse compreso qualcosa della Libia. Ma chi può esser sicuro di conoscere bene questo labirinto per poter ritrovare la strada?

Da - http://www.lastampa.it/2016/03/06/esteri/cos-le-milizie-che-guidano-sabratha-hanno-rotto-con-lisis-e-con-tripoli-OuFyfFET1ot3uViZsbQyGJ/pagina.html
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« Risposta #34 inserito:: Maggio 10, 2016, 12:07:33 pm »

In Ciad sul lago che non esiste più la trincea dei taleban d’Africa
Boko Haram ha sconfinato.
Il governo svuota i villaggi: “Chi resta sarà ucciso”


10/05/2016
Domenico Quirico
Inviato a KAYA (Ciad)

Mezzogiorno. Luce, luce. Così intensa da rimanere ammirati, stupefatti, come se uscendo da una sorta di semioscurità gli occhi si spalancassero, vedessero più chiaro, sempre più chiaro. Sulle acque del lago Ciad, che chiamiamo lago ma che è un mare, un errore della natura che ha colmato di acqua dolce questa enorme voragine nel cuore dell’Africa e l’ha imprigionata fra pareti di deserti incombenti come un lento destino e di fertili savane dai contorni azzurrognoli, danzano luminose frange di argento. 

Sempre più luce… Da quali tenebre siamo dunque usciti? Eppure questa è una parte del mondo messa a soqquadro dalla rabbia sanguinaria dei Boko Haram, i taleban d’Africa. Di che natura è questa festa di chiarori bianchi che sembra in ogni luogo avere inizio? E invece: queste ombre fatte di massacri, kamikaze bambine o travestiti da donne, pulizie totalitarie fitte di stupri e sgozzamenti… Il lago Ciad è chiuso, vietato: ai battelli, alle piroghe, impossibile attraversarlo. Bisogna penosamente aggirarlo in questo paese senza strade, con lunghi percorsi di sabbia. La setta più temuta del mondo, i miliziani di una giovinezza frustrata e inferocita, ne ha assaltato le isole fertili, saccheggiato, sgozzato. L’esercito ciadiano ha brutalmente ordinato alla popolazione di andarsene in massa: campi villaggi acque, tutto deve restare vuoto. Chi disobbedisce sarà ucciso. Centomila profughi si accalcano già in villaggi di canne senza cibo e senza assistenza, i bambini muoiono di denutrizione. I Boko Haram hanno già vinto?

A prestar fede ai geologi e alle leggende che hanno preceduto di secoli i loro scientifici vaticini, l’Africa un giorno si spaccherà in due proprio qui, all’altezza di questa lunghissima cicatrice che corre tra il Sahara e le foreste, luoghi grandiosi e subdoli dove dalla decomposizione delle foglie sale il profumo della morte. Quando il continente si spezzerà, allora si realizzerà il sogno, che il Ciad torni ad essere il mare. Ventimila anni fa era già sparito, per riapparire poi come per un sortilegio. L’Africa è un tuffo non nella preistoria, ma nell’eternità, tutto qui è possibile.

Nella geopolitica la spaccatura è già avvenuta. Questa è una delle congiunzioni del mondo che l’islamismo rivoluzionario vuole controllare. Le Afriche si incontrano qui, in questi vecchi golfi di lago caldi e languidi, sulle polveri di intere umanità scomparse: l’Est degli Shabaab e l’Ovest dei Boko Haram, il Nord jihadista della Libia, del Sahel con le nuove frontiere della guerra santa sempre più a Sud, Centrafrica, Kenya… Come è articolata ed estesa la geografia del califfato universale…
Secondo la Nasa tra quindici anni il lago non esisterà più, prosciugato dalla siccità e dall’uso degli uomini. Ma ancora oggi è bello da ferirti gli occhi, un dio, visto che dà vita a trenta milioni di persone che si affollano sulle rive, su frontiere più che mai senza senso davanti alla lotta per sopravvivere. È un dio placido, senza malumori, nulla che ricordi le burrasche degli astiosi laghi dell’Africa australe. Le acque sono diventate basse, non più di tre metri. È perfino difficile pescare. Ma ora il problema non esiste più. L’esercito ha vietato di utilizzare le piroghe, non vuole impicci e testimoni mentre sul lago conduce una guerra senza sfumature e innocenti.

I pescatori sono filosofi come in tutto il mondo, gente che vive senza fare rumore come se temesse di far male al dio, un malato fragile come è. Uomini e bimbi sparuti, strozzati dal bisogno, continuano a lavorare attorno alle loro canoe sempre più inutili, ne ricuciono le slabbrature con stoppie e argilla. Dove le hanno tirate in secco una lunga macchia scura ricorda che lì, solo poco tempo fa, c’era ancora l’acqua. Acque stanchissime, quasi impaludate, che avanzano senza un tremito, come di un canale morto. Lunghi gemiti rompono l’aria, uccelli spiccano il volo e palpitano come scossi da morte… Su un arenile nascosto qualcuno pesca ancora, di frodo, gettano a riva strani pesci di un verde splendido, dalle squamose branchie di corallo, che lasciano nella polvere le tracce della loro agonia. Tre pescatori hanno visi famelici di barbareschi. Non so qual muta disperazione infiammi i loro occhi, ma certo ci guardano con rabbia e paura.

Attorno al lago l’aria è fresca, la brezza porta odori di erbe giovani: dove l’acqua si è ritirata recentemente si stendono pianure umide, i contadini hanno preso il posto dei pescatori e mettono a coltura le nuove terre, avidamente. La gente è tanta. La terra non può, non deve riposare… Ma ora tutto è in pericolo: la pesca, l’agricoltura, gli uomini. 

Il terrore soffia dall’altra parte del lago. La Nigeria, una «democrazy» come dicono, la democrazia folle d’Africa ha fabbricato un mostro. I Boko Haram non sono più la setta che si batteva contro la corruzione delle élites politiche e religiose del Nord, arricchite dal petrolio, mentre il sessanta per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Adesso l’islamismo è un progetto mondiale, c’è il Califfato: i miliziani portano uniformi come veri soldati, il loro capo Abubakar Shekau, sparito per un anno, si è addestrato con gli Shabaab somali, all’altro capo dell’Africa. La setta è diventata un gruppo terroristico, ha fondato il suo Califfato, rapina banche e si arricchisce di sequestri e di usura, imita con cura gli uomini del Califfo di Mosul. I video, che all’inizio sembravano sgorbi di «Nollywood», utilizzano effetti speciali e sotto titoli in inglese e arabo. 

Il reclutamento avviene non più con l’ideologia ma con la violenza, la magia nera, il denaro e la promessa di una moglie. I nigeriani dei villaggi del Nord sono poveri, non possono pagare una dote, una giovane rapita è un richiamo seducente. Soprattutto i Boko Haram uccidono: in sei anni ventimila vittime. 

 
Seguiamo le svolte del lago, oltre Bol, alla ricerca dei segni di questa guerra spietata. Guerra tutta notturna che inizia dopo il coprifuoco. Guerra di chiatte, di imboscate, di silenziosi agguati su isole vuote e paludi fittissime. Attraversiamo villaggi di canne e di fango, qui sono di fango secco anche le moschee, non ci sono minareti e guglie che si slanciano al di sopra delle polvere, nella purezza dell’immutabile cielo. Non ci sono porte, si può guardare la miseria di ogni casa, i pavimenti di terra, le poche stoviglie. Il lago è già lontano, l’autista mostra i denti alla pista di sabbia con ringhioso accanimento. Bianca la polvere, bianche le case e la pista, bianche le vesti, bianca la folla in cammino a piedi, su asinelli, cavalli, dromedari solenni. Gli alberi ora hanno fronde di cenere, di un verde spento. 

Ormai i piani dei Boko Haram hanno scavalcato i confini della Nigeria, controllare il grande lago vuol dire mettere in ginocchio il Ciad che importa tutto dalla Nigeria; il Ciad da punire perché aiuta i francesi a combattere gli alleati islamisti nel Sahel. Mescolano tattiche di guerra e attentati suicidi, disseminano le piste di mine artigianali, li precede un terrore che crea il vuoto. Sedicimila nigeriani sono fuggiti dall’altra parte del lago in cerca di sicurezza. E poi i centomila ciadiani che vivevano nelle isole del lago, espulsi con la minaccia di essere uccisi come complici dei terroristi e di cui il governo del presidente Déby, un dinosauro al potere da ventisei anni, non si occupa. Pensa di risolvere il problema con la violenza: come i nigeriani all’inizio della epopea sanguinaria della setta. 

Il lago è ormai alle nostre spalle, la vegetazione si è rarefatta, scomparse le grandi palme, la terra non è più scura: steppe di sabbia, lande bruciate pianori salati color calce, rare acacie spossate dalla siccità gettano la loro rara ombra intorno ai villaggi. L’islam ha impresso la propria impronta su questo mondo, l’islam sempre attratto dalle regioni desolate, dallo sfavillio dei deserti. Asinelli e cavalli si rotolano nella sabbia scura, cercando di respirare, stremati, un po’ di frescura dalla terra. Il Ciad dei fuggiaschi crepita, si affila al sole. 

È un cortile tutto bianco questo mercato, gli uomini con le loro lunghe vesti siedono in gruppi, accigliati. Ma le donne no: strepitano con uno strepito di bambine senza risa, accanitamente loquaci. Hanno voci tremanti, anche se gridano, di un tono mite e denso, come d’olio, e scorrono una sulla altra. Voci cantanti, da fanciulle di sedici anni, le vecchie pure. Ci racconteranno, loro e i bimbi, le ferocie dei Boko haram.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/10/esteri/in-ciad-sul-lago-che-non-esiste-pi-la-trincea-dei-taleban-dafrica-ZJJ50PyvSr5fhdNS1JdBiO/pagina.html

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« Risposta #35 inserito:: Maggio 13, 2016, 06:01:44 pm »

Tra i profughi del lago Ciad dove l’Europa resta un miraggio
In pochi hanno i soldi per partire, gli altri sono bloccati nei campi in mezzo al deserto. I fondi stanziati dall’Unione europea finiscono per alimentare la corruzione

12/05/2016
Domenico Quirico

Xenofobi, innalzatori di muri, innamorati dei fili spinati e delle barriere, non state in ansia! La maggior parte di costoro non arriverà da noi su squarci di caravelle tarlate, non busserà inopportunamente a Lampedusa, Lesbo, Ceuta mossa dal fanatismo della povertà e dell’avventura. Sono troppo poveri, sono uomini, donne, bambini nudi. 

Per la Grande Migrazione occorre avere un po’ di denaro, una mucca da vendere o le capre, un sacco di miglio che doveva servire per la semina, un parente pietoso già in Europa. Loro non hanno monete per pagare il passaggio su un camion che li porti fino a N’Djamena. 

Non hanno scarpe per camminare su queste sabbie selvagge abitate dal torvo popolo dei fanatici del Dio musulmano, non hanno telefonini per cercare mercanti di esseri umani che li trasformino in un affare redditizio. Non hanno niente. 

REPORTAGE sul lago che non esiste più la trincea dei taleban d’Africa (Quirico) 

Sfollati dagli islamisti 
Sono venuto qui, a questo lago-mare, per cercarli, vederli, parlare. Solo i ciadiani sono centomila, con i Paesi vicini gli sfollati dai Boko Haram salgono a due milioni. Nulla più, qui, di aperto e di buono, di giusto e di buono, come nulla di infantile o di vecchio. Vi è solo dolore; e la ferocia, che è del dolore.

La città di Bol è di un bruno calcareo, spoglia. Pare una necropoli, che dalle finestre delle case debbano uscire corvi, in volo. Tutto è di creta secca, scura. È ancor più in là dell’Africa, in un continente ulteriore dove sia città essa sola. Ma qui il lago c’è ancora, metti le mani nell’acqua e fosforo, ti sale tra le dita. Gli schiamazzi dei bambini occupano la cittadina solo a zone, ciuffi d’alberi nel deserto. Attorno la terra sfuma in nulla rapidamente, logora di stagni e paludi che sembrano spazi vuoti, spazi puri. E il Ciad anche lui è di nulla, di una bianchezza di mare morto. 
Ora c’è nell’aria un eccitante squallore, il gran giallo delle sabbie. La canicola, la burrasca bianca dei cavalloni di polvere alzati dai pick up montati da soldati in sudice uniformi di tela e dai fuori strada delle organizzazioni umanitarie.

La gente osserva i fuori strada che passano come astronavi, qui la luce è un miracolo, l’acqua una speranza. Se vieni nel Sahel senti, non è la prima volta per me, che l’Africa entra nel tuo destino come una condanna. 

Capanne di rami e canne 
Le capanne di rami e di canne che credevamo asili per le capre si rivelano case, che sembrano, al sole, di sabbia pure esse. Ho visto il nulla della fatica quotidiana, una giovinetta che con grandi bracciate cercava di far salire l’acqua da un pozzo. Fatica che serve per un tozzo di pane, e tozzo di pane che serve alla fatica. Gli uomini stanno fuori, a crocchi, con le vesti avvolte attorno alle spalle fin sugli occhi per via della polvere. Stanno immobili come spettri che non hanno di vivo che lo scintillio degli occhi e guardano lontano senza mai dirsi una parola. Conducenti d’asini corrono agitando le braccia come indemoniati in una nuvola di polvere, emettendo brevi grida acute per impedire ai loro asini di farsi travolgere dalla vettura.

 Villaggi interi in cammino 
Dove il deserto è assoluto, sprofonda, raschiato dalla canicola incontri gli sfollati. L’avanzata degli islamisti nigeriani e la brutalità dei soldati che dovrebbero difenderli li ha cacciati dalle fertili isole del lago, e dalle rive già fin troppo abitate. Allora, a gruppi di famiglie, a villaggi interi, si sono messi in cammino dove la memoria dei vecchi li portava. Senza avere con sé più nulla. Un tempo abitavano qui, prima di spostarsi sul lago: ma allora erano terre benedette perché il lago era molto più grande. Nessuno stavolta li ha cacciati: perché qui non c’è più nulla. Qui davvero è deserto: per questa solitudine di ogni cosa, di ogni duna che par chiusa in se stessa, e di ogni albero o viandante che si incontra. E per questa luce e per questa immensità di cespugli tutti eguali, tutti rachitici. La tempesta solleva un pulviscolo che non è terriccio e non è sabbia, una specie di polline vecchio che sa di muffa e avvolge tutto come un velo sterminato. La terra è saccheggiata da questo vento, lunghe pianure appaiono sospese nell’aria. Là è il lago, quell’aria. Disabitato come la luce del primo giorno. E le capanne sono accovacciate, storpie dalla furia che trascorre.

È vecchio, robusto, faccia dura, occhi duri, capelli fitti e crespi. Si dice contadino e se ne vanta. Ma la voce è un soffice brontolio, come di lana. È vestito di stracci che gli svolazzano addosso come piume, non ha più campi, o bestie. «I Boko Haram sono belve, serpi, ma è fare alle bestie un’ingiuria a dire così. Venivano, rubavano portavano via le donne, e i ragazzi giovani per farne sollazzo e combattenti. E noi ad aspettare i gendarmi e i soldati…. Sono venuti, dopo, e ci hanno detto: via, toglietevi di qua se no vi tratteremo da Boko Haram. Volete sapere dove andare? Dove vi pare, il Ciad è grande».
Ci guarda: «Non bisogna piangere per nessuna delle cose che ci accadono». «Non bisogna piangere? Uomini, donne, bambini sono morti e non bisogna piangere?». «Se piangiamo li perdiamo, non bisogna perderli, se piangiamo rendiamo inutile ogni cosa».

Le donne passano invisibili sotto le grandi cappe colorate tra le cui pieghe si apre una specie di fenditura da dove sporge la testolina incantevole di un neonato tenuto in braccio. 

A colloquio con i morti 
Il terrore dei Boko Haram lo capisco quando uno psicologo ciadiano che lavora in un campo di rifugiati mi racconta che le vittime hanno difficoltà a parlare con lui, non svelano gli orrori di cui sono stati vittime o testimoni: non parlano con me, vanno al cimitero, a parlare con i morti… a loro si possono confessare».

La morte è lì nel cimitero e diventa liberazione quando sulla terra più che per viver bene, ci si dura per prepararsi a morire. Conoscono la luminosa spiegazione che la loro fede dà della morte, per averla sentita nella preghiera o per averla quasi respirata nell’aria. Ricacciano il dubbio: il Dio in nome del quale sono stati martoriati non è lo stesso che li accoglierà alla fine dei giorni? 

Ci prepariamo a rovesciare su questi Paesi altro, molto denaro: perché non abbiano più ragione di partire. Se percorrete la pista che dalla capitale porta qui, e sono trecento chilometri, nove, dieci ore, ad ogni villaggio trovate grandi cartelli colorati, in metallo, con la bandiera ciadiana e quella dell’Unione europea. Alcuni sono vecchi, semisommersi dalla sabbia, sghembi, altri hanno colori ancor vivi. Simboleggiano centinaia di progetti: acqua per il villaggio…; riabilitazione rurale del distretto…; progetto di incremento agricolo…; sviluppo sanitario… Non c’è nulla di tutto questo. Polvere, sabbia, pianure di terra riarsa, fiumi rinsecchiti. Dove sono finiti i soldi che abbiamo rovesciato qui, da decenni? Chi li ha rubati?

I nostri amici laici 
A N’Djamena ho visto solo tre cose nuove, moderne: la Versailles del presidente, una residenza-città lunga chilometri; i fucili e le uniformi dei soldati che fanno la guardia che sembrano cadetti usciti da Saint-Cyr; e il nuovo ministero degli Esteri, in vetrocemento, per un Paese così povero da non avere ambasciate. In Niger, in Mali, in Mauritania, in Nigeria è lo stesso. Ecco la spiegazione. Qui finiscono i soldi. E le cancellerie occidentali lo sanno: ma questi sono i nostri alleati, i nostri amici laici, organizzatori di elezioni, che si può fare? La volontà di aiutare c’era, il fallimento dà le vertigini. Oggi per svincolarci dall’incomodo dei sudditi di questi satrapi, sguaiati e maneschi inettitudini diplomatiche ripescano la stessa formula: aiutare l’Africa in Africa, ci pensino loro. È falso che la storia sia maestra di vita: e non perché la maestra non insegni ma perchè gli scolari sono zucconi, non imparano.
Il Ciad è proprietà personale del presidente Deby: che abbia conquistato il potere con un colpo di Stato non lo ricorda nessuno, forse perché è avvenuto ventisei anni fa. E dopo? Elezioni su elezioni, con tanti partiti e bandiere colorate di simboli. Solo che le vince sempre il suo, che ha come simbolo una zappa e un fucile. L’ultima due settimane fa, i rivali gridano alla ennesima truffa, lui festeggia e parla di sviluppo e rinascimenti. Durante i giorni del voto ha spento tutti i telefonini del Paese, inchiavardato Internet. Non si sa mai: questa è la modernità. Lo hanno suggerito forse i francesi, a cui è simpaticissimo e da cui trae importanti beneplaciti padronali: ovvio, fornisce loro economiche fanterie per combattere i jihadisti e soprattutto tenere in riga la «Francafrique». 

Ah la «Francafrique»! Non tramonta mai, la conservano, Gauche e Droite, meglio del Louvre. Nell’albergo uomini di affari francesi si distendono tra un contratto e l’altro, a bordo piscina, con signorine locali la cui gentilezza ha curve commisurate alle grazie effettive. È incredibile quanto denaro si può estorcere nei Paesi più poveri del mondo! All’ingresso dell’enorme base militare francese vicino all’aeroporto ci sono gli stemmi della République: come in una qualsiasi gendarmeria dell’Exagone. È nelle tasche di obbedienti palafrenieri della Francia come Deby a cui l’idea del «nòmos» non entra in testa, che rovesceremo i miliardi per evitare i migranti: noi avremo ancora i migranti e la Versailles di Djamena sarà ancora più vasta e scintillante.

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/12/esteri/tra-i-profughi-del-lago-ciad-dove-leuropa-resta-un-miraggio-gMoBXWxfNuja8BSLv3LFmL/pagina.html
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 13, 2016, 06:02:47 pm »

Sulla montagna di Gourougou, dove Dio ha altro da fare
Nell’estremo lembo settentrionale del Marocco, in vista di Melilla, tra i migranti più derelitti che tentano il passaggio in Europa e a volte restano qui per anni. Dal nuovo libro di Domenico Quirico
Giovani migranti del Mali osservano dal monte Gourougou la linea di confine che divide il Marocco dall’enclave spagnola di Melilla

09/05/2016
Domenico Quirico

Il brano che anticipiamo è tratto da Esodo. Storia del nuovo millennio, il nuovo libro di Domenico Quirico, a giorni in uscita per Neri Pozza (pp. 174, € 16). Dall’Africa e dal Medio Oriente sconvolti dalla guerra, dalla povertà e dalla minaccia islamista, fino alle sponde dell’Europa, l’autore racconta il dramma della Grande Migrazione che ha seguito per La Stampa e in cui si è calato fino al punto di affrontare con un centinaio di disperati, nel marzo 2011, la traversata dal porto tunisino di Zarzis su una carretta del mare che in vista di Lampedusa fece naufragio. 

La foresta di Gourougou! Pronunciatelo il nome, fate scorrere le sillabe ritmate... Gourougou: sembra uscito dalle Mille e una notte, un nome sacro alle favole e agli idilli, che risuona di voci, di fatti misteriosi e di oscure magie. Una leggenda dice che in cima al monte hanno trovato un’antica ancora di nave: perché un tempo un’onda è arrivata fin lassù. Sì, in fondo sono venuto fin qui attratto dal nome, dall’incanto di un nome... Gourougou... 

E invece... invece Gourougou non è un luogo di fate, è un terribile luogo di uomini, è veramente lo smemorato regno della tristezza e del dolore. Tutta la malinconia degli uomini del nostro tempo, i migranti, razza inquieta e infelice, si raccoglie in questo lembo di Marocco, in questa estrema regione dell’Africa, goccia a goccia, come acqua in terra cava. 

Per queste alte terre deserte, dove le greggi abbandonate belano roche tra le agavi e le erbe, ho raccolto l’ennesimo filo della Grande Migrazione. Non una casa, non una capanna, non un viso di uomo per miglia e miglia, i villaggi e le città, Melilla e Nador, affondate giù nelle valli come in un’acqua cupa, balzano a galla ogni tanto, appena un raggio di sole percuote le pareti bianche. Qui tutto è aria, luce, erba, vento, roccia e acqua. Il riflesso del Mediterraneo spalanca sul monte cieli esangui. Ma l’alta, splendente malinconia di questa terra, ha il suo male segreto, gli «africani», i migranti. 

 MALEDETTO PARADISO 
Li chiamano proprio così, i marocchini, senza odio e senza rabbia: gli «africani», come se loro fossero altro e non figli della stessa patria, immensa. Un altro rivolo dell’Esodo si raggruma in questa terra vicina, troppo vicina al primo cielo d’Europa. 

Mai come sulla montagna di Gourougou, in questi anni in cui inseguo i migranti, ho visto il contrasto profondo e duro. I migranti con la loro viva e rossa forza che batte loro nei polsi e l’Europa che è morta. 

A Melilla, l’enclave spagnola che si stende ai piedi del monte, l’Europa è, infatti, visivamente morta. In questo anacronistico antemurale assediato, difeso da un Muro, noi europei siamo già stati smascherati, spogliati delle nostre seduzioni e dell’arroganza legata alle nostre realizzazioni. Qui possiamo toccare con mano quanto c’è di illusorio nei nostri sforzi e nelle nostre convulsioni. 

Dalla montagna dove vivono in covili da bestie, ridotti ad affamato popolo delle selve, i migranti lo vedono, lo spiano, lo maledicono il loro ipotetico paradiso, è laggiù in fondo, un chilometro in linea d’aria, sdraiato davanti al mare: dodici chilometri quadrati, Melilla, la Spagna d’Africa. Dell’impero su cui non tramontava mai il sole, l’impero degli hidalgos e dei re cristianissimi, restano solo questi dodici, sonnolenti chilometri quadrati di case giallastre, come le città povere del nostro sud. 

Ma per i migranti questa terra è d’oro, perché è già Unione europea, chi riesce a calpestarla è già in Europa. Niente viaggi mortali nel Mediterraneo crudele, niente passeur che chiedono migliaia di dollari. Si entra direttamente in paradiso, a Melilla. [...]

LE SCIMMIE COME CIBO 

La montagna di Gourougou sfuma quasi sul posto di frontiera. Ho faticato a trovarli, i migranti, arrampicandomi su per sentieri di pietra. Ma la polizia marocchina li bracca e si nascondono sempre più in alto, in gole sempre più impervie. Tutto questo versante spruzzato di polvere, di sole, di luce è ostruito da vegetazione selvaggia e vigorosa. Attraverso questo viluppo di pini ed eucalipti si incrociano, legandosi come maglie di catena, una moltitudine di piccoli sentieri polverosi che, visti dall’alto, somigliano a una grande rete stesa sul fianco del monte ad asciugare. Più giù, al di là delle linee delle case di Melilla, appare la tovaglia blu del mare. 

Eccoli: un gruppo mi scende incontro, hanno in mano bottiglie di plastica, vanno a cercare l’acqua che sul monte non c’è. Hanno un aspetto di vergogna, di impudicizia senza scampo. È per me come rincontrarli ogni volta. Hanno dentro di loro la natura delle loro terre magre, le zolle scure e la sabbia dei deserti, le piste polverose, i greti bianchi nel sole tra gli argini alti di fiumi immensi, le acacie in fiore e i rovi. Questi sono i poveri dei poveri, hanno scelto questa via tra le tante perché non hanno i soldi per pagare il passaggio del deserto e della Libia verso il mare. Hanno camminato a piedi attraverso l’Algeria, lavorato a Tamanrasset e a Orano per pochi denari, e ora sono qui, sulla loro montagna, a centinaia, a migliaia. C’è tutta l’Africa dei derelitti, «ma viviamo insieme come fratelli, dividiamo il poco che abbiamo». 

Le «tende» sono fatte di sacchetti di plastica, pezzi di cartone, stracci. Si odono strilli di bimbi e le voci pazienti delle madri. «Vieni, ti mostro la mia casa» insiste Youssef e sembra avere l’orgoglio con cui mi mostrerebbe una reggia. «Sai come la chiamo? Il bunker...». Scendono ogni mattina a Nador a chiedere la carità, per comprare un po’ di cibo, e rientrano con il buio come le bestie, nella loro tana. La notte è gelata sulla montagna e non hanno vestiti e coperte. C’è gente che è qui da due, tre, cinque anni... Il problema è il cibo: mangiare. Uccidono le scimmie e i cinghiali per sfamarsi. Posso offrire loro solo questo sollievo, essere qualcuno che ascolta. Chissà se nelle loro mitologie vi è un dio che non risponde, ma che forse sente, ascolta. Sarebbe già molto. 

«Ogni tanto la polizia e i soldati si scomodano e salgono fin qui, vengono all’alba per sorprenderci quando dormiamo. Noi fuggiamo nel fitto della foresta e loro bruciano tutto, tende, coperte, telefonini... Bruciano il nostro niente».

La peggior colpa che abbiamo verso di loro è che li abbiamo plasmati e riplasmati, li abbiamo resi informi, e tali da non potersi più inserire in nessun altro destino. Chi oserebbe raccogliere queste anime sparpagliate, argilla confusa e screpolata, ovunque, da impronte di dita?

LA BARRIERA TROPPO ALTA 
Parliamo della barriera, l’incubo, l’ossessione, le strategie per attraversare. Qualcuno ce l’ha fatta, i compagni lo mettevano in un sacco, lo facevano dondolare e poi cercavano di gettarlo al di là. C’è chi nella caduta non si è rotto testa e gambe, si è alzato ed è fuggito prima dell’arrivo dei poliziotti spagnoli. Ma ora la barriera è troppo alta e troppo larga. Possono provare di notte in due o tre, arrampicandosi. 

«Io l’ho fatto una volta, ma sono rimasto bloccato tra i due reticolati. I poliziotti marocchini mi hanno bastonato fino a farmi sanguinare le orecchie». 

Ogni tanto in centinaia danno l’assalto, soverchiano i poliziotti, e qualcuno riesce a scivolare via. Non resta allora che il mare, nuotare con l’aiuto di un copertone, ma l’acqua è gelata, la distanza infinita, e c’è chi muore.

Parliamo di Dio, ci sono cristiani e musulmani: «Guardaci! Forse Dio si occupa degli uomini solo quando non ha altro da fare... Il mestiere di Dio sono capaci tutti a farlo. Anche il Nulla è capace di essere Dio in questo modo».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/09/cultura/sulla-montagna-di-gourougou-dove-dio-ha-altro-da-fare-ZZTkbmCnlkRwHp3BclRyoJ/pagina.html
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« Risposta #37 inserito:: Giugno 09, 2016, 11:28:19 am »

Tra gli schiavi della Mauritania: “L’Islam è per i padroni”  
Migliaia di neri continuano a essere proprietà degli arabi ricchi: “Non possiamo neanche pregare, solo ubbidire” 


08/06/2016
Domenico Quirico
Inviato a Nouackhott (Mauritania)

Esistono parole che fanno male come un morso, parole che non si possono dimenticare né perdonare. Parole che contengono veleno come il morso di un serpente. La parola schiavitù. Ma non nel senso in cui noi occidentali la usiamo, sfruttamento economico, il mal prezzo pagato a una fatica. No. Nel senso antico: la proprietà fisica di un uomo, disporre del suo destino e della sua vita, di ciò che è, fa, pensa, diventa, fin da bambino. Che puoi prestare all’amico che ne ha bisogno, cedere ai figli come dote quando si sposano. Che diventa schiavo automaticamente, nel momento in cui nasce da una schiava. 

Nel terzo millennio questa realtà che emerge e che porta addosso i segni dell’abisso come un cetaceo naufragato con le proprie alghe, insieme ucciso e vitale, me la trovo davanti sulle coste dell’oceano, in Mauritania. Dove gli schiavi sono tutti «haratines», i mori neri che rappresentano il quaranta per cento della popolazione. Inchiodati alla croce del non esistere, anche se li puoi toccare, parlare con loro, vederli vivere. Che leggono invano testi di legge dove la schiavitù è dichiarata delitto. Questo popolo che non ha niente lo disdegneremo? Immergiamoci nella sua miseria. Lo vedremo completamente nudo, senza difese, con i suoi occhi da animale domestico. La sofferenza svela l’essenza delle cose, è il prezzo che bisogna pagare per guardare la vita in modo più profondo, più vicino alla verità.

I TEMPI DELLA TRATTA 
Ai tempi della Tratta c’era un rito, il rito dell’Albero dell’oblio. Quando sulla costa del continente arrivavano le colonne degli schiavi catturati e venduti dopo guerre e raid scatenati per questo scopo, prima di imbarcarli sulle navi, attorno a questo albero si svolgeva una cerimonia per far loro dimenticare la terra, i parenti, il passato, rendere la mente vuota. Così, quando fossero morti, non sarebbero tornati a vendicarsi dei loro aguzzini. Consapevoli del loro delitto. In Mauritania non so se è esistito questo albero terribile: certo è che il rito ha funzionato, questi schiavi nostri contemporanei hanno più che dimenticato, vivono a fianco dei loro padroni felici di servirli, pronti a far scattare la loro devozione. Perfino la comune fede nell’Islam serve a tenerli in catene come un destino. 

 
Nouackhott di notte quando si sbarca dall’aereo: diritte vie deserte, tetra città addormentata, impossibile immaginare qualcosa di meno esotico, di più brutto. Un po’ di animazione davanti ai caffè violentemente illuminati, risate volgari. Bambini chiedono l’elemosina porgendo una latta vuota, agli incroci, davanti al mercato; ti inseguono per lo più silenziosamente, al massimo con un pigolio di zanzara, tenaci, pacati come chi ha tutto il tempo inesorabile per vivere e per morire. Sono figli di schiavi, piccoli schiavi, i primi che incontro.

IL QUARTIERE PIÙ POVERO 
Città allo stato larvale che pare ancora nascosta nel sottosuolo. Troppo vasta per la sua scarsa attività. Se una grazia c’è consiste nella sua indolenza. Che la prima voce sia quella lieve, noncurante di Habj Rabah tutta avvolta nel nero: «La mia storia vuoi sapere? Una storia banale di una schiava con il suo padrone. Discendo da schiavi, non sono mai andata scuola, guardo il bestiame, faccio i lavori in casa, vado a cercare l’acqua, mi picchiano. Sono musulmana, ma mi dicono che non importa se non porto il velo e che non devo pregare. Sono schiava. Dio è per il padrone, per i “mori bianchi’’, gli arabi. Quello che è obbligatorio per lo schiavo è ubbidire».

Attorno bambini, molti bambini. Non bisogna mai chiedere agli «haratines» chi è il padre, non è «educato». Gli schiavi conoscono solo la madre, il padre può essere il padrone o uno dei suoi figli o un altro schiavo. Irrilevante.

Ora è giorno, dopo una rapida alba. E c’è Riyad da vedere, uno dei quartieri poveri dove vivono gli «haratines». Il taxi, un vecchio Mercedes, rugoso sdentato e sbocconcellato, lo guida un militante abolizionista. È stato in prigione con Biram Dah Abeid, il Mandela mauritano, indomito leader del movimento antischiavitù (Ira). È come entrare nelle viscere di un grande corpo, doppie, triple file di casupole messe insieme con assi di legno, pezzi di lamiera, teli, piuttosto tane che case. Gli edifici in muratura hanno le pareti corrose dal terreno salino, una malata fatiscenza che lavora e disfa, sono vivi e decomposti. Gli «haratines» vivono qui non perché sono stati liberati. I padroni, che non vogliono mantenerli, hanno detto loro di andarsene, di cercare di sopravvivere. Sanno che quando hanno bisogno, lavori in casa, il bestiame, i campi, servire, li possono chiamare e accorreranno. Cosa potrebbero fare? Non hanno documenti, senza il consenso del padrone non possono sposarsi e non troverebbero lavoro. 

Qui gli unici arabi che vedi sono proprietari di negozi e dei grandi silos dove sono stoccati il riso e la farina: per attendere che i prezzi salgano. I loro magnifici boubous azzurri si gonfiano e fluttuano nel vento caldo come vele. I padroni, i «mori bianchi» non abitano qui, non c’è l’acqua corrente a Riyad, Riyad puzza. Infiniti asinelli dalle piaghe coperte da segni bluastri arrancano nella strade di sabbia, sospinti a bastonate, trascinando piccole cisterne piene di acqua. «Questa è l’acqua per gli “haratines’’, non è potabile, occorre farla bollire». 

BAMBINI TRA I RIFIUTI 
Il taxi passa attraverso questi luoghi umani come attraverso un muro di pazienza, secolare pazienza, piagata ma non avvilita. Queste casupole infime, barcollanti sono accanto a distese di immondizie in cui bambini cercano, tenendo in mano grandi sacchi bianchi, sopravvivenze immonde coperte di mosche. Pecore contendono loro la preda puzzolente, pecore che hanno occhi chiari, acini di uva o di vetro, che guardano in un modo particolare, uno sguardo assente, vitreo. Vibrano, a tratti, una lingua puntuta, violacea con cui leccano le immondizie. Donne e bambini stanno acquattati nell’ombra povera dei muri. Come strane creature del sottosuolo uscite ad osservarmi. Ero di un’altra materia, fatto di un altro elemento, io.

Che la seconda voce sia quella di Barka Asatin, che ha 28 anni, è giusto: oggi è libera grazie a una storia d’amore. «Mi hanno strappato a mia madre quando avevo cinque anni. Accompagnavo il padrone nella brousse per dar da bere al bestiame e poi lavoravo in casa. Un giorno il padrone mi ha stuprata. Non so nemmeno a che età, avevo appena indossato il velo, una bimba. È nato un figlio che il padrone ha regalato a sua figlia. Poi è stato il figlio del padrone a violarmi ed è nato un altro bimbo. Ma c’era un autista che non era schiavo, era pagato. Si è commosso alla mia condizione, ha deciso di cercare mia madre. L’ha trovata e mi ha portato via, ma il padrone si è infuriato e ha tenuto in ostaggio i miei figli. L’Ira ha iniziato una battaglia legale, giudici e polizia erano contro di me. Mia madre che pure mi ama mi ha denunciata per aiutare il padrone a riprendermi. Mia figlia è diventata folle, diceva. Mia madre. Alla fine abbiamo vinto, l’ho sposato, abbiamo un altro bambino e i due figli sono con me».

Riyad è un’esperienza stranamente liberatrice. Non c’è tentativo di velare, di nascondere la fondamentale ingiustizia dell’esistere, la sua qualità sporca vien vissuta con pacatezza rassegnata. Lasciamo parlare Said allora, che quando ha cercato di fuggire dal padrone aveva 15 anni e oggi ne ha 18: «La schiavitù ha segnato la mia vita, i miei fratellastri sono stati dispersi, dieci anni ho impiegato per ritrovarne uno, un’altra mia sorellastra ha rifiutato di lasciare il padrone, aveva paura. Ho scoperto che ero uno schiavo quando ho visto che trattavano gli altri bambini, i figli del padrone, diversamente da me».

Cosa è dunque la schiavitù? Sono venuto per vedere un mistero. Ma il mistero non si vede: si sente. Si esprime senza voce, come un sordomuto. Eppure ne sono piene le strade, i mercati, le campagne, le case dei ricchi. La schiavitù è un aria completamente pervasiva, ti accarezza come la lingua di un animale appena uscito dalle selve. Non dimenticare: sei in Mauritania, approdato in un pianeta dalle luci ignote e impossibili. Dunque non avete mai visto uno schiavo, nessuno vi ha detto esplicitamente di esserlo? Non siete andati allora al grande mercato di Nouackhott. Gli schiavi sono lì: spingono enormi pesi su incerte carriole, gettano il cemento in fragorose betoniere per costruire i mattoni, riempiono sacchi di carbone. Oppure non siete stati invitati a una festa nelle case ricche, di un alto funzionario ad esempio, o di un giudice, quelli che dovrebbero applicare le leggi contro «il crimine» della schiavitù.

LA LEGGE ISLAMICA 
Le donne hanno indossato i loro boubous più belli, gomitoli di capelli ornano le teste, portano oro alle orecchie, braccialetti di argento ai polsi, vanno sventolando, magnifiche, i loro ventagli di palme. Ebbene gli schiavi sono intorno a voi: hanno lustrato le scale, imbiancato i muri, hanno preparato il cibo. Quando tutto sarà finito, gli invitati partiti, torneranno a Riyad, forse con qualche avanzo.

I segni della mancanza di libertà, della miseria non sono «sventure» qui. Vengono da lontano, migrano da vita a vita. Questo ne fa un luogo tragicamente impervio, pervaso da una drammatica incomunicabile dolcezza, un’indifferenza senza sdegno, senza rimorsi, senza indulgenza.

L’ultima parola spetta ad Hamadi che a vincere la schiavitù ha dedicato la vita: «Le leggi qui sono fatte per gettar polvere negli occhi degli occidentali. Ma tu sai che sei uno schiavo, i giudici applicano la legge islamica per cui la schiavitù è lecita. È quello che insegnano nelle scuole da cui escono i giudici. È una storia antica, quando gli arabo berberi che credevano che per esser nobili fosse necessario avere schiavi, li presero tra le tribù dei vinti e li spinsero a fare figli per averne molti. E poi per renderla intoccabile l’hanno coperta con la religione. Non è una questione di pelle o di classe o di povertà, è più complicato, qualcosa che ti entra in testa dall’infanzia. Lo schiavo non ha personalità, non sceglie, fa cosa dice il suo padrone, non ha esistenza come individuo, lo ama, è pronto a morire per lui». 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/08/esteri/tra-gli-schiavi-della-mauritanialislam-per-i-padroni-Sp5KKTJ3trs2doMUIzw8TN/pagina.html
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 05, 2016, 10:31:27 pm »

Perché i carnefici filmano il Male

03/07/2016
Domenico Quirico

La cosa più spaventosa del terrorismo sta nel fatto che non te lo puoi togliere di dosso, continua: la strage di un gruppo di persone può esaurirsi in pochi minuti.

Ma l’effetto non termina per questo, prosegue, si moltiplica come un’eco.

La distruzione cala silenziosamente su di te come da corde di seta. Siamo prede. La guerra non convenzionale che ci hanno dichiarato è all’interno dei nostri Stati, li fraziona e li divide. L’attentato si muove nel senso inverso della guerra: come il martirio, come la guerriglia, sempre dai margini e lentamente verso il cuore dello Stato. È una questione di uomini e di terre, il terrorismo è un ritorno alla sanguinosa esplorazione dei margini. Più sono percorsi e più il riflusso dell’onda verso il centro è violento. Come noi superstiti viviamo l’assenza degli uccisi? Noi viviamo in un tempo sospeso.

 E’ possibile pensarci con distacco, separare queste vicende Parigi, Bruxelles, Istanbul, Dacca, dalla nostra vita reale? Io non credo. Ne siamo tutti toccati. Si finisce sempre per guardare per cercare brandelli di notizie di luoghi in cui siamo stati, delle persone che abbiamo conosciuto. Il veleno è entrato in noi, agisce, si insinua, corrompe. Come esprimere cosa si prova? E’ una sorta di attrazione fatale, il dolore per tutto ciò che abbiamo perduto in questo tempo di caos, sedersi in un caffè senza guardarsi attorno, attraversare una strada, andare ovunque nel mondo, fare la fila all’imbarco di un aeroporto; una stanchezza dello spirito che si nutre di filmati proiettati e riproiettati mille volte. Tentiamo di raggiungere il pulsante per spegnere l’apparecchio: ma non ci riusciamo. Perché non c’è. L’hanno preso altri, gli Assassini.

Ho attraversato luoghi in cui il terrorismo aveva colpito. Tutto era di nuovo a posto, accuratamente cancellate le tracce. Eppure provavi la sensazione nuova che quel luogo fosse sostanzialmente diverso. Notavi la vivacità, l’allegria esagerata sui visi delle persone, sembravano le prime ore di una festa. Era semplicemente l’effetto di ritrovarsi ancora vivi. La stessa sensazione che ti prende quando hai superato indenne un bombardamento. 

Il califfato ha cambiato il mondo ahimè, quello che ha invaso e occupato, e quello che minaccia con i suoi innumerevoli gruppuscoli di morte. Puoi ritornare a casa dopo una assenza e non appena la porta si è rinchiusa, è come se non si fosse mai partiti. Accadeva fino a ieri: era il nostro mondo, l’occidente, con i suoi guai e le sue storture, ma familiare, consolidato, confortevolmente e abitudinario. Oppure puoi ritornare dopo poche ore e ogni cosa è tanto mutata da sentirti estraneo, e questo è quello che ci è accaduto, che sta accadendo.

Le grandi parole restano lì sospese nell’aria, califfato fanatismo vendetta, ma tutto si riduce semplicemente a centinaia di assassini. E’ lì la domanda, tremenda, e, forse, la risposta. Perché il demonio (ma anche dio) si sono sempre serviti di persone banali, futili, insignificanti per i loro scopi. Quando se ne serve dio si pronuncia una parola vuota, nobiltà. E quando se ne serve il demonio, ecco pronunciamo un’altra parola vuota: malvagità. Ma il materiale in entrambi i casi è sempre e soltanto quello, la stupida, meschina, assassina mediocrità umana. La principale caratteristica di questi uomini del jihad non è tanto il fanatismo, la monomania, quanto la paura di sprecare il tempo. Il tempo porta il segno della irrilevanza finché non si compie il suo terribile ordine: uccisione e morte. 

Quanto è inadeguata la nostra conoscenza del male! Per uccidere i jihadisti di Dacca hanno usato il coltello, sgozzare è infatti il modo che usano per segnarsi. Ma poi hanno filmato i cadaveri avvolti dalle pozze di sangue e se stessi. Perché? Perché quando il Califfato ha rivendicato il massacro potesse utilizzare quelle immagini. E’ la trasposizione planetaria delle esecuzioni dei poveri ostaggi di Raqqa. La violenza di massa ha bisogno di organizzazione, una operazione di sterminio prolungata come quella dell’islamismo radicale richiede grande pianificazione e grandi obbiettivi. E’ un mezzo che permette di approdare a un nuovo ordine e l’idea di questo ordine, per quanto criminale, deve essere semplice e al tempo stesso assoluta. Per chi si accinge a uccidere un gruppo di innocenti la sete di sangue è sicuramente di aiuto. Ma non basta: coloro che hanno progettato e eseguito carneficine come questa devono nutrire la ferma volontà di vedere morte le proprie vittime, averne un desiderio talmente forte da trasformarsi in una necessità. Ora quelle immagini sono lì, davanti a noi, esposte allo sguardo nella loro intimità. Cosa dobbiamo fare? Guardarle? Sappiamo che quei cadaveri, e i loro assassini, resteranno con noi per sempre. E allora sì: vogliamo restarne segnati. 

Un capo jihadista siriano, Abu Omar, mi raccontò la prima volta in cui aveva ucciso in quel modo. Mi raccontò il calore che sentiva allo stomaco e intorno agli occhi guardando i condannati e la loro angoscia mortale, stramazzavano, strisciavano, ricadevano, si inginocchiavano per invocare pietà. Spiegava che era sempre stato un uomo qualunque, ma quando aveva visto un uomo strisciare e mendicare la vita aveva avuto la sensazione di diventare un altro più forte e più potente, aveva sentito il proprio sangue scorrere e visto allargarsi l’orizzonte. Il piccolo commerciante Abu Omar era diventato ad un tratto arbitro di vita e di morte, si era trovato tra le mani l’onnipotenza. Una acuta ebbrezza lo aveva invaso finché, poi, la lama aveva cominciato a scorrere sulla gola della vittima, il sangue schizzare… ecco: ora questi uomini lottano risoluti nel buio: al di là del bene…
 
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« Risposta #39 inserito:: Luglio 18, 2016, 12:03:34 pm »

I volti dell’innocenza cancellati dal fanatismo, così è morta la pietà

16/07/2016
Domenico Quirico

Il volto dei bambini morti a Nizza dobbiamo immaginarlo. Quella serietà estremamente misteriosa, quando la morte cancella dal volto tutto ciò che prima rappresentava la giovinezza: il sorriso, la malizia, la bellezza. Quel che rimane è diverso, indefinibile. Non chiede nulla, non ci chiama, non trasmette alcun messaggio. Come se quella piccola vittima avesse appreso troppo presto qualcosa per cui avrebbe avuto diritto di attendere tutta una vita.

LEGGI ANCHE - Caro musulmano i tuoi fratelli adesso siamo noi (Massimo Gramellini) 

Il terrorista autore della più terribile strage di bambini in Europa degli ultimi anni non ha visto e non vedrà i volti delle sue piccole vittime. Il modo di uccidere che ha scelto, calpestarli con il camion lanciato a tutta velocità, lo ha asserragliato nella corazza della bestialità, della sete di sangue, del fanatismo. In fondo l’attimo in cui la belva salta fuori dal fitto della foresta, la rabbia, l’odio, di più: una indifferenza fosca e spietata che erompe a fiammate a cui forse ci si abbandona senza rimpiangere nulla e senza compatire se stessi. 

LEGGI ANCHE - Nizza, 84 morti e 50 feriti in pericolo di vita. Hollande: “Colpiranno ancora” 

Solo perché non li ha guardati negli occhi prima di schiacciarli a morte ha avuto la forza di uccidere, perché ha evitato la trappola miracolosa della pietà che permette all’uomo di essere per alcuni istanti qualcosa di diverso da quello che spesso, purtroppo, è? E’ questa la soglia davanti a cui per un attimo la bestia insanguinata si arresta. La pietà che non è amore perché l’amore sa essere implacabile egoismo. La pietà non chiede di essere ricambiata, non giudica, è misericordia per un attimo, senza condizioni.

Questo terrorista franco-tunisino che per troppi, purtroppo, la illegittima qualifica di «martire» spingerà tra gli ingiudicabili profeti, ci impone la domanda terribile: come è possibile decidere di uccidere decine di bambini? Anche questa volta è stato in contatto con le sue vittime, ha guardato la folla che inconsapevole ammirava i fuochi artificiali. Fino all’ultimo ha avuto la facoltà di scegliere. 

Eppure quest’uomo è fatto come tutti noi, respira mangia dorme legge sente vede. Ma cosa c’era dentro di lui? Chi era quest’uomo? Come può esser stato quello che è stato, aver fatto quello che ha fatto, come è possibile? E quante altre persone esistono come lui nel mondo e che cosa ha prodotto in loro, sani di mente, tanta disumanità? 

È la più terribile arma del fanatismo totalitario: la capacità di eliminare l’obbligatorietà del rimorso tra i suoi combattenti e missionari di morte. Se riesci a convincere un gruppo di uomini, e sono ormai migliaia e migliaia, che le loro azioni sfuggono al giudizio morale, sono al di sopra e al di là di una condotta definita universalmente inumana, hai in mano la macchina perfetta per illimitate e pianificate atrocità. Sgozzi un innocente? Schiacci un bambino? Non temere! Sei lo strumento dell’azione di un dio terribile e immanente nella Storia. Allora l’assassino diventa, e si sente, il sacerdote di un sanguinoso ma sacrosanto sacrificio. Aiutare dio a purificare il mondo: che impresa, altro che appassire nella malinconia di certe sventure mediocri, senza nobiltà di catastrofe! 

Allora il rimorso non esiste più, ogni azione diventa legittima e neppure quegli occhi di bimbi ti fermeranno. Un mondo in cui nessuno è innocente, salvo tu: avete ucciso la pietà, adesso sì che i carnefici possono mettersi al lavoro.


 LEGGI ANCHE Chi sono gli italiani dispersi (Alberto Abburrà) 
GUARDA ANCHE La corsa, lo schianto, l’autista i confini blindati: tutto quello che sappiamo dell’attentato di Nizza 

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« Risposta #40 inserito:: Agosto 09, 2016, 06:09:54 pm »

Viaggio coi migranti sui pick up stracolmi attraverso il Sahara
Ad Agadez, in Niger, l’incontro con i trafficanti per raggiungere la Libia: la traversata costa 200 euro. Dopo ore di attesa la partenza per il deserto

07/08/2016
DOMENICO QUIRICO
INVIATO AD AGADEZ (NIGER)

Vedi! Siamo arrivati Migrante, finalmente: tu e io, insieme, ad Agadez, la città di tutti i traffici, il crocevia di ogni cosa, l’inizio della speranza, forse; il tuo Golgota di sabbia, certamente. Sì. Siamo arrivati in tempo per il lunedì, il giorno del Grande Convoglio. È stato davvero un lungo viaggio, due giorni in bus per salire da Niamey. Tanto, troppo. Forse hai ragione, questa è la saggezza che cerchi, invano, di infonderci: la sofferenza ci fa vivere il tempo minuziosamente, un attimo dopo l’altro. So che per te esiste. Per gli altri, per quelli che non soffrono, scivola via e forse non vivono nel tempo, non ci sono mai vissuti. Siamo saliti insieme sul piccolo bus sgangherato, io e i tuoi giovani compagni. Silenziosi, esitanti, sì anche sospettosi l’uno degli altri.
 
Sette posti di controllo 
Sette posti di controllo c’erano su mille chilometri di strada: ricordi? I gendarmi sono venuti, gli occhi avidi, hanno guardato il mio passaporto italiano e me lo hanno reso con un gran sorriso: buon viaggio, turista. Ma per te, per voi, ah no, è stato diverso. Tutti fuori! controllo, controllo. È anche per questo che abbiamo impiegato due giorni, non solo per la strada che è uno strazio di buche: per chiudere un occhio sul fatto che siete migranti, volevano diecimila franchi Cfa, tredici euro, ad ogni posto di controllo. A te che hai detto che eri povero: vabbè, siamo fratelli, dammene cinquemila. Quante volte hai fatto quel gesto, hai visto quel ghigno, hai raschiato in fondo alle tasche partendo dal tuo paese laggiù, in fondo all’Africa? Suvvia basta! Adesso ci siamo: hai visto come è cambiato il paesaggio? Fino a Tahua c’erano luoghi dove gli animali, cavalli, cammelli, asini, mucche sono più numerosi degli uomini, dove questi non l’hanno ancora spuntata e si vedono bei campi di miglio e di sorgo verdi come la vita che cresce e pulsa e i giovani contadini affondano con lena la corta zappa nella terra. Li invidiavi vero? Tu che vieni da un paese assetato dove è inutile gettare la semente. Sai che quei ragazzi si affannano perché se il raccolto sarà buono potranno sposarsi. Forse anche tu quanto tornerai.
 
Questo invece è il deserto. Affondi i piedi in questa sabbia che non è pura ma venata di argilla secca e friabile, ultimo indizio del livello raggiunto dall’acqua in epoche lontane, senti un crocchiare come di una crosta di farina che si spezza. Guarda la polvere che si alza in nuvole fitte, ancora più impenetrabile per il riflesso del sole.
 
Il contatto col passeur 
Siamo qui nella ressa della stazione dei bus, ora, aspettiamo. Tu il mediatore, è il numero di telefonino che ti è stato dato a Niamey, sai che verrà e ti metterà in contatto con il tuo passeur. Tutto funziona a puntino, tutti lavorano per te. Io sono più avanti, so già chi sarà il passeur che mi porterà nel deserto verso la frontiera libica a Sebah, privilegi di chi ha già pagato i 200 euro. Senti, non guardarmi in quel modo, io al passeur la domanda l’ho fatta: ma non senti rimorsi a accumular denaro sulla pelle di altri esseri umani, a diventar ricco sulla sofferenza? Sai che mi ha risposto con una sicurezza soffice e spaziosa da starci dentro supino ad occhi aperti? Guarda che è un uomo gentile, negli occhi ha una furbizia senza ironia e una parlata a strascico pieghevole e lunga, prima portava i turisti nel deserto in Libia, è rimasto senza lavoro, alla fame, e ha iniziato a trasportare voi: «All’inizio - ha detto - anche io avevo problemi morali, poi ho pensato che tanto questi ragazzi il viaggio lo vogliono fare, in un certo modo li aiuto, cerco di ridurre i rischi e la sofferenza. Due anni fa era diverso, c’erano i libici a trasportare, lasciavano la gente nel deserto con un inganno per farli crepare e guadagnar doppio. Ci siamo parlati, abbiamo deciso che non poteva andare avanti così e ora prima di partire i miei clienti li sfamo, fanno una doccia, do loro un telefonino perché chiamino casa. I miei mezzi hanno tutti il GPS. Se c’è un guaio nel deserto vado ad aiutarli, nessuno più si perde e muore. E poi se non ci fossero loro, se non ci offrono altro, qui ad Agadez di cosa viviamo, come sfamiamo i figli?».
 
Da colpevole a vittima 
Cosa rispondiamo al mio passeur, Migrante? Dimmi, per favore, come posso farlo sentire colpevole. In questa disperazione che lui stesso giudica irrimediabile quanto più è liscia e senza appigli da debitore diventa creditore, da colpevole anche lui vittima.
 
Non avrai il tempo di vedere la città, tu, neppure il famoso minareto di sabbia che spunta come la torre Eiffel sopra tutto. Sai, è meglio che tu resti nascosto, Migrante, nella stanza che ti ha assegnato il passeur, non puoi andare in giro lestamente come me sui kabou kabou, le moto taxi. Non è un buon momento questo, il ministro dell’Interno è appena venuto ad Agadez, nel Nord dei tuareg sempre infidi, sempre ribelli, ha gridato, strepitato: dobbiamo metter fine a questo scandalo della migrazione!
 
Le finte retate 
Allora la polizia ha fatto retate, arrestato qualche passeur, sequestrato un po’ di pick up che stanno immobili, prede in lunga fila nel cortile del commissariato. Ma lo capisci anche tu, è solo un po’ di scena, il mio passeur mi ha raccontato che sono stati proprio i poliziotti ad avvertirlo, li paga bene: vattene, tira aria brutta, parti con i tuoi mezzi per qualche giorno, non farti vedere. E infatti anche oggi il Convoglio si farà. Un centinaio di mezzi, anche più, migliaia di partenti, la vena che pulsa e non si esaurisce mai. Gli arrestati tra due mesi escono.
 
Migrante, ma lo sai che tu qui sei il re, un re povero, caricato come un montone su un pick up, ma senza di te non ci sarebbe nulla in questa città: niente auto di lusso, niente pick up, bar, niente prostitute e alcol e droga e negozi ripieni, niente convoglio del lunedì, nessuna tangente per la polizia. Perfino i poliziotti tu rendi ricchi. Pensa. Sei tu che fai vivere tutto questo con i tuoi poveri denari di disperato, alimenti una economia intera.
 
Quattro anni fa ero qui, la città intontita dalla guerra, dalla rivolta dei tuareg, era una città morta. Le strade vuote, i negozi sbarrati, l’aeroporto con la pista piena di immondizie. Nell’albergo, l’albergo della pace, pensa, ero l’unico cliente, mi guardavano come un totem, l’augurio che stavano tornando i bei tempi dei turisti. Poi siete arrivati voi, i migranti e tutto il mondo si è rimesso in moto. 
 
L’economia che riparte 
Guarda adesso queste strade ingombre di una folla stravolta, estenuata, venuta da ogni dove, avanzi di un Continente. Perfino l’aeroporto hai fatto riaprire, dagli americani, che ci tengono una base militare e la gente si chiede che cosa stanno a fare. E ci sono i cercatori d’oro che partono per le arcigne montagne dell’hair, il posto più pericoloso del mondo. Lo so lo so, tu non ami l’Africa dove sei nato e quella che devi attraversare, la vuoi dimenticare e la sola funzione della memoria è invece di aiutarci a rimpiangere. Per te, per voi il mondo è di là in su che comincia, questa è ormai solo un’appendice necessaria, dolorosa da attraversare a lunghi passi, quasi in fuga, senza girare gli occhi. La carta del pianeta la scoprirai al di là del mare, i segni del futuro ti aspetti di decifrarli laggiù, se ci arriverai, da quelle vie di città di cui sai solo pronunciare il nome come una magia, aspetti di arrivare nella città che sarà lo spiraglio di tutte le città, non certo questa casbah grigia e marrone, porosa come un osso spolpato con segmenti colorati di immondizia, di avvizziti cespi di erba. Non è vero che perduta la tua terra non vali più niente.
 
Alcol e prostitute 
Prima o poi anche tu Migrante dovevi arrivare al bar «Dounia», l’ufficio dei passeur. Oppure ti hanno indicato quello delle «arénes» proprio all’ingresso del palazzetto dove si svolgono le gare di lotta tradizionale? Non importa: sono eguali, infilate due porte, un corridoietto, una cucina sudicia dove miagola disperata una gatta e sbocchi in un mare aperto, resti stordito, macchie sospette sui muri azzurrini, luce, calore, su nel naso pizzica un odore micidiale: urina, sudore, alcool cattivo. Gente, molta gente sopra e sotto le panche, sbraitano, cantano, bevono. E vomitano. Dovresti esser lì quando entrano in processione solenne alcune prostitute enormi, elefantiache, si muovono, per la mole, ondeggiando come navi, hanno boubou che sembrano tessuti d’oro, e braccia cariche di monili. Insultano, lanciano inviti volgari, fanno sussultare il sedere queste signore carnali, nessuno replica, le circonda una sorta di preoccupata venerazione. Sono le prostitute dei passeur toubou, la popolazione di confine tra Niger e Libia, i più ricchi e feroci, sono loro che le vogliono così, grosse. 
 
Guarda! Entra un trasportatore di uomini, il turbante bianco, muove a scatto i fissi occhi tondi e la barbetta appuntita, resta sempre, anche quando ride o beve una birra dopo l’altra, a orecchio teso come un rapace da preda. Tutto quello che guadagnano e sono cifre enormi, i toubou lo spendono in prostitute e alcool, vivono in questi due tre bar della città. Sì, siamo tutti davvero in fondo a un inferno dove ogni attimo è un miracolo.
 
Schiere di bambini 
Adesso io e te dobbiamo parlare dei bambini, dei bambini che a torme in strada vestiti di stracci tendono mani sudice a scodelle, i piccoli migranti affittati. Non possiamo far finta di niente. Per descriverli sogno una lingua in cui parole come pugni fracassino le mascelle, un pensiero, uno solo! Perdio che mandi per l’indignazione in frantumi l’universo. Agadez è la città dei piccoli migranti affittati. Le famiglie li cedono a false madri che li portano, sette otto per volta, nei Paesi del Golfo, in Arabia Saudita, in Algeria a mendicare. Vengono dalla regione di Kanthe dove i confini sono così labili che non ti accorgi di passare dalla Nigeria al Niger.
 
Un giorno bisognerà scendere in quel cuore di tenebra, ficcare gli occhi e guardare. L’affitto vale tremila franchi cfa al giorno, meno di cinque euro, loro guadagnano mendicando per la loro finta, sozza madre anche due tre volte di più. Ad Agadez attendendo di partire ti seguono, hai visto? ovunque con un pigolio di zanzare, si allenano a mendicare, portano già denaro per pagare il passeur. Sono entrato nel cortile dove vivono nascosti con le false madri: un’aria sporca, purulenta, dolciastra, putrefatta e infantile che vi cuoce sgorga da cumuli di stracci e immondizie, cibo putrefatto, razzie nelle discariche. 
 
Il commissariato 
Ma non è quello che ti soffoca: è il pianto collettivo contemporaneo di decine di bambini, il pigolante urlo del dolore assoluto. Davanti, proprio davanti, all’altro lato della strada, non puoi crederci! c’è la sede della Croce rossa, accanto il commissariato centrale di Agadez. Un poliziotto grasso, in divisa, dorme sdraiato in fantastico equilibrio sul sellino di una moto proprio vicino all’ingresso del cortile infame.
 
Ho parlato con una delle false madri, ti racconto: mi ha spiegato che quando arriverà in Arabia Saudita legherà le braccia dei bimbi nascondendole sotto la tunica così sembreranno dei mutilati e poi spargerà dello zucchero sul volto: attira le mosche a legioni, la gente si intenerisce subito. È meglio affittare portatori di handicap, autistici, storpi incassano di più. In che mondo viviamo, tu e io? in questo preciso istante migliaia di bambini così sono in viaggio attraverso il deserto, mentre io con la penna in pugno, cerco invano qualche parola che commenti la loro agonia.

 
Nel deserto 
È mattino, lunedì: è l’ora del convoglio, per te e per me l’ora del deserto. Ricordando mi accorgo che è uno di quei vortici da cui si srotola la spirale del tempo. Eccoci qui, insieme, ad annaspare nel buio come se il mattino non volesse più cominciare, come se non riuscissimo a spiccicare gli occhi dal sonno in questo immenso cortile del quartiere dei depositi dove ci hanno nascosti in attesa che arrivino i pick up e partire per la barriera. Poi ci gridano di montare e nel formicolare di ombre tocco qualcosa di solido, infine, il fondo del cassone.
 
Vieni, Sali! Ecco che adesso il buio comincia a diventare trasparente, a filtrare le forme e i colori. Tutto a un tratto non siamo più soli nella via, la nostra colonna di una decina di mezzi marcia sullo stradone affiancata a un’altra. Il nostro mondo sarà il deserto che dovremo attraversare, questo spazio senza confini non antropomorfo in faccia al quale e soltanto lì forse l’uomo è uomo. Lì dovremo aprirci la strada senza mai uscirne fino al mare, quella strada segreta che solo noi conosceremo e che passa attraverso tutti i deserti, che unisce ogni deserto in un solo deserto, ogni luogo del mondo in un luogo al di là di tutti i luoghi del mondo.
 
So che hai paura, so che avete paura. Si stenta a credere fino a che punto la paura aderisca alla carne, le rimane incollata, ne è inseparabile e quasi indistinta. Andiamo verso la barriera del controllo, ti accompagnerò fino al primo dei due pozzi lungo i mille chilometri che portano alla Libia, quello che si chiama Itchè Tenerè, l’albero del Tenerè. E poi ci sarà ancora per voi Dirkou, con le sue miniere di sale. 
 
L’ultima cosa che la città ci lascia è il cadavere candido di una pecora abbandonato lungo la pista. Cadendo da un pick up il collo si è ritorto e spezzato in modo strano e ora ci guarda da sotto in su, riversa, con gli occhi infinitamente tristi della morte, mentre il calore del sole già la gonfia.
 
I banditi tuareg 
Lo so che hai paura, sono mille chilometri, e i banditi tuareg che ci attendono appena fuori la città. Non abbiamo nessuna ricchezza, ma a loro talvolta basta anche un vestito più colorato degli altri. La paura non puoi farci niente sarà il nutrimento della tua vita. Sei gonfio, ricolmo, obeso di paura. Ci hanno messo in trenta su un pick up, hanno alzato delle assi per renderlo più sicuro.
 
Senti cosa dice il passeur, è importante: se qualcuno cade non pensiate che ci fermiamo, sono affari vostri, nel deserto gli autisti hanno l’ordine di spingere a tutta velocità e non fermarsi mai. Non dimenticatelo. Guarda, guarda migrante come funziona bene il sistema del passaggio: l’autista del nostro mezzo sporge un biglietto al capo della postazione dei gendarmi, è il lasciapassare dove è scritto che il nostro passeur ha pagato 150 euro a veicolo. Dei gesti delle dita per segnalare quanti veicoli sono «autorizzati». Nemmeno si rallenta, ora si può andare.
 
Ci scrutiamo nella luce crudele come sorpresi di trovarci in tanti. E nel nostro guardarci resta sospeso l’interrogativo del giorno che inizia. E se la vostra forza fosse questa forza d’animo, ovvero il coraggio di non figurarsi in modo diverso il vostro destino?
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/07/esteri/viaggio-coi-migranti-sui-pick-up-stracolmi-attraverso-il-sahara-33XhzE1COQtFhnajlw8Z3K/pagina.html
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« Risposta #41 inserito:: Agosto 15, 2016, 06:43:49 pm »

Viaggio nel cuore della Somalia fabbrica di kamikaze per colpire l’Europa.
Gli jihadisti di Al Shabaab cacciati da Mogadiscio hanno ripiegato su Baidoa. Lì hanno costruito campi di addestramento per i nuovi adepti del Califfo

15/08/2016
Domenico Quirico
Inviato a Baidoa (Somalia)

Da quando ho deciso di tornare in Somalia, a Baidoa, provo una inquietudine strana, come il senso di un oscuro pericolo. Di un pericolo che sia in me, dentro la mia coscienza. Qualcosa è nell’aria che mi mette in sospetto. Sto forse per attraversare la frontiera di ciò che intimamente non deve esser ricordato o raccontato, che è meglio resti sepolto in nebbie di dimenticanze? Questa Africa impassibile e oscura in cui arrivai venticinque anni fa, al tempo della Grande Fame. Chi indaghi in questo tragico Paese scopre che non lo si può raccontare e conservare dentro di sé se non in termini di ordine morale: non storico o politico, morale. La Somalia mi batte nel petto ancora e tiene desti tutti i miei demoni. 

Il piccolo vetusto aereo compie, per atterrare, una brusca virata come impongono i regolamenti delle zone di guerra. Mi sento già stanco, come se dovessi superare una prova, varcare appunto una soglia vietata.

Perché qui mi guardai allo specchio meravigliandomi che il volto non fosse stato marchiato dall’inferno in cui ero sceso, che la realtà non avesse, con le sue trafitture, sciolto l’anima da ogni ancoraggio. 

Carestia e guerra 
Venticinque anni fa, Baidoa, la carestia e la guerra. Ascolto. Mi ricordo di tutto: sulla strada che portava in città e poi, più a Sud, verso Bardera, capitale di uno più feroci signori di quella guerra, i moribondi e i morti per fame. Bambini e ragazzi: non so perché, nel ricordo, mi pare fossero solo così. Eppure c’erano donne che gettavano i figli nei pozzi folli per non poterli nutrire e vecchi, ma all’ombra delle acacie, sdraiati senza forze, oggi ricordo solo ragazzi: sembravano dormire abbandonati all’ombra pallida dove li aveva colti l’estremo sfinimento, ogni tanto aprivano gli occhi si guardavano intorno. Pareva che qualcosa di vivo, di sveglio fosse rimasto in fondo alla loro coscienza. Era un diffidenza istintiva, incosciente ormai verso la vita che li abbandonava. 

 I morti, avvolti nelle loro fute sudice, sedevano anche loro, qua e là, appoggiati ai tronchi e alle spine, in gesti che la morte aveva interrotto, fermati in mezzo a un lentissimo, intimo moto. Dormivano anch’essi nell’aria densa di sole e di mosche, ma vi era nel loro sonno senza risveglio come una terribile pace, una confidenza, un estremo abbandono. Pick-up furibondi di mitragliere e cannoncini (l’apporto della Somalia alla scienza della morte del ventesimo secolo che ahimè ha fatto scuola in altri luoghi del mondo) passavano indifferenti coprendoli con un sudario di polvere. 

Il mondo scopriva la carestia dovuta non alla siccità o alla natura ma creata dalla guerra che aveva svuotato i granai fino all’ultimo chicco di sorgo. La strada incideva nella carne rossa dei poggi. Scendeva tra valloni coperti di macchie spinose lievemente ondulati di una tristezza deserta e piena di rancore. Poi a una svolta spuntò un ragazzo che scendeva con passo incerto sbandando: un ragazzo, proprio un ragazzo, uno straccio sulle reni, anche nello sfinimento dell’agonia con le mani appoggiate a un bastoncino posato in bilico sulle spalle, attraverso il collo, nel gesto normale dei pastori somali. Tutto ciò che era umano sembrava estraneo a quella terra di morte. Pareva di attraversare una zona di natura dove l’uomo, travolto dalla bestialità della Storia, era diventato un puro accidente, un caso. L’autista scese per aiutarlo, con una bottiglia d’acqua, del pane. Il ragazzo lo guardò come da una distanza infinita e poi crollò a terra: senza vita. Era un figlio innocente della guerra, della paura, dell’esilio, della fame.

Colera e guerra 
Venticinque anni dopo a Baidoa infuria il colera e la guerra non è mai finita: ci sono gli Shabaab, gli uomini del califfato del Corno d’Africa, i nuovi terribili signori della guerra. La Somalia è una terra di dolore, un’Africa che ti schiaccia, che ti entra nell’anima come una pugnalata di realtà dolorosa. Non ci vada chi vuole passare una vita di ottimismo. Ma chi cerca la verità deve farci una sosta rischiando: anche più che la vita, ciò che hai dentro. Trovi a Baidoa uomini che combattono contro il terrorismo fanatico. Come il Dottore, che ha insegnato in università europee medicina, odia l’antica maledizione somala dei clan, delle tribù e il nuovo fanatismo che ha contagiato la sua gente. Che è tornato volontariamente nella sua terra, lo Shebeli, «per dare volontariamente una mano». Sono uomini che ho sempre ammirato, quelli che non fanno del coraggio una sfida e non tracciano un ritratto eroico di se stessi davanti agli altri. Quelli che ti insegnano a vivere nonostante la paura attanagli anche loro. Non riconosco il paesaggio: non c’è più la terra arida, dura e rossa di aspetto, di umore, della carestia, di una povertà bellissima e aspra. Le immense distese di stoppie gialle sparse di alberi magri di disegno risoluto e insieme astratto di 25 anni fa, sono diventate, in questa stagione, un trionfo di verde, di alberi sani, di campi germoglianti il sorgo e il mais, quasi una foresta che sembra guardarti. Non ingannarti! Non dimenticare mai: qui c’è la guerra, la guerra del ventunesimo secolo, il jihad che si è fatto universale. Nei villaggi attorno a Baidoa gli Shabaab hanno costruito i loro campi di addestramento. Bambini guerrieri e combattenti che vengono dal Sudan o hanno passaporti inglesi e americani si allenano, sotto la guida di specialisti della guerra santa, a formare la nuova generazione del Califfato, a diventare kamikaze. 

 L’arrivo dell’Isis 
Gli uomini dell’Isis Mukhtar Mansur, il Siriano, e Mustaf Adow, somalo con passaporto americano, sono giunti qui nel dicembre scorso e hanno subito rovesciato i rapporti di potere: in declino Al Qaeda che aveva storiche basi, in crisi la tattica dei vecchi Shabaab, anchilosati in una pantofolaia mafia terroristica, impegnati soprattutto a raccogliere denaro con estorsioni e sequestri. Sono loro che hanno fatto strage nella base keniota e preso per qualche tempo la città di Merka. A Dale, ad appena 60 chilometri da qui, c’è una base con 450 combattenti, dove si cura l’addestramento degli stranieri che poi lasceranno la Somalia usando i loro passaporti occidentali, e la preparazione dei kamikaze Tra loro lo sceicco Towfiq, siriano e Serwan Mustar, «l’americano». A Bohosha, una zona di foresta fitta, opera Dahir Gamay, capo dei giudici di al Shabaab. A Yaqbarawe, c’è il campo più grande, 600 guerriglieri con decine di veicoli; li guida tra gli altri Ali Dere portavoce di al Shabaab. E poi altre basi a Bulafulay, a Mount Harar. Questo stato federale, il South West, ha per fortuna un presidente coraggioso, Shariff Hassan, ex commerciate di pasta che li combatte, con pochi mezzi, ma in maniera implacabile, con l’aiuto dei soldati etiopici e degli inglesi. 

I margini delle cose spiegano spesso meglio quanto accade, è lì che bisogna cercare, osservare. Perché puoi leggervi gli strati di vernice che si sono depositati sulle cose e la ruggine che le rode. Chi cerca al centro, la Siria, la Libia, si perde nella illusione di capire, tutto è troppo evidente e confuso nello stesso tempo. Qui in questa periferia del mondo, margine apparente del califfato, maturano le sue implacabili metamorfosi, si preparano le micidiali sorprese che ci riserverà domani.

Baidoa sembra una bella città colpita da decrepitezza. Solo i tetti di lamiera colorata vivacemente di rosso e di blu regalano macchie di colore ai ruderi, al sudiciume delle cose. Vecchi grinzosi ci vengono incontro nelle strade insieme a ragazze bellissime, alte e magre che portano grandi vassoi di legno. Bambini seminudi inseguono capretti neri dal viso bianco. Bande di cani famelici ruzzolano abbaiando. La scena ha un suo moto solenne, una compostezza dignitosa e antica. Al centro della città si eleva un campanile. Un tempo era la cattedrale, ora in cima c’è una mezzaluna. È stata trasformata in moschea: non mi lasciano entrare. Vergogna, dolore: una sconfitta di Dio. Non il mio, ma quello che, qualunque sia il suo nome, ci dice: sono io, non temete.

L’ex dittatore Barre 
Saliamo su una altura dove era il palazzo distrutto di Siad Barre, il dittatore che è all’origine di questa tragedia. Camminiamo in precario equilibrio sulle rovine di cemento che si disfano in polvere. Dalla montagna trasuda l’acqua di una ruscello, Isha Baidoa la chiamano, che forma una polla. Ecco i sicomori, meravigliosi alberi, si odono lontane grida di bimbi che giocano nell’acqua. Un soldato dagli occhi felini mi indica l’altura di fronte nell’aria trepidante. Di lì, la notte, gli Shabaab colpiscono la città con i mortai, uccidono. Il paesaggio si estende infinito, si scompone come se fosse dipinto su un fondo di teatro agitato dal vento. Stormi di ibis bianchi e neri roteano alti. La guerra feroce non insozza la campagna come i volti e le anime.
I militari etiopi 
Sulla strada per Dale i soldati etiopici escono sparpagliati dal sottobosco spinoso, alcuni hanno le facce grigie di sfinimento, le camicie zuppe di sudore per i pesanti giubbotti antiproiettile. Improvvisamente le campagne appaiono deserte, in guerra si nota di solito questa atmosfera di solitudine prima di entrare sulla scena della battaglia. In mezzo alla strada, il mitra in mano, con l’elmetto gettato indietro sulla nuca, uno di loro grida parole violente e dolci in amarha come se parlasse a se stesso a voce alta. Hanno baffi sottili sulla bocche grandi, sono esili, alcuni sono ragazzi, altri hanno le dure espressioni di cacciatori e di cacciati al contempo. Li pagano, per difendere Baidoa dai jihadisti, mille dollari al mese, una fortuna. Armati come sono forse potrebbero annientare gli Shabaab, metterli in fuga. E allora? Se, in fondo, non convenisse finire questa guerra che rende in mille modi? La lotta al Califfato, qui e altrove, si impingua di altri interessi, sfuma in utili, opportunistiche lentezze.

L’innocenza dell’erba, il suo tremito affettuoso, a tratti il silenzio si fa perfetto. Tutto è abolito, l’aria sola è vivente. Tra i soldati etiopici spuntano due uniformi diverse, più chiare: ragazzoni dai capelli rossi, commandos inglesi. Nella notte hanno colpito più a Nord, con elicotteri decollati da una portaerei americana: nella rete sono rimasti cinque Shabaab tra cui un sudanese. 

Terroristi arrestati 
Vado a vedere i jihadisti prigionieri nel carcere di Baidoa. Nelle celle dei comuni in maggioranza sono soldati e poliziotti che hanno venduto i loro fucili. Da sette mesi non prendono stipendio, cento teorici dollari al mese. Come i giudici, o i medici. Penso ai mille dollari del soldato etiopico e capisco perché qui i poliziotti sono disarmati… Aleggia un odore appiccicoso come una ragnatela , vischioso, impercettibile. Lo Shabaab è giovanissimo mi scruta dal suo buio con gli occhietti piccoli affogati tra le grosse guance. Mi tuffo nel freddo vischioso di quegli occhi che fissandomi mi trapassano a succhiello. Si racconta senza palpiti: mi hanno preso con dell’esplosivo, mi hanno condannato a morte adesso attendo di sapere se mi uccideranno. La rabbia e il calore della piccola cella gli strizzano dal volto un sudore scarso come la rugiada in tempo di siccità. Non nega, non cerca scuse. Mi guarda. 

In una altra cella ci sono tre uomini, sono capi Shabaab. Stanno seduti con le gambe incrociate tutto è in ordine meticoloso, hanno barbe ben curate. Non rispondono al mio saluto musulmano, come se non esistessi, in silenzio. Vedo il loro sogghigno sprezzante. Guarda che cosa abbiamo fatto, dicono i loro occhi, guarda che cosa possiamo fare. Sappiamo quel che è bene e quel che è male. Crediamo nel paradiso e crediamo nell’inferno. Sappiamo di aver ragione.

Torno a Mogadiscio. Attraversare la città è un viaggio tra i luoghi del terrore: l’hotel Saafi, il Quarto chilometro, il Tribunale. Il tanfo soffocante della politica somala ti arriva a zaffate: si preparano le lezioni, il denaro della corruzione corre a fiumi, bisogna comprare i grandi elettori dei clan che eleggeranno a loro volta i deputati. E poi peggio: le voci sul presidente Mohamud e le sue simpatie per salafiti e Shabaab, su una delle due mogli, Zara, che vende i visti e va in carcere a far liberare terroristi arrestati. E Abdu Izak, ministro degli interni, uno Shabaab «pentito», e il gran burattinaio Farah anche lui ex ministro, fondatore del partito «Sangue nuovo», gran finanziatore di madrase e scuole islamiste, uomo di traffici e di affari con i fondamentalisti. La cattedrale devastata è diventata un parcheggio, su Casa Italia, storico e meritorio orfanotrofio di proprietà italiana, sventola la onnipotente bandiera turca. Abbiamo duecento paracadutisti di base in un albergo all’aeroporto di Mogadiscio. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/15/esteri/viaggio-nel-cuore-della-somalia-fabbrica-di-kamikaze-per-colpire-leuropa-yR4Lv5zEV8F9Q6yH4gAuCO/pagina.html
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« Risposta #42 inserito:: Settembre 02, 2016, 05:26:32 pm »

“In viaggio con Quirico nel mondo in cui non c’è spazio per la pietà”
La regista Piacenza e l’inviato rapito in Siria a confronto per raccontare “Ombre dal fondo” il documentario che sarà presentato a Venezia: “Il nostro focus è la guerra, ma vista al microscopio”

30/08/2016
NADIA FERRIGO
TORINO

Il desiderio di tornare dove si è creduto di esser morti senza accorgersene, in un inferno senza diavoli ma con i contorni di una stanza vuota, può essere bollato come folle o arrogante. Nella più benevola delle interpretazioni, di un coraggio che sconfina nell’incoscienza. Ma per Domenico Quirico, inviato di guerra de La Stampa rapito in Libia e poi in Siria per 152 giorni, voltare le spalle al Male è un tradimento insopportabile. Nel documentario Ombre dal fondo, che il 10 settembre chiuderà le Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia, non c’è la pretesa di tracciare una via per chi sogna - e tantomeno per chi fa - il mestiere più bello del mondo, ma la volontà di raccontare un viaggio che «si può concludere solo con un ritorno».
 
Ad accompagnare Quirico, da sempre abituato a lavorare solo, è Paola Piacenza, giornalista dal 1990 e al suo esordio come documentarista nel 2009. Anche lei professionista solitaria, partita per la prima volta alla ricerca di un’immagine. «Dopo molti anni al lavoro tra esteri e cinema, ho desiderato muovermi in direzione delle cose - racconta -. Con una piccola telecamera, che ho imparato a usare in fretta, sono andata al confine tra Iraq e Iran. Tra quelle valli celestiali e minate, se ne stavano colline intere di taniche da benzina, vuote». Ne è nato un documentario che racconta il traffico di contrabbando di una microscopica comunità: da una parte le taniche, dall’altra prodotti elettronici. Dopo The Land of Jerry Cans, presentato in tutto il mondo, ne sono seguiti altri due. «E poi il rapimento di Domenico. Non lo conoscevo ancora, ma ho iniziato a pensare a lui come volto e voce di questo film quando era prigioniero in Siria. È un giornalista perché ha sposato l’etica di una professione, ed è un indagatore della condizione umana. Abbiamo deciso di filmare una serie di conversazioni, ero convinta ne nascesse una pellicola di parola. Poi è nata l’esigenza di partire». 
 
Prima in Ucraina, poi in Siria, andando a cercare la stanza della prigionia del 2013, accompagnato dal senso di colpa nei confronti delle persone amate e dalla paura che il ritorno non portasse alcuna risposta. «Se fosse stato un film sulla mia storia siriana non avrei accettato - racconta Quirico -. Non è retorica, ma il discorso vero sono i siriani, i 400 mila morti. Abbiamo raccontato solo una minima parte delle atrocità della loro guerra. Ci sono terre in cui non c’è spazio per la pietà, non c’è modo di esercitarla. Iraq, Somalia, Nigeria, Cecenia. Questi luoghi si moltiplicano. Meno una terra è raccontata, più si può avere la ragionevole speranza di riuscire a cambiare il destino di quelle persone». 
 
Così il giornalista deve toccare la realtà, non avere paura di contaminarsi. Nei primi anni di lavoro agli Esteri de La Stampa, Quirico andò in Somalia e Mozambico: l’Africa interessava a pochi, «Paese derelitto per giornalisti derelitti». «Prima di partire si passava in archivio per la busta dei “ritagli” - racconta -. Così in aereo ci si metteva a studiare, con il pericolo di scrivere non quello che si era visto, ma quel che si era letto. Ora vado in un posto cercando di saperne il meno possibile, senza la pretesa di spiegare tutto quel che succede. Stringo, al microscopio. E cerco il batterio che si muove in modo terrificante in un piccolo spazio».
 
Nel film lo spettatore è accanto a lui, nella sala d’attesa di un aeroporto, nelle strade siriane. «L’ho osservato al lavoro. Silenzioso, attento - continua Piacenza -. Non prende appunti, giusto qualche foglio svolazzante. Ma quando scrive, trovi dettagli che a tutti erano sfuggiti». Con il ritorno al Male, il cerchio si chiude? «Credo che al film manchi un capitolo. Manca la risposta sulle conseguenze che questa storia ha avuto su di me. Non ho mai onestamente risposto, ora in qualche misura lo posso fare. Mi ha reso una persona peggiore. Ho vissuto tante storie di brutalità assoluta. Quello che è diverso è la lunghezza del periodo di omissione di sé: il rapimento è una parentesi che ferma quello che sei e ti impedisce di evolvere. E me ne sto accorgendo ora, con un’onda d’urto lenta. Può darsi che tra altri tre anni sarò una persona ancora più solitaria di prima. Non per scelta, ma per necessità».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/30/spettacoli/in-viaggio-con-quirico-nel-mondo-in-cui-non-c-spazio-per-la-piet-RbSdusXzYZIS6Dz9J5RfVI/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Settembre 06, 2016, 04:05:56 pm »

Nella città ostaggio di Idlib, la roccaforte di Al Nusra
Viaggio nella capitale dell’altro Stato Islamico che dilania la Siria. Qui l’emirato jihadista combatte Assad e lotta per la supremazia contro l’Isis

03/09/2016
Domenico Quirico
Inviato a Idlib

Presentimenti spirano indietro. Ho uggia, infine, di questa guerra siriana, una ansietà che si prolunga troppo ormai, dinanzi agli occhi da cinque anni non ho che un seguito di urti e massacri, una musica infernale fino al sacrificio inevitabile. 

Ho guardato le carte delle zone controllate dagli innumerevoli contendenti.
L’esercito, Hezbollah, i jihadisti buoni come diciamo noi in Occidente e quelli cattivissimi, il Califfato di Raqqa, adesso anche i russi e gli iraniani. Mi sembra che la guerra si sia calcificata, ossa deformi ma ormai solide, come i pini di Homs che ti accolgono piegati da un vento perenne, sciancati dal loro duro lavoro quotidiano di diga. Sì, la Siria è sepolta in un immenso campo di battaglia, impigliata tutta intera nell’obitorio della guerra. Se vieni qui vai a sfregare di continuo la vita contro la morte come un acciarino. Questo forse è il senso: se la morte e il dolore non fossero nel cuore della vita un durissimo nocciolo, la vita sarebbe un frutto troppo molle e maturo.

Mortai e cannonate 
Ma oggi queste cannonate, questi mortai, questi quartieri e terreni incolti del fronte Nord-Ovest, a Idlib, che si ingramagliano di fumo e di polvere mi irritano, il loro rumore è fisicamente doloroso, mi battono il passo mentre avanzo verso la città maledetta. Da quattro anni fa parte dell’emirato di Al Nusra: no, ora Al Qaeda si fa chiamare Fateh al Cham. Ancora mimetismi, trucchi semantici: per attrarre altri gruppi islamisti minori, Ajnad al Cham, Liwa al Haqq, piccoli ma feroci, e continuare a ingannare un Occidente che sogna sempre un Islam educato e meno assassino. Uccidono, mettono autobombe, torturano e rubano come Daesh: ma, ipocritamente. Non usano la videocamera, non proclamano ipotetiche avanzate verso Roma. Lo scopo è identico: Califfato e totalitarismo di Dio che hanno messo in pratica nella provincia di Idlib e nelle zone di Aleppo che controllano.

È grande l’emirato con la sua sharia: la spina dorsale va dal confine turco, dove passano i rifornimenti pagati dall’Arabia Saudita, ai monti di Latakia e di Idlib, taglia l’autostrada che porta ad Aleppo, e più giù, appunto, fino a Al Uar, centomila abitanti proprio a fianco di Homs. Idlib è al centro, novanta per cento della città è di al Nusra, un dieci per cento alza le bandiere di Daesh: tutto nasce e porta lì in questo macchia tenebrosa sulla mappa della terra che trabocca di ogni forma di crudeltà. Lo tengono i combattenti siriani e stranieri della ghenga terrorista. Almeno quarantamila, molti di più di quelli di Raqqa. Questa è la premessa della guerra di domani, il terrorismo che seguirà alla caduta (forse) del califfato. 

 Ho un presentimento stupido in questa mattina che si beve con abbandono il sole incandescente e inondante; la luce ci stringe come una insidia tenace, tutto il giorno si è svegliato davvero minaccioso a guardia del paese morto. Lontananze. Vivo in lontananze. Rovine bizantine ovunque, fortezze abbattute, frontiere divelte, secoli fa. Guerra. Guerre. Sempre. Lasciamo lo stretto corridoio che porta ad Aleppo, pochi chilometri e pieghiamo ad Ovest verso i villaggi sciiti di Nobbel e Zaara che l’esercito ha riconquistato. Adesso il fuoristrada corre follemente sulla via che costeggia una grande fabbrica, criniere di fiamme dalle ciminiere. 

Di corsa sulla strada 
Gelo improvviso, cuore che smaglia. Mi verrebbe voglia di gridargli, all’autista: rallenta! Perché corri così a perdifiato? Non è la morte questo cigolio di mortai che scoppia alla nostra destra, per quanti ne piovano, per ragioni di traiettoria, non possono che cadere tra gli sterpeti incolti. Idlib è lì che ci attende con i suoi ostaggi (o sudditi fedeli) dell’emirato. Non fuggirà. 

La prima volta che la vidi, quattro anni fa tutto era diverso, era inverno: vi era un oceano di nebbia nel quale nuotavano distese piatte dai fantasmi di alberi e di case, che faceva oscillare il mondo nel quale si andava annegati. L’umidità fosca cambiava il freddo in una cosa e ci applicava addosso brividi.

 La Siria è un luogo di strani commerci, di patti che sembrano impossibili. Nelle pause tra le battaglie furibonde regime ed emirato si scambiano accordi: ad al Uar per esempio gli studenti escono dalla fortezza assediata per sostenere gli esami a Homs, il governo manda i bus per i trasporti giornalieri. Ma qui non è giorno di accordi, è battaglia e dura. Aerei russi ringhiosi come bulldog sfrecciano dalla base di Palmira.

Una battaglia urbana è un complesso rompicapo di uomini che combattono, di civili indifesi e terrorizzati, di rumori, odore, colore, paura, conversazioni troncate a metà e esplosioni ad alto potenziale. 

Passiamo le postazioni dei soldati governativi, oscuri sciami di umanità, antri di oscurità e di tanfo, odori di cose vive, giacigli a cui hanno appeso, gli entusiasti, gli ossessivi ritratti della dinastia Assad. Facce arrossate o pallide, sfigurate dal sudore, arruffate da barbe incolte e incrostate da cappelli bradi. Alcuni si stiracchiano, vomitando sbadigli, mentre raccolgono fucili e bandoliere. Una radiolina rovescia la voce flautata di Nasif Zeitun, la star della canzone siriana: amori infranti ma anche la voglia di pace e di finire la guerra… L’unico elegante e pulito in camicia bianca è un borghese, disarmato, usa un telefono color avorio dell’epoca sovietica, posato assurdamente, lì all’aperto su un tavolino da ufficio. Escono voci concitate, urla, sono le indicazioni e gli allarmi sulla attività dei cecchini di Al Nusra. 

(Il 29 marzo 2015 Al Nusra, la formazione jihadista nata da una costola di Al Qaeda, strappa la città di Idlib al controllo dell’esercito di Assad dopo quattro giorni di assedio. L’organizzazione, fondata nel gennaio 2012 con l’invio in Siria di sei membri di Al Qaeda, punta a far cadere il regime di Damasco e sostituirlo con uno stato sunnita islamico. Lo scorso 29 luglio il leader Abu Mohammed al Joulani ha annunciato la «separazione consenziente» dalla rete terroristica fondata da Bin Laden per «togliere agli Stati Uniti il pretesto per bombardare indiscriminatamente i ribelli». Il nuovo gruppo è stato ribattezzato Fath al-Sham, Fronte per la Conquista del Levante) 

«Si muore una volta sola» 
C’è un soldato che ha tutti i capelli bianchi e l’elmetto lo ha ricavato da un casco da operaio coprendolo con la tela mimetica. Hanno preso anche lui a fare il soldato: scarseggiano gli uomini nell’esercito. 

«Non ti piace? Mi chiede il vecchio indicando le cannonate». «No». «Non è nulla, non è nulla passerà. E comunque si muore una volta sola...».

Hanno facce, i soldati qui, di una serietà triste e attonita, si vede che è gente sottratta a sconcianti fatiche di uomo per fare la guerra che non è cosa loro. Un senso oscuro di necessità viene dalle cose in Siria ed essi, come gli altri che gli stanno di fronte, i fanatici, non lo discutono: è quello che gli ha dato una uniforme e un fucile. Forse si sentono arnesi buoni e pronti all’uso dietro a una volontà che è inesorabilmente fuori di loro. A noi spetta la domanda: che sarà in tempo di pace, se mai la pace arriverà, di questa fredda abitudine all’omicidio, che sarà di questi uomini a cui, dalle due parti, si è insegnato ad essere uccisori tranquilli?

La guerra non rende un uomo migliore o peggiore, lavora come carta vetrata, gratta via il superfluo, mette a nudo il nocciolo, rivela la vera essenza. La Siria mi uccide, ti uccide anche così.

Non dimentico che ho conosciuto, e bene, gli altri, gli uomini di Al Nusra. Nulla li rende diversi dai seguaci del Califfato: la tortura, i mezzi diretti di disintegrazione, più ancora l’avvilimento dell’uomo, l’amalgama con il criminale cinico, la complicità forzata. Chi uccide o tortura in nome di dio non conosce che una unica ombra alla propria vittoria, non può sentirsi innocente. Deve dunque creare la colpevolezza della vittima stessa. Quando il concetto di innocenza scompare la potenza eretta a valore, il fanatismo puro, regnano definitivamente su un mondo disperato.

Ricordo un emiro, piissimo, di Al Nusra. Predicava: «Un uomo lo puoi colpire senza timore, l’uomo è moscio come un pastone. Non pensare al come e al perché. Tu sei puro e devi colpire senza ragionare. Spaccare un nemico di dio è una cosa santa. Per ogni nemico ucciso dio ti perdona un peccato, come per una serpe eliminata. L’eretico, l’infedele devi ammazzarlo senza pensarci su. Sono marciume. Sono sporchi, appestano la terra, vengono su come una specie di fungo velenoso…».

Adesso bisogna scendere dal pick up, c’è un angolo morto che ci protegge, qui, bastioni di utile terra e di pietra ruzzolata e accatastata in disordine. Ma la prima linea è laggiù e ci divide una decina di metri di passaggio scoperto. «Bisogna correre e correre svelti», mi spiega uno dei soldati, giovane questo, una spavalda faccia da scomunicato. In una trincea, in un bunker sei in una tomba, tremi come un montone. Ad andare così, all’aperto, invece senti le tue braccia, le tue gambe, anche morire è una cosa più libera.

Adesso la paura sale dalla terra contaminata, riempie i nostri corpi, si insinua come un verme nello stomaco. Tutto diventa freddo anche se il sole cuoce. Finita la guerra come si farà a bonificare il suolo da questa paura che incombe sui campi e le città come una nebbia? Sto per avviarmi. So che non ci sono molte alternative: devi sperare che il cecchino sia distratto, che la sua arma si inceppi, che la polvere gli offuschi la visuale. Altrimenti non hai scampo. Non sono un uomo per lui, sono un pupazzo, un bersaglio mobile, una cosa vuota di anima. Il mio urlo se mi colpirà sarà per lui impersonale come il vento nelle feritoie della sua tana. 

Il soldato giovane mi fa segno, inginocchiandosi, un gruppo di case rossicce: il cecchino è lì, «ne ha già sciancati e accoppati molti dei nostri. Ma qua non riusciamo a costruire una barriera di protezione…».

«Vado io per primo» 
Allora: si prende fiato un momento, tutta la vita passa in un rimpianto di un attimo, un presentimento si affaccia ed è respinto con terrore, ed ecco ci si tuffa nel rischio. «Lascia vado io per primo, ho pratica, tu corrimi subito dietro, vicino, in due non ci può prendere…».

Scatta via, e io dietro con tutte le mie forze, un metro, due metri dai, è passata. Invece apre le braccia, si gira su se stesso e cade davanti a me, in mezzo alla via. Cade con morbidezza e indifferenza come si cade quando si è colpiti. Cade ormai fuori dal varco assassino. Lo sguardo si annega nell’occhio, il sangue comincia a distenderglisi attorno sull’asfalto e io istintivamente scosto le scarpe per non calpestare quel sangue. Lo portano via su un fuoristrada guizzando, gettano terra sul sangue per coprire la macchia scura. Ancora il cannone. Battito di motore. Sono le dieci e mezza. Sollievo. I compagni del morto si tengono saldati l’un all’altro. Risa di gioia per esser passati. Vivi.
Da qui l’ingresso della zona nemica è a un passo. Un gruppetto di donne vestite di nero cammina in mezzo alla strada indifferente agli scoppi delle bombe, trascinano con la pena di formiche verso la città sacchi di plastica nera ammucchiati attorno a un camion. Una si aiuta deponendoli su un passeggino per bambini. È farina, la portano al forno che è accanto. 

Scavalchiamo con un largo giro la prima linea, entriamo in una città morta. Qui non ci vive più nessuno perché non è rimasto nulla in cui vivere. Immense cattedrali di cemento e di ferro disfatto, muraglie di lastroni, cave spalancate, rinchiuse in un freddo rancore di morte, intrusi siamo in questa nudità di catastrofe dove le macerie costruiscono straordinarie geografie di luce e di ombra. Ogni tanto fragori di seracchi scuotono le strade. Sono fiancate e pareti che precipitano in nubi di polvere che sembrano neve sporca. Ma qui regna una straordinaria orchestra di rumori. Il vento si insinua nelle rovine e produce musica: sibili rulli di tamburo crepiti fischi rombi ululi sussurri che paiono umani o di bestie inseguite. La città distrutta vive in un rumore eterno e ti parla il suo dolore. Il raschiare infinito delle serrande divelte e sforacchiate dei negozi ha toni da flauto, paiono voci che invocano aiuto. Ti volti, azzannato dall’angoscia, cerchi uomini che non ci sono più. Dove è ora questa gente? Come si chiamavano queste strade un tempo zeppe di vita? Chi ricostruirà tutto questo e chi verrà un giorno ad abitarlo ancora?

Il sorriso di Putin 
Il Generale, l’uomo dei servizi di sicurezza dell’esercito, mi ha detto: «Che ci importa di Raqqa? Non conta nulla. La Siria sono le grandi città dell’ovest. I curdi non la potranno prendere o tenere. Le tribù di laggiù li odiano e per questo si sono date al Daesh. La battaglia chiave è Aleppo. Ma la battaglia finale sarà Idlib e per questo la guerra sarà ancora lunga…».

A Damasco, di nuovo, vicino alla porta di Tommaso mi aspetta il Professore. Il caffè si chiama «Le voci del vento». Lui ha studiato in Unione Sovietica al tempo del padre di Bashar, è soddisfatto: i russi sono dappertutto, comprano case a Latakia e a Tartus, ma arriveranno presto anche a Damasco, assorbono la nostra produzione agricola, l’economia è in ripresa, commercianti che erano scappati ritornano… Si formano le prime coppie miste, sbocciano amori... la vita che riprende…adesso faremo imparare il russo ai ragazzi come un tempo… saranno loro che faranno finire questa guerra empia».

Penso ai piccoli bus stracarichi di gente e di cose che ho visto sfrecciare sulla strada verso Nord: ai finestrini oltre ai ritratti degli Assad, hanno aggiunto il sorriso di Putin, il signore della guerra. 

L’acqua scorre nella fontana del caffè, vecchio come questa città paziente, da antichi becchi di bronzo dorato; passano ragazze e donne vestite di chiari colori, che hanno occhi molto belli, assai lucidi quasi per il velo di una tersissima lacrima. 

Il Professore è davvero allegro oggi: «La Siria è un paese fortunato. Voi avete una vita così banale, quante volte hai una ragione di essere felice in un giorno tu? Una, due? Pensa invece alla Siria: oggi c’è la elettricità e siamo felici, usciamo di casa e rientriamo senza essere uccisi: siamo felici. Arriva l’acqua, che felicità. I figli soldati vanno in azione e tornano vivi, siamo felici».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/03/esteri/nella-citt-ostaggio-di-idlib-la-roccaforte-di-al-nusra-mpBk6l5pT4SlHDiA9bUR2O/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 20, 2016, 12:34:53 pm »

Una giungla di antenne del Kgb: così l’Urss spiava mezza Italia
I documenti sottratti dall’archivista sovietico resi pubblici a Londra
Intercettate le comunicazioni di politici, militari e anche magistrati
La Lubyanka, il palazzo che ha ospitato a Mosca il Kgb, i servizi segreti russi sospettati dell’omicidio di Alexander Litvinienko

18/09/2016 
Domenico Quirico

Chissà se Vladimir Aleksandrovic Krjuckov ha distribuito, nel 1976 medaglie e premi per il successo dell’operazione «Start» a Roma. L’onnipotente responsabile del Primo Direttorato Centrale, il capo del Kgb insomma, forse considerò quel capolavoro dei suoi uomini in Italia attività «normale». Aveva un brutto carattere Krjuckov: già, preferiva, lui, i bassopiani della guerra continua agli altopiani della pace. I rapporti che gli raccontavano in presa diretta tutti i segreti d’Italia, perfino le conversazioni private tra i giudici del principale tribunale del Paese, li scorreva con la eterna espressione dura e decisa, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso, da tartaro senza sorriso. Il fedelissimo di Andropov, che aveva sollevato sconforto abolendo il mobile bar dall’arredamento e le bicchierate in onore degli ufficiali che andavano a spiare all’estero, sapeva che i sorrisi con gli americani erano commedia, commedia politica e diplomatica. Sì. Nel 1973 era stato firmato il primo degli accordi Salt sul disarmo. Ma la guerra continuava: per lui l’America restava «il Nemico principale». Come diceva benissimo il compagno Breznev «la distensione non alterava le leggi della lotta di classe». 

Semplice e geniale 
Ebbene l’operazione Start fu davvero un capolavoro, un capolavoro di creatività spionistica. Pensate! Piazzare antenne, banalissime, insospettabili antenne nei luoghi chiave di un Paese per ascoltare le conversazioni militari, politiche e giudiziarie, l’intera equazione dei Poteri. Una antenna ad esempio a piazzale Clodio, sede del tribunale di Roma; e poi ad Acilia per affatturare tecnicamente i cavi dell’Italcalble utilizzati allora dalla Marina per le comunicazioni; e alla base di monte Cavo. Questa ingegneria spionistica si deposita, non bisogna dimenticarlo, in metabolismi politico terroristici furibondi, sono gli anni delle invelenite sanguinose e opacissime trame delle Brigate rosse. Con piste e orme che portano a burattinai quanto meno di Oltrecortina. 

Un romanzo di spionaggio? Niente affatto: verità. E qui bisogna parlare degli archivi. Gli archivi sono miniere, filoni d’oro in cui, se riesci a trovare la vena, puoi riportare in superficie straordinari tesori. Ad esempio: gli archivi intitolati a Churchill all’Università di Cambridge, (luogo tra l’altro assonante con lo spionaggio visto che era uno dei maggiori centri di assunzione del Kgb che non lesinava nella compera delle spie). È lì che i servizi segreti di Sua Maestà hanno da poco depositato tutti i file con i segreti del Maggiore-archivista presso il deposito centrale di documentazione operativa del Kgb per lo spionaggio esterno Vassili Mitrokhin. Ancora archivi, come si vede, perché i regimi governano, reprimono: ma soprattutto scrivono. Figura archetipa dello sconquasso dell’Unione Sovietica giunta alla eutanasia, nell’ufficio di Balashika vicino a Mosca, Mitrokhin, nel 1992, cercava un cliente per il suo tradimento. Gli americani forse convinti del collasso definitivo dell’Arcinemico lo delusero. Costringendolo a ripiegare sulla Gran Bretagna. Non sapevano a Washington che per anni, fino all’85, nascondendolo nelle scarpe, aveva portato a casa, copiato su bigliettini, il lavoro di ufficio ovvero tutti i segreti dello spionaggio di Mosca. Che si estendevano anche all’Italia con nomi purtroppo in codice più o meno fantasiosi di infiltrati e collaborazionisti. Della operazione Start a Roma parlò per primo un consulente della immancabile Commissione bicamerale di inchiesta istituita per lo scandalo, reclutato alla Università di Stanford, Mario Scaramella, che per decifrare i segreti di Mitrokhin aveva arruolato una squadra con ex ufficiali della Cia e dell’MI6 e defezionisti russi tra cui l’ex capo dell’antiterrorismo dell’Fsb colonnello Alexander Litvinienko. Poi eliminato dai russi con una dose di polonio radioattivo che contaminò anche Scaramella. All’audizione davanti alla Commissione di inchiesta della Alta Corte inglese, e poi al processo italiano (perché nel frattempo è stato retrocesso da responsabile per le indagini all’estero della commissione a una sorta di agente provocatore), cita invano l’esistenza dei documenti sulle antenne di Roma come prova, tra le altre, della validità della sua attività investigativa. La operazione Start restò per l’Italia «una fantasia». 

Le parti mancanti 
A provarlo soccorreva un altro elemento: il materiale di Mitrokhin venne trasferito dai servizi inglesi a quelli italiani prima nel 1995 e poi dopo un’intesa tra Berlusconi e Blair di nuovo nel 2005. Tra i file consegnati dai Servizi alla procura di Roma e alla commissione di inchiesta quelli sulle antenne spia romane non c’erano. Fine della (falsa) storia dunque.

Dieci anni dopo il dossier 251 spunta all’Università di Cambridge, disponibili per qualsiasi consultazione. 

Leggiamo dunque, dal cirillico dattiloscritto con preziose annotazioni a mano dello stesso Mitrokhin che in stile burocratico essicca ogni pathos ma fissa bene i particolari.

«…Pagina 114/punto 316 Start postazione radio per l’ascolto clandestino di comunicazioni in Roma, tutto il personale consiste in 5 agenti più un ingegnere radio e quattro operatori, tutti gli operatori sono donne divenute mogli di agenti del Kgb, ogni operatore ha lavorato al suo posto di ascolto per 20 ore alla settimana, la postazione funzionava 5 giorni alla settimana e lavorava circa sedici ore al giorno dalle sette del mattino alle 11 della sera e in caso di necessità per 18 o 19 ore dalle 6,30 del mattino e a volte funzionava il sabato e in giorni festivi…». 

Mentre dunque gli americani spendevano milioni di dollari per spedire sottomarini con sofisticate apparecchiature nel Mar di Barents per connettersi ai cavi sottomarini sovietici, i russi di Krjuckov con poche migliaia di dollari e un manipolo di affaccendate e infaticabili signore del Kgb accumulavano cassette su cassette con tutti i segreti d’Italia.

Ancora: «Pagina 115 punto 317 Start è una postazione di ascolto radio, di acquisizione di informazioni in Roma che è stata istituita e organizzata con l’obiettivo di ricercare canali di informazioni, di raccogliere e organizzare informazioni di valore relative a varie operazioni del Kgb, nel 1976 ci sono state verifiche ed indagini sul funzionamento nel distretto di Roma e una operazione per installare degli apparati che somigliassero ad antenne e le prime verifiche hanno riguardato gli edifici della Ambasciata sovietica a Roma. Ovvero le postazioni fisse e permanenti localizzate negli edifici denominati Abamelik. I vari tipi di antenne e i sistemi sono stati verificati e il risultato è che molti apparati e canali di comunicazioni riguardavano le direttrici fra Roma, Pisa e Milano, cassette radio sono state utilizzate e 248 audiocassette con nastro magnetico sono state raccolte e sbobinate nel 1976. Il che ha costituito il punto di svolta con la creazione di ulteriori 18 nuove postazioni destinate a cercare informazioni e 37 messaggi segreti sono stati raccolti da cinque cavi telefonici denominati Ytk, ben noti…». 

«…Punto 318 la residenza romana del Kgb ha deciso di effettuare sopralluoghi visivi e fotografici… Sopralluoghi nelle seguenti città italiane di Acilia, Tenuta, Rocca Priora, per la zona Sud di Roma, Palo per l’Ovest di Roma e Fogliano, Morlupo, San Pancrazio per il Nord di Roma e il sopralluogo ha verificato che fosse rispettata la qualità delle informazioni ritrasmesse dalle antenne e delle radio localizzate nel distretto di Roma…».   

«…Altri nomi di luoghi dove erano installati punti di ascolto a Roma erano Inviolatella (parco a Roma Nord), Monte Mario (sopra il tribunale) e piazzale Clodio (sede del tribunale). 

«…Punto 319 postazioni radio di riascolto Start Kgb residenza in Roma, la presenza di centri operativi internazionali in questo Paese, soprattutto l’importanza del centro di Acilia ha evidenziato l’importanza dell’Italia nel sistema delle comunicazioni globali e ricopre tutti i tipi di connessioni via cavo, connessioni via reti di antenne, via radiofrequenze e Rrls e di altro tipo nei distretti fra Milano e Roma attraverso la città di Firenze. Sistemi di controllo sono stati da noi collocati anche nei distretti fra Milano e Roma attraverso la città di Pisa, sei punti di raccolta informazioni sono localizzati e controllati nel distretto fra Roma e Napoli come in altre parti del Sud Italia, nel distretto di Roma Inviolatella e del Monte Faito (o Faete) ci sono 7 posti di raccolta informazioni con antenne di differente diametro di portata di ascolto, localizzati e controllati».   

Pagina 128 paragrafo 351 «l’Ambasciatore Urss in Roma di nome Maltseev ha acconsentito alla installazione di una nuova postazione denominata Start 2 nell’edificio localizzato nella Grande Villa Balshaia e ha accettato che l’installazione sia posizionata sulla cima della stanza di soggiorno…».

 Il valore politico 
Tutto questo materiale ha un valore semplicemente storico? Sono passati quarant’anni e l’Urss è defunta, in fondo. Forse no, visto che il New York Times e la tv israeliana nei giorni scorsi, proprio con i file del Churchil Archive, hanno scatenato un putiferio politico svelando che tra i nomi sbianchettati c’era quello di Abu Mazen, ex agente a libro paga a Damasco. Per quanto riguarda l’operazione Start i documenti Mitrockin si fermavano all’85 e non comprendevano le operazioni ancora «in corso». Dunque potrebbe esserci a tutt’oggi un Start numero 20 o 30 visto che gli eredi del Kgb non si sono certo rassegnati a letarghi domenicali.   

E resta soprattutto aperta la domanda su chi e perché nascose questi documenti alla magistratura e al Parlamento. E qui i misteri non sono più russi ma italiani.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/18/esteri/una-giungla-di-antenne-del-kgb-cos-lurss-spiava-mezza-italia-JfkM1f1R1uUCjaTYOZI9yK/pagina.html
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