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Autore Discussione: DOMENICO QUIRICO -  (Letto 32568 volte)
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« inserito:: Dicembre 29, 2007, 12:02:32 pm »

29/12/2007 (8:9) - 2007, L'ANNO DI...

Addio all'anno di nuovi populisti
 
Autoritari o liberali, uniti dal culto di sé e dal decisionismo

DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI


La storia per loro è un esercizio permanente di salvazione; sono abituati a sopraffare perennemente i governati con formule nuove, più lucide, più abbaglianti; vogliono e disvogliono, incitano e trattengono, uomini perentori, infallibili, che aspirano a comandare assolutamente ma con il beneplacito di tutti. Strano anno quello politicamente trascorso, dove si è delineato, in gusci diversissimi, un nuovo prototipo di leader che sembra destinato a far fortuna, a contagiare altri Paesi con lussuriosi allettamenti. È stato infatti l’anno di Sarkozy, ovvero il populismo parigino, «people»; di Chavez, che ne è la (aggiornata) versione caudillistica; di Putin che rinnova, proficuamente, il populismo grande russo e neostaliniano; di Zuma, infine, la versione african-tribale. Cercate una parola che li sintetizzi? Eccola: i superpresidenti.

Li ha favoriti e aizzati un grande vuoto da riempire sullo scenario internazionale, quello lasciato da un Bush ormai azzoppato, ripetitivo e soprattutto pensionabile. In attesa di un nuovo presidente, resta ancora quasi un anno: gli uomini forti covano l’idea di occupare questi mesi che verranno per scardinare le regole del Grande Gioco, far spazio sul palcoscenico non solo al coro della superpotenza ma ad altri attori, ovvero loro. Tutti e tre sono convinti che, chiunque vinca a novembre, il dopo Iraq sarà più mosso, ambiguo e ghiottamente tentatore. Viva il populismo allora, che infatti nasce sempre su crisi del modello tradizionale di funzionamento e riproduzione dei rapporti di dominio, politico culturale ed economico. Nel terzo millennio c’è il rischio che non ci sia altra forma di rivoluzione. Si avverte, sotto forme diverse e contraddittorie, a Caracas come a Parigi o a Mosca, una irresistibile urgenza di darsi all’uomo potente o trionfante, a chi assicura il contrario del tirare politicamente a campare.

Sarkozy ha alle spalle una tradizione di provvidenzialismo che è vecchia come la Francia, dalla Pulzella d’Orléans al generale De Gaulle, passando per Napoleone e Pétain. Funziona benissimo, tra l’altro, in una monarchia senza trono in cui il capo dello Stato detiene tutto il potere misurandone però l’uso sul comportamento dei sudditi. Per Sarkozy è stata una buona base di partenza. Si è accorto che la Francia era stufa dei languori dell’epoca chirachiana, intorpidita da indigestioni troppo laboriose, dalla flemma metodica e da effimeri nababbi dell’eccezione francese. Li ha sedotti, da candidato, strepitando che non c’è motivo di prender la vita come esercizio di penitenza. E che sul piano storico Robespierre vale Luigi XVI, tutto è patriotticamente relativo. Il sarkosismo in una formula: il potere è una calamita. Il presidente passerà i mesi che lo dividono dalle amministrative di primavera, che immagina come un plebiscito, a perfezionare l’assorbimento governativo degli avversari, vero capolavoro dei primi sei mesi della sua presidenza.

E poi c’è la personalizzazione dell’esercizio del governo. Sarkozy fruga nei supermercati per far finta di scoprire i sabotatori del potere di acquisto, si mescola ai ferrovieri e ai pescatori mugugnanti per zittirli e convincerli, convoca i sindacalisti direttamente all’Eliseo come un ministro qualsiasi. I francesi devono avere l’impressione che la luce a Palazzo sia perennemente accesa, che si lavori ventiquattr’ore su ventiquattro. L’Eliseo è l’unico vero Ministero che tutto affronta e decide. A questa saturazione bulimica non devono sfuggire, neppure e soprattutto, i settimanali popolari: per loro ci sono gli amori e i disamori, Cécilia e Carla Bruni, il sarkosismo deve essere notizia anche quando è in vacanza.

Il venezuelano Chavez, rispetto a lui, con il suo «socialismo del XXI secolo», è assai meno innovatore. Alla frase celebre di Velasco Ibarra «datemi un balcone e vincerò», ha aggiunto i petrodollari che gli consentono, per ora, di alimentare le promesse con cui seduce le plebi venezuelane e una versione aggiornata, sub specie antimondialista, degli umori antiyankee che trasudano sempre da un continente di vinti. Poteva restare un caudillo periferico, di quelli che fanno urlare ai sostenitori come nelle mobilitazioni del primo peronismo «alpargatas sì, libros no», ciabatte sì libri no; se non avesse deciso di pensare in grande, di proporre una pestifera Internazionale degli scontenti, un Comintern radical petrolifero, perennemente tonitruante e «contro».

Il machismo del russo Putin affonda invece nella constatazione che non si può distruggere il proprio passato né quello che il passato ci fa. Il nuovo «Vozd», il padrone, ha innescato un ben rodato ritmo narrativo autoritario, punteggiato da occasionali soprassalti di enfasi, sulla antica paura russa dell’accerchiamento che parte dai tartari e arriva alla Nato. La piccola profonda umana soddisfazione di essere ancora potenti, di essere meglio di qualunque altro «come ai tempi dell’Urss», è il cuore del putinismo. Eccolo di nuovo che si appropria della fiducia della gente, con la «Gazprom» e le sue petrolifere meraviglie al posto del comunismo; una forma eccitante di archeologia vivente, in cui gli avversari sono di nuovo eliminati non per quello che hanno fatto ma per quello che avrebbero potuto fare. Come ai tempi del Padre dei Popoli. E’ il ritorno della «tuerdost», la durezza, la virtù bolscevica.

Si affaccia il populismo perfino in Africa, dove si tinge di pericolosi tribalismi. Jacob Zuma esige la successione di Mandela elettrizzando le masse dei diseredati, e soprattutto la sua tribù, gli zulu, con la promessa di dar loro quello che non hanno finora avuto, ovvero la terra e le ricchezze. Populismo.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 08, 2013, 05:56:27 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 11, 2008, 10:54:02 am »

11/11/2008
 
Un Iraq nero dimenticato da tutti
 
DOMENICO QUIRICO

 
Bisogna riconoscerlo: l’Occidente ha perso un’altra guerra, in Somalia, e per la seconda volta. D’accordo. Forse questo è soltanto un fronte secondario della jihad universale, forse la isterica Grande Crociata al terrorismo è giunta all’ultimo capitolo con l’amministrazione Bush. E la sconfitta sembrerà una liberazione. Ma è arrivato il momento di decifrare la storia di un Iraq africano da cui gli europei non hanno saputo divincolarsi in tempo, offrendo una alternativa alle strategie fallimentari di Bush. Le conseguenze nel Corno d’Africa resteranno, stanno già infettando tutta la regione. I tribunali islamici ora hanno spazzato via tutti i moderati. Suscitare il fanatismo non è impresa difficoltosa, più difficile è che la ragione senza un lavoro lungo e complesso arrivi a moderarlo. Forse è tardi persino per Obama: difficile rimediare, la guerra santa nazionaltribale ha dimostrato come si conquista un Paese che l’Occidente ha lasciato alla deriva per viltà, avarizia, ignoranza.

Ieri, ad esempio, è stata una giornata «tranquilla». I rapporti militari degli etiopici, a cui Washington ha appaltato la guerra contro i tribunali islamici alleati (dice l’America) di Bin Laden, hanno risolto la cronaca sveltamente, tirando un sospirone. Non c’era niente da raccontare neppure al pettegolo mercato di Mogadiscio. Eppure…. Due suore italiane rapite a Sud ai confini del Kenya. Nel quartiere di Taleh a Mogadiscio si è fatto un po’ di chiasso: i commandos dei fondamentalisti hanno attaccato le truppe governative, che hanno lì il quartier generale, il numero dei morti è incerto, cinque pare, di cui almeno tre civili, sprovveduti o jellati che passavano di lì. Ma niente di cui allarmarsi: è andata bene, le battaglie grosse, le imboscate con l’autobomba sono altra storia.

Il governo e i suoi invadenti alleati non sono più in grado di controllare la situazione. Addis Abeba sembra sul punto di annunciare l’avvio di un ritiro. La trionfale marcia su Mogadiscio sta diventando troppo sanguinosa, troppi funerali di soldati caduti in agguati, la gente in Etiopia comincia chiedersi se valga la pena fare il lavoro sporco per gli americani. Che dalle loro portaerei che bordeggiano nel golfo si limitano a qualche raid aereo «chirurgico» per eliminare i capi dei tribunali islamici. Che sono vivi e vivacissimi, muoiono invece spesso dei civili.

Le similitudini con l’Iraq e con l’Afghanistan sono davvero sconfortanti. La guerra santa e patriottica che gli errori americani hanno alimentato con vandalico impegno ha già provocato duemila morti e centoventimila profughi accampati e aggrappati alla carità internazionale nella regione dello Shebeli. Le solite anime morte delle tragedie africane. Barconi pieni di aspiranti profughi navigano e purtroppo spesso affondano nel Golfo di Aden cercando di raggiungere lo Yemen. Gli insorti, bisogna chiamarli così per il credito che hanno ottenuto tra la popolazione invelenita dalla incapacità del governo e dalla brutalità degli alleati etiopici, hanno copiato con cura e efficacia i manuali dei talebani e dei terroristi iracheni.

Hanno trovato, ad esempio, una buona causa da aggiungere sulle bandiere, la rivolta contro lo straniero per di più cristiano. Anche gli scettici, i renitenti alle ardue gioie della sharia detestano i vicini, hanno nel cuore e nella mente secoli di razzie feroci arrivate da oltre confine. Poi i fondamentalisti hanno dato l’assalto agli aiuti umanitari. E’ una tecnica consolidata: bisogna tagliare la vena che alimenta la quotidiana sopravvivenza di una Paese che da venti anni non produce più niente, portare la gente alla disperazione dimostrando di essere i più forti.

E poi ci sono i sequestri: di navi e di uomini. Rendono denaro con cui riempire i forzieri. E servono per la propaganda: da mesi gli occidentali strepitano che organizzeranno flotte per bloccare i pirati. Non è successo nulla.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 25, 2010, 04:05:21 pm »

25/8/2010

L'Africa di Bin Laden
   
DOMENICO QUIRICO

Bush aveva ragione. Quando accusava gli islamisti somali di uscire dalla officina dell’Internazionale del fanatismo, impegnata ad aprire un nuovo fronte nel Corno d’Africa.

Gli «shebab» che ieri hanno fatto strage di deputati a Mogadiscio sono diventati dei veri talebani. Nel frattempo il fronte su cui si combatte è lungo già migliaia di chilometri, va dal Mar Rosso all’Atlantico, corre lungo quella faglia traballante di miseria e disperazione che separa l’Africa del deserto da quella delle savane. La Somalia, il suo eterno orrore che dura da 30 anni, sfilando giorno dopo giorno sotto la nostra distratta rassegnazione, è diventato il capitolo di una guerra più grande. Che può riservare all’Occidente, timoroso di nuovi «crociate» scomode e impopolari, terribili sorprese. L’Africa viene islamizzata a forza, con il forcipe del terrore e del fanatismo? Non esistono, è vero, legami operativi tra le varie sigle di questa armata. Ma il risultato finale si compone come un ben dosato mosaico. L’Occidente, taccagno, pensava di poter avvolgere Mogadiscio, quel caos indecifrabile e sanguinario, nella bambagia di una dimenticanza protettiva. Le uova del serpente si sono scoperchiate, moltiplicandosi.

Al Qaeda-Maghreb, commistione di emiri fanatici e capi-briganti, tiene in pugno il nord del Mali, vaste zone del Niger e della Mauritania; fa affari con i narcos di Medellin lungo la nuova via della droga, sequestra occidentali, incassa ricatti miliardari, si fa mercante di uomini, i clandestini che sognano l’Europa. Chiama le sue squadre «katiba», legandosi al mito terzomondista della guerra di liberazione algerina. Nel nord della Nigeria, immersa nel petrolio, i «Boko haram» erodono uno Stato scardinato da odi etnici ed economici abissali. Il deserto assomiglia sempre più alle distese dell’Asia centrale, all’area pachistano-afgana: un mare attraversato da tensioni profonde dove si può costruire una minaccia globale. Gli shebab, coalizione di fanatismo e clanismo, hanno smantellato a cannonate la Somalia, setacciano facendosi pirati i mari del petrolio e degli stretti strategici. Li separa dal potere solo una scalcinata armata di africani, senza mezzi, mal pagati, ma che si fanno ammazzare senza rimpianti e senza cerimonie televisive. Al posto dei caschi blu che l’Occidente non ha mai concesso. Gli shebab hanno colpito in Uganda a luglio, settanta morti. Terrorizzano già l’Africa Australe, tiepida di genocidi e di tribalismi satanici.

Bush sbagliò affidandosi a una risposta solo militare, la guerra per procura, appaltata a regimi che erano la causa del male. Ora la nuova America di Obama, affascinata dal ripiegamento, convinta che solo l’Afghanistan valga lo scandalo di morire, rischia di regalare l’Africa a Ben Laden. Dimenticando che nessuna guerra è giusta ma ogni tanto qualcuna è necessaria.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7745&ID_sezione=&sezione=
« Ultima modifica: Agosto 21, 2013, 07:40:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 23, 2011, 10:02:47 am »

23/8/2011

L'ultima recita del tiranno

DOMENICO QUIRICO

Le agonie dei dittatori non sono tutte eguali. Ci sono quelli che fuggono, un attimo prima del disastro, con le saccocce piene, i conti già gonfi nei Paesi dove si sono creati nidi sicuri per la pensione, per il dopo. I fedelissimi, quelli che ci credevano davvero, nella lungimiranza del comandante, della guida, del presidente, del raiss, restano indietro, ingoiati dalla vendetta degli altri, i vincitori, i rivoluzionari? Non importa: si salvi chi può, questa è la regola, possibile che quegli ingenui non avessero compreso niente? Sono i piccoli satrapi voraci, come il tunisino Ben Ali, che ha ruminato, senescente, le parole d’ordine delle magnifiche e progressive sorti del suo mirabolante «miracolo economico» zeppo di miseria; e intanto comprava la villa mastodontica in Arabia Saudita, dove nessuno verrà a disturbarlo in saecula saeculorum.

E poi ci sono quelli che non si rassegnano, che hanno creduto alle parole che gridavano dai balconi e dalle logge, che giorno dopo giorno, per anni, si sono convinti parola dopo parola, slogan dopo slogan, di essere la salvezza del loro Paese, che senza di loro il futuro sono baratri spaventosi. È un destino, insomma, e contro il destino non si lotta. Anzi, bisogna battersi fino alla fine, accettare perfino di essere uccisi per conficcarsi degnamente, come un rimorso o un’accusa, nella storia del loro Paese. Eternamente i tiranni dovranno scegliere tra questi due modelli: Mussolini che fugge indegnamente camuffato o Hitler che apparecchia il suo privatissimo Walhalla nella Cancelleria; perché è certo che la Germania è destinata a perire con lui e merita una fine da quinto atto wagneriano a Bayreuth.

Per capire che Gheddafi era da incasellare nella seconda categoria bastava leggere la sua biografia. Dietro i contorcimenti clowneschi, dietro il palcoscenico di tabarri scintillanti, re africani, amazzoni e meditazioni nel deserto, le torrenziali diarree verbali, l’uomo, fin da quando scombinò con un golpe i grigi destini della monarchia senussa, ha sempre profondamente creduto alla serietà del proprio destino. Privato e pubblico. La terza via universale, gli aforismi del Libro verde non erano furfanterie di contorno: erano la sua sostanza politica e umana. Il suo potere si corrompeva nell’autocrazia e nel nepotismo, e lui continuava a esser certo di essere il destino della Libia. Ancora ieri, quando urlava ormai seppellito di macerie, con il potere ridotto ai metri quadri del suo posto di comando nel centro di Tripoli, che il colonialismo stava per impadronirsi della sua creatura politica, non mentiva.

Una follia, certo, ma lucida, degna di Macbeth. Il bunker, la tomba dei dittatori, il potere ridotto, un disperante caos di marciume, devastazione e sfinimento, era scritto come inevitabile nel suo conseguente destino. In questa conclusione si perde la vergogna di aver perduto. La scombinata commedia di un Ben Ali che sull’aereo della fuga scoppia a piangere e deve essere consolato dall’equipaggio non si addice alla Guida suprema. Alla sua fosca grandezza. L’ultima recita non sarà quella di un guitto ma quella di un attore tragico. Gheddafi ha, in questi cinque mesi, metodicamente fatto naufragare tutte le offerte per garantirgli una uscita di scena senza danni. Gli occidentali, ansiosi di far dimenticare i rapporti che hanno avuto con lui, per anni, e la rapida, troppo rapida, conversione alla guerra; i suoi alleati africani che ha pagato per anni per sentirsi chiamare Presidente, il suo ultimo delirio, in fondo non aspettavano altro: vederlo partire verso una delle ultime dittature disposte ad accoglierlo, o verso il Sudafrica dell’ospitalissimo Zuma, che fino all’ultimo lo ha tentato invano con la prospettiva di un esilio dignitoso. Ha sempre rifiutato.

Non credeva certo alla riconquista della Cirenaica. Gheddafi, dopo l’11 settembre 2001, ha dimostrato di essere ancora un realista capace di leggere (al contrario di Saddam Hussein) gli umori delle potenze e la porta stretta che gli restava per sopravvivere. Forse dovremo leggere tutti i suoi atti politici degli ultimi tre-quattro mesi come una volontaria marcia verso quel bunker nel centro di Tripoli. Gheddafi ricco esule in Venezuela o in Algeria, braccato dalle rivelazioni, dai mandati di cattura internazionali, denudato di 42 anni di potere assoluto con le sue vergogne e i suoi compromessi, non poteva ipotecare il futuro. Ucciso tra le rovine, con il mitra in mano diventa una sorta di terribile statua del Commendatore, ipoteca il futuro della nuova Libia, semina germi avvelenati, ruba agli avversari il piacere della vittoria.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9118
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 12, 2011, 12:09:32 pm »

11/10/2011

Rivolte, atto secondo

DOMENICO QUIRICO

Astuti, sottili, pazienti, santamente bugiardi, capaci di alternare il sorriso e la minaccia, con in mano le pietre (in attesa di impugnare altri apparecchi di ben più mortifero Jihad) e intanto spergiuranti di essere moderati e tolleranti con gli altri, i laici i democratici i comunisti, insomma gli empi. Eccoli: gli islamici, si preparano a incassare il conto, ovvero il Potere, a dipingere di verde le bandiere della Primavera araba che erano così disordinatamente cromatiche e arcobaleno. Gli occidentali, tardi, stupidi, ansiosi di farsi ingannare, si attardano ancora ad applaudire «i ragazzi di Internet» che sull’altra sponda del mare avrebbero, secondo un ben oliato luogo comune che ci accontenta e ci tranquillizza, cambiato il mondo arabo e cacciato i dittatori. E intanto loro, il partito di Dio, sono già pronti a mettere un ordine nel caos, questo sì definitivo e irrevocabile, a riportare l’igma, il consenso alla sua radice unica, cioè l’islam. Silenziosamente modificano i cromosomi della società, del costume quotidiano. La avvelenano. Ieri una giovane spadista tunisina, la Tunisia «laica e rivoluzionaria», dove a Djerba vive, ahimè, ormai blindata, una tenace e antica comunità ebraica, ai mondiali di scherma di Catania non ha voluto combattere contro una israeliana. Non è un episodio minore: è un segno di quanto il loro lavoro di erosione sia già profondo e redditizio.

Cominciano dalla Tunisia: naturalmente. Perché qui tutto è iniziato e perché il 23 ottobre le elezioni offriranno loro l’occasione più ghiotta di conquistare il potere dall’interno, secondo il manuale di tutti i moderni aspiranti autocrati, atei o religiosi che siano. Niente golpe, insurrezioni, semmai la via piana, «democratica», allo stato totalitario. Come in Algeria, eterno modello, che solo un golpe dei militari bloccò. A Tunisi già se ne parla, neppure a mezza voce, come ultimo rimedio se…

La strategia degli islamici tunisini: da manuale, superbamente duplice. Prima mossa è stata dividersi, apparentemente. C’è un partito legale, «democratico», antico, Ennadha, con stigmate di opposizione alla dittatura guadagnate nelle galere, sui patiboli, nell’esilio consumato per anni in 50 Stati. Promette democrazia ad ogni comizio e in ogni documento laicità, libertà ed economia di mercato. E poi c’è l’ala dura, «i talebani» come li chiama la gente intimorita, quelli dei bastoni, dei cortei che esigono la sharia subito e lo Stato islamico domani. Teste calde, isolati? Hanno lavorato molto e bene, questi integralisti del randello, sfruttando a dovere questi mesi di caos, con un governo asfittico, di transizione, senza alcuna investitura, guidato da notabili che nel periodo della dittatura sono sopravvissuti benissimo, sdraiati in profittevoli poltrone; con l’economia disfatta e la miseria e l’insicurezza che crescono a vista d’occhio.

Domenica si sono radunati nel campus dell’università di Tunisi, diverse centinaia, armati di coltelli e bastoni inveivano contro il rifiuto delle autorità accademiche di iscrivere una studentessa che indossava il niqab, il velo integrale; e contro la programmazione in televisione di un film, «Persepolis», che giudicano blasfemo. Si sono scontrati con la polizia al grido di «moriremo per Allah» (inquietante programma operativo). Sono spunti perfetti del lento lavoro di erosione che svolgono nella società: mutare i costumi, giorno per giorno, con la persuasione e le minacce, seppellire la laicità. E un giorno la Tunisia si scoprirà inerme, diversa dalla sua storia recente, rassegnata alle corde islamiche.

Sono giovani, usciti dalle banlieues zeppe di miseria e di rabbia, da cui sono uscite le plebi giovanili, i «teppisti», che hanno fatto cadere Ben Ali. E che ora, delusi dalla transizione democratica che ha regalato loro solo retorica e chiacchiere, potrebbero diventare le fanteria della seconda rivoluzione, islamica questa volta. La doppia campagna elettorale, come si vede, procede con regolarità. Cortei, intimidazioni nei confronti dei laici, dei liberali, delle donne che non rispettano i «buoni costumi»; e discorsi rassicuranti del leader del partito, Rashed Ghannouci, politico di antico corso, che fanno balenare il modello turco, la scopiazzatura di Erdogan, Islam e democrazia coniugati nel nome della buona volontà e dello sviluppo. «Ennadha», nel caos di 150 partitini sorti dal vuoto della dittatura, guida tutti i sondaggi per il 23 ottobre. Prepariamoci: nel Maghreb il secondo capitolo sta per essere scritto. Non ci piacerà.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9304
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:31:47 am »

17/12/2011

Il fruttivendolo che ha cambiato il mondo

DOMENICO QUIRICO

Ci sono eroi più grandi, più puri delle rivoluzioni che hanno inventato, creato, fatto esplodere. Uomini di impeto e di sacrifico; perché ogni rivoluzione è l’opera di un principio e solo chi segue con imperterrita fede quel principio può compierla felicemente. Poi viene il tempo degli altri, i regolarizzatori, i garbuglioni del realismo e della necessità, infidi, tentennanti, armistizianti, capitolanti, che si sono affilati i denti per distruggerla. Mohamed Bouazizi, tunisino, fruttivendolo e rivoluzionario senza ideologie un anno fa si è dato fuoco a Sidi Bouazid, città garrotata dalla miseria e dalla paura dei potenti.

Da quel tragico giorno l’aria del mondo arabo trasporta le molecole del suo gesto, leggera come il polline e dura come il piombo; e quei semi sono caduti nei solchi e nei cuori, danno alle cose aria di primavera o di battaglia, producono fiori o proiettili. Senza quel sacrificio, nella piazza principale davanti agli occhi imbambolati dei perditempo dei caffè, oggi il Nord Africa sarebbe quieto alle riverenze del comando assoluto, obbediente a Ben Ali, Gheddafi, Mubarak, sauri giganteschi, superstiti di un feudalesimo colossale in terre preistoriche. Anche il siriano Assad sarebbe uno statista ragionevole e non assediato, come Macbeth, dal conto strabocchevole dei propri delitti.

E invece quel giorno di un anno fa Mohamed fece conoscere al mondo arabo l’evidenza del vero principio rivoluzionario, che una prima ingiustizia è fonte di ingiustizie infinite. Mohamed il tunisino non ha inventato ideologie e non ha coniato gli slogan sobillatori dell’Islam politico, non ha imbracciato mitra e corano, non ha mai schiacciato un tasto per navigare su Internet, non ha fatto proseliti sulla Rete o su Facebook. Dignità: e questa la sua parola. La prima rivoluzione del terzo millennio è stata creata da un gesto antico che sa del sacrificio di Abramo. Solo così poteva dimostrare a plebi inerti sotto decennali dittature che il coraggio è attaccaticcio come la paura. E senza di lui noi, in Europa, dall’altra parte del mare, non avremmo scoperto che ogni uomo che arrivava a Lampedusa non era solo un clandestino, era un romanzo con capitoli solitudini pianti risa speranze, con in tasca una storia che sbalordiva come una rivoluzione vittoriosa.

Lo ricorderanno oggi in Tunisia, Mohamed, nella capitale e nella sua città. Ma con pudica sommessità. Non saranno celebrazioni fastose, rievocazioni da padre della patria. Eppure senza di lui Moncef Marzouki oggi non sarebbe presidente nel Palazzo di Cartagine ma un esule parigino alla ricerca difficile di intervistatori interessati a sentirlo contumeliare il padrone del suo Paese. E gli islamici che hanno vinto le elezioni, le prime libere senza brogli e che hanno in mano tutte le leve del Potere, sarebbero nelle galere o dispersi ai quattro capi del mondo a spazzolar via la patente di fiancheggiatori di Al Qaeda. Perfino a Sidi Bouazid i suoi coetanei, i primi scesi in strada con le pietre e con la rabbia del suo sacrifico hanno votato per un telepopulista che faceva opposizione, pantofolaia, da Londra e che ha promesso di donare denaro a tutti.

No, i giorni che sono venuti dopo quelle settimane di furia e di vittoria, migranti finora da una miseria cupa ad un’altra, non assomigliano a Mohamed. Lo prova il fatto che nessun partito ha osato proclamarsi erede o sacerdote del suo culto. Anzi, hanno perfino cercato di insudiciare e avvilire quel gesto, sproloquiando che non è stata una scelta volontaria ma un incidente e che la sua famiglia ha speculato sulla sua morte procurandosi denaro e vantaggi.
Eppure dal quel giorno di un anno fa i popoli arabi hanno raccolto due tesori, uno di odio verso tutti coloro, in barracano o in doppio petto, vogliono riprendersi quella loro dignità, e uno di fiducia, che una rivoluzione se sarà necessario si può ripetere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9556
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 30, 2012, 10:11:15 pm »

30/4/2012

L'avanzata dell'Islam nero

DOMENICO QUIRICO

L’Islam avanza, penetra, si insinua, conquista, rosicchia l’Africa nera, quella un tempo degli animismi e dei missionari cristiani, ha ormai scavalcato la linea del fronte che corre, sinuosamente, lungo il sedicesimo parallelo, dal Senegal islamizzato al novantacinque per cento alla Somalia degli shebab. Avanza, ahimè, con il terrorismo i massacri i kalashnikov: autobombe esplodono a Kampala e a Nouakchott, Timbuctu è loro, conquistata come, dall’altro capo del continente, Mogadiscio. È il nuovo paese della guerra, «dar al-harb»; in attesa che diventi, purificato col fuoco, «dar al–islam», pezzo di crosta terrestre sotto la quale la lava sta bollendo, pronta all’eruzione.

L’Occidente distratto non si è accorto di questo assalto, gli oppone ascari locali, corrotti e incapaci, si batte per procura, pagando vilmente etiopici e kenioti.

Ma l’Islam seduce anche con il denaro, la carità, le scuole coraniche, le moschee nuove di zecca, i centri che distribuiscono cibo e aiuti. Aggioga con il terrore, e con la forza della fede, il ricatto della necessità, la tentazione dell’ordine e della sopravvivenza. Gli africani diventano musulmani per disperazione odio seduzione speranza, seguono i profeti armati salafiti, ma anche le soavi promesse di pace dei marabutti. L’Islam nero: minaccia, ma anche travolgente tentazione della spiritualità, per il riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo viene sofferta e vissuta. Si impone attraverso un nuovo sincretismo, nato dall’andirivieni degli emigranti, e dei loro figli, tra i quartieri sensibili delle città europee e i villaggi più disgraziati della brousse, della savana, del deserto. Modernizzazione islamista da un lato (sì, non è un paradosso), e riscoperta delle radici dall’altro, sono il filo e l’ordito di un nuovo inedito tessuto identitario.

Agli inizi degli Anni Ottanta un maestro di scuola coranica, Muhamadu Marwa, proclamò una repubblica islamica a Kano nel Nord della Nigeria, popolato di «mahdis», di messaggeri divini. Ai giovani disperati dell’esodo rurale, arrivati in città in cerca di un futuro, spiegava che chiunque porta un orologio, gira in bicicletta o in auto, e manda i bambini nelle scuole di Stato è un infedele, merita la punizione. Nonostante la feroce repressione (o forse è stata la causa?) trenta anni dopo quelle terre sono infeudate ai boko haram («l’educazione occidentale è un peccato»), i talebani d’Africa. E in quegli Stati del Nord è in vigore la sharia. Ha ben fermentato la lezione di quel maestro.

In Niger lo Stato ha privatizzato l’istruzione: mandare i bambini nelle scuole private costa troppo per la maggior parte della popolazione. L’unica alternativa alla strada sono le scuole coraniche: gratuite. Così i fedeli aumentano, gli imam si fregano le mani soddisfatti.

In tutto il Sahel l’appello alla moralizzazione della vita pubblica, che incanta e fanatizza le masse disperate, principali vittime degli abusi e della corruzione di queste società guaste, sfocia nella rivendicazione di Stati islamici, arbitri di un modo di vita che non si potrebbe concepire senza la moralità. La «charia», feroce ma implacabile, riporta l’ordine e la pace laddove i signori della guerra e le tribù comandavano. Da Mogadiscio a Gaò. L’Islam è uno straordinario filo di sicurezza spirituale, un ordine strutturante, una etica e una estetica di vita, trasforma le superstizioni in misticismo e rappresenta una scuola di universalità per 300 milioni di africani, il quaranta per cento della popolazione del continente. Più di quanti vivono in tutti i Paesi arabi riuniti.

L’islam è ricco, più dell’Occidente dei tiepidi postcolonialismi. La ricerca della «zakaat», l’elemosina prescritta dal Corano, ingrossa i ranghi della Organizzazione della conferenza islamica e trasforma gli Stati dell’Africa nera in mendicanti dei «fratelli arabi», Gheddafi, i sauditi, gli Emirati. Ma anche Al Qaeda. Con o senza fondi religiosi, semplicemente facendo forza sul risentimento contro gli occidentali colonialisti, arroganti e predatori, i fondamentalismi avanzano a Sud del Sahara. Tra i ventidue terroristi più ricercati del dopo undici settembre c’erano dodici africani. Nelle periferia di Dakar e di Abuja, di Khartum, potevi vedere le magliette con l’effigie di Bin Laden, il vendicatore.

Che cosa abbiamo opposto noi, Occidente, a tutto questo? Il fondamentalismo delle sette protestanti americane, il capital-cristianesimo che cerca di comprare le anime mettendo a libro paga i presidenti-dittatori. Alla interminabile ripetizione della fatiscenza, all’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende in tutto il continente come l’acqua alluvionale abbiamo proposto non l’immedesimazione con i sofferenti ma la predicazione del liberismo: che profitta soprattutto a noi. In questo mondo di miseria e di perdite l’uomo ha fame di fede e di irrazionalità. Ma il capitalismo non è un credo e non è un magnete. E’ solo un modo di vita a cui noi, solo noi, abbiamo fatto l’abitudine.

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« Risposta #7 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:40:02 am »

26/5/2012

La Primavera tradita dei giovani egiziani

DOMENICO QUIRICO

Piazza Tahrir: che tragico spreco di piccole vite eroiche, quanto scialo inutile di germinale sanguigna giovinezza! Una rivoluzione, tanta furia e tanto fuoco, le pietre, le barricate, la battaglie davanti al ministero dell’interno, il Palazzo imprendibile, i morti: in nome della dignità, della esigenza di essere liberi e del rifiuto della corruzione. Quegli occhi neri lucidi stupendi dei ribelli adolescenti, le risate di getto, argentine, insolenti, divine come una folgore fuor di un nuvolone, l’eco dei gemiti e singhiozzi del dolore umano prima che diventi urlo, rivolta disperazione e non resti eguale e sepolto nel cuore di tutti. C’era, è vero, in quel lampeggiare di vite di destini di speranze molto loglio ma , insieme, parecchio buon grano. Era, come sempre, una prova pericolosa di eccessiva felicità.

Cosa resta? Alla fine a battersi per la presidenza dell’Egitto, se le prime indicazioni saranno confermate, il candidato (di riserva) dei Fratelli musulmani e un uomo del regime, la faccia del potere militare, il sosia del deposto Mubarak, sacrificato perché ingombrante e impresentabile, il passato che non passa, che non muore. «Far cadere il regime», lo slogan di tutte le rivoluzioni arabe, Internet, non bastava: senza un chiaro programma di quanto sarebbe dovuto venire dopo. Sono un’eco i discorsi che ci scaldavano allora, ancora nel primo anniversario di quel rinascere, tutto razzi e lampi e scatti e colori: i Paesi-gabbia dove vivono 300 milioni di musulmani sembravano spalancarsi per forza interna. Era, dicevano, la nuova «Nahda» l’ennesimo e finale rinascimento. Invece la Città, che arde e sfavilla, domani sarà vuota di forza come un cuore che si schianta, solo con un feroce orgoglio pieno di fiele e di noia.

Sì, è difficile oggi esser ottimisti sulla rivoluzione egiziana, sulla primavera araba che un anno ha già fatto invecchiare, il rinnovamento svanisce nel buio, il Paese che nasce da quella stagione fiammeggiante sembra più vecchio del padre, più assuefatto al lato oscuro del Male arabo. Tutte le putrefazioni politiche sono messe in fermento. Nel parlamento eletto a gennaio (e che deve scrivere la nuova costituzione) dominano la frigida Fratellanza musulmana, l’islamismo di legulei e di burocrati. Trionfa la loro astuta gesuiteria che li ha tenuti, prima, lontani dalla piazza, e poi li ha guidati a rubare il Potere agli altri, ai ragazzi che avevano penato e si erano battuti. Alla fine ogni cosa è stata sistemata a modino. L’esercito, i birri di una mafia affaristica travestita dal patriottismo, controlleranno come prima il bottino miliardario. Nel patto, ormai evidente e infame, agli islamisti sono date in appalto la società e il potere. Potenze cariche di avarizia e di ingiustizia, i generali e i tartufi della Santa Politica, gli unici sopravvissuti alle «indipendenze confiscate», come diceva il politico algerino Ferhat Abbas. Certo: ognuno dei due è pronto a romperlo, quel patto, quando un giorno il vantaggio non sarà più reciproco. Era una alleanza inevitabile, coloro che agiscono per dissimularsi finiscono con l’imparare a fiutarsi. Ma per ora funziona, perché serve a schiacciare i detestati, scomodi ragazzi di Tahrir, la società civile, il Mondo nuovo. Ai tetri becchini islamisti, con la loro costola salafita, spetterà il lavoro sudicio e quotidiano di soffocare lentamente, senza far troppo chiasso (l’ipocrisia occidentale non vuol essere turbata nei suoi accomodamenti), quella rivoluzione pregna di altre rivoluzioni, il suo entusiasmo, la sua verginità spirituale, la virtù di sognare. Perché questo fu la Primavera araba, una sobillazione miracolosa di giovani, del quinto elemento del mondo, l’unica classe rivoluzionaria che ci è rimasta. Non sopravviverà a questa potatura atroce.

Oggi è di nuovo il momento dei piccoli macchiavelli della moschea, a parole anche loro rivoluzionari, ma non come i ragazzi e le piazze: non per muovere la vita, ma per bloccarla. Il termidoro islamico avanza ovunque. Anche in Tunisia la gioia della primavera si appanna, ecco di nuovo l’aggrapparsi al passato; il doppiopetto e le cravatte esibite dai nuovi dirigenti davanti agli ospiti occidentali, non ingannino. Torna la favola della grandezza salafita o la compiutezza di un islam detentore della verità assoluta, l’uso del passato come identità, un museo di illusioni che interessa solo gli arabi. L’orizzonte si rinchiude. Ed è l’Egitto il tassello decisivo, perché è stata la duplicazione della rivolta nelle piazze del Cairo e di Alessandria che ha dato a un evento limitato la dimensione di un sisma generale.

Vinceranno questi politicastri viscidi, con le loro vecchie terapie cincischiate rimesse fuori con una certa aria di pulitezza e di comodità? Ci sono cuori dove certe parole lasciano il bruciore per sempre. Erano liberi e nuovi. Lo spirito di rivolta è giovane, più che giovane è adolescente: sopra ogni mezzo, al di là di ogni mezzo.

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« Risposta #8 inserito:: Agosto 25, 2012, 05:39:50 pm »

24/8/2012

La viltà europea in Siria come nel '36 in Spagna

DOMENICO QUIRICO

La nostra è una età infida, con strane ricorrenze. Dove ho già visto i bimbi decapitati dai bombardamenti nelle strade di Aleppo, o il corpo di una ragazza, sul marciapiede, rannicchiato come dormono le donne, con quella grazia che ci è cara, ma con il filo traditore di sangue dietro il capo? Dove ho già sentito l’urlo dell’aereo che scende in picchiata, sgancia la sua bomba e poi risale indisturbato, senza rischi. Gli avversari non hanno contraerea? E questa nebbia limacciosa che ci avvolge, fatta di indifferenza noia ipocrisia viltà? I nostri volti non cambiano più, hanno assunto l’inquietante fissità della maschera. Dove ci siamo visti così rassegnati all’orrore di un carnaio in una vecchia terra sovraccarica di storia dove soffrono, lottano e muoiono creature viventi; alla complicità di accettarlo senza fare nulla, neppure gridare? Sì, ho già visto, letto, ascoltato tutto questo: è la guerra di Spagna del 1936. I paragoni storici sono sempre arbitrari.

La Storia non si specchia in se stessa, è implacabile nella sua forza di mutare. Ma servono, talvolta, a capire. Sì, le somiglianze sono folgoranti. Da una parte allora c’era Franco con un esercito potente e spietato, alimentato costantemente e spudoratamente dalle armi degli alleati, i fascismi tedesco e italiano. Oggi è il regime di Bashar, ormai deciso a seppellire la Siria ribelle in un grande cimitero di rovine. Usa aerei elicotteri carri munizioni che gli forniscono, spudoratamente, Russia e Cina. Nel breve passaggio di quindici giorni che dividono due soggiorni ad Aleppo ho assistito a un passaggio tragico e senza ritorno: il momento cioè in cui il regime siriano, sicuro dalla sua impunità, ha messo una categoria di esseri umani al di fuori di quelle per cui la vita ha un prezzo e non c’è ormai nulla di più naturale che ucciderli. Userà tutti i mezzi per annientarli, senza fare distinguo, il terrore senza ritorno.

Dall’altra parte, nel 1936, c’erano i repubblicani: mal armati, senza addestramento, operai intellettuali e contadini che si erano improvvisati combattenti. Le democrazie occidentali non li aiutarono, come non aiutano, se non a chiacchiere, l’Armata siriana libera. Le telefonate tra Obama, Cameron e Hollande, nella loro sterile minacciosità, quanto assomigliano a quelle dei leader francesi e inglesi di allora! Avevano, abbiamo paura: che i repubblicani fossero, se vincitori, un altro tassello dell’avanzata del demonio comunista. Non c’erano, a provarlo, le brigate straniere, gli incendiari della Terza internazionale, di Stalin, gli anarchici che bruciavano le chiese: la guerra santa delle sinistre? Oggi abbiamo paura che a Bashar succeda l’islamismo radicale, la nuova angoscia dell’occidente.

Non ci sono ad Aleppo i jhaidisti, gli emissari di Al Qaeda, le brigate internazionali islamiche? Abbiamo già altri mostri e abbiamo deciso di addomesticarli, nella nostra torbida e ridicola eccitazione nervosa, disgustante a vedersi, riconsegnando un popolo intero al suo rodato assassino. Quale uomo di buon senso preferirebbe un barbus al doppio petto dell’ex oftalmico che bombarda il suo popolo? Nel frastuono dei bombardamenti, nella strage dei civili di Aleppo, nonostante le buone intenzioni enunciate ieri dal ministro Terzi, si svela e muore l’ipocrisia europea.

Tutti gli errori di cui l’Europa sta mortalmente soffrendo vengono a raccogliersi e a imputridire qui. Impossibile allungare la mano senza il rischio di setticemia. Ho visto questi combattenti del Jihad in azione ad Aleppo, sempre nella prima linea che ormai gli appartiene, che si sono conquistata combattendo. Contendono ai governativi ogni mucchio di macerie, ogni muro in rovina, la lotta sale ai piani superiori delle case, si accanisce sui tetti. Li ho visti trascinare con sé un compagno caduto, la testa spappolata da una scheggia di mortaio. Non vi era odio tra quegli implacabili combattenti, nemmeno forse pietà. Alcuni piangevano apertamente: il peso, il silenzio, lo sbigottimento di una enorme stanchezza, il senso di un vuoto gelido, forse anche per loro il disgusto invincibile del sangue, del massacro, della morte. E’ vero: i jhaidisti stanno guadagnando ogni giorno che passa il controllo della rivoluzione siriana. Perché sanno combattere meglio e più ferocemente degli studenti e dei contadini che la rivoluzione hanno scatenato; perché lo hanno già fatto a Grozny, in Libia, in Afghanistan. Perché sono meglio armati, hanno finanziatori, sono più spietati.

E’ l’occidente con la sua viltà camuffata da prudenza geopolitica che sta consegnando la rivoluzione siriana al fanatismo islamico, ogni giorno. I rivoluzionari siriani non ci chiedono soldati o raid aerei, neppure la zona di interdizione al volo. Chiedono solo di poter comprare armi, antiaeree e anticarro, per battersi alla pari. Con queste vinceranno e potranno dire agli islamisti che non amano: tornate a casa, questa è terra nostra. L’armata di Bashar, il regime, può consolidarsi solo con la sensazione di avere la vittoria a portata di mano. Se non le avranno, quelle armi, dopo un lungo massacro Aleppo, capitale dell’altra Siria, simbolo e sfida indispensabile, cadrà. Allora la ribellione dovrà adottare altre forme di lotta che non ci piaceranno, che la contamineranno: il terrorismo, le autobombe. E non hanno dimenticato, non dimenticheranno quello che non abbiamo fatto. La domanda in fondo è semplice, una domanda politica: in Spagna nel 1936 la nostra scelta fu quella giusta?

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« Risposta #9 inserito:: Settembre 06, 2012, 04:20:24 pm »

6/9/2012

Solo la pietà può far finire l'orrore in Siria

DOMENICO QUIRICO

Più passano questi giorni abominevoli e il massacro, in Siria, mostruosamente, sconciamente, si gonfia, più mi convinco che la soluzione, l’unica possibile ancora per poco, ovvero un intervento dell’Occidente, non verrà dal prevalere di pur evidenti ragioni pratiche, politiche, «egoistiche»: ovvero che il tollerare un governo assassino ci macchi e ci renda infinitamente più deboli, ci esponga la prossima volta, e ci saranno infinite prossime volte, a pericoli maggiori, a vergogne più devastanti. No: questo non basterà, abbiamo torto a contarci troppo. La nostra stanca viltà è così limacciosa da soffocare anche la coscienza di ciò che ci conviene. La Turchia, perfino la Turchia che abbiamo altezzosamente respinto dall’Europa, noi sussiegosi professori di democrazia, ci dà una lezione, definisce «terrorista» il governo siriano, ribaltando efficacemente proprio l’insulto che Bashar Assad rivolge ai ribelli.

L’unica soluzione verrà dal prevalere della pietà. Sì, la cristiana antica, umilissima compassione per l’altrui sofferenza. Ma anche la pagana, laicissima «pietas», che non chiede fede, a cui basta il rispetto dell’uomo per l’altro uomo anche se vive in una terra diversa e le sue ragioni non coincidono con le nostre.

Certo tutto questo non può smuovere cancellerie astutamente parolaie e concretamente inerti: dicono di preparare il «dopo Assad», questi sofisti pretenziosi, hanno già voltato pagina, i ministri e i presidenti, e fanno finta di non accorgersi che il despota guadagna posizioni, macella gli avversari, parla di nuovo con alterigia e arroganza. Ma la compassione può accendere in una gran vampa il cuore di un’opinione pubblica finora sospettosa, mal informata, assente. E’ qui che il cuore dell’Occidente batte sempre di un sangue più ricco. Vedremo allora, finalmente!, un corteo per la Siria nelle strade delle capitali d’Europa.

Lapietàdunque.Esarannoibambini siriani che ci costringeranno a partecipare infine alla altrui sofferenza, quella che Boccaccio chiamava, mirabilmente, «umana cosa». I bambini di Aleppo bombardata, dove il sangue non ha il tempo di raggrumarsi, di Homs, di Idlib, di Hama: questa in fondo è una rivoluzione nata dall’indignazione per lo strazio di un gruppo di bambini. Bambini cheti guardanocon occhi da vecchi,tormentati, quasi fossero al mondo da settanta anni. Li hanno mai visti, finora, questi occhi, inconfondibili, indimenticabili, fissi di muto smarrimento, pieni di riflessi di fiamme e di rovine, i politici che si turbano per i rischi, in caso di aiuto ai ribelli, di una destabilizzazione del Medio Oriente, che indietreggiano davanti al pericolo di una jihad fatta da qualche centinaio di forsennati e che i siriani sono i primi a voler accantonare e rimandare a casa?NongiocanopiùibambinidiAleppo perché le strade sono spazzate dalla bombe, perché perfino andare a comprare il pane è scendere in prima linea, diventare «terrorista». Possibile che abbiamo ripudiato questa gente?

Muoiono i bambini di Aleppo, se ne è accorta, finalmente, dopo 500 giorni, anchelaCnnelomostreràagliamericani.In passato le immagini di bambini assassinati dalla carestia e dalla guerra ci ha fatto scoprire (in ritardo, quanto in ritardo) la tragedia somala. I bambini trucidati accanto alle madri ai piedi degli altari, in chiesa, ci hanno svelato l’Uganda. Allora guardiamo, imprimiamoci in mente questi bimbi uccisi dalle bombe dei piloti di Bashar; non censuriamo l’orrore anche se ci fa male, i corpicini straziati dalle schegge, le teste staccate dalle bombe termiche. Gli assassini contano su questa censura della pietà. E invece bisogna pensare a coloro che con il loro agire hanno provocato tutto ciò e a coloro che, chiudendo gli occhi e balbettando le scuse della realpolitik, se ne fanno complici. Questo pensiero è utile, questa rabbia è utile. Perché educa alla indignazione, ci rende acuti, impedisce che si dimentichi. Darà a tutti la stessa sensazione,atroce, che provachièstatoinSiriainquestimesi,lasensazionediunacapillare,invisibilepotenza del male, di una saturazione da parte di un invisibile odio corrosivo. Coloro che hanno ucciso questi bambini sono malvagi, e il male non può, non deve vincere.

Abbiamo bisogno di dare una veste politicaaquestamisericordia?C’è,esiste, è la celebre tesi della «sovranità come responsabilità». I governi, tutti i governi sono cioè responsabili sia di fronte ai propri cittadini sia di fronte alla comunità internazionale, di garantire la sicurezza e il benessere anche di coloro che vivono negli altri paesi. Dove questo neo-interventismo, questo sacrosanto diritto di intrusione ha più ragioni di essere che nella Siria che massacra i suoi bambini?

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« Risposta #10 inserito:: Settembre 08, 2012, 09:55:58 pm »

8/9/2012

Quei bimbi in fuga dalla disperazione

DOMENICO QUIRICO

So che cosa hanno provato, i naufraghi bambini di Lampedusa. E’ il momento in cui il motore si arresta e al gorgoglio dei pistoni rantolanti, della pompa che aspira l’acqua dalla stiva marcia si sostituisce l’immenso, fragoroso silenzio del mare. E poi: i frenetici tentativi, con un cacciavite con le mani con gli stracci con le preghiere, di far ripartire il motore esausto.

Il pilota il cui volto si fa livido di paura, il fremito che comincia a circolare tra le file dei migranti, stipati sul ponte a file fitte e ordinate con il divieto di alzarsi di muoversi. E invece i primi che si alzano, e le grida delle donne (sul mio barcone non c’erano donne, era un altro tempo: come tutto è cambiato orribilmente, nel giro di un solo anno). Nessuno all’inizio ha capito: perché ci siamo fermati? Proprio ora, dove venti ore in mare, quando pensavamo di essere ormai vicino a Lampedusa?

Ma già l’acqua comincia a salire, lenta, inesorabile: la puoi vedere, tu stesso, attraverso la piccola apertura della stiva. E’ allora che anche i bambini hanno capito che «il viaggio», quel viaggio straordinario che sembrava svolgersi, il mare, bagnati dall’acqua e da pallide onde di sole giallo, come un’affascinante avventura si convertiva, malvagio, in tragedia e paura e morte. La tensione che penetra in tutti i pori della mente, quel tipo di tensione che si avverte negli incubi infantili quando da un momento all’altro, sbucando da un mobile o dietro una porta, può accadere qualcosa di vago e di ignoto.

Queste vecchie barche, come era la mia, muoiono lentamente, lasciano che il mare le abbracci e le soffochi. C’è tempo per pensare: allora è questa la sensazione che uno avverte al momento della morte: questo vuoto, questa sospensione tra essere e non essere? se è così, non c’è quasi da averne paura.

Bambini migranti, bambini aspiranti «clandestini», come diventeranno con parola orrenda nei verbali, nella burocrazia di questa tragedia senza fine. So che cosa hanno provato quando sono partiti. La barca che li aspetta su una spiaggia fuori mano della Tunisia, le raccomandazioni dei nonni, dei parenti che li hanno accompagnati al luogo di raccolta e li hanno consegnati al passeur, con i soldi per il passaggio: come se fossero cose, oggetti da spedire. Loro sono soli felici eccitati. Deve essere la felicità questa, ma non lo sanno ancora. Hanno raccontato loro, per invogliarli, di un altro mondo al di là del mare, dove ci sono parenti o amici che li accoglieranno, città dove, al calar del sole, la vita invece di finire sembra cominciare.

Nel Maghreb, in Africa, come tra tutti i poveri del mondo, l’età tramonta di colpo come il sole; prima sono bambini, un attimo dopo già vecchi. Come assomigliano ai ragazzi con cui sono salito, un anno fa, su un’altra barca della speranza, tutti popolo di questo Mediterraneo così gonfio di speranze e di divieti. Erano più grandi, allora, erano i giovani ribelli che avevano appena cacciato il tiranno e esercitavano il loro diritto di partire, di andare a scoprire altri mondi. In fondo il loro era un atto politico, quasi rivoluzionario. Ma questi bambini di quale nuova delusione, di quale nuova disperazione sono figli, naufraghi, vittime? Al confine tra gli Stati Uniti e il Messico raccontano che sempre più spesso a tentare di attraversare il deserto (in fondo un altro mare pieno di insidie e di vuoto) sono minorenni, soli. Tentano di raggiungere i genitori che sono già dall’altra parte, nel mondo dei ricchi: perché la miseria è tanta e i parenti non riescono più a mantenerli; perché pensano che la nostra soglia del rifiuto e dell’indifferenza si abbassi e sia più clemente con chi è piccolo, che riconosceremo in loro più facilmente la vittima a cui destinare la nostra misericordia, più che ai fratelli ai genitori ai nonni. L’indifferenza: la perfezione dell’egoismo.

Un anno fa il popolo di Lampedusa era fatto di ragazzi ardenti indomiti, in loro una insofferenza, un furore, un miscuglio, direi, di odio e di amore. Ma questi bambini cosa si portano dentro? Sono partiti per l’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende come l’acqua alluvionale nel mondo. Ecco la verità: nulla è cambiato dall’altra parte del mare, c’è lo stesso riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo che lì viene vissuta, senza lavoro e senza speranza, che prosegue monotonamente il suo cammino. Il dopo primavera araba è una cosa molto ordinata e pulita, ma dalla distanza da cui noi la guardiamo: certo ora votano liberamente, i giornali sono liberi, si può perfino manifestare. E’ tanto, è molto. Ma i rivoluzionari vittoriosi sono poveri come un anno fa, forse ancor più perché hanno perso la speranza. E ora fanno partire i bambini.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10503
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 13, 2013, 04:43:18 pm »

Editoriali
13/01/2013

L’Occidente paga i suoi ritardi

Domenico Quirico

Il Mali è come una partita a poker, ciascuno dei giocatori - gli islamisti, il governo di Bamako, i Paesi della regione saheliana, l’Occidente - aspetta l’ultimo momento per calare le carte. E una delle chiavi del gioco è naturalmente il bluff. 

Un mese fa, a dicembre, il voto alle Nazioni Unite della risoluzione che poneva le (laboriose) premesse per un intervento militare internazionale, faceva fibrillare illusioni. 

Si diceva in qualche mal informata e ottimistica cancelleria occidentale che il panico dilagasse nel sinedrio degli emiri di Timbuctu e di Gao. 

E invece i narco-salafiti di al Qaeda e i loro alleati tuareg convertiti alla jihad nazionalista con una calca estremista dove brulicano sicari, predoni gentucola escandescente, erano così poco tremebondi da decidere di venire a «vedere»: se quello dei «crociati» vicini e lontani era soltanto un bluff. 

In fondo noi non muoviamo da aprile dito, perdiamo tempo, emettiamo parole vuote anche quando, per provocarci, gli islamisti mozzano mani e polverizzano a colpi di piccone i mausolei di Tombuctu. Due giorni dopo la risoluzione Onu! L’orda ha capito a volo la nostra viltà. Hanno attaccato verso Sud, dunque, verso Mopti, l’ultima grande città, oltre la capitale Bamako rimasta nelle mani della debole giunta militare al potere sotto mentite spoglie borghesi, che rischiava sotto il nuovo cozzo dei nordisti di disintegrarsi. Il pandemonio viene loro utile. Le bandiere nere dei salafiti sulle rive del Niger, il fiume dio che disseta e nutre un pezzo di Africa. Era troppo: la Francia, per salvare la faccia con i suoi alleati-clienti africani, ha dovuto accorrere a soccorso. Con a rimorchio gli Stati Uniti finora timidissimi: entrambi sedotti del progetto di una comoda guerra per procura, secondo la retorica utilitarista «L’Africa e i suoi guai agli africani!». 

Ora Aqmi può proclamare a gran voce di essere in guerra con i colonialisti occidentali e i loro servi. Eccellente arma propagandista in un’area gonfia di miseria e di biliose «doléances», di plebi che aspettano solo una bandiera per insorgere e risorgere. È stata una scelta tattica, dunque, per costringere l’avversario ad accettare battaglia subito e in prima persona, quando gli ascari africani sono ancora divisi e sulla carta. I droni non basteranno, ci vogliono le fanterie. Aqmi, secondo gli ordini di al Zawahiri, può davvero sperare di «ficcare ancora più a fondo un osso nella gola dei crociati». 

La posta è gigantesca, il contradditore è tignoso. L’Africa saheliana, il deserto, è il nuovo terreno di battaglia scelto dall’islamismo combattente. Non più le periferiche montagne afghane dove le mosse della internazionale islamica erano subordinate alle strategie dei taleban. Questa volta, per la prima volta, al Qaeda dispone di uno Stato, ovvero di un territorio che controlla direttamente, con grandi città e una superficie grande due volte la Francia. È deserto, è vero, sabbia e rocce, ma questo è un vantaggio, perché riconquistarlo sarà impresa difficile. (Forse solo i tuareg sono in grado di farlo, ma sono alleati con Aqmi). Una guerra da vincere a un’ora di volo dal Mediterraneo e dall’Europa, un aculeo estremista conficcato nei grandi giacimenti di petrolio, di gas, di fosfati e di uranio, sulla rotta della nuova via della droga e sul sentiero dei clandestini che salgono dall’Africa nera. Ai confini delle rivoluzioni dalla Primavera araba, diventata islamica e che si può storpiare con strategie ancor più radicali ed estremiste. Questo è il Grande Gioco oggi in Mali. E l’Occidente, pavido e distratto, non ha finora le carte migliori.

da - http://lastampa.it/2013/01/13/cultura/opinioni/editoriali/l-occidente-paga-i-suoi-ritardi-ELgFKDrbxouyqewtg8eZtM/pagina.html
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 09, 2013, 08:56:56 am »


Liberato il giornalista Quirico.

Da 5 mesi era prigioniero in Siria


L'inviato de La Stampa era stato rapito il 9 aprile, da allora solo una telefonata a giugno alla sua famiglia. Libero anche il cittadino belga Pier Piccinin. In serata l'arrivo a Ciampino. Calabresi: "Magnifica notizia".

Il ministro degli Esteri Bonino: "Grande soddisfazione". Quirinale: "Vivissimo apprezzamento per Farnesina e Servizi"


ROMA - È libero l'inviato della Stampa Domenico Quirico, di cui si erano perse le tracce in Siria dall'aprile scorso. Il giornalista di La Stampa, rapito il 9 aprile mentre si trovava in Siria, è tornato in Italia. E' atterrato a Roma Ciampino poco dopo la mezzanotte.

"Ho cercato di raccontare la rivoluzione siriana, ma può essere che questa rivoluzione mi abbia tradito. Non è più la rivoluzione laica di Aleppo, è diventata un'altra cosa", ha detto all'arrivo scambiando alcune parole con i giornalisti presenti. Hai avuto paura? "Si penso di si. È stata durissima". Come ti hanno trattato? "Diciamo non bene", ha concluso il giornalista, apparso stanco ma in buone condizioni, dopo l'abbraccio con il ministro degli Esteri Emma Bonino che lo ha accolto sulla pista.

Oltre a Domenico Quirico è stato liberato il cittadino belga Pier Piccinin (rapito con l'inviato della Stampa), tornato con lo stesso volo dell'inviato della Stampa.

"Siamo emozionate e felici. Lo aspettiamo a casa e non vediamo l'ora di abbracciarlo": queste le uniche parole giunte dalla famiglia Quirico dopo che si è diffusa la notizia che Domenico Quirico era stato liberato.

"Abbiamo avuto la notizia dal ministro Bonino" ha detto la figlia Eleonora che si trova nella casa di Govone, in provincia di Cuneo, con la sorella Metella e la mamma Giulietta.

Quirico ha parlato con la sua famiglia prima di imbarcarsi, dopo la liberazione in Siria. La famiglia lo incontrerà probabilmente a Roma, dove oggi il giornalista sarà ascoltato dalla Procura.

Calabresi su Twitter: "Magnifica notizia". "Abbiamo avuto la magnifica notizia da Emma Bonino e Enrico Letta. Sappiamo che hanno già contattato la famiglia. È una notizia magnifica": così il direttore de La Stampa, Mario Calabresi, ha dato la notizia della liberazione del giornalista, postandola subito su Twitter.
 
"Non ho avuto la possibilità di parlare con Quirico" ma "ho parlato con i familiari, che sono emozionatissimi" e "quasi increduli", ha aggiunto Calabresi, intervistato da RaiNews24. "Immaginate 150 giorni di attesa", ha aggiunto, spiegando che anche in redazione "sono stati cinque mesi onestamente molto faticosi anche perché non sono mancate notizie che circolavano e dicevano che Domenico e altri ostaggi erano stati ammazzati".

L'unico contatto a giugno. Il primo giugno le figlie Metella ed Eleonora avevano lanciato un appello attraverso un video che aveva fatto il giro di tv e web del mondo arabo. A giugno il giornalista si era messo in contatto con la famiglia, dicendo di stare bene. Poi più nessuna notizia.

Ancora nessuna notizia di padre dall'Oglio. Ancora nessuna notizia, invece, di padre Paolo dall'Oglio. "Non sono tornati a casa tutti, c'è ancora da portare a casa Padre Dall'oglio", ha detto Calabresi, ai microfoni di RaiNews24.

Quirinale: "Vivissimo apprezzamento per Farnesina e servizi". Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso "vivissimo apprezzamento per l'impegno dispiegato dal ministro Emma Bonino, dal ministero degli Esteri e dai Servizi per il successo di tutti i delicatissimi passi volti a garantire la libertà di Domenico Quirico".

La soddisfazione di Bonino. "La notizia della liberazione di Domenico Quirico mi riempie di grande gioia e di soddisfazione. Il mio pensiero va prima di tutto ai parenti che potranno finalmente riabbracciare Quirico dopo  tanti mesi e numerosi momenti di ansia". Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, che ad agosto si era detta ottimista sulla sorte dell'inviato, ha espresso la sua soddisfazione e ha aggiunto: "Il mio ringraziamento va a chi ha contribuito sostanzialmente al felice esito della vicenda: la Farnesina e la sua Unità di crisi, gli altri apparati dello Stato che insieme hanno con grande determinazione seguito ogni possibile canale per portare a soluzione un caso particolarmente complicato in un contesto ambientale cosi difficile come quello siriano. La liberazione del giornalista è anche una bellissima notizia per tutti i rappresentanti dei media che rischiano la vita sui fronti di guerra per raccontare la verità in situazioni estreme".

Letta: "Mai persa speranza". Anche il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha espresso alla famiglia del giornalista della Stampa, al direttore Mario Calabresi e per suo tramite a tutta la redazione la sua più viva soddisfazione. "La speranza non era mai venuta meno e vengono ora coronati dal successo tutti gli sforzi messi in campo per un esito positivo della vicenda".

Le reazioni. "Come Governo non abbiamo mai smesso di crederci. Ma la felicità di questo momento è comunque difficile da spiegare. Una felicità che condividiamo con Mario Calabresi, i giornalisti de La Stampa e con tutti gli italiani", ha detto il ministro della Difesa, Mario Mauro. "Finalmente una buona notizia. Un grande giornalista come Quirico ha riacquistato la libertà. Vanno lodate tutte le strutture dello Stato, dalle unità di crisi ai servizi, che hanno lavorato per ottenere questo risultato", ha affermato Fabrizio Cicchitto, presidente della Commissione Esteri della Camera.

Il suo paese in festa. Govone in festa per la liberazione di Domenico Quirico. "Siamo felicissimi", dice Giampiero Novaro, primo cittadino del paesino in provincia di Cuneo dove l'inviato della Stampa vive con la moglie e le due figlie. "Per fortuna - aggiunge - tutto si è concluso nel migliore dei modi".

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/09/08/news/liberato_il_giornalista_quirico-66150229/?ref=HREA-1
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 11, 2013, 05:47:59 pm »

Esteri
10/09/2013 - Il racconto di Quirico

Il racconto di Domenico Quirico “Io, tra bombe, fughe e umiliazioni”

La prima telefonata di Domenico Quirico

La prigionia lunga 152 giorni: «Credevo mi avrebbero ucciso, la Siria è in mano al demonio»


Domenico Quirico


La notte era dolce come il vino: l’8 aprile ad al Qusayr, Siria, per raccontare un altro capitolo della guerra siriana, dove la Primavera della rivoluzione sembrava poter durare per sempre e capovolgere il mondo. E invece sono stati 152 giorni di prigionia, piccole camere buie dove combattere contro il tempo e la paura e le umiliazioni, la fame, la mancanza di pietà, due false esecuzioni, due evasioni fallite, il silenzio; di Dio, della famiglia, degli altri, della vita. Ostaggio in Siria, tradito dalla rivoluzione che non è più ed è diventata fanatismo e lavoro di briganti. L’ostaggio piange e qui tutti ridono del suo dolore, considerato come prova di debolezza. La Siria è il Paese del Male; dove il Male trionfa, lavora, inturgidisce come gli acini dell’uva sotto il sole d’Oriente. E dispiega tutti i suoi stati; l’avidità, l’odio, il fanatismo,
l’assenza di ogni misericordia, dove persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi. I miei sequestratori pregavano il loro Dio stando accanto a me, il loro prigioniero dolente, soddisfatti, senza rimorsi e attenti al rito: cosa dicevano al loro Dio? 

 

Il racconto integrale 

 

Siamo entrati in Siria il 6 aprile con il consenso e sotto la protezione dell’Armata siriana libera, come tutte le volte precedenti. Ho cercato di raggiungere Damasco e di verificare di persona le notizie sulla battaglia decisiva di questa guerra civile, come faccio sempre. Ma ci hanno detto che avremmo dovuto aspettare alcuni giorni prima di poter raggiungere la capitale siriana e così abbiamo accettato la proposta di andare in una città che si chiama Al Qusayr, vicina al confine libanese, che in quei giorni era assediata da Hezbollah, fedele alleato del regime di Assad.

 

Siamo arrivati ad Al Qusayr con un convoglio di rifornimenti della stessa Armata siriana libera, un lungo viaggio nella notte a fari spenti passando sulle montagne perché il regime controllava la strada. Siamo stati bombardati da un Mig vicino a un Ticunin, un mulino dell’epoca bizantina. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati. Lì si è combattuta la battaglia fra Ramses II e gli Ittiti. Lì la storia è ovunque, nelle colline, nelle pietre. La città era già devastata e distrutta dai bombardamenti dell’aviazione e così la sera successiva abbiamo deciso di tornare dal luogo in cui eravamo partiti per sapere se era possibile intraprendere il viaggio verso Damasco. fidati. Invece probabilmente sono stati loro a tradirci e a venderci. All’uscita della città siamo stati affrontati da due pick-up con a bordo uomini con il viso coperto. Ci hanno fatto salire sui loro mezzi, poi ci hanno portato in una casa e ci hanno picchiato sostenendo di essere uomini della polizia di regime. Nei giorni successivi invece abbiamo scoperto che non era vero, perché erano dei ferventi islamisti che pregavano cinque volte al giorno il loro Dio in modo flautato e dotto. Poi, il venerdì hanno ascoltato la predica di un predicatore che sosteneva la jihad contro Assad. Ma la prova decisiva l’abbiamo avuta quando siamo stati bombardati dall’aviazione: era chiaro che quelli che ci tenevano in ostaggio erano ribelli.

 

L’emiro Abu Omar 

L’ideatore e capo del gruppo che ci teneva prigionieri era un sedicente emiro che si chiama, anzi, si fa chiamare, Abu Omar, un soprannome. Ha formato la sua brigata reclutando gente della zona, più banditi che islamisti o rivoluzionari. Questo Abu Omar copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite, e collabora con il gruppo che successivamente ci ha preso in carico, Al Faruk. Al Faruk è una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stato creata da un generale ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera di Homs, fra i più dimenticati dalla mafia di regime. L’Occidente si fida di loro ma ho imparato a mie spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e allarmante della rivoluzione: l’emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare sequestri e riempirsi le saccocce di denaro.

 

La prima prigione 

Inizialmente ci hanno tenuto in una casa di campagna alla periferia della città di Al Qusayr. Siamo rimasti lì per una ventina di giorni. Poi è accaduto il primo fatto terribile di quella che io chiamo la matrioska di questa storia, un evento all’interno di un altro evento: Hezbollah ha attaccato le posizioni dei ribelli e l’edificio in cui eravamo prigionieri è diventato la prima linea. È stato bombardato e attaccato. A quel punto ci hanno portato in un’altra casa, all’interno della città. Ma era come se il destino si accanisse contro di noi e continuamente ci ponesse nuovi terribili scenari, come se ci ricacciasse sempre indietro, sempre più lontano dalla prospettiva di essere liberati. Alla fine anche questa casa è stata attaccata e per una settimana siamo stati affidati ad una brigata di Jabat Al Nusra, l’Al Qaeda siriana. È stato l’unico momento in cui siamo stati trattati come esseri umani, per certi aspetti persino con simpatia: ad esempio ci hanno dato da mangiare le stesse cose che mangiavano loro. I qaedisti in guerra fanno una vita molto ascetica e sono dei guerrieri radicali, islamisti fanatici che si propongono di costruire uno stato islamico in Siria e poi in tutto il Medio Oriente, ma nei confronti dei loro nemici - perché noi, cristiani, occidentali, siamo loro nemici - hanno un senso di onore e di rispetto. Al Nusra è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche degli americani ma sono gli unici che ci hanno rispettato. Poi siamo tornati nelle mani di Abu Omar.

 

La fuga da Al Qusayr 

Al Qusayr era sotto assedio e diventava ogni giorno sempre più piccola, veniva demolita mattone su mattone. All’inizio di giugno l’assedio stava per finire con la vittoria degli Hezbollah. Intorno al 9 del mese tutte le varie fazioni della ribellione (fra cui anche la «katiba» di Abu Omar), hanno deciso di sfondare le linee nemiche insieme alla popolazione per provare a fuggire in un altro luogo della Siria. Incredibilmente ce l’hanno, ce l’abbiamo, fatta. È stata un’epopea straordinaria e terribile, con uomini, donne, bambini, handicappati e vecchi che hanno marciato a piedi per dodici ore, per due notti consecutive, attraverso la campagna. Erano 5-6 mila persone. Durante la marcia sui ciottoli questa folla faceva un rumore sordo, come se a spostarsi fosse un unico corpo. Quando i razzi lanciati dai soldati del regime per permettere all’artiglieria e alle mitragliatrici di colpirli illuminavano la scena, la campagna diventava abbagliante e tutte queste migliaia di persone si gettavano a terra improvvisamente creando un silenzio incredibile. Subito dopo, quando i razzi, che scendono lentissimi, si spegnevano per terra, tutta la folla si rialzava e riprendeva il cammino lasciando dietro di sé la catena dei morti.

 

Pesche acerbe 

Alla fine della prima notte l’esercito è riuscito a bloccare l’avanzata e tutte queste persone si sono disperse nei frutteti e nei campi, senz’acqua e senza cibo, aspettando un’altra notte per tentare di proseguire. Non c’era nulla da mangiare. C’erano solo le pesche degli alberi, che essendo giugno erano ancora lontane dall’essere mature. Ci siamo nutriti schiacciandole e mangiando la parte più interna e il nocciolo, che erano abbastanza molli. C’erano anche alcuni vecchi personaggi omerici che si avviavano da soli verso le linee dell’esercito di Bashar e venivano falciati dalle mitragliatrici. Ma la cosa più straordinaria è stata che all’imbrunire, quando è scesa la sera, tutto questo popolo si è fermato e ha pregato. E gli uomini di Abu Omar hanno incrociato due kalashnikov davanti alle fila dei combattenti per intonare una preghiera della guerra. Il canto modulato si è levato sui campi sui boschi per chiedere a Dio di vincere la guerra, di uccidere i loro nemici. Dopodiché questa gente si è avviata verso il nemico, ha sfondato le linee e incredibilmente è avanzata oltre i soldati.

 

Verso Homs 

Siamo scesi verso Homs dall’altopiano. Io credo di aver pensato di sognare, che non fosse una scena reale. Nella notte stavamo camminando verso questa grande città, la città nella quale è iniziata la rivoluzione. Una parte della città era già stata distrutta dai bombardamenti ed era vuota, l’altra parte invece era ancora abitata e i combattimenti continuavano. Per uno strano e incredibile effetto ottico l’immensa distesa di queste case bianche si proiettava al contrario verso il cielo: una parte, quella distrutta, aveva la fissità e il silenzio di un cimitero, di una tomba, l’altra invece era tutta luce, scoppi, razzi e rumori. Siamo scesi verso la pianura di Homs. Camminavamo in mezzo a due colonne di fuoco circondati da ombre: la gente correva tenendosi bassa perché le mitragliatrici tiravano ad altezza uomo, inciampavamo sui morti, finché alla fine non siamo arrivati in una piccola città di cemento, una delle tante piccole orribili città della Siria, mal costruite, approssimative.

 

Come Ulisse 

Dopo quella notte ci hanno riportato nella città in cui era iniziato il nostro viaggio, come in una sorta di Odissea. Ulisse va verso Itaca, vede la sua casa, la sua isola là in fondo, ma il Dio feroce, implacabile, il destino, si accanisce contro di lui e una tempesta lo ricaccia indietro e quella è la sua condanna. A noi è successa la stessa cosa. Tornati a Reabruc, la città da cui eravamo partiti, ci hanno venduto al gruppo di Al Faruk. Il vortice è ripreso perché dopo due giorni ci hanno detto che ci avrebbero portato verso nord, verso il confine con la Turchia, e che ci avrebbero liberato. Abbiamo trascorso due notti in viaggio su questi pick-up sulle strade di montagna, con gli autisti che ogni tanto guardavano con il cannocchiale a infrarossi se i militari preparassero agguati sulla strada. Dopo la seconda notte di viaggio al freddo dentro il cassone del pick-up, ricoperti di polvere, siamo arrivati nella zona di Idlib, dove ci hanno tenuto per altre tre o quattro settimane in una base militare. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati come quello degli Ittiti... Il capo dei sequestratori si faceva chiamare Abu Omar. Copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite Noi lo chiamavamo l’infame.

 

La telefonata 

Dopo il primo giorno di marcia questo Abu Omar era seduto come un pascià sotto un albero circondato dalla sua piccola corte di guerriglieri. Mi ha chiamato perché voleva che mi sedessi accanto a lui, voleva fingere di essere nostro amico per ingannare un po’ anche la gente che era lì intorno e che si chiedeva chi fossero questi due occidentali malvestiti e distrutti dopo due mesi di prigionia. Gli ho chiesto il telefono per chiamare casa, dicendo che i miei probabilmente pensavano che io fossi morto e che stava distruggendo la mia vita, la mia famiglia. Lui rideva. E mi mostrava il suo telefonino mentendo e dicendo che non c’era campo, che non si poteva telefonare. Non era vero. In quel momento un soldato dell’Esercito siriano libero, ferito alle gambe, ha tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un telefonino e me l’ha dato davanti a lui. È stato l’unico gesto di pietà umana che ho ricevuto nei 152 giorni. Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po’ troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell’urlo disperato che ho sentito dall’altra parte, la linea è caduta.

 

La prigionia 

Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale, non ho mai provato cos’è l’umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e sentirsi sempre dire no. Credo che c’era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l’occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero.

 

I tentativi di fuga 

La prima volta, il nostro custode probabilmente quella sera si era addormentato, siamo usciti dalla casa e ci siamo diretti verso delle luci,pensavamo fosse AlQusayr. Dopo duecento metri ci hanno ricatturati. La seconda volta invece, eravamo in un’altra località, nell’ultimo periodo della nostra detenzione. Abbiamo approfittato della distrazione di questi quattro ragazzi, che la sera spesso non badavano alle loro cose, ai loro giubbotti con i caricatori, ai kalashnikov, abbandonati vicino alla nostra stanza. Abbiamo preso due granate, pensando di utilizzarle per aprirci la strada. Le ho nascoste sotto un sofà distrutto. Pensavamo di sorprenderli, prender loro un telefonino, telefonare a casa, in Italia, per farci guidare in questa fuga. Purtroppo, o per fortuna, perché credo che un simile tentativo mi avrebbe creato enormi problemi morali, la cosa non è andata in porto. Ma una sera non hanno chiuso con la catena la porta della casa, siamo usciti, dopo aver preso i due kalashnikov, siamo fuggiti verso il confine di Bab al Hawa. Conoscevo quella zona, perché ci ero stato a gennaio.

 

Ridotto a merce Ci siamo nascosti in una specie di rudere nella campagna. Abbiamo cercato di attraversare il confine di notte, ma abbiamo scoperto che c’erano i campi minati. Siamo arrivati fino al filo spinato e siamo dovuti tornare indietro. Abbiamo fermato un’auto col kalashnikov, abbiamo chiesto al guidatore di portarci in un villaggiolì vicino. Ma c’era un posto di blocco.Ci hanno sparato, fermato e riportato verso la casa dove ci tenevano e ci hanno consegnato ai carcerieri per punirci. Ci hanno chiuso in una specie di sgabuzzino con le mani legate dietro la schiena, quasi incaprettati e ci hanno tenuti così per tre giorni. Il nostro valore era quello di una mercanzia. Non si può distruggere la mercanzia, se no si rischia di non ottenere più il suo prezzo. E ti senti veramente come un sacco di grano, un oggetto che vale in quanto vendibile. Ti possono prendere a calci ma non ti possono ammazzare perché se ti guastano troppo, o definitivamente, non ti possono più vendere. È l’orribile legge dell’ostaggio.

 

Le cose semplici della vita 

Una volta ho parlato con Georges Malbrunot, giornalista del «Figaro» che è stato forse uno dei più celebri ostaggi, molti anni fa, durante la guerra Iraq-Iran. Credo che sia stato ostaggio quattro mesi, in condizioni forse addirittura peggiori delle mie, in una grotta. E raccontava questa depauperizzazione di tutto ciò che uno è, che sono le scarpe, i vestiti... Io sono stato cinque mesi senza scarpe, camminando a piedi nudi. Per cinque mesi il mio ritmo di vita è diventato il sole che spunta e il sole che tramonta. E poi l’impossibilità di fare tutte le cose che costituiscono la vita: camminare, muoversi, incontrare altre persone, scrivere leggere, guardare il paesaggio, sognare di fare delle cose che poi magari non fai, che sono il tuo modo di vivere. Io per cinque mesi ho vegetato, nel senso stretto della parola, cinque mesi in cui mi è stata succhiata la vita ed è stata sostituita con qualche cosa di artificiale, che è essere un oggetto e lottare contro il tempo. Ho imparato il carattere straordinario di alcune cose semplici, come un bicchiere d’acqua fresca. E poi vedere il sole, perché le finestrelle erano piccole e spesso c’era l’oscurità totale. Camminare, parlare con qualcuno che non fosse sempre questo mio compagno di sventura. E meno male che c’era, perché altrimenti sarei impazzito.

 

I carcerieri Erano di un gruppo che si professa islamista ma in realtà è formato da giovani sbandati che sono entrati nella rivoluzione perché la rivoluzione oramai è di questi gruppi che sono a metà tra il banditismo e il fanatismo. Seguono chi gli promette un futuro, gli dà le armi, la forza, gli versa il denaro per comprarsi i telefonini, computer, vestiti. Le Adidas sono estremamente diffuse in Siria, tutti hanno magliette Adidas, scarpe Adidas, sembra una specie di sponsorizzazione. Questi ragazzi vivono una vita di maschi, senza femmine, comunitaria in cui non fanno nulla e passano la giornata sdraiati sui materassi a bere mate. Credevo fosse una cosa sudamericana invece è estremamente diffuso in alcune zone della Siria. E fumano Marlboro originali americane che fanno arrivare dalla Turchia. Io sembravo più islamista di molti di loro perché non fumo e non bevo. E guardavano la televisione ma l’informazione era l’ultima cosa che gli interessava. Solo filmetti vagamente osé della televisione del Qatar o vecchi film egiziani sentimentali degli anni 50 in bianco e nero o gare di lotta, il wrestling americano oppure una terribile forma di lotta praticata nei paesi arabi in cui tutto è permesso...

 

Le finte esecuzioni 

Per due volte hanno finto di mettermi al muro. Eravamo dalle parti di Al Qusayr. Uno si è avvicinato con la pistola e mi ha fatto vedere che la pistola era carica poi mi ha detto di mettere la testa contro al muro, mi ha avvicinato la pistola alla tempia. Lunghi momenti in cui ti vergogni... io mi ricordo la finta esecuzione di Dostoevskij... ti viene una rabbia perla paura che hai, senti che l’uomo che è vicino a te respira, trasuda il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e sentire che tu hai paura, e ti viene la rabbia perché tu hai paura. È un po’ come quando i bambini, che sono spesso terribilmente crudeli, strappano la coda alla lucertola o le zampe alle formiche. La stessa ferocia terribile.

 

Le trattative Per ridere di noi i nostri carcerieri ogni tanto ci dicevano «due o tre giorni, una settimana, e poi via liberi in Italia» per vedere poi la nostra disperazione... perché aggiungevano una parola... Inshallah... che è il loro modo di mentire senza avere il senso di mentire, inshallah, è successo... Dicevano continuamente «bukrah» che vuole dire domani... poi l’indomani non partiva nessuno. Un gioco veramente crudele, ma negli ultimi tempi quando ci dicevano così noi a nostra volta rispondevamo: «inshallah...» per far capire che avevamo capito. Alla fine, domenica, ho sentito che sarebbe stata la volta buona. Forse per bruciare le piste, abbiamo praticamente attraversato tutto il paese, fin quasi a Deir Azor, nel grande deserto siriano. Ci siamo fermati in una città di cui non saprei dire il nome e poi siamo tornati indietro rifacendo la stessa strada. Una sorta di depistaggio. E poi siamo stati liberati. E questa volta non era Inshallah. Ci hanno fatto scendere dalle macchine dall’altra parte del confine, dicendo di camminare. Confesso di aver pensato che ci avrebbero sparato nella schiena, era buio, era notte, domenica dopo il tramonto. Ho pensato che se avessi sentito il rumore del caricatore mi sarei buttato per terra. Ero sicuro che mi avrebbero eliminato, avevamo visto le loro facce, sapevamo i loro nomi. E invece nessuno ha caricato il kalashnikov. E poi ho sentito voci italiane. Inshallah, questa volta era la volta buona.

 

I libri 

Io viaggio sempre con i libri, piuttosto rinuncio a tre ricambi di magliette. Questa volta ne avevo quattro. Due libri di un autore che sciaguratamente oggi è stato dimenticato, Erich Maria Remarque, due opere forse un po’ minori «Tempo di vivere, tempo di morire» e «La via del ritorno» che è la storia del ritorno di alcuni reduci tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Un po’ il simbolo anche della mia via del ritorno che non riuscivo a trovare. Norman Mailer, «Il nudo e il morto» e poi «Delitto e castigo» di Dostoevskij. Li ho letti e riletti. Posso raccontare tutti i personaggi, recitarli all’indietro. Li ho portati dietro di me con fatica perché pesavano, ho marciato con loro per due notti e per due giorni durante la ritirata di Al Qusayr. Me li hanno sequestrati l’ultimo giorno. I libri ti parlano. Ma per un certo periodo non mi hanno parlato più, scorrevano le parole, le storie i personaggi... Se farò altri viaggi del genere mi porterò sempre la «Recherche» di Proust, il «Don Chisciotte», libri lunghi, molto lunghi... aiuta.

 

La fede 

In tutta questa esperienza c’è molto Dio. Pierre Piccinin è un credente. Io sono un credente. La mia è una fede molto semplice, la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere.È la storia di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito. Avevo anche un mio bloc notes e ogni giorno segnavo ciò che succedeva.L’avevo quasi finito, mancavano due pagine. L’ultimo giorno me l’hanno preso. Mi è servito soprattutto a tenere il conteggio dei mesi, dei giorni,perché se uno perde il senso del tempo affonda in un pozzo da cui non esce più.


da - http://lastampa.it/2013/09/10/esteri/il-racconto-di-domenico-quirico-io-tra-bombe-fughe-e-umiliazioni-zkKhtCQSKkvLZOxHfADAlO/pagina.html
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 14, 2013, 07:44:50 pm »

esteri
14/09/2013 - il racconto di Domenico Quirico: “Ero pronto a morire ma uccidere è difficile”

Tutto esaurito al Teatro Carignano per l’inviato rilasciato in Siria: “Il mio errore? La vanità”

Marco Bardazzi
[marco bardazzi su g+]


Si può essere pronti a morire, in cambio di un’ultima corsa «nella notte meravigliosa della Siria» e della libertà di sentire ancora una volta una voce amata al telefono. Si può essere pronti a uccidere, anche se le persone a cui stai per togliere la vita sono ormai parte della tua.
Si può chiedere scusa pubblicamente dal palco a due figlie, davanti a centinaia di sconosciuti in platea, «perché la mia vanità le ha rese vittime». Domenico Quirico non è più solo un grande reporter di guerra: gli eventi degli ultimi cinque mesi lo hanno reso un inviato alla scoperta delle domande ultime dell’uomo. 

Vita, morte, vanità, umiltà, paura, peccato, grazia, Dio: nel suo racconto dei 152 giorni di prigionia in Siria, c’è ben più della narrazione di eventi e dell’analisi geopolitica di un Medio Oriente che ama e che l’ha tradito. I suoi lettori lo hanno capito ed è anche per questo che ieri il Teatro Carignano, nel cuore di Torino, è stato preso d’assalto per ascoltare il colloquio sul palco tra Quirico e il direttore de «La Stampa», Mario Calabresi. Tutto esaurito all’interno, in centinaia all’esterno davanti a un maxischermo, migliaia collegati su LaStampa.it per seguire la diretta streaming, realizzata con l’ausilio della Web Car, la redazione mobile de «La Stampa» per i collegamenti via satellite.

Giovani e anziani, autorità e gente comune: c’era un popolo variegato al Carignano. «Mi interessava tantissimo vederlo e ascoltare il suo racconto dal vivo, dopo aver sempre seguito quello che scrive», ha detto all’ingresso Maria Grazia Pronzati, torinese, una delle centinaia di persone che un’ora prima dell’evento erano disposte in una coda che si snodava per tutta la piazza. «Posso solo immaginare cosa abbia passato quella sua povera famiglia, in tutti questi mesi», ha aggiunto un’altra lettrice, Angiola Aluffi, stringendo il cartoncino che dava diritto all’ingresso gratuito all’incontro, organizzato da «La Stampa» con il Teatro Stabile di Torino.

Proprio alla famiglia, in particolare alle figlie Eleonora e Metella sedute in prima fila, Quirico ha voluto riservare le prime riflessioni, rispondendo alle domande di Calabresi. «Mi sono chiesto più volte - ha detto - se ho commesso errori tecnici in questa storia. Il mio errore è stata la vanità. L’idea che nel mio mestiere sono in grado di arrivare dovunque. Per la prima volta mi sono accorto che la mia vanità fa delle vittime.
Ci sono le mie figlie qui, a cui ho provocato un dolore immenso. Se uscirò migliore da questa storia, avrò imparato che non sono solo.
Avrò imparato l’umiltà nel mio mestiere».

A una platea che lo ha seguito in un silenzio assoluto - interrotto da esplosioni di applausi -, Quirico ha spiegato di avere una strada precisa da imboccare: «Se scegliessi di odiare chi mi ha rubato questi mesi di vita, resterei ostaggio. Non posso, l’unica speranza che ho è recuperare
l’umiltà e chiedere perdono alle mie figlie».

Quegli uomini che si sforza di non odiare, Quirico con il compagno di prigionia Pierre Piccinin è arrivato a un passo dal provare a ucciderli.
I due ostaggi si erano impadroniti di due granate e hanno discusso a lungo su se e come usarle per ammazzare i quattro carcerieri.
«Avevo un problema morale: ero in grado di farlo? Erano i miei torturatori, ma in qualche misura erano diventati parte della mia vita. Di uno sapevo che aveva famiglia, dei figli. Un altro era un ragazzo di campagna. Un terzo mangiava in continuazione, con la fame bulimica dei poveri e dei miseri. Il quarto era sempre al telefono, con presunte fidanzate». Privato di tutto, Domenico Quirico ha provato il tormento di dover decidere se privare altri della vita. 

Gli eventi lo hanno aiutato. Impugnati due kalashnikov (ma purtroppo nessun telefonino), Quirico e Piccinin sono riusciti a fuggire verso il confine turco mentre tutti dormivano. Una fuga andata male, ma che Domenico ricorda come un momento di liberazione che va al cuore del desiderio di libertà di ogni uomo. «Sentivo il bisogno di correre, di parlare al telefono, di sentire la voce di mia moglie e delle mie figlie. Le notti siriane sono meravigliose. Sentire l’aria della notte, conquistare di nuovo quella notte dopo tanta prigionia: per quello, per correre ero disposto a pagare qualsiasi prezzo, anche la vita».

«Siamo arrivati così tante volte vicino alla libertà - ha raccontato Quirico - ma ogni volta svaniva. Abbiamo pregato molto, Dio era con noi in quella cella. Ma a un certo punto ho pensato che fosse evaporato. Invece era sbagliato il modo in cui ci rivolgevamo a lui.

Dio non fa patti, non è un supermercato. Questa è la lezione di Dio: bisogna saper attendere. Aspettare. Come Giobbe, che attende, perde tutto e lo riavrà moltiplicato per dieci». 


da - http://lastampa.it/2013/09/14/esteri/quirico-ero-pronto-a-morire-ma-uccidere-difficile-xVg5f6jPdt6nMASIgG3YfK/pagina.html
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