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Autore Discussione: DOMENICO QUIRICO -  (Letto 32530 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Settembre 22, 2013, 04:46:37 pm »

EDITORIALI
22/09/2013

Quirico: la guerra che stiamo sottovalutando

DOMENICO QUIRICO

Eccola la prossima guerra che ci attende, si avvicina, già incombe, da una parte l’Occidente, noi, dall’altra l’Islam radicale determinato a vendicare i secoli dell’umiliazione, a ricostruire con i soldi dell’Arabia Saudita e del Qatar, grande invincibile, la terra del vero dio.
Oggi ad essere colpita è Nairobi, e a colpire sono gli shebab. Domani sarà la Tunisia, la Siria, l’Egitto. 

E poi toccherà, almeno nei loro sogni, a Al Andalus, la Spagna che, come mi hanno raccontato gli uomini di Al Qaeda di cui sono stato prigioniero, è «terra nostra e la riprenderemo». All’Occidente, spaurito e volutamente distratto e saldamente deciso a seguire un mito di un Islam moderato, educato che esiste solo nei libri (e nelle bugie), disperatamente aggrappato al calendariuccio delle nostre nobili comodità, sfugge la semplicità brutale del problema. L’Islam fanatico che era un semplice guaio di polizia che ci costava soldi e rendeva complicata la vita, ma non era letale, sta per diventare un problema militare. Quando si è deboli e brutali, come lo è oggi l’Occidente, si è molto più odiati di quando si è forti e brutali ed è ciò che sta accadendo ora. 
 
I folli di dio somali che separano i musulmani dagli «altri» e cominciano a giustiziare i secondi, sono il segno manifesto di questa dichiarazione di guerra, a Nairobi ci sono i primi morti della guerra che verrà. Gli shebab sono la metastasi della tragedia somala, il paradigma di un Paese dove il radicalismo religioso era in passato sconosciuto. Soltanto attraverso la brutalità di una guerra civile, approfittando dell’indifferenza dell’Occidente che non ha saputo intervenire, sono diventati padroni del Paese. Bisognava emarginarli, ma non distruggerli. 
 
Ci sono voluti molti anni, ora sono ricomparsi. Controllano ancora buona parte del territorio, possono colpire e vendicarsi nel vicino Kenya colpevole di aver occupato, con la scusa di riportare l’ordine, una parte del territorio somalo (tra l’altro ricco di petrolio).
Una storia somala sta per ripetersi in Siria: una rivoluzione troppo debole, gli islamisti che si preparano dopo la cacciata di Assad a imporre la loro legge. Il Califfato, una società olistica ripiegata su se stessa e sul passato, sembrava un sogno retorico, ma si materializza ogni giorno di più nei fatti. Il partito di dio e i suoi eserciti dimostrano di essere in grado di aprire nuovi fronti. In una guerra santa la morte diventa un combustibile, un mezzo per un fine in sé.

da - http://www.lastampa.it/2013/09/22/cultura/opinioni/editoriali/quirico-la-guerra-che-stiamo-sottovalutando-BfnqpsYbaJorcuxRaDKjdK/pagina.html
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 03, 2013, 07:12:49 pm »

Esteri
25/04/2012 - REPORTAGE

Droga, fucili e Corano

In Mali Al Qaeda uccide la Primavera dei tuareg

Secondo l'ultima stima i tuareg sarebbero 5,2 milioni. La popolazione berbera africana vive nel Sahara. 1,4 milioni abita in Mali. (Foto Afp)

Viaggio nella terra di nessuno dell'Azawad, dove gli uomini blu hanno proclamato il loro Stato e
i fondamentalisti l'hanno invaso
domenico quirico

Ho attraversato il confine del “Malistan” e non me ne sono accorto. In un punto c’era una linea invisibile, un uadi o un cespo di capanne, ed era il confine, il pickup l’ha passato come se niente fosse. In ogni confine c’è qualcosa di terribilmente definitivo, una linea e addio. Le ruote ci passano sopra come passerebbero sopra un corpo, anche se fosse un uomo vivo. Forse avrei dovuto intuirlo: quando gli uomini che erano con me si girarono - il panno dei turbanti stretto attorno al capo, all’altezza del naso - e tirarono fuori la piega della stoffa, sopra gli occhi, come la visiera di un elmo medioevale, lasciando solo una stretta e mobile fessura per gli occhi.

Dunque è così, che sarebbe avvenuto, impercettibilmente: sono nell’Azawad. Una parola cupa, bella e piena di dolore. L’Azawad, «la terra dove c’è pascolo» in tamasheq, la lingua dei nomadi, che il pollice di Dio ha fissato una volta per tutte, al momento della creazione. Il Mali, lo stato e i suoi soldati, sono fuggiti due settimane fa. Ora ci sono i tuareg ribelli, e i salafiti e Al Qaeda, ed è un caos che nessuno comanda.

Si ha sempre un senso di colpa quando si entra in abiti civili nelle regioni dove c’è la guerra e la morte: dopo tutto non si va a visitare un disastro se non per portare soccorso. Ci si sente come dei voyeurs della violenza. Lo confesso: i tuareg mi piacciono, per quella autonomia piena di giubilo, esaltante, che reca l’immensità. Perché la loro vita zoppica sempre di più, hanno ucciso le loro bestie, avvelenato i loro pozzi, violentato le loro donne, li hanno strangolati con le siccità e il sottosviluppo, i governi dei neri. Noi con il finto esotismo, e l’oblio.

Per Ali che guida il pick-up verso Menaka ogni giro di ruota dopo il confine strappa un pezzo della sua vita, una vita infelice. Per lui quella ricchezza di verde, le colline tonde e vanitose lungo il Niger , avevano qualcosa di indecente, di ostentato. Sentiva, prepotente, la nostalgia di paesaggi spogli. Ha gli occhi pieni di tutto il divertimento della vita. È tuffato nel ricordo di menestrelli, guerrieri, grandi gazzelle che non ci sono più perché il governo ha concesso ai ricchi arabi di sterminarle sparando gioiosamente dai fuori strada climatizzati; di marabutti come Askja Mohamed, che nel grande pellegrinaggio seminò dietro di sè, nella sabbia, uomini stanchi e non abbastanza saldi nella fede; e quelli divennero i cittadini di Gao e di Agadez.

«Peccato, c’è un po’ di confusione». Così l’ha chiamato, Ali, il tumulto che fa paura all’Occidente: «Non possiamo salire fino alle “chele del granchio”, peccato, è un posto pieno di magia, perfino pericoloso. Molti lì hanno visto il diavolo e sono diventati pazzi». Lo so che, in tasca, lui tiene i gris gris, gli amuleti, e ne ha uno efficace perfino contro l’indifferenza delle donne. Non gli basteranno i gris gris, povero Ali.

Sono venuto qui convinto di raccontare un sogno che si realizzava, uno Stato per i tuareg popolo senza terra, sì, un’altra primavera come quelle arabe a Nord. E invece devo raccontare la loro fine. È l’ultima sconfitta degli uomini blu, e stavolta non risorgeranno. Annegheranno nel grande mare arabo e non saranno più nulla. Sono arrivati nel deserto fuggendo gli arabi invasori, questa era la loro trincea, hanno resistito, si sono battuti. Il fondamentalismo e Al Qaeda sono nient’altro che l’ennesima invasione. Solo che questa volta non resisteranno. Noi, l’occidente, potremmo aiutarli. Invece li chiamiamo terroristi e salafiti. Sono soli come sempre. Bajan ag Hamatou è il sultano di Menaka e deputato di questa regione da trent’anni: «La proclamazione della indipendenza dell’Azawad? È l’invenzione di qualche tuareg che vive a Parigi e sta seduto comodo davanti al computer: un clic ed ecco inventato l’Azawad! Noi spariremo come sono già sparite le gazzelle. Tutto era di cartapesta: lo Stato del Mali, lo Stato dei tuareg, tutto costruito sul niente come in Africa. Tutto deve crollare, poi forse si potrà ricostruire. Come l’Italia dopo la guerra. Quando c’è stata la grande siccità e noi tuareg morivamo di fame e di sete, hanno creato un’associazione, per sedentarizzarli e salvarli. Sono andato a Parigi a cercare aiuto, eravamo di moda, allora; gli uomini blu, i guerrieri del deserto ... Mi hanno detto: ma no! Sei pazzo, fare delle case per i tuareg, fissarli a un luogo! Ma è la vostra cultura! Capisci: volevano amare i tuareg più e meglio di me! Adesso i salafiti mi hanno detto: vieni a pregare con noi a Gao liberata: ho risposto no, ho 64 anni ed è troppo tardi perché cambi modo di pregare».

Il vento, adesso che attraversiamo vasti campi di lava scura e catene di roccesabbiose, e il moto del pick-up pare quasi un’immobilità di sforzi vani, ha un sapore di fornace. Eppure il khamsin seduce, forse è per un certo impegno di cosciente, meticolosa malevolenza che mette nella sua lotta contro gli uomini e le cose.

Anche «il Maggiore» all’inizio mi piaceva. È tuareg, era nell’esercito del Mali, prima. E comandava la zona. Come ora. Si muove a scatti come chi è inseguito e si tiene pronto a nascondersi o fuggire con la massima rapidità, il suo volto di lince piccolo, appuntito, sorride sempre. La corruzione, in fondo, ha un suo spiccato fascino, e non si può dubitare della sua: l’ha come fosforo, inequivocabile, alla superficie della pelle. Poi l’ho visto mangiare gli spiedini, vorace, due, quattro, dieci, intinti fino all’orlo nella salse; e il dito medio dall’unghia lunga e puntuta che serviva alla pulizia dei denti. Tutto, soggiorni nelle accademie militari, l’imitazione borghese, è crollato di colpo. E allora ho pensato che la pista di atterraggio nel deserto di «Air cocaine», il Boeing 727 zeppo di dieci tonnellate di droga, non era lontano. In Colombia, da dov’era partito, la cocaina costava mille euro al chilo; in Africa, dove transita verso l’Europa, sono già diventati dodicimila. A fare i conti di quanto incassano i funzionari corrotti, e Al Qaeda che permette e protegge il passaggio, viene la vertigine. E inizi a capire questa guerra. In soli tre giorni l’esercito dei sudisti, smunto da generali addetti al contrabbando e da soldati neri che non ricevono la paga e le armi, è fuggito. Gli ufficiali felloni hanno organizzato a Bamako un putsch grottesco per non essere giudicati e non tornare a combattere. Il Nord è diventato un Paese terremotato, deteriorato, una gigantesca avaria; il nichilismo militare è diventato nichilismo politico, come nella Somalia dei signori della guerra e degli islamisti. I tuareg, che hanno fatto da miccia , non controllano più la loro terra. Perché sulla scena sono saliti, nello sperdimento di ogni regola e ordine, i salafiti, goccianti fanatismo, riuniti nel gruppo Ansar Dine; e i loro alleati di Al Qaeda.

Gli emiri del deserto, barbe brigantesche e teologiche certezze. Piccoli, feroci Bin Laden algerini con le loro bande, gente da sacco e da forca, viaggiano pregano, amministrano fanno discorsi, controllano Gao, Timbuctu, la città dei 333 santi, Mopti, dove scalmana l’avvio ancora tiepido della sharia più integrale e nefasta. Un altro veicolo ci viene incontro nei vapori ondeggianti della polvere. Chi sono ? Questi giorni, con le scorrerie e il caos, non conoscono amici nel Nord del Mali. Sono tuareg di scorta, solo occhi ci guardano nella fessura del turbante, al riparo dall’aria ardente che passa sui volti come una maschera di metallo. Moulaye, come succede a chi è uso a stentare la vita ha un dolore virile e pudico e non fa storie È un «ishomar», una deformazione del francese «chomeur», disoccupato, un tuareg che la miseria ha sradicato dalla sua tradizione ed è entrato nella modernità per vie traverse, un figlio dell’oblio e della siccità finito nella legione verde di Gheddafi a guadagnarsi il pane e la sopravvivenza. Uno dei duemila che con armi pesanti sono venuti ad accendere la rivolta a Kidal, la prima città liberata. Moulaye combatte da sempre, vecchio soldato cuore di bronzo.

Ma anche lui sa di essere vinto: «Noi tuareg non esistiamo più, ormai, noi che siamo statiper anni in Libia siamo arabi, il tamasheq lo parlano solo alcuni in casa. Se tutto andrà bene chissà un giorno mi comprerò due cammelli e un pezzo di terra nella brousse per andare il fine settimana a fare il tuareg. Come ho visto fare ai libici ricchi». La città di Menaka, nella regione di Gao, prima contava 40 mila abitanti dentro la sua cintura di immondizia e di plastica che l’avvolge come le spire di un pitone. Metà almeno sono fuggiti, trovi nelle strade solo gente sparpagliata, a grumi allarmati e diffidenti, gente sul chi vive che non sa come si metteranno le cose. Per ora comanda la tribù di questa zone, una sorta di comitato di autodifesa, ma i salafiti possono arrivare. Donne e bambini sono fuggiti, sono rimasti gli uomini a tener d’occhio gli «affaires», che più sono miseri più sono indispensabili alla vita. In questa guerra che non ha contato vere battaglie ma solo ritirate precipitose e avanzate fulminanti, e le città sono cadute come un frutto troppo maturo, da sé, i morti sono pochi. Ma l’ospedale, che la cooperazione italiana aveva finanziato, è stato saccheggiato, non ci sono più medicine. Anche la grande scuola per mille allievi e alcuni uffici pubblici, simbolo dei sudisti, sono stati saccheggiati.

Forse perché amano lo spazio aperto, le case dei tuareg sono catacombe immerse nell’ombra. I salafiti di Ansar Dine sembrano più forti, hanno denaro e armi: «Noi siamo gente semplice, la più grande paura è sentirsi dominati, dover obbedire. Perfino quando combattiamo non accettiamo di essere comandati. Se qualcuno ci prova gli diciamo: non sei padrone della mia coscienza. Per questo neppure Al Qaeda potrà darci ordini. Oggi discutiamo con i salafiti, ma per esempio non potranno certo imporci di velare le donne». L’orgoglio: non ostentato in superficie neanche fosse una malattia della pelle e sensibile al minimo tocco. Il loro è sepolto in profondità. È quanto resta all’occidente distratto e pauroso che non si è ancora accorto di avere un Afghanistan alle porte del petrolio libico, dell’uranio del Niger, del gas algerino. E sulle piste dei nuovi schiavi che salgono, pieni di rabbia, verso l’Europa. È Iyad Ag Ghali l’uomo decisivo; dicono che ha incontrato alZahawiri. Ma ha fondato Ansar Dine per sottrarre i giovani tuareg alla tentazione di Al Qaeda. L’occidente e il governo del Mali devono fargli offerte per convincerlo a battersi contro Al Qaeda, a non imboccare una via senza ritorno. Far parte del deserto, e i tuareg lo sanno, significa essere condannati a una eterna battaglia contro un nemico non di questo mondo né di questa vita né di null’altro. Se non, forse, la stessa Speranza.

Da - http://www.lastampa.it/2012/04/25/esteri/droga-fucili-e-coranoin-mali-al-qaeda-uccidela-primavera-dei-tuareg-rvVqxN83zKV3G9jiHtBdCK/pagina.html
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 21, 2013, 11:28:08 am »

Cultura
21/11/2013 - Domenico Quirico

Così mi ha tradito la rivoluzione siriana

L’inviato della Stampa e il suo compagno di prigionia raccontano in un libro i loro 152 giorni nel Paese del Male
Domenico Quirico

Esce oggi per Neri Pozza Il Paese del Male. 152 giorni in ostaggio in Siria (pp. 175, € 15), il libro in cui l’inviato della Stampa Domenico Quirico e il suo compagno di prigionia, il belga Pierre Piccinin da Prata, raccontano la loro esperienza. Tutto era cominciato lo scorso 9 aprile, nei pressi della città di al-Qusser, quando l’Armata siriana libera li aveva consegnati a un gruppo jihadista. Trascorsero cinque lunghi mesi, intessuti di angoscia e di incertezza sulla loro sorte, prima della liberazione, l’8 settembre. Nel libro i loro ricordi si alternano, di capitolo in capitolo. Anticipiamo quello che Quirico dedica al momento della cattura. 

«Andiamo alla collina di Qadesh…» annuncia il nostro accompagnatore, Trad Zawri, a cui siamo stati affidati dal centro stampa dell’Armata libera. «Centro stampa»: in realtà dietro il nome pomposo ci sono soltanto lui e il suo capo, Abu Shams. 

Qadesh: gli ittiti, Ramses il grande… Qui imperi sono nati e si sono spenti. Quanta Storia. Prima che gli assalti dei ribelli la prendessero di mira, la collina era una base dell’esercito. Sulla cima c’è una moschea sbocconcellata dalle cannonate, dove il vento gioca tra le rovine e le macerie, con uno strano suono simile a un disperato respiro umano. Le trincee che ancora si distinguono sono ingombre di cassette sventrate, fucili distrutti, elmetti, baionette sparsi per il terreno. Pierre raspa un po’ la terra vicino alla buca di un cecchino: spuntano frammenti di antica argilla… La Storia, eccola, dove ora soffrono, lottano e muoiono creature viventi.

Zawri racconta: qui c’erano i tiratori, là sono salite le nostre squadre d’assalto… Pare di assistere alla spiegazione di un gioco, alla tranquilla constatazione di una scoperta sulla quale non è nemmeno necessario spendere troppe parole. La quiete, il silenzio tolgono ogni voglia di ragionare: pare di vivere un sogno col timore di non goderlo abbastanza. 

Torniamo ad al-Qusser. I piccoli calibri del nemico aprono il fuoco nel momento in cui imbocchiamo la strada che si perde nella pianura. Sotto un cavalcavia, che un bombardamento ormai antico ha lentamente demolito e sconvolto, un gruppo di ribelli sfiniti dalla fatica, con grandi occhi pieni d’ombra, ci guarda passare senza un gesto, masticando gli avanzi di una pagnotta. Nel luogo della strage dell’alba non sono rimasti che crateri di un colore grigio che sfuma al nero sui bordi. L’aria è limpida, di una trasparenza che dà il capogiro. 

 
Al cimitero si raduna una folla silenziosa: il funerale di uno dei morti del bombardamento al mulino. I cimiteri musulmani: così diversi dai nostri, senza marmi, gessi, angeli dalle ali ammuffite. C’è un senso di appartenenza, si può andare ovunque e vedere qualsiasi cosa. Da questo posto la vita si è ritirata, completamente. In Siria ho assistito a molti funerali. Ma mai a uno come questo. In passato avevo visto rabbia, volontà di battersi, di vendicare il «martire»; qui c’è soltanto puro dolore, vuoto, silenzio. Ciò che il mondo conosce meglio di qualunque altra cosa – la speranza – qui ci si è abituati a perderla, a vederla svanire.

La folla passa, in una lenta processione, accanto ai parenti del ragazzo ucciso e stringe loro la mano. Un vecchio cade in ginocchio, protendendo le braccia. Sono tutti uomini: alle donne l’Islam assegna il dolore del giorno dopo, senza testimoni, senza voce. Lì vicino, una madre accarezza il semplice tumulo di terra dove è sepolto un figlio; piange, senza lacrime, con un suono come di qualcosa chiuso in trappola che cerca di liberarsi. 

 Nello spiazzo hanno già scavato altre buche, grattando a fatica nella terra dura e asciutta: sanno che non resteranno vuote per molto tempo. Teneri mucchietti ondulati con una cura che fa sentire il palmo della mano. Certo, il giorno in cui nessuno se ne occuperà più, verranno disfatti dal vento. Sembra assurdo che quella terra tutta dissociata atomo per atomo, senza germi di vita o goccia di umore o ombra di foglia, possa accogliere la morte. Assurdo quanto un cadavere seppellito nell’aria. 

Questo è un carnaio, un carnaio di principî veri e falsi, di buone e cattive intenzioni.

Ricordo un’altra guerra, il momento in cui ho creduto di aver imparato la mia prima lezione: quando non c’è più nulla da fare dimentica, voltati, tieni duro. La pietà è una cosa da tempi di pace, non quando in gioco c’è l’esistenza. Seppellisci i morti e divora la vita! Ne avrai bisogno, il dolore è una cosa, la realtà un’altra. Solo a questa condizione si sopravvive. Ma ora so che non bisogna rassegnarsi a questa filosofia. 

Riprendiamo la strada verso il comando dell’Armata siriana libera, dove abbiamo lasciato i nostri zaini, e ci sentiamo come due che ancora una volta se la sono cavata. D’un tratto il giorno mi sembra di nuovo caldo e sfavillante. Ancora una volta, dunque, la grigia posta della vita è pietosamente velata dal dono di alcune ore. Ma forse è solo una menzogna: nulla è donato, questo è solo un rinvio. Ma che cosa nella vita, nelle vicende, guerre, rivoluzioni, che racconto da vent’anni, non lo è? Non è un continuo rinvio, una pietosa dilazione? 

Abbiamo chiesto di essere riportati a Qara. Ci presentano un miliziano che ci accompagnerà. È grosso, ha una lunga barba rossa e le mani callose da contadino, sorride in modo strano, sfuggente, non parla ma con gli occhi sembra ferire tutto ciò che vede. Insieme a lui e ad alcuni ribelli mangiamo un piatto di fagioli, per terra. Quando usciamo dalla casa, dei ragazzi armati ci guardano e ci lanciano strani saluti ironici: «Bye bye». 

Tacciono le armi nella quiete della notte, la città sembra riposare. Scalpiccio di scarpe nella via, passano due miliziani con i mitra tenuti tra le mani come fossero arnesi da lavoro. La notte si richiude su di loro. Prendiamo posto a fianco dell’autista. La macchina parte sollevando turbini di polvere bianca. La città ci sfila davanti nel buio che nasconde le sue ferite, arcanamente bella. Nulla vive, nulla sembra vivere.

Passano cinque minuti da quando ci siamo lasciati alle spalle le ultime case: un’auto avanza verso di noi con i fari accesi. Strano: qui di notte si viaggia con tutte le luci accuratamente coperte, il nastro adesivo nero perfino sul quadro dei comandi, anche una sola bava di luce può richiamare l’attenzione mortale degli elicotteri e dei cecchini. L’auto misteriosa punta verso di noi, e il miliziano che ci guida abbozza una manovra a dir poco bizzarra: rallenta e si arresta a metà strada, la portiera rivolta verso le luci che si avvicinano sempre più rapidamente. 

«È un’imboscata» grido, ma invece di ripartire l’uomo sembra impacciato con le marce e lascia spegnere maldestramente il motore. Dalla luce emergono figure scure di incappucciati che sparano raffiche di mitra e gridano: «Police, police». 

«Pierre! Sono gli uomini di Bashar…!». 

Non faccio quasi in tempo a dirlo che ci sono già addosso, spalancano la portiera, ci trascinano verso il loro pick up. Mi volto e l’ultima cosa che vedo è il nostro autista che passa gli zaini a uno degli assalitori. Ci hanno venduti, traditi! 

Ci gettano nel cassone dove, ora che ho gli occhi bendati, sento la presenza di altri uomini. 

«Pierre, sei lì?». 

«Sì». 

E subito piovono pugni e calci per farci tacere. Il pick up riparte, dritto su uno sterrato dove sobbalza e sbanda. Dieci minuti di viaggio a velocità sostenuta, poi si ferma. Ci gettano giù, ci fanno inginocchiare a terra, e sono già certo che arriverà una raffica di mitra. Invece ci spogliano e mani brutali ci fanno indossare una maglia e i pantaloni di una tuta. Ci fanno proseguire a spintoni, a calci, ho i piedi nudi, sento la rugiada, il freddo che sale dall’erba. Inciampando mi arrampico lungo una breve scala ed entro in una stanza. Lo so perché attraverso la benda intravedo una luce forte e sento delle voci, i rumori di molti uomini riuniti. Mi gettano a terra e a pedate mi sistemano con la schiena contro il muro.

Una mano grossa, nodosa mi afferra alla gola e stringe.

«Lo sai dove sei?». 

«No».

«Sei con la polizia di Bashar Assad. Io sono un colonnello della polizia di Bashar». 

L’uomo mi colpisce una, due, tre volte alla testa, ma non è questo che mi fa paura: è la sua voce, profonda che raschia la pelle, la voce di un orco. Attraverso la sua mano, una mano che stringe di colpo senza bisogno di tastare, dura, impietosa, e il suo fiato a due passi dal mio viso, avverto il piacere fisico, bestiale che quell’uomo prova a sentire la mia paura, il mio sudore. Ci chiedono come ci chiamiamo, da dove veniamo, Italia, Belgio, il mestiere, giornalisti, giornalisti, sghignazzano: si capisce che già sapevano. Quando vogliono appurare se ho figli, mento, dico che ho due maschi, «Alberto e Giuseppe» mi invento. Non so perché lo faccio, forse non voglio che i nomi delle mie figlie striscino in mezzo ai lazzi di questa gente, a parole che spesso non posso decifrare. Se ne vanno, ordinandoci di stare in silenzio e di non muoverci. La luce si spegne.

LUNEDI’ A TORINO 

Il libro di Domenico Quirico e Pierre Piccinin da Prata sarà presentato lunedì prossimo alle ore 21 al Circolo dei lettori di Torino (via Bogino 9). Con Quirico interverrà il direttore della Stampa Mario Calabresi. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/21/cultura/cos-mi-ha-tradito-la-rivoluzione-siriana-lv3nDYaKP7Box9PMY9t4fJ/pagina.html
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 26, 2014, 05:54:26 pm »

Esteri

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 26/02/2014.

Fra i reduci di Maidan “La rivoluzione? È appena iniziata”
La piazza mugugna e non rinuncia alle barricate “Non abbiamo dato il sangue per tornare al passato”

L’antica città è morta. La città ha mille anni. La sera è stato un lungo crepuscolo giallo. Il cielo ora è venato di azzurro e di infinito. Un sogno da svegli: Kiev rivoluzionaria. Non un popolo esaltato e vincitore, ma dolore e incertezza. Tutto è provvisorio qui: il Parlamento che emana leggi in un palazzo controllato da rivoluzionari armati di bastoni, la pazienza dei giovani di Maidan, i rapporti con la Russia, l’economia sospesa sul baratro... Nel deserto silenzio della notte le campane del museo delle marionette non squillano più cristalline. 

In giorni come questi si sogna da svegli. All’ingresso delle barricate ci sono ancora sentinelle. Anche se il nemico è fuggito. Lunghe file di lumini guidano nel buio verso i luoghi dove i martiri sono stati uccisi. Enormi mazzi di fiori, montagne di garofani e di tulipani si levano come tumuli tra trincee ormai inutili. Inutili: chissà! Copertoni travi sacchi rifiuti fuochi quieto cielo viottoli di lumini. Che talora si fondono, e formano una sola grande strada. Per questa strada è passata la rivoluzione ucraina. 

In fondo alle luci sta Maidan Nezalezhnosti, esausta di molte tragedie. Il grande edificio dei sindacati, il quartiere generale della rivolta che avevo visto pulsare di vita: il fuoco lo ha reso bruno, assomiglia a una scenografia teatrale. Fiori e nerume, ti porti dietro la terra di Maidan, la colla dei copertoni bruciati, come se il suo messaggio, la sua voce non volesse lasciarti. Qui sono morti esseri umani. Il bosco invaso da alberi con i tronchi ramati è una liberazione, da lassù si vede il Dniepr non più gelato; e oltre il fiume, oltre le isole e le insenature si scorgono bianchi campanili e ancora più lontane spuntano le nere ciminiere delle officine, e questo è già qualcos’altro. 

Kiev, rivoluzione. La città di pietra e di barricate di ghiaccio è morta. A ciascuno il suo.

Vicino all’hotel Dnipro si riuniscono uomini in tuta mimetica e elmetti di acciaio. I rivoluzionari. E di questi ragazzi ciascuno è prestante, è un bel ragazzo, ciascuno vigoroso con i riccioli della acconciatura cosacca che spuntano sotto l’elmetto inanellandosi alla nuca, ciascuno ha gli zigomi tesi, pieghe ai lati delle labbra e i gesti di ciascuno sono decisi. Non la fai a queste giubbe mimetiche. Esigono il massimo, è nel loro diritto. Ci vogliono altri uomini, qui. Vadin, il comandante di una Centuria, ad esempio: ci vogliono i romantici, la salita è stata troppo ripida, l’aria rarefatta e i polmoni bacati non resistono se non sei come lui.

«Come faccio a raccontarti tutto quel che è successo? All’hotel Ukraina, al primo piano curavamo i nostri feriti, sul tetto un cecchino sparava, ragazzi protetti da ridicoli scudi di lamiera sfidavano la morte per soccorrere i colpiti… Non riesco più a leggere ad andare al cinema, la rivoluzione è in noi, solo questo ci assorbe… ».

Le tute mimetiche. I rivoluzionari. Sì: così. Ecco chi sono i rivoluzionari. Il buio intorno si fa minaccioso. Le immagini rievocate prendono, nell’emozione, sostanza di creature vive. E essi vivono con loro. «Una donna ucraina che vive in Italia ci ha inviato 150 euro per aiutare la rivoluzione…», Vadin si arriccia la barba: «Maidan è la mia vita… abito qui da tre mesi, ho lasciato il lavoro, ho un bambino piccolo una moglie giovane… Le ho spiegato ha capito. Era, la casa, un porto un rifugio dove tornare dopo gli scontri. Ma sono conosciuto, hanno dovuto cambiar casa, nascondersi presso amici. In casa è rimasto solo il gatto a cui mia madre porta da mangiare…». «Komuniaki, comunisti schifosi, via dall’Ucraina!» intima un manifesto. «Lustratzia, lustratzia!» pulizia invoca un altro in piccoli coni di luce. Dai muri busti di eroi bolscevichi fissano implacabili i loro sguardi di bronzo.

«Non riesco a ricordare certi momenti, certi particolari… La prima barricata: perché l’abbiamo costruita, come? Non riesco a collegarlo alla lunga storia di questi giorni… guardo i video su Internet e capisco che ho avuto fortuna a restare vivo. Questa è la vittoria del sangue, ci è costata troppo cara. E sono già riapparse le facce dei partiti, i vecchi personaggi, il passato che ora dice l’opposto di quello che diceva prima, si scalpella davanti a Maidan, emana leggi a raffica per blandirci… Anche tra noi molti sono stanchi, abbiamo vinto che vogliamo ancora? Non capiscono che questa piazza è la nostra possibilità, l’unica. Che non dobbiamo gettarla via per quanto ci è costata cara! …Sì, la difficoltà maggiore per una rivoluzione è sempre l’ultimo metrò, la tentazione di andare a casa perché è tardi, la notte è lunga e fredda, qualcuno ti attende…». 

A Oriente si libra la striscia vermiglia dell’aurora. Le nebbie risalgono strisciando verso il cielo, per un istante il mondo Kiev e la piazza le chiese le strade sono azzurre come l’acqua.

Sul palco sale una donna russa: «Soffro con voi, onore ai vostri eroi morti, non si dovrà più mentire, siete un popolo nuovo il futuro è vostro...».

«Nel 2004, la prima rivoluzione, comandavo la sicurezza del palazzo dei sindacati. Avevo 21 anni mi sembrava di fare la storia… ero pronto a morire pensavo che servissero degli eroi. Dieci anni dopo non volevo più far colare sangue, sono cambiato, sono diventato un altro… avevo in questi giorni paura di dare ordini che portassero dei ragazzi a morire. Ho trent’anni e ho già i capelli bianchi… noi e loro... Maidan e i politicanti… la Timoshenko: di nuovo lì, pronta a ricominciare. Ma no, grazie: riposati, curati, vai in vacanza. Per loro la rivoluzione è finita per noi è solo al primo atto. Per questo non andiamo via!». 

La grigia torbida luce dell’alba scivola via come una veste dalla terra, si accende il giorno. Le sentinelle gridano qualcosa, i falò si spengono, frammenti di canzoni, i primi impiegati che vanno al lavoro. Non possedere nulla, rinnegar tutto, essere poveri e le notti e i giorni le albe e i soli e le nebbie, non conoscere il proprio domani. Le tute mimetiche, sì, i rivoluzionari. 

Il giorno è padre Michail, barba grigia, la croce sul petto, lo zaino, gli scarponi, ficca i piedi quasi con ira nella terra: è entrato in questa rivoluzione come si entra in un convento, nelle sue parole senti lo sforzo per risalire un fiume di ribellione, di disperazione, un fiume così potente, così rapido che la creatura da sola sarebbe presto travolta. Ma non è sola: è con gli altri, a Maidan, è legata al suo dio, inchiodata con Lui. Una fermezza che non lascia scampo. È arrivato qui insieme agli studenti della università cattolica di Lvov, a novembre, cercavano un padre spirituale: «Sono loro il mio spirito di libertà, io non amo le istituzioni». Tra allora e oggi ci sono 86 omelie, sulla piazza, ogni giorno, anche il giorno in cui la polizia ha attaccato e ucciso. E il suo altare e il calice e il telo sacro della messa e le icone sono bruciati davanti ai suoi occhi.

«Questa lotta ha portato più luce, ha illuminato il Male. Qui c’è gente che non ha paura di interrogarsi e senza le domande esistenziali non ci sarebbe stata Maidan. È questo il suo sublime».

Una folla sciama tra le tombe, tocca le foto, prega si inginocchia piange: non è l’osceno turismo delle rivoluzioni vittoriose. La giovinezza di quei morti si è già sparsa e perduta. Ma questa gente ha contratto con loro una alleanza che credono sarà eterna.

«Questo è lo spirito di Maidan, gente di diverse origini lingue, che pregano diversamente ma si capiscono. Per la Chiesa sarà un esperienza unica, questa cappella in una tenda tre volte distrutta e tre volte ricostruita è la prima cattedrale ucraina. Qui il sacrificio di milioni di persone, non solo di quelli che sono morti si riversa, in quell’altare si sublima, non c’è odio qui. La teologia di Maidan: l’ecumenismo senza gerarchia!».

Attorno a noi la folla sembra sforzarsi di camminare senza rumore. I passi le voci i tonfi le auto lontane si allontanano a poco a poco, muoiono in remoti golfi di ombra. 

«Certo: il dopo Maidan è già iniziato, ci sono tanti che vivono il vuoto la solitudine ma anche nascono movimenti, associazioni. Qui anche l’aria ha un altro odore. Il mio Maidan finirà alla centesima predica o tra dieci giorni, con la quaresima, chissà. L’importante è aiutare questa gente. La rivoluzione ucraina è stato uno sforzo collettivo ma anche lo sforzo di ognuno: c’è chi ha dato anche troppo e ora soffre e bisogna ricompensare questo troppo». 

Domenico Quirico

da - http://lastampa.it/2014/02/26/esteri/fra-i-reduci-di-maidan-la-rivoluzione-appena-iniziata-dB8q45OUyRGI3IeyZDsupJ/premium.html
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 01, 2014, 07:41:06 pm »

Esteri
01/03/2014 - reportage

Crimea, blitz russo in aeroporti e tv
Kiev: “Questa è un’invasione”
Operazione con 13 aerei e duemila uomini. Il governo ucraino chiude lo spazio aereo


Domenico Quirico
inviato a Simferopoli

«Corri, i russi sono all’aeroporto!». Quando il telefono suona e un amico ucraino mi avverte, l’alba si è appena levata su Simferopoli, questo orribile minuzzolo di capitale. Cade una neve incerta, sobborghi squallidi sfumano nel cielo grigio come una immensa lastra di ardesia, accanto alla strada un piccolo, triste, fiume color dell’alluminio. Eppure lo scalo è aperto, le luci sono accese, sulla pista rulla già il primo volo per Kiev previsto alle sette. Davanti all’ingresso del vecchio aeroporto, un incredibile tempietto con colonne, capitelli attici, frontoni (Stalin amava la Grecia antica…) ora ristorante, sono parcheggiati alcuni grossi camion.

Eccoli! Soldati in mimetiche verdi, zainetti leggeri da combattimento, le canne dei mitra rivolte verso il basso, pattugliano placidamente il piazzale, il parcheggio dei bus, vanno e vengono affaccendati dal ristorante scelto come posto comando. Non bloccano nessuno, non hanno chiuso porte e scale, non minacciano. Sono silenziosi, corretti, tranquilli. E soprattutto non hanno insegne o mostrine. I miliziani delle forze di autodifesa dei russi di Crimea, che li affiancano come per un servizio d’ordine, quelli sì, sono più agitati e non si nascondono: al braccio hanno il fiocco con i colori arancione e nero, l’ordine di san Giorgio, una sorta di croce di ferro dell’antica Russia.

Colpo di mano in sordina 
Ci avviciniamo a uno dei soldati misteriosi: «Buon giorno, siete ucraini?». Gli occhi del soldato ci attraversano come se non esistessimo, continua la sua ronda senza fermarsi. Questa è una invasione muta. Ma parlano le loro armi: ad esempio i fucili per cecchini di cui dispongono gli «spetnaz», le truppe speciali dell’esercito russo. È cominciata così, dunque: secondo lo stile da iceberg di Putin, non si a mai dove è la parte sommersa. Basta con i distinguo, le scioccherie, di colpo freddo arcigno spaurevole manesco come un facchino. È un intervento bonsai, senza bandiere, riscalducciato, ma forse per questo ancora più brutale degli antichi cainismi di stile sovietico. In fondo si tratta pur sempre di spremere la gente come uva nel frantoio. Di colpo la originaria assenza di buon gusto mette in mostrale proprie viscere così educatamente nascoste. In Ucraina Mosca ha subito, con la rivoluzione, un rovescio, ma non accetta, non vuole uscirne pesta e sbaragliata. Dopo aver vilipeso per una settimana alla televisione «i nazisti di Maidan», e aver aizzato i russi della Crimea mettendo loro la benda agli occhi e l’arma in pugno, colpisce. Con l’arroganza insulsa e distratta di chi riapre la porta di casa, recupera roba sua.

 

«Stato di emergenza» 
Per molte ora la corbellatura degli uomini armati senza etichetta continua, come si avesse paura a riconoscere la realtà. Intanto altri soldati russi hanno preso il controllo anche dell’altro aeroporto, Belbek, vicino a Sebastopoli, dove atterrò Gorbaciov per la sua fatale vacanza in Crimea. «Le nostre forze sono circondate dall’ottantunesima brigata della Marina russa, 2mila uomini, ci sono i cecchini» strilla Kiev. Otto elicotteri eruttano rinforzi. Bloccano anche il comando della Marina ucraina. E sono arrivati i soldati muti anche davanti alla sede della televisione di Crimea, a Simferopoli. Anche qui stile di velluto, beffardo, di chi bussa: tenendo i kalashnikov in mano. Hanno annunciato al direttore che dovevano entrare. Sudando sangue dagli occhi ha chiesto: Chi siete?, voleva le carte le autorizzazioni, il poverino.«Ci spiace. Non possiamo dir nulla» e sono entrati. Spuntano, discretissimi, sullo sfondo delle trasmissioni. I soldati sarebbero entrati anche nella sede delle telecomunicazioni. Infine il ministro degli interni dell’appena costituito governo ucraino, Avakov, si è rassegnato alle parole terribili: «Siamo di fronte a una invasione, a una occupazione che viola tutte le norme della comunità internazionale e che può portare a un bagno di sangue». Circola la frase fatale: «Stato di emergenza». A sera l’Ucraina annuncia che all’aeroporto di Simferopoli atterrano tredici aerei russi con altri rinforzi, duemila paracadutisti. E che il suo spazio aereo è stato violato. L’ingranaggio della crisi fa un altro passo. All’aeroporto i viaggiatori per Kiev si imbarcano con l’aria di chi si chiede quale bandiere troverà al ritorno. Anche loro in silenzio, come se si adeguassero al dramma in corso, per non disturbare. Una ragazza con sguardo languido e ciò nondimeno vigoroso, uno sguardo impaziente, accarezza i suoi russi in mediocre incognito: «Aspetto questo giorno da venti anni, la mia capitale è Mosca…». Non sanno di essere tra gli ultimi a poter partire. Da ieri lo scalo della capitale è chiuso, gli addetti annunciano che anche i voli di stamane sono cancellati. Torno in città, spuntano le prime auto con le bandiere russe dai finestrini.

Verso la secessione 
Torno in città, spuntano le prime auto con le bandiere russe che sporgono dai finestrini. Piotr, aggomitolato in una logora poltrona del suo caffè, sembra l’unico a Simferopoli a non esser contento, ha la voce lontana, lo sguardo umiliato: «I russi son sempre gli stessi, un po’ lenti ma alla fine… A Mosca siamo davvero legati con catene di ferro, odiate, ma che non si possono spezzare. Di errori ne hanno fatti anche a Kiev, le chiacchiere le provocazioni: vietiamo la lingua russa, mandiamo quelli del Settore destro a metter in riga l’est e la Crimea... gli elmetti le maschere… complimenti!». In tv scorre il faccione un po’ stralunato di Yanukovich, il ricercato per 82 omicidi, avvolto in bandiere ucraine, in diretta da Rostov, in Russia: chiede scusa per esser fuggito, dice che tornerà se ci sono le condizione di sicurezza perché il presidente è sempre lui… Nessuno lo guarda: «Quello che dice quel tipo non ci interessa è fuori tempo massimo...». Se i russi coltivano qualche idea di usarlo come Quisling di ritorno fanno calcoli sbagliati. Davanti al palazzo del parlamento bandiere russe, ondate di pop patriottico russo a tutto volume, tè e salsicce russe: tumulto assordante e perpetuo, un brulicare da accampamento, gente che adora una esplosiva fraseologia radicalpopulista: viva la Russia e gli altri all’inferno. Il nuovo primo ministro della Crimea è Serghei Aksenov, uomo di affari, capo del partito «Unità russa»: ovviamente. È ancora incerto il numero dei deputati che nel parlamento occupato dagli armati di Mosca lo ha eletto, qualche formalista sostiene che erano sotto il numero legale. Dettagli, in fondo, con quello che è accaduto dopo. Occhi grigi, acuti come punteruoli, annuncia che si sta procedendo alla formazione del governo (ma restano posti liberi); sì, il 25 maggio si voterà il referendum, ma niente secessione, per carità! solo per dilatare un po’ l’autonomia. Chi paga, chiedono alcuni scettici indomabili, visto che le casse sono vuote? «Abbiamo chiesto un aiuto alla Russia, ma secondo le regole il finanziamento dovrà passare per il governo ucraino…». I nuovi ministri non avranno privilegi e solo un modesto stipendio... non come gli spilla quattrini di Kiev.

I tartari resistono 
Arriva, con studiato colpo di scena, in aereo da Kiev un deputato eccellente, Piotr Poroshenko, milionario del cioccolato favorevole alla rivoluzione, possibile candidato alla presidenza. Vuole discutere con il parlamento della Crimea. I forsennati che circondano l’edificio lo hanno bloccato. Usciamo da Simferopoli per incontrare uno dei capi dei tatari, mezzo milione su tre milioni di abitanti della Crimea, saldamente ostili alla Russia, un altro enigma di questa crisi. Sulla strada per Bakhi Sarai, la loro capitale non ufficiale, un colonna di camion avanza verso Simferopoli: sotto i tendoni altri soldati in mimetica verde. Fanno cenni di saluto all’autista che li supera con lieti colpi di clacson. Il muezzin chiama alla preghiera nella splendida moschea del palazzo dei khan, nel centro la fontana cantata da Puskin. Incombono straordinarie «falaise» di calcare. Ismail Memetov ha gesticolazione a larghe ruote, parole che sono morsi, e una storia personale che spiega molte cose. La sua famiglia, con altri centomila tatari, nel 1944 fu deportata da Stalin in Uzbekistan. Li punivano per aver aiutato i tedeschi durante la guerra («una scusa, voleva la nostra terra») viaggiarono sui carri bestiame, gettati senza cibo nella steppa: molti miei parenti sono morti di fame. Io sono a nato a Samarcanda, e tornato qui, tra i primi, negli anni Novanta: la vita era dura, non c’erano permessi, case, lavoro, le terre concesse come riparazione erano steppa dura, con l’affondamento dell’Urss i nostri risparmi son diventati carta straccia». Memetov ha guidato i suoi in piazza nei giorni scorsi per gridare la fedeltà all’Ucraina: «Anche se i governi nati dalla rivoluzione arancione ci hanno usati. Abbiamo difeso i loro comizi durante la campagna elettorale, i russi volevano cacciarli a sassate, li abbiamo votati, e loro ci hanno dimenticato. Ma sappiamo come si vive in Russia, non vogliamo ritornare sotto di loro. Mai». E adesso? I russi sono qui… ha paura? «Gente che ha la nostra storia ha smesso da tempo di avere paura».

Da - http://lastampa.it/2014/03/01/esteri/crimea-blitz-russo-in-aeroporti-e-tv-kiev-questa-uninvasione-m5jD3h0nDSrEyozjcDTyTL/pagina.html
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 02, 2014, 05:28:32 pm »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 02/03/2014.

Il senato spinge Putin al blitz Kiev: dichiarazione di guerra
Il leader russo ottiene l’autorizzazione dal Parlamento per “l’invio di truppe” Kiev protesta ma le milizie della Crimea esultano: “Si torna alla nostra patria”

Forse scrivo già da un altro Paese. Simferopoli: non più Ucraina, ma Russia. I nuovi colori, bianco rosso e blu, sono ovunque, sui palazzi del Potere, intrecciati nei nastri nei capelli delle ragazze, i soldati russi sono nelle strade, negli aeroporti, già stamane rimetteranno sulle maniche le mostrine che tenevano nascoste, basta un piccolo gesto con la mano. La Crimea torna russa. E poi, forse, tutto il sud est che ieri era in fiamme, assalti ai Palazzi, feriti, bandiere russe, richieste di aiuto a Mosca: siamo in pericolo, gli estremisti di Kiev ci attaccano. È il congegno applicato qui, con successo. «Putin ci dichiara guerra… è pazzo», mi ha gridato, sconvolto, un giovane rivoluzionario di Maidan al telefono da Kiev. Gli ho risposto: «No, è solo molto astuto, implacabile e tenace».

Come sempre gli uomini entrano nelle tragedie cantando, berciando, ignari, indifferenti, stoltamente felici: anche qui ieri, a Simferopoli, fredda e grigia, come sepolta sotto la cenere. Il centro era fitto di gente, anziani, famiglie, fidanzati, venuti ad applaudire i soldati russi, la foto con il telefonino sotto la statua di Lenin, con aria accesa e imbambolata, costumi cosacchi, fruste, vecchie divise della marina rossa con i cappelli da ammiragli, cori: una festa con i caffè e i cinema pieni. Ha riaperto anche il circo. Così maciullati dal troppo udire e dal troppo vedere si diventa folla, si crede agli auspici, si trasforma la realtà in simbolo, il fatto in leggenda. Alla radio annunciavano che Putin ha ottenuto i pieni poteri per «entrare in Ucraina». A Kiev si gridava alla guerra, alla mobilitazione. Che importa! Il conto è regolato, torniamo a casa. Bravo Putin!

Il palazzo dei sindacati è caduto alle 13,30. In punto. Non è stato difficile. Lo difendeva - uffici, scaloni, targhe con i nomi dorati degli stakanovisti degli eroi del lavoro delle alacri formiche del socialismo - soltanto la vecchia signora Irina, vigile e piccolina, con il suo grembiule verde, le ciabatte, lo strofinaccio con cui da più di trent’anni lotta contro il tempo e le scarse cure degli uomini. 

Gli assalitori: erano terribili gli assalitori. Una centuria ben inquadrata di energumeni, il volto coperto da passamontagna, torsi e bicipiti che tendevano le tute mimetiche. Sono arrivati in fila per tre, passo militare e la bandiera (russa) in testa. I bellicosi apostoli del neonato «Fronte della Crimea» liberata. La porta del palazzo era chiusa, sabato giorno di festa anche se c’è la rivoluzione e si parla di guerra. «Aprite!» hanno urlato e giù calci e pugni che squassavano i cardini. La vecchia custode si è affacciata da una finestra, sembrava volessero scardinarla di urla, ordini, imprecazioni. Impavida, ha fatto gesti energici: andate via. Il capo dei forsennati, l’unico a viso scoperto, ha dato un ordine. Hanno portato una lastra di cemento e la finestra è andata in frantumi. Una folla imbandierata applaudiva. Un’auto della polizia è arrivata sgommando scenograficamente. 

 

L’ha chiamata la custode. Non aveva capito che era il primo giorno della nuova era, le vecchie regole, i violenti, la polizia, l’ordine, tutto finito, abolito, scomparso. Due agenti, le mani sulle pistole, si sono lanciati verso l’ingresso devastato, quando hanno visto i miliziani e la bandiera hanno fatto dietrofront scusandosi. La signora Irina è dignitosamente al suo banco, lacrime lente scendono sulle guance. Ieri hanno rotto con la finestra il vaso della sua vita e da questa incrinatura l’acqua buona corre via impercettibilmente. È nata nelle terre del gulag, a quattro o cinque fusi orari di qui, il padre era militare a Sebastopoli, guarda in fondo a se stessa e non capisce il mondo nuovo: «Sono pazzi. Questo palazzo appartiene a tutti noi. Perché fanno così?» 

Già. Bisogna chiederlo a Costantin Nerik che comanda il gruppo degli incappucciati. Il Fronte della Crimea è destinato a un sicuro avvenire: di braccio politico della riorganizzazione dopo l’intervento russo.

Hanno anticipato ieri la data dell’autoproclamato referendum sulla autonomia: il 30 marzo. Perché nessuno si faccia illusioni sul risultato loro hanno attaccato una bandiera russa nella sala che diventerà il centro stampa del nuovo movimento: «Ma non è una bandiera straniera! È il simbolo delle aspirazioni di quelli che abitano in Crimea. Che volete che facciamo? A Kiev sono gli estremisti armati che dettano le leggi in parlamento, dobbiamo difenderci da soli. I terroristi ucraini ci scrivono che verranno a impiccarci sulla piazza Lenin. In Crimea regna la calma e l’ordine, non vogliamo il caos e il fascismo. La porta rotta? Pagheremo i danni e anche l’affitto. Le maschere sono per la sicurezza dei nostri uomini».

I russi marciano svelti, le cadenze dei loro piani sono giornaliere, Putin ha in mano il gioco, non intende lasciarlo. L’annuncio del premier ucraino che Kiev non intendeva reagire con la forza l’ha interpretato come un segno di debolezza e non di prudente ragione. I soldati russi dopo 24 ore erano più spavaldi, scoperti, l’aria di padroni di casa. Segno ancor più preoccupante i gruppi di autodifesa si inquadrano militarmente, hanno sostituito la vecchia polizia. Il governo di Crimea dichiarato illegale da Kiev nomina ormai i funzionari, anche il capo della sicurezza. Quello inviato da Kiev è stato respinto. Si forma un esercito collaborazionista, con i reduci del Berkut, il nucleo antisommossa che ha cercato di schiacciare ferocemente Maidan. Il nuovo governo ucraino lo ha sciolto. Un errore. Perché la Crimea russa li ha arruolati.

Ma questo ormai è il passato. Già incombe il nuovo capitolo, l’est, le folle russe scatenate a Kharkiv, a Donetz, a Dniepropetrovsk, nel feudo del padrino-presidente deposto dalla rivoluzione. Dopo la Crimea è qui che Putin vuole smontare Maidan, rimettere il morso ai ribelli di Kiev, ricacciare indietro l’Europa. Manovrando sulla differenza tra le due parti del Paese diviso dal Dnipro, l’est dove la presenza russa e russofona è più forte ma soprattutto la storia è diversa, la terra delle miniere, dei grandi Kombinat industriali integrati con l’economia russa, dove i gregarismi postsovietici sono più stretti e le seduzioni dell’Europa più fragili. 

Nelle strade ieri si rovesciavano le scenografie di Maidan, come in uno specchio: fiori e lumini in lunghe file, e le foto, ma per ricordare i morti del berkut «uccisi dai terroristi mentre facevano il loro dovere», l’omaggio a Lenin, la caccia ossessiva ai «tituski», i provocatori, l’Europa là idolatrata e qui derisa e maledetta. Perfino le milizie di autodifesa sono il rovescio dei gruppi rivoluzionari, fitte di un lumpenproletariat che cerca spazio e voce.

«Ci hanno divisi in centuria, un colpo di telefonino del capo e arriviamo. Siamo pronti a ricevere quegli schifosi di Kiev. Il parlamento, il nostro parlamento non lo hanno toccato. Le armi: sono gli altri che le usano. Per ora non ne abbiamo bisogno, ma se occorre...». Li domina la teoria del complotto, della congiura, che giustifica tutto. Ha ben lavorato la propaganda russa: Maidan non è stata una rivoluzione ma un colpo di Stato, oligarchi contro oligarchi. È una macchinazione dell’Occidente che è dietro a tutto, ma lo sai che ci sono 200 organismi in Ucraina messi in piedi negli anni scorsi e pagati con cento milioni di dollari per finanziare quello che è successo e impadronirsi del Paese? Soldi polacchi, americani, tedeschi, francesi che in ogni settore, educazione, cultura, assistenza hanno lavorato per destabilizzare, indebolire, condizionare? Davanti al monumento per la riunificazione della Crimea alla Russia ai tempi della Grande Caterina le corone di fiori sono freschissime. E un grande cartello: «Stiamo liberando la Crimea dall’occupazione degli Stati Uniti e dell’Europa. Poi sarà la volta di tutta l’Ucraina». 

Domenico Quirico

Da - http://lastampa.it/2014/03/02/esteri/ora-putin-vuole-anche-lest-la-dichiarazione-di-guerra-TWz0UMGktGb7yUarXuSTAP/premium.html
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 03, 2014, 05:31:28 pm »

Esteri

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 03/03/2014.

Le lacrime degli ucraini nella Crimea occupata “Ci portano via la patria”
I russi prendono il controllo delle navi di Kiev e della basi “Dovevamo entrare subito nella Nato, ora siamo spacciati”


Ho visto gli ucraini piangere per la morte del loro Paese. Ieri nel centro di Simferopoli. Le parole scorrevano limpide, semplici, e senza pietà. Sentivi l’odio che si addensava come la nebbia in una vallata. I propagandisti dei movimenti pro-russi, nella piazza sotto il Parlamento, ora parlano non più della Crimea, ma della parte Est del Paese, il nuovo capitolo, la prossima mossa. «La primavera di Crimea è solo l’inizio, la natura si sveglia, la vita, le coscienze, siamo il modello per i nostri fratelli dell’Est, a Karkhiv, a Cherson, a Donetsk. Vi gridiamo: state saldi, non abbiate paura. Putin ci aiuterà». Le canzoni di fondo erano quelle di Vladimir Visostzkj, era idolo canoro della vecchia Urss. C’è molto di stantio in queste adulterazioni della Storia tirate a servire passioni e fazioni del momento. Tutto vi è autenticamente falso. 

In un angolo vicino a me un uomo ascolta: «Non è così, non è così, è l’Ucraina il nostro Paese. Sono andato all’estero per lavorare, per vivere e adesso mi portano via la patria». Silenziose lacrime gli scorrono giù dalle guance: «Mi chiamo Volodimir, mi raccomando Volodimir: in ucraino. Non Vladimir». Si concede quel pianto pubblico. Come se tutto il pianto represso nel suo cammino doloroso di questi giorni, furore e guerra che lievita, riservato per le ore solitarie quando nessuno lo vedeva, gli fosse improvvisamente venuto su dal cuore e chiedesse liberazione. Piange la fine della Crimea, e forse la fine dell’Ucraina come nazione libera.

Prove di guerra 
Rimbalzano, febbrili, stordenti, le notizie: Kiev ha richiamato i riservisti (era una volta l’inizio ufficiale delle guerre), il primo ministro Iatseniuk non si attarda, non pospone più: «Non siamo di fronte a una minaccia, ma a una dichiarazione di guerra russa, siamo sull’orlo del disastro». E poi le voci, ancor più fitte: le trincee e le postazioni per cecchini alzate ad Armiank, dove passa il collegamento terrestre con l’Ucraina, caserme e basi circondate dai soldati russi, gli ultimatum, a Kerch dove il comandante ha invocato aiuto, a Teodosia che sarebbe assediata dalle forze di autodifesa ormai armate. E ondate di rinforzi rovesciati da aerei ed elicotteri, Kiev annuncia anche il nome del comandante dell’operazione, il generale Galkin. Mosca e i filo-russi che annunciano, esultanti, basi e depositi sono abbandonati, militari ucraini che si dimettono o passano al nuovo governo filorusso, anche il comandate della marina ammiraglio Berezovskiy; seicentomila profughi che avrebbero già passato la frontiera russa in cerca di salvezza, «una catastrofe umanitaria se non prosegue il caos della rivoluzione».

Il pianto di Volodimir 
Volodimir fino ad ora ha lottato, deciso a resistere. Ma adesso questi avvenimenti sono superiori alle sue forze. Le guance rigate di lacrime, alza verso di me i suoi occhi: «Andiamo via di qui, non è prudente parlare». Nella folla che applaude gli oratori pro-russi girano uomini dalle giacche di cuoio, al braccio il contrassegno delle milizie, la polizia del nuovo Potere. Hanno notato il pianto, sospettosi se interpretarlo come gioia o dolore.

Entriamo nel cortile di una casa dalla facciata elegante; dentro tutto, dall’intonaco dei muri alla vernice delle persiane, tutto precipita dall’opulenza nella miseria, è come ficcarsi dal palcoscenico tra le quinte polverose e vedere le scene dalla parte dei rattoppi e dei chiodi. La stanza sembra l’antro di un mago: stracci, ferri trespoli, vecchi giornali. E un cane che si chiama Dantés che ci guarda immobile (Dantés sì, come il Conte di Montecristo). «Da giovane ho tentato di fare l’attore, mestiere difficile, le parole sono come l’aria e l’acqua, le stringi e non trovi niente. Ma guarda le mie mani, non era destino, non c’era lavoro, sono andato in Polonia e in Germania, muratore, benzinaio, giardiniere». Dall’appartamento vicino, nitido come se la parete non esistesse, giunge il pianto di un bimbo. La immensa Ucraina dei poveri, di quelli che vivono con duecento euro al mese, che non ha altro soccorso se non la sua forte e sobria pazienza. Guardo quest’uomo: nella sua chioma canuta, i pochi capelli che sono rimasti neri, le labbra larghe e dritte, gli occhi di volontà di un grigio azzurro. E penso a coloro che qui in Crimea non esultano, ma piangono. Lacrime: come quelle dei cecoslovacchi invasi da Hitler, anche allora «per salvare tedeschi in pericolo» fu il pretesto e gli ungheresi. Ombre, tutte ombre.

I morti di Maidan 
«Quando sono arrivati i russi ho pensato ai morti di Maidan, a come erano giovani, diciassette diciotto anni, belli come angeli, disarmati. E qui invece i fucili e i blindati. In Crimea la presenza ucraina è sempre stata quasi assente, soffocata, i giornali, i libri in ucraino quasi introvabili, le tv fanno solo propaganda per la Russia; i deputati della Crimea, ostentatamente, a Kiev parlavano in russo alla tribuna. Se fossimo entrati in Europa e nella Nato! Saremmo salvi, e io potrei avere un visto per girare il mondo liberamente». Ma cosa potete fare, ora? «Ascolta: negli Anni 80 c’era ancora l’Urss, sono stato tra i primi a manifestare contro le centrali nucleari, avevamo montato una tenda, mi hanno condannato a pagare duecento rubli per turbamento dell’ordine: c’era scritto che la nostra tenda “disturbava l’aspetto architettonico della città!”. Occorre che in Russia tornino in piazza per dire no al martirio dei fratelli ucraini, no a Putin. Dobbiamo restare fedeli a questa terra, per quei ragazzi che non hanno visto nulla della vita, dovremmo scrivere i loro nomi sulle pietre di Maidan innumerevoli volte».

Il referendum in Crimea 
Via via, ho bisogno di andare, di muovermi, di liberarmi dall’angoscia. In tv, a casa di Volodimir scorrevano le immagini della manifestazione a Maidan, a migliaia di nuovo insieme per fermare le guerra e Putin. Su un’altra piazza, quella del governo a Simferopoli, si raccoglievano invece le schede del referendum sulla statua di Lenin: tre domande, volete che resti, che venga abbattuto, che venga spostato? Ho votato anche io: firma e residenza in Crimea. Ho segnato l’indirizzo dell’albergo. Un giovane del partito comunista locale sta attaccando sulla base del monumento un cartello: «Non toccate il nostro leader!»: «Da 20 anni mi inculcano una nuova ideologia, da 20 anni cercano di spiegarmi che mio padre e mio nonno erano degli occupanti e dei bugiardi. Da 20 anni mi fanno imparare a memoria lo scrittore ucraino Scevchenko invece che Gogol. Da 20 anni tutto ciò che è russo è uno spazio bianco sulla carta del mondo. Basta! Non sono un malato di mente, sono per l’amicizia dei popoli, il rispetto e la dignità. Ma so che lingua parlo e in che terra vivo. Io sono russo, sono a casa mia. La mia terra è la Crimea!». Penso alle lacrime di Volodimir.

Domenico Quirico

Da - http://lastampa.it/2014/03/03/esteri/le-lacrime-degli-ucraini-nella-crimea-occupata-ci-portano-via-la-patria-eHWMnnBpO2SdN9uLS5iJgI/premium.html
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 09, 2014, 05:44:21 pm »

Se il califfato sbarca sul Mediterraneo
Partiti da Tora Bora, gli jihadisti sono ora in Iraq e hanno preso Bengasi. E l’Occidente batte in ritirata
Militanti del gruppo siriano Jabhat al-Nusra, il Fronte della vittoria affiliato ad Al Qaeda, marciano
a sud di Damasco per protestare contro i raid israeliani nella Striscia di Gaza

04/08/2014
Domenico Quirico

Da Tora Bora a Bengasi: avanzano, galoppano davvero i fattucchieri della devozione islamica, i grandi e piccoli sensali del nuovo Califfato universale, quelli che vivono di santa guerra, le fronti aggrottate da una lugubre dottrina, le facce serrate come casseforti.

E in mano sempre il coltello per liquidare, redimere, punire. La rivoluzione, anche quella fanatica in nome di Dio, si apre silenziosamente, come un fiore di ferro. La abbiamo tra i denti, la mastichiamo. Questo vento che si leva. Così avvengono i grandi rivolgimenti umani, semplici e tremendi. 

Li avevamo lasciati, (ricordate i tempi preistorici di Al Qaeda, gli untorelli del terrore planetario, gli antemarcia dell’islamismo trionfante?), braccati dalle bombe americane tra i remoti graniti delle montagne afgane: periferici, isolati, vinti. Sì, vinti! E adesso i loro eredi hanno quasi scardinato la terra e presidiano il giallo adusto delle pietre mediterranee fulminate dal sole. Sprofondati nel passato e sulle labbra solo le parole del tempo che fu, tradizionalisti per cui un abuso diventa legge solo perché dura da sempre, che aspirano ad essere guidati dai morti, che si sforzano di relegare l’avvenire e la palpitante passionalità del progresso al mondo delle favole, già reggono, da padroni, la Mezzaluna fertile, Siria e Mosul, le terre dell’acqua e del petrolio. Questa canaglia barbarica si prepara a riprendere Kabul; salmodiando con la morfina del loro paradiso obbligatorio e le raffiche dei kalashnikov tiene le rive del Niger e percorre, di nuovo spavalda, le piste del Sahara e le savane della Somalia e del Kenya. La dossologia di questo colossale, sanguinoso Salmo della penitenza diventa territori, Stati, frontiere, eserciti: ecco la novità. I terroristi si son trasformati in soldati, i congiurati ora sono califfi, emiri, qaid.

L’avanzata impetuosa della Insorgenza Globale islamista è ormai un fatto: e i fatti sono assoluti in se stessi e in tutte le loro peripezie. Improvvisamente, dopo Bengasi, tutta la Storia diventa sinottica e simultanea a tal punto che è possibile sovrapporre e annettere strettamente sotto il nostro sguardo gli avvenimenti che finora ci sembravano più disparati e distanti.

 Eppure la proclamazione dell’Emirato a un’ora di volo dall’Europa, l’annessione esplicita della prima tra le primavere arabe non sembra sollevare attenzione. La sensibilità resta intorpidita, attonita in questa Europa dalle cattedrali ingiallite, dalle risse medioevali, dalle economiche rivalità belluine. Un eguale fatalismo riconcilia nella stessa ebetudine le vittime e i carnefici. Sì, la avanzata dell’islamismo fa veramente paura il giorno in cui ti accorgi che ne respiri, tra ciucche parolaie, quasi inconsapevolmente e senza trasalire l’aria insulsa e sanguinosa. Tutto il mondo musulmano è chiuso e incatenato, milioni di sudditi recalcitranti e impauriti si dibattono già nell’Interdetto islamista. Ogni giorno depenniamo lembi che non possiamo più percorrere. A Tripoli, a Baghdad si sbarrano le ambasciate, fuggono i residenti occidentali, le imprese indietreggiano abbandonando mezzi e denaro: segni chiari della ritirata, della sconfitta. Il nostro mondo democratico e tollerante si restringe, si rannicchia, in attesa dello schiaffo e della iniziativa degli Altri. Abbiamo accettato come un fatto compiuto il califfato a Mosul; la annunciata controffensiva dei Nostri, gli alleati dell’America, eran solo parole. Ora accetteremo l’emirato di Bengasi e poi quello di Tripoli e di Maiduguri e di Gao e chissà quali altri. Fidando nella decrepita sottigliezza del nostro genio del compromesso e del distinguo.

In Libia gli islamisti mettono mano su un bottino che vale mille volte più che le armi moderne razziate in Iraq. Non è il petrolio. L’oro nero non interessa gli islamisti: Allah l’ha dato e può toglierlo. Quello che interessa loro sono gli uomini, la loro obbedienza, le loro anime. In Libia ora diventano padroni di decine di migliaia di disperati, i fuggiaschi dell’Africa, i migranti, i «subsahariani», i sudditi della crudeltà di questo tempo che pone ciascuno davanti a una legge di violenza e di sangue e fa l’uomo nemico di se stesso fin nelle inclinazioni più limpide e naturali. Depredati e respinti, alla spiaggia dell’ultimo balzo, quello verso il mondo dei ricchi, cercano qualcuno che ridia loro una fede. Gheddafi ne aveva intuito il potenziale nocivo, ma li usava per i suoi mediocri ricatti minacciando di scagliarceli addosso come onde umane.

Ma erano le braverie di un baro. Ora con gli islamisti sarà diverso, non possiamo blandirli con dollari e inchini. Hanno manipolato le menti e i cuori di migliaia di ragazzi europei, trasformandoli in zelanti mujaheddin in cerca del martirio in Siria e altrove. Lo rifaranno, ancor più facilmente, con i dannati dell’Africa.

Le nostre carte? Erano mediocri e mal scelte. Come sempre. In Iraq masse urlone e raccogliticce di sciiti corrotti; a Bengasi Khalifa Haftar, un generale fellone che Gheddafi liquidò non perché ne temesse i sussulti democratici, ma perché con un esercito sterminato si era fatto umiliare nella famosa «guerra dei Toyota», dai predoni ciadiani. Era a libro paga della Cia, ovviamente. Per anni ha abitato a due passi dalla sede dell’Agenzia, a Langley. A questo velleitario golpista hanno dato soldi e armi. È scappato: di nuovo. 

Ci rassicuriamo da questa parte del mare in discussioni ridicole e infantili, ne vengono fuori goffaggini crudeli, strepitose: «… in Libia in fondo gli islamisti hanno perso le elezioni … ci penseranno i deputati a tenerli a bada a colpi di costituzione ...addestreremo la polizia…». 

Intanto, loro, rapidissimi, trasformano la miseria di un Paese in una specie di famelica patologia. La fede la trasformano in una concezione estranea alla vita, squilibrata rispetto al mondo, una specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, (così è stato in Siria, in Iraq, in Libia, in Somalia, in Nigeria), che occupa tutti gli spazi, schiaccia la vita e diffonde il contagio fino al culmine della guerra oppure all’asfissia soffocante di un ordine senza pietà. 

Da -http://lastampa.it/2014/08/04/esteri/se-il-califfato-sbarca-sul-mediterraneo-kLYCHuftwyS3LqFagmBoXN/pagina.html
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 30, 2014, 09:35:17 am »

Medico, rapper, spacciatore. La nuova jihad nasce nelle file degli “integrati”
I killer di Foley coprivano i ruoli più “occidentali” della società

26/08/2014

Domenico Quirico

Un rapper; o un medico; o uno spacciatore: nei tre possibili assassini britannici di James Foley, nel loro contegno di belva, c’è per noi, europei, occidentali, come un sociologico soffio di ghiaccio. In quei minuscoli fili delle trame che la vita continuamente ordisce, sperde e ricompone intorno a ogni persona umana c’è, forse, la complessità e il pericolo della nascita di una infezione nascosta, il jihadismo europeo, composta cioè da ragazzi che hanno vissuto tra noi e come noi.

Non marginali, esclusi, ribelli in nome del Passato estraneo: no, protagonisti invece normali della nostra società, della sua oltranza titanica e della sua spossatezza morale, il vagheggiamento e la ripulsa del niente. E un giorno l’improvviso impero di un destino, un lievito amaro, la vertigine di perdersi e di negar tutto, di non assomigliare a niente, di spezzare per sempre ciò che ci definisce, di ritrovare la piattaforma unica da cui i destini possono ad ogni istante ricominciare. 

Che cosa governa un cuore? Qui è privazione, rimpianto, mani vuote, partenza, costrizione, rottura, vuoto. Il medico, il rapper, lo spacciatore lasciano come un vestito vecchio tutto ciò che noi crediamo fondamentale e attraente, la scienza che salva, la musica, il malaffare redditizio; e vanno a uccidere e morire per un Assoluto così crudele, in un paese che non è il loro, neppure quello dei padri o nonni dove aleggia l’alito dei luoghi infausti. C’è di che sconcertare i settatori delle magnifiche sorti e dei fatali progressi. 

Il jihadista mostruosamente perfetto è qualcuno con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, a cui chiediamo aiuto per guarire, che ascoltiamo nel cd, con cui alimentiamo i nostri vizi. Dunque non l’allievo di «madrase» in luoghi dove dominano la polvere e il sasso, bambini analfabeti a cui hanno insegnato il Libro a memoria, i vinti di modernizzazioni autoritarie. È Lyristic Jinny, che hai ascoltato sulla Bbc e che diventa Abu Kalashnikov. Ha torto Obama quando dice che il califfato rinascente è qualcosa di estraneo al ventunesimo secolo: purtroppo è vero il contrario, è semmai conficcato in questo secolo, ne è il nuovo cuore di tenebra. 

Un giovane medico londinese è apparentemente un successo della integrazione, li mandiamo nel Terzo Mondo, i medici, come prove della volontà di fare il bene, non più conquistatori e mercanti ma medici… E costui diventa boia, un individuo segnato, non ha interessi affari né sentimenti personali né legami, nulla che sia soltanto suo. Tutto in lui è in funzione di un solo interesse esclusivo, di un solo pensiero, di una sola passione: la rivoluzione islamica.

 
Oppure il suo contrario, il mercante di droga, eroe dell’intraprendenza mercantile applicata al morale: lo spacciatore vive nelle pieghe della nostra degradazione, se ne arricchisce. Conosce la profondità dei vizi e la sfrutta. Cosa c’è di più occidentale? È lercio di vizio. Poi un giorno parte e annulla il curricolo nero della sua deroga. Ora ha il «qamis» e la barba, e in mano un coltello e parla di dio. 

Forse il califfo di Mosul ha scelto volutamente una di queste tre biografie per il video sanguinario e i suoi irriferibili orrori: il mio boia me lo avete fornito voi, io sono già tra voi, posso reclutare chi voglio.

Ho parlato, un lungo pomeriggio di due anni fa, in un luogo della Siria che oggi è califfato con un gruppo di giovani jjhadisti francesi, tutti di Tolosa, tutti venivano dalla stessa banlieue, studenti, due meccanici, disoccupati. Parlavano degli orrori di quella guerra con la indulgente sicurezza propria dei preti, che vivono le miserie di questa terra come l’avessero lette nel Libro, ne parlano, vi stanno in mezzo con l’indifferenza di chi ha piena conoscenza delle cose umane. Avevano studiato sui manuali de la République, fatto il tifo per la squadra di calcio della città, ascoltato la musica rock. La morte in Siria era per loro piuttosto un buon amico, un compagno, un lavoratore con cui si è stati nello stesso ufficio, nello stesso reparto o nello stesso campo. Quando viene, non fanno storie, si amano i propri amici, ma non si importunano, si lascia che vadano e vengano come loro conviene. 

Avevano compiuto il passaggio chiave, deciso cioè di considerare nemici altri uomini, di renderli astratti. Li avevano cioè allontanati da sé, non volevano più sapere che potevano ridere fragorosamente e piangere di dolore, erano diventate sagome che si possono colpire e sgozzare. 

 Da - http://www.lastampa.it/2014/08/26/esteri/medico-rapper-spacciatore-la-nuova-jihad-nasce-nelle-file-degli-integrati-nPTBmzmdHdJMg31KqR8u6K/pagina.html
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 10, 2015, 04:13:31 pm »

La globalità del nuovo islamismo

10/01/2015
Domenico Quirico

Nei jihadisti che ho conosciuto, platealmente feroci o ipocritamente machiavellici, c’era un elemento comune: ciascuno di loro si sentiva la piccola parte di un tutto, e il tutto era visibilmente una parte di loro. E se fosse questa globalità, psicologica ma anche pratica, operativa, militare, il segreto della loro pestifera potenza, e quello che ci impedisce di capire? Il totalitarismo islamico è, nella sua essenza, senza confini. Li vuole distruggere i confini, le frontiere, le nazioni: un’unica ecumene, quella di Dio. Mentre noi occidentali, laudatori della globalizzazione, in realtà, penosamente, continuiamo a ragionare nei limiti dei vecchi confini nazionali: soprattutto quando sono i nostri. 

In fondo cosa può legare il cuore di Parigi con una città di lamiera e capanne nel Nord della Nigeria e il deserto della Libia? Apparentemente nulla, se non qualche slogan «non c’è altro dio fuori che dio» che noi, autoproclamati sudditi della modernità ascoltiamo distrattamente e archiviamo come medioevali ed esotiche sopravvivenze. I boko haram annichiliscono intere città come nelle guerre assire? Ma quella è l’Africa… La Libia è in pezzi, un emiro buccina fatwa omicide a Bengasi?

Periferie desertiche, alla fine il dio petrolio riunirà tutti attorno a un assegno, pagato da noi… 

Un commando colpisce a Parigi? Una scaglia sciaguratamente immigrata della follia siriana. Il «nostro» Islam resta acquattato sotto la giacobina uniformità francese, largamente maggioritario, tollerante e tollerato. 

Bin Laden era una provvidenziale semplificazione. Comandava già il terrore diffuso, non più localistico. Un Serpente terribile e velenoso, macchinante continue vendette. Ma bastava tagliare una testa e il resto del corpo dopo una serie di frenetiche convulsioni, sarebbe morto. Un assolutismo criminale che poteva avere mediocri epigoni, non eredi.

Oggi l’Internazionale islamista non ha testa, al Baghdadi è soltanto un nome, la pedina di una globalità. La Bestia non è più il serpente che esiste in natura, è il Leviatano, l’idra che rinasce ad ogni testa mozzata, si ricostruisce per partenogenesi. Il commando francese è annientato? Un altro colpirà, senza ricevere ordini, come in una catena di montaggio. Qualche forza militare al servizio dell’Occidente, curdi, sciiti, nigeriani, kenioti, riconquista zone di territorio piegate alla Sharia? La ribellione globale in nome del califfo si reinfiamma in un’altra parte del mondo, non hanno fine le terre del jihad. 

E’ il fochismo guevarista convertito al teologico, un ingranaggio che si autoalimenta, inghiotte come un combustibile soldati martiri vittime… Non ci sono gerarchie, parole d’ordine, tutti sanno per cosa si battono: allargare la terra della sharia, riconquistare terreno alla vera fede, disarticolare il mondo di apostati e empi. Non c’è nessuno che da Mosul o da Raqqa ha inviato un messaggio in codice, via internet, ai killer di Parigi o ha ordinato al capo dei boko haram di dar fuoco a una città.

La intuizione «politica» della ricostruzione del Califfato ha trasformato, con la predica di uno sconosciuto ribelle iracheno nella moschea di Mosul, i fanatismi di migliaia di singoli e una manciata di insurrezioni tribali in un Tutto: le ferite che ciascuno riesce a infliggere allargano lo squarcio, la smagliatura, un colpo dopo l’altro arriveremo ad essere assediati nelle nostre città. 

E’ come se negli Anni Trenta il Comintern della rivoluzione permanente si fosse affrancato dalla dispotica centrale moscovita, muovendosi come un corpo autonomo.

Solo se riusciamo a leggere il nuovo islamismo nella globalità riusciremo a capire la minaccia. Il califfato è un libro di ferro, squadrato, atroce, un libro che nessuno leggerebbe volentieri, ma i cui capitoli sono collegati. Per noi invece la terribile strage di Parigi è un attacco alla civiltà universale, il massacro nigeriano un episodio di una remota guerra locale, l’assassinio di due giornalisti tunisini cronaca nera sahariana… I governi occidentali sono certi di controllare tutto: con i satelliti i servizi di sicurezza, la tecnologia. Invece il califfato muove migliaia di uomini da un continente all’altro con armi piani informazioni senza che nessuno riesca a fermarli: forma reggimenti in Siria Iraq Libia e commandos sulle rive della Senna. Ammettiamolo: non conosciamo chi ci sta di fronte, le nostre onnipotenze sono fittizie. Se prendete la metropolitana in boulevard Saint-Germain arrivate direttamente nel califfato: sì, ci sono città intere attorno alla capitale francese che vivono in un altro universo, dove si possono comprare armi da guerra, avere più mogli, ascoltare, non su internet, dal vivo, le prediche di ossessi, come nelle madrase afghane o della Arabia salafita. I ragazzi di banlieue hanno cominciato a partire per la guerra santa quando si combatteva contro Bush, in Iraq. Allora la prospettiva era il martirio, oggi si battono per il califfato «che sarà più grande della Francia». Sanno che un giorno i bravi musulmani moderati e pazienti a cui noi chiediamo di isolare il fanatismo accetteranno le loro regole, per paura o per comodo, con la stessa obbedienza con cui hanno accettato le regole dei tiranni «laicisti», dei bizzosi sultani e dei pascià della loro storia immemorabile. «Al sabr gamil» la pazienza è bella, un proverbio arabo.

«L’Islam è una grazia, cristiano – mi ha detto un capo jihadista di cui ero prigioniero – vi illudete che abbiamo bisogno delle vostre porcherie per vivere, che siamo ormai deboli e obbedienti… ti racconto una storia: c’era nel deserto un cucciolo di leone che era cresciuto tra le pecore e il cucciolo pensava di essere una pecora anche lui, e belava e scappava di fronte ai cani. Poi un giorno un leone passò di lì e gli mostrò il riflesso in una pozza d’acqua e scoprì ciò che era davvero. Cominciò a ruggire. I cani fuggirono. Ecco: noi siamo musulmani non pecore, non dimenticarlo più, ci avete umiliato e sfruttato per secoli. E’ finita».

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/10/cultura/opinioni/editoriali/la-globalit-del-nuovo-islamismo-9IissarxWMzUwsOefqieOI/pagina.html
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 03, 2015, 05:14:12 pm »

La Storia vittima del fanatismo

27/02/2015
Domenico Quirico

Perché il bassorilievo di un toro antropomorfo del primo millennio assiro fa paura al califfato? 
Perché statue della meravigliosa arenaria di Mosul spaventano lo stato islamico, occupano i suoi sgherri come i bombardamenti americani: tanto che li fanno a pezzi, si accaniscono sudando nella polvere, li gettano al suolo sbriciolati come se fossero nemici armati o ribelli? Perché la Storia è il principale avversario dello stato totalitario, di ogni Stato totalitario: come gli uomini, più degli uomini. Per il califfato c’è, infatti, una Storia impura come ci sono uomini impuri: ed è tutto quello che è esistito prima della linea tracciata sul passato, il nostro e il loro. 

Le pietre, le statue, i templi parlano. Tutti li possono leggere. Parlano più dei sermoni e dei discorsi: sono lì, esistono per smentire chi vuole semplificare, annullare, maledire: chi esige un passato senza sfumature periodi svolte. Allora bisogna ucciderle, quelle pietre, polverizzarla per affermare che la Storia è stata scritta di nuovo e definitivamente. Altrimenti l’impalcatura della finzione cade, l’avvento islamista diventa arbitrario, incerto, una parentesi che finirà, prima o poi. 

Per questo in Iraq, come prima in Afghanistan, e poi per i libri e le tombe di Timbuctu, la storia e l’archeologia sono diventate ostaggi e vittime: come gli uomini, anche loro sono finite nella lista di ciò che contamina la società perfetta. Che è solo quella omologata da questa sterminata ubriacatura di fanatismo che, come la peste, marcia dall’oriente verso occidente.

Hanno scelto male il luogo del loro primo califfato, gli uomini di Daesh: hanno scelto proprio la terra tra i due fiumi dove la Storia è nata, si è composta e scomposta mille volte, ha cancellato imperi e città, invasori e vittime nutrendosi delle pietre dove passavano il vento e la sabbia, ne ha consumato le brevi glorie per trasformarsi e costruire di nuovo. Continuamente. Intarsiata come le opere della partica Hatra, ieri distrutte, di innumerevoli vibrazioni interne. Altre civiltà, altri mondi, altri uomini.

Per secoli, qui, sul ciglio del deserto e delle montagne dove si annidavano i nomadi, gli invasori, affacciata sul verde come sul mare, la civiltà ha ordito il tempo mai omogeneo dell’uomo. Dietro, il deserto; come riserva inesauribile di fame di sete di morte. In mezzo il fiume con le città, la scrittura, i templi di dei sempre diversi, le palme, i canali per l’irrigazione, la vita. E poi il verde dell’altra riva e poi, subito dopo, come un bastione, l’altro deserto, quello degli arabi invasori. Senza questo spazio fisico non si può leggere ciò che nei millenni è stato costruito, ricostruito, copiato. Gli scalpellini assiri rinettavano i blocchi di materia non ancora incompiuti. Sembra di udire il suono argentino di quei colpi minuti levarsi nell’aria come il frullare delle ali di uccelli. I raggi del sole come zagaglie sembrano scheggiare ancora la pietra arrostita dolcemente, cotta e ricotta e poi mielata. Quei raggi sembrano ancora sfiorare, dopo secoli, la materia di quei tori giganteschi che, all’ingresso del Palazzo, scandivano magiche formule di buona fortuna e di benevolenza degli dei. 

Erano divinità crudeli, spietatamente immanenti sugli uomini come il dio che, illecitamente arruolato, muove il trapano iconoclasta di questi lanzichenecchi che credono di essere santi.

Ancora, come per le infami esecuzioni degli ostaggi, non siamo noi i destinatari di questi delitti. Sono gli altri musulmani. Sono loro che devono imparare il brusco messaggio: la Storia non esiste più, è iniziata la Storia nuova, assoluta e unica, che è quella dello Stato islamista.

Forse i fanatici possono cacciare e uccidere tutti i cristiani, gli alauiti, gli yazidi, i musulmani tiepidi. Ma la Storia è troppo grande per essere uccisa. Ogni qualvolta, grattando la terra come accade in Siria e in Iraq, spunta un frammento di argilla o di arenaria, grida la irrevocabile complessità del Tempo dell’uomo.

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/27/cultura/opinioni/editoriali/la-storia-vittima-del-fanatismo-DBP7WPFDCsC34qKJnlXv1K/pagina.html
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 23, 2015, 11:11:43 am »

Sono uomini e donne, non numeri. Guardiamoli e non dimenticheremo più

21/04/2015
Domenico Quirico

Settecento morti! Settecento vite inghiottite dal mare più bello della Terra per opera e responsabilità dell’uomo. Sì, dell’uomo bianco che per secoli ha colonizzato, sfruttato e derubato. Credo, davanti a questa tragedia, che nessuno possa trattenere le lacrime, l’angoscia e l’indignazione per frasi atroci pronunciate nei confronti delle vittime, come se si preferisse che morissero in silenzio, sdraiate nelle coste caotiche della Libia.

Come di consueto ora dovremo subire per giorni la presenza ormai insopportabile di politici e giornalisti, che esprimeranno sul tema discorsi privi di fondamento, ma abbondanti di gestualità. E mentre loro discuteranno seduti e a pagamento nei salotti televisivi, il Mediterraneo continuerà a generare vittime. 

Le storie di emigrazione non sono quasi mai belle, sono sempre forzate. Ad «autorizzarmi» ad usare queste parole è il mio percorso di donna emigrata, con nonni, padre, marito e anche figli accomunati dello stesso destino. Concludo con una giusta frase del poeta friulano Leonardo Zanier: «Chi emigra non lo fa per vivere, ma per non morire». 
Inés Kainer 

 
Gentilissima signora Inés, credo che lei abbia colto il cuore del problema: trattiamo i migranti e i drammi degli emigranti come numeri e non come persone. Bisogna avere il coraggio di ripetere quelle che sembrano consolidate normalità: solo le tragedie oltre le cifre a due zeri ci turbano e mobilitano. Ogni volta è, ovviamente, l’ultima volta. 

Le confesso che davanti al grande barnum dell’informazione, di cui io stesso faccio parte, che attendeva ieri sul molo di Catania l’arrivo di morti e sopravvissuti lucidando le macchine da presa e ungendo la prosa delle domande, ho sentito un grande senso di scoramento. E di personale sconfitta. Aggiusteremo ancora una volta i numeri: ottocento, novecento … e poi? Non riusciremo mai a compiere l’unico vero atto umano che ci è imposto di fronte a questo immenso dolore: cercare di immaginare ciascuno di quei novecento, e di quelli che già sono periti, ahimè quanti!, come qualcosa che vive. Sì: vive, ci guarda, ci interroga, ci accusa, grida verso di noi. Perché non lo abbiamo salvato? Perché? Ci sono casi in cui la colpa diventa collettiva perché solo così genera il rimorso e la coscienza.

Il problema dell’emigrazione è diventato un problema sociologico, un problema di modelli di tendenze, di flussi di tollerabilità. Credo invece sia, insieme all’esplodere del fanatismo politico religioso, a cui è strettamente intrecciato, il problema centrale del nostro tempo. 

Guardiamo, almeno una volta, e poi non potremo più dimenticare, questi uomini che sono tra noi nella consapevolezza di essere ancora vivi e di poter sfruttare la vita. In loro è il senso di un disperato inizio. Disperato perché nulla si può far rivivere. Stragi e torture che sono stati non sono più riparabili. Nulla può più mutare, tranne l’altro lato degli eventi. A noi tocca ricordare che un delitto, quello commesso verso di loro, non dovrebbe andare impunito perché altrimenti tutte le fondamenta morali crollerebbero e soltanto il caos regnerebbe. Uomini dunque, non numeri o cose.

Domenica Quirico, inviato de «La Stampa», è stato capo-servizio degli Esteri e corrispondente da Parigi. Ha raccontato le tragedie africane, è affondato su un barcone di migranti nel 2011, è stato sequestrato dai soldati di Gheddafi e dai jihadisti siriani. Ha scritto numerosi saggi, tra cui il recente «Il grande califfato». 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/21/cultura/opinioni/secondo-me/sono-uomini-e-donne-non-numeri-guardiamoli-e-non-dimenticheremo-pi-a6bCUubDj845iVR7kpCtcK/pagina.html
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« Risposta #27 inserito:: Aprile 23, 2015, 11:16:04 am »

Migranti, finora dall’Europa solo errori e tanta retorica

22/04/2015
Domenico Quirico

Caro Quirico, sulla tragedia del mare nostrum io, comune cittadino, ho ben chiare solo due posizioni, tra loro in antitesi: quella di papa Francesco e quella di Matteo Salvini, come dire l’acqua santa e il «diavoletto». Quello che non sento e non conosco, forse perché non vivo in quei Paesi forti, bandiere della democrazia, sono i pareri di interi parlamenti e capi di Stato. Cosa pensano degli sbarchi continui di migliaia di immigrati, la regina d’Inghilterra, la cancelliera Merkel, il presidente francese Hollande e altri governanti dell’Europa del Nord? Non lo sappiamo. Mentre i citati capi di Stato giganteggiano quando si tratta di difendere i loro forzieri economico-bancari, imponendo sanzioni d’ogni tipo agli Stati membri, tacciono invece e giocano a nascondino di fronte a questi irrefrenabili fenomeni migratori, che rivoluzioneranno a breve gli assetti demografici, politici e geografici dell’intera Europa, demandando di fatto l’intera faccenda a due Stati considerati generalmente ultime «ruote del carro»: Italia e Grecia. Vorrei un suo parere, caro signor Quirico, sul Grande Silenzio dell’Europa «forte».

Stefano Masino, Asti 

Gentile signor Stefano, lei evoca un fantasma. Mi parla di cose che non esistono: la politica europea, i leader europei, la coscienza europea… Suvvia! Tutte cose che bisognerà prima o poi dichiarar scadute, come merci rimaste troppo a lungo in frigorifero.

Ritorno indietro di quattro anni: qualche migliaio di ragazzi tunisini che si erano sbarazzati del dittatore (da soli, non certo con l’aiuto delle democrazie dell’altra parte del mare) salirono sui barconi e iniziarono ad arrivare a Lampedusa. Viaggiai con loro, affondai con loro, gioii con loro per essere sopravvissuto. Drammi, entusiasmi, sacrifici, morti, la felicità stanca che segue i grandi dolori e le grandi lotte. E invece: gli stessi discorsi di oggi, le stesse fruste polemiche, la stessa evocazione dell’invasione, la stessa retorica. Eppure erano poche migliaia, non una migrazione di popolo. L’Unione europea nel suo complesso, e la Francia per la verità con assai più foga e sguaiataggine nel chiedere espulsioni, blocchi e pugni di ferro degli altri (l’Italia, forse per obiettiva necessità, soccorse salvò e sfamò chi arrivava) sanzionò che tutto questo non era sostenibile. Il nostro paradiso di democrazia e di diritti umani, di accoglienza e di condivisione delle vittime e dei derelitti, era certamente vero, per carità, ma era afflitto da obbligatoria avarizia, non sopportava i grandi numeri, doveva occuparsi di non far diventare meno povero chi già lo abitava. Si offrirono soldi per far sì che «gli invasori» trovassero qualche ragione per restare nel loro Paese. A molti parve una soluzione progressista e intelligente. Forse i soldi non arrivarono neppure. 

Fu il primo tragico errore: errore politico prima ancora che morale. Respingendo quei ragazzi dimostrammo loro che quello che predicavamo era falso o quanto meno che eravamo deboli e uniti solo nel dire no. Se lo ricordarono diventando elettori del partito islamico e qualcuno, ancor peggio, islamista. 

L’Europa, allora e oggi, fa lunghe discussioni come se il mondo nascesse ora. L’Europa esiste se è quello che dice di essere, che scrive e proclama nei suoi libri fondatori, nella sua Storia faticosa e contraddittoria. E invece... Le fedi sono state sostituite da opinioni, credenze, pregiudizi, egoismi e inutilità attorno a cui le divergenze sono accanite quanto una volta le lotte di religione. 

L’Europa di oggi, grandi e piccoli, del Nord e del Sud, ricchi e meno ricchi, ha come unico problema quello di far pagare i debiti a un greco insolvente: un pettegolezzo paesano! Il resto, ahimè, è retorica. Cioè parole.

Domenico Quirico, inviato de «La Stampa», è stato capo-servizio degli Esteri e corrispondente da Parigi. Ha raccontato le tragedie africane, è affondato su un barcone di migranti nel 2011, è stato sequestrato dai soldati di Gheddafi e dai jihadisti siriani. Ha scritto numerosi saggi, tra cui il recente «Il grande califfato». 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/22/cultura/opinioni/secondo-me/migranti-finora-dalleuropa-solo-errori-e-tanta-retorica-WaYU68y5nepuwUQLQdKCSL/pagina.html
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« Risposta #28 inserito:: Aprile 23, 2015, 11:19:54 am »

La Coalizione contro l’Isis è la vergogna dell’Occidente

23/04/2015
Domenico Quirico

Caro Quirico, ormai da mesi è stata annunciata la coalizione di 40 nazioni, poi aumentata, contro l’Isis e il califfato. Fatto sta che non mi pare che la strategia adottata da questa «squadra», senza un esercito terrestre, stia risultando vincente visto che, a rimo cadenzato, il mondo dell’informazione ci propina filmati di carneficine messe in atto dall’Isis. A questo punto sorge il dubbio sulla compattezza di questa coalizione che, evidentemente, alle parole non fa seguire i fatti. Quali possono essere i motivi di questo quasi fallimento, almeno in questa fase? 

Giovanni Attinà 

La cosiddetta Coalizione è il Baedeker delle vergogne dell’occidente e delle sue macerie eloquenti. I nostri alleati sono impresentabili: regimi pestiferi non diversi nella natura sozza e violenta dal califfato che dovrebbero combattere, finanziatori per vile tornaconto dei catecumeni del terrorismo, emiri gaglioffi e ayatollah assassini, europei in ordine sparso bigi, prudenti e pantofolai, che si preoccupano di esserci ma soprattutto di non correre rischi. Ecco la Coalizione. Che non abbia combinato nulla non dovrebbe stupire. Le guerre, come è noto, non sono né morali né immorali. L’importante è vincerle. Attività che sembra fuori portata per i coalizzati la cui strategia è un alfabeto di misteri. 

La propaganda bugiarda non appartiene, purtroppo, solo agli sgherri giulivamente comunicativi del califfo. Da mesi i telegiornali rigurgitano di filmati di scenografici bombardamenti ovviamente chirurgici. Posti comando, convogli di blindati, capi sottocapi e gregari di ogni ordine e grado islamista, depositi di armi, tutto è stato sbriciolato per le edizioni della sera. Non dovrebbe esistere più nulla, visto anche i numeri riferiti dalla solita intelligence, di quei forsennati tra il Tigri l’Eufrate e i monti del Libano. E invece la non metafisica presenza di quelle forze terribili e crudeli continua. Abu Bakr è già morto e risorto almeno quattro volte. Le annibaliche avanzate degli eroici peshmerga curdi e delle legioni sciite a comando persiano sono servite in realtà per qualche conferenza stampa di notabili mediorientali e statunitensi. 

Purtroppo sta per arrivare il primo anniversario della proclamazione del califfato di Mossul. Un anno. Un infinito tempo nella Storia: perché quella micidiale e sanguinaria costruzione politica si è conficcata nel territorio e nelle coscienze di coloro che vivono laggiù, sta pericolosamente diventando, ovvia, naturale e permanente nello spazio e nel tempo. Mentre i droni affilano i denti, il califfato con le giaculatorie sorrette dagli sgozzamenti amministra e plasma le coscienze di centinaia di migliaia di sventurati «sudditi». Srotolando tappeti davanti all’Iran e affidandogli la «riconquista» del Nord dell’Iraq abbiamo garantito al califfo l’alleanza eterna delle tribù sunnite che costituiscono la massa delle sue fanterie. Cosa potrebbero fare di diverso? L’arrivo dei «liberatori» iraniani e sciiti significherebbe per loro la necessità di fuggire o di essere ridotti, al meglio, al ruolo di iloti.

La Coalizione lambiccata da Obama per non far nulla pone già le premesse per massacri e caos per i prossimi trent’anni. Proprio ciò che serve al Califfato!

Domenico Quirico, inviato de «La Stampa», è stato capo-servizio degli Esteri e corrispondente da Parigi. Ha raccontato le tragedie africane, è affondato su un barcone di migranti nel 2011, è stato sequestrato dai soldati di Gheddafi e dai jihadisti siriani. Ha scritto numerosi saggi, tra cui il recente «Il grande califfato».

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/23/cultura/opinioni/secondo-me/la-coalizione-contro-lisis-la-vergogna-delloccidente-aGnMPjR4FXY4Xd7PjM5iKN/pagina.html
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 25, 2015, 04:38:40 pm »

“Terrore, morte e schiavitù: ecco da cosa scappiamo”
Nel racconto dei migranti che ce l’hanno fatta ad arrivare in Europa le immagini di una violenza che non lascia alternativa. “Nel mio Paese ero uno schiavo, fin da bambino, arruolato a spaccare pietre. Ora almeno sono vivo”. “Qui possiamo sperare”
Rifugiati eritrei in arrivo dal Sudan. Hanno intrapreso la traversata del deserto per raggiungere il nord della Libia. Nell’area non ci sono Ong o gruppi umanitari
21/04/2015

Domenico Quirico
Inviato a Catania

Sul molo dieci, al porto, l’unica voce che voglio sentire è quella di un pescatore che vicino alle barche dai dolci nomi di donna, «Paola», «Maria Lucia», guarda la folla dei giornalisti e delle televisioni, le autorità, i soccorritori, che preparano l’arrivo della nave che trasporta i pochi superstiti della tragedia dei migranti. Parla sottovoce, riflessivamente, con quella discrezione che è propria dei marinai; la cautela, quasi il timore, di guastare col pensiero qualcosa che è accaduto e che dipende da elementi tanto incerti, il mare.

Qui, al riparo del molo, non è inospitale, nemico e intrattabile come quello che ha ucciso, continuamente all’assalto della terra, lava perennemente il cemento che regge sicuro l’approdo.

«In mare tutto è matematico, se carichi troppo la barca o sposti il peso ecco che affonda… Non si può barare con il mare». 

Via da qui, dunque, via dallo striscione «mai più naufragi», dalle scritte in tre lingue, atrocemente beffarde, che augurano «benvenuti a Catania». Come posso qui, su questo molo, nel vuoto dei morti, spiegare perché i migranti partono e vengono da noi; e perché muoiono. La domanda, l’unica domanda.

Bisogna aprire, anche in me, un sepolcro da gran tempo murato. Io che pure ho accompagnato il loro viaggio, ma per scrivere un articolo e ora mi sembra bestemmia, devo buttarmi con avidità nella loro coscienza, nella parte che sta fitta nella loro carne come una spina: partire. Fino a diventare per tutto il resto ciechi e sordi. Rivedere questi uomini che si muovono, parlano, hanno rapporti, storia drammi, la vitalità, la forza, l’istinto è come ritrovare la vita del creato, degli animali e dei pesci. Bisognerebbe per capire raccontare tutto il dolore del mondo, un mondo di sconfitti a cui stiamo attenti come a una epidemia. Mentre nasconde l’unico vero tesoro.

Ho chiesto ieri a un ragazzo nigeriano, uno che ha fatto il viaggio dalla Libia sulle barche della morte, davanti al campo siciliano di accoglienza che da due anni è la sua casa, se qualche volta aveva rimpianto: sarebbe rimasto a Benin City se avesse saputo ciò che lo aspettava nel viaggio e poi in Europa? Ma poi mi sono accorto che erano pensieri simili al vento, non si condensavano in lacrime né in disperazione perché una cosa non era possibile senza l’altra e quindi neanche l’altra è più ammissibile. Non si poteva restare, non possono restare. Nulla sta fermo, né noi né gli altri. Tutto ciò che restava nel magnifico pomeriggio siciliano nella pianura di Mineo, tra gli ulivi di un verde arrogante, era la malinconia, la malinconia che l’uomo sente per tutto ciò che passa. Ed egli è l’unico essere che lo sa, come pure sa che questo è un conforto anche se non lo comprende.

Per capire è meglio lasciare Catania, la Catania del dolore ufficiale e pubblico, e andare proprio verso Mineo, sulla strada di Caltagirone e di Gela, dove è il più grande centro di accoglienza d’Europa, 3500 ospiti. Perché quella è davvero la destinazione finale del viaggio, non il molo delle autorità e delle telecamere. Mineo dove andranno magari già oggi i sopravvissuti e sarebbero entrati i novecento che invece sono rimasti laggiù, nel mare.

Lungo la strada, ancora lontani dal campo, file di prostitute africane presidiano una campagna vuota di uomini e di campi, dove splendidi fiori gialli che coprono il lordume di pneumatici gettati, mucchi di calcinacci di qualche cantiere, antiche conduttore dell’acqua divelte. Escono con un guizzo dal loro silenzio di agguato, si disputano ogni raro automobilista con grandi gesti di invito. Alcune sono grosse, altre giovani e graziose: vite, tutte, trangugiate e sfiorite. Molte di loro vengono dal campo di Mineo, ma si allontanano per non «dare scandalo», per non attirare con il loro offrirsi le punizioni dei responsabili. 

Un gruppo di giovani neri arranca sulle infinite sconnessure della strada spingendo vecchie biciclette. Si vede che hanno appena imparato, sbandano, rischiano ad ogni istante di cadere. Vengono dal Mali, la terra lungo il fiume dove il deserto si spegne ansando nell’Africa dell’acqua e dei giganti vegetali. Conosco la loro città, dove ho visto Al Qaeda uccidere e prosperare.

Hanno lasciato il Campo, si offrono lungo la strada per lavorare in nero per i contadini. Mi raccontano che qui non è come nel Sahel, dove la sabbia avanza e bisogna liberare ogni giorno la poca terra che è buona, bionda e fertile. Intanto la popolazione aumenta e bisogna dar da mangiare ai ragazzi. La guerra degli islamisti scesi dal nord ha completato la rovina. Con le mani diventate aride di cavatori di sabbia che non riescono a stringere un’altra mano tanto sono abituate a una fatica troppo pesante hanno attraversato mezza Africa per venire qui a piantare altri germogli e a raccogliere il frutto di altri. «Tutto cresce così in fretta, una meraviglia, come potevamo restare là a morire? Ci hanno detto che c’era un posto dove scendevano in mare flotte che partivano per il paradiso. Che cosa possono fare gli uomini se non correre dove si posa ricavare dalla natura qualcosa?».

Già. Li lascio all’imbocco di un viottolo che si perde tra gli aranceti, una grande montagna di ceste di plastica gialla li attende. Riconosco questa gente paziente, forte di una forza quasi naturale che noi disprezziamo.

Ecco il campo, il residence delle arance, è scritto nei cartelli segnaletici. Villini lindi un tempo destinati agli americani, il centro sembra essersi cacciato nella valle e essersi addormentato nel sole. Proprio all’ingresso si giocano partite accanitissime di calcio. I soldati presidiano l’uscita e i loro gipponi percorrono costantemente i reticolati che lo cingono. Per entrare occorre un permesso della prefettura: mi spiace, non le faccio perder tempo, mi dice gentilissimo e risoluto un funzionario. 

I migranti domani verranno qui, scopriranno che possono assentarsi dal campo per 48 ore. Ma dove possono andare? Un bus è fermo in attesa, fa servizio per Mineo, la cittadina sulla montagna. Lunghe file di auto guidate da gente del posto si allungano intorno: fanno servizio a pagamento per Catania e Messina. Dove i migranti vanno a mendicare, dove c’è meno rischio che vengano individuati. I superstiti del naufragio scopriranno i traffici che sono possibili, vendere comprare scambiare. Fino a ieri avrebbero incontrato gli organizzatori dei viaggi, che vivevano qui e che ora sono in prigione. Si accorgeranno che devono far code per tutto e che è meglio dormire quindici ore, per non finire in qualche rissa o traffico pericoloso. 

Sono morti per tutto questo? Per odiare questo lindo carcere aperto nel nulla e per sognare «il documento», l’ossessione che apre le porte del mondo? 

«Lo sai perché comunque sono venuto qui?», mi dice un eritreo seduto sul guard-rail come su un mondo: «Perché nel mio paese ero uno schiavo, un vero schiavo fin da bambino, arruolato a spaccare pietre. Qui almeno sono vivo...».

Davanti a queste storie, come possiamo proporre la domanda: perché? Viene tristezza a chiederlo a questo gruppo di ragazzi che si rincorrono sulla strada vuota davanti al campo e ridono di un riso naturale, sano, nuovo, una espressione non consumata da convenienze. Uno è un poco più avanti negli anni e già con un viso più forte e solcato; gli altri, come se il rischio e il pericolo li avesse sfiorati al primo vento della gioventù, si capisce che tutti ubbidiscono a una occhiata di quell’uno. 

Lui, che è siriano, infatti risponde: «No, nessuno ci vuole qui, sono uno straniero e potrò esser contento che non mi si scacci in un campo peggiore. Non sono né libero né ricco ma nel mio paese era la stessa cosa. Questo è già un paradiso, un paradiso di ombre se vuoi, separato da tutto ciò che importa agli altri e anche a me. Un paradiso per sperare un momento. Ma mi guardo indietro, dove vivevo io sono solo rovine, due miei fratelli sono stati uccisi, suo fratello, lo vedi quello piccolo?, è stato sgozzato perchè non aveva soldi per pagare il riscatto… dovevano star dietro una ringhiera a guardare i massacri, la gente seppellita viva sotto le macerie? Mentre il sangue monta di un centimetro ogni giorno ringraziare perché voi invece potete alzarvi, bere il caffè, leggere le notizie di noi sul giornale?».

Un ragazzo del Mali e una giovane del Gambia mi chiedono di portarli fino a Catania. Accetto. Gli parlo dei morti in mare, il mare dove anche loro sono passati. Restano in silenzio. La campagna è come tramortita. Stanchezza, vecchiaia, rovina del mondo. Sembra impossibile che possa resuscitare.

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/21/italia/cronache/terrore-morte-e-schiavit-ecco-da-cosa-scappiamo-INhEbWHAkLA5xgcbZlUfaP/pagina.html
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