LA-U dell'OLIVO
Aprile 30, 2024, 06:35:46 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7
  Stampa  
Autore Discussione: Luigi ZINGALES. -  (Letto 51068 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #75 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:41:42 am »

Opinioni

Quasi generoso il giudizio di S&P

di Luigi Zingales

L'agenzia Usa ha abbassato il rating del nostro debito ad appena due gradini sopra il livello "spazzatura". Saccomanni ha risposto: dati vecchi.
Ma senza le auspicate riforme strutturali c'è il rischio di una ulteriore bocciatura

(18 luglio 2013)

Mentre l'Italia politica è assorbita dalle sorti giudiziarie di Berlusconi, la famosa società di rating americana Standard & Poor's (S&P) declassa il debito del nostro governo a BBB, appena due gradini sopra il livello cosiddetto "junk", ovvero spazzatura. Il ministro dell'economia Saccomanni ha risposto per le rime, accusando S&P di basare le sue valutazioni su informazioni datate, che non tengono conto delle recenti misure pro crescita del governo. Lo spread si è alzato, ma non di molto. Sbaglia allora Standard & Poor's? Oppure l'Italia rischia veramente di finire tra la spazzatura?
E se così fosse, quali sarebbero le conseguenze?

La decisione di declassare - scrive S&P - nasce «da un peggioramento delle prospettive economiche italiane, dopo un decennio in cui la crescita reale è stata -0,04 per cento». L'Italia, quindi, non soffre di un problema di bilancio, ma di crescita. E' la mancanza di crescita che mette a rischio la solvibilità del nostro debito. Il motivo è semplice. Una condizione necessaria per la solvibilità è che il rapporto debito-Prodotto interno lordo (Pil) non cresca all'infinito. Per prevenire questo rischio è necessario che il denominatore (Pil) cresca almeno tanto velocemente quanto il numeratore (debito). Se il Pil, invece di salire, scende, per mantenere costante il rapporto è necessario ridurre il debito attraverso un avanzo di bilancio.
Ma quanto è plausibile un significativo avanzo quando siamo riusciti faticosamente a contenere il deficit al 3 per cento?

Ovviamente un'analisi di solvibilità non si può basare su semplici dati puntuali: occorre guardare alle prospettive di lungo periodo.
Salvo drastici cambiamenti, però, le prospettive future saranno simili a quelle passate: crescita zero. Se l'Italia continua a questo ritmo, per mantenere il rapporto debito-Pil costante è necessario che il numeratore non cresca, ovvero che il bilancio pubblico sia in pareggio. Questo obiettivo è tanto più difficile, quanto più elevata è la spesa per interessi. Con un costo del nostro debito pari a 300 punti al di sopra dell'inflazione, per mantenere un bilancio in pareggio dovremmo avere un avanzo primario (ovvero al netto delle spese degli interessi) pari al 3,8 per cento del Pil.
Se poi volessimo ricondurre in 20 anni il rapporto debito-Pil al livello degli accordi di Maastricht (60 per cento), dovremmo avere un avanzo del 5,5 per cento l'anno. Negli anni dello sforzo per entrare nell'euro l'Italia raggiunse picchi di avanzi primari superiori al 6 per cento. Ma si trattò di due anni. Poi scesero rapidamente, fino ad arrivare allo zero. Per impedire che il debito esploda dovremmo mantenere un 3,8 per cento in media. Questo significa che se in un anno di recessione l'avanzo primario è pari a zero, quello successivo deve essere pari a 7,6 per cento del Pil!

Questi semplici calcoli dimostrano che senza un po' di crescita, il nostro debito è difficilmente sostenibile. Ma da dove viene la crescita?
Cosa è cambiato in Italia per farci sperare che dopo dieci anni di crescita zero il paese si risvegli?

Per far ripartire la crescita Standard & Poor's suggerisce una riforma fiscale, ma esattamente nella direzione opposta da quella presa dal governo.
La società di rating si auspica un aumento delle imposte su proprietà (Imu) e consumo (Iva), ed una riduzione di quelle sul capitale (Irap) e sul lavoro (Irpef). Contemporaneamente vorrebbe una riduzione delle spese correnti a favore di quelle di investimento.

Data la differenza tra auspici di S&P e proposte del governo, non stupisce che l'agenzia pronostichi una probabilità superiore al 33 per cento di un ulteriore declassamento dell'Italia. Questo declassamento potrebbe far alzare i tassi, innescando per l'Italia una spirale negativa: alti tassi-alto deficit, alto deficit-alti tassi. E' questa possibilità che giustamente teme il ministro Saccomanni. Per esorcizzarla, però, non basta attaccare S&P: occorre seguirne i consigli, con una riforma sia dell'imposizione fiscale che della spesa, con vendite di patrimonio pubblico, e riforme strutturali del mercato del lavoro e dei servizi. Ma quanto sono probabili queste riforme? Viene da dire che S&P è stata quasi generosa.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quasi-generoso-il-giudizio-di-sampp/2211902/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #76 inserito:: Agosto 24, 2013, 04:24:31 pm »

Ecco che torna la finanza creativa

di Luigi Zingales


La moda è americana: invece di dare sussidi alle banche, si dà una garanzia pubblica a chi presta loro dei soldi. Oppure, come si pensa di fare oggi in Italia, di garantire il buon esito dei prestiti. È una strada rischiosa per il contribuente

(09 agosto 2013)

Una delle novità di politica economica introdotte dal governo americano durante la crisi finanziaria del 2008 fu l'uso massiccio di garanzie statali. Invece di aiutare le banche direttamente con dei sussidi, il governo scelse di farlo indirettamente, garantendo a chi prestava alle banche di riottenere i propri soldi, indipendentemente dalla sorte della banca a cui avevano prestato. Iniziato sotto Bush, l'uso delle garanzie statali come strumento di politica economica continuò con l'amministrazione Obama.

Come tutte le mode americane (buone o cattive che siano) anche questa è arrivata in Italia. Uno dei primi provvedimenti del governo Monti fu la garanzia statale per le obbligazioni bancarie contenuto nel decreto Salva Italia. Anche il governo Letta nel suo primo decreto ha aumentato di 200 milioni la dotazione del Fondo centrale di garanzia per le piccole-medie imprese. Ma è poca cosa rispetto a quello che Letta sta preparando: 50 miliardi di garanzie ai prestiti che le banche faranno alle piccole e medie imprese.

E' facile capire perché le garanzie siano diventate uno strumento di politica economica così popolare: non comportano alcun esborso di cassa immediato. In un momento in cui i soldi non ci sono, basterebbe questo motivo per spiegare il loro successo. Ma non è l'unico motivo. Proprio perché sembrano non costare nulla, le garanzie permettono di fornire forti sussidi a gruppi politicamente influenti senza suscitare violente reazioni popolari. Cosa avrebbe tuonato Grillo se il governo Monti avesse regalato alle principali banche italiane 3,5 miliardi l'anno per i prossimi cinque anni? Eppure il valore di mercato delle garanzie offerte dal decreto Salva Italia alle nostre banche è più o meno questa cifra: almeno 4 punti percentuali di sconto rispetto al prezzo di mercato delle garanzie su un ammontare di debiti pari a 86 miliardi. Se la reazione di indignazione è stata contenuta, è perché il costo era invisibile.

Anche se il costo è invisibile, poi spesso il conto bisogna pagarlo. Per anni il Tesoro americano si è cullato nell'illusione che la garanzia offerta ai due giganti dei mutui (Fannie Mae e Freddie Mac) fosse senza costo. Perfino il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz aveva dichiarato che la probabilità di default di uno dei due giganti «è nettamente inferiore a una su 500 mila, e potrebbe essere meno di una su 3 milioni." Ma nel 2008 sia Fannie Mae sia Freddie Mac fallirono e il governo americano dovette sborsare quasi 200 miliardi di dollari per ripianare le perdite.

Le garanzie che il governo Letta si appresta a fornire alle banche sembrano ancora più pericolose. Invece di subentrare solo se le perdite sono superiori a un certo livello, il governo si assumerebbe metà del rischio su ogni nuovo prestito emesso. Dato un tasso di perdite intorno al 9 per cento, garantire al 50 per cento 100 miliardi di prestiti costerebbe al governo "solo" 4-5 miliardi (pari all'incirca all'Imu sulla prima casa). Purtroppo il rischio è che le banche scelgano di estendere questi prestiti ai loro clienti peggiori, quelli che hanno già in carico e da cui non si aspettano di essere ripagati. Rinnovando i prestiti con la garanzia statale, le banche sarebbero in grado di scaricare metà delle perdite già subite sui conti pubblici, con effetti devastanti sul bilancio pubblico. E invece di stimolare prestiti alle nuove imprese, queste garanzie avrebbero l'effetto di tenere artificialmente in vita imprese zombie, con effetti deleteri sull'economia.

Come se non bastasse queste garanzie, vendute come un aiuto alle piccole e medie imprese, rischiano di trasformarsi in un aiuto alle sole banche. In un mercato perfettamente competitivo, non importa chi riceve il sussidio, questo finirà sempre per favorire il consumatore (in questo caso le imprese). Ma il nostro mercato bancario è lungi dall'essere perfettamente competitivo. Quindi una parte notevole del sussidio rischia di finire nelle mani della banche, le quali sono possedute a loro volta da fondazioni di nomina politica. Così, alla fine, è sempre la politica che finanzia se stessa, a spese dei contribuenti.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ecco-che-torna-la-finanza-creativa/2212812
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #77 inserito:: Settembre 14, 2013, 07:42:23 pm »

Opinione

Un'idea per la tanto odiata Imu

di Luigi Zingales

Se aumentano le tasse sulle sigarette o sulla benzina se ne può ridurre il consumo. Con la casa non si può fare. Lo Stato offra agli anziani di rinviare il pagamento al momento della vendita o del passaggio di eredità dell'immobile

(30 agosto 2013)

"Cancelleremo l'Imu sulla prima casa." Con questo slogan Berlusconi per un soffio non ha vinto le elezioni. In un Paese tartassato dalla imposte non è difficile capire perché questa promessa suoni come musica alle orecchie di molti elettori. Il programma del Pdl, però, non colpiva tutte le imposte alla stessa stregua. Per l'Irap era prevista solo una riduzione nel giro di cinque anni, per l'Iva si escludeva solo un aumento, mentre per l'Irpef le proposte erano ancora più vaghe, forse per far dimenticare le promesse non mantenute. Non si trattava neppure di una riduzione del carico fiscale complessivo: per il Pdl l'Imu doveva essere sostituita da imposte sui giochi ed i tabacchi. Perché allora tanta enfasi sull'eliminazione dell'Imu? Perché Berlusconi aveva capito che l'Imu è oggi l'imposta più odiata dagli italiani. Ma perché è così odiata?

Da un punto di vista economico, un'imposta sulla proprietà della casa ha molte ragioni d'essere. Innanzitutto, è un modo per diversificare il peso fiscale. Ogni imposta ha un effetto distorsivo tanto maggiore quanto più è elevata. Per questo è meglio diversificare il prelievo attraverso tipi di imposte diverse. In secondo luogo, perché la distorsione provocata da un'imposta è tanto peggiore quanto più è mobile il soggetto tassato. Se si tassano le imprese, queste possono spostarsi all'estero, se si tassano le persone, queste possono emigrare, ma se si tassano le case, queste non possono sfuggire. Al peggio verranno ridotti gli investimenti in nuove abitazioni, un problema relativamente limitato in un Paese in cui l'82 per cento delle famiglie possiede una casa. Per finire, un'imposta locale sulla casa facilita il collegamento tra imposizione e servizi resi. Negli Stati Uniti il modulo per il pagamento dell'imposta annuale sulla casa contiene una dettagliata descrizione dell'uso che il comune fa dei proventi. Questo responsabilizza le amministrazioni locali di fronte ai propri elettori.

Se un'imposizione sulla casa ha tutti questi benefici, perché è così odiata? In parte è la modalità del prelievo. Per la maggior parte delle persone, il prelievo dell'Irpef avviene alla fonte e l'Iva viene incorporata nel prezzo di acquisto. Il peso di queste imposte, quindi, è meno visibile di quello dell'Imu. La diffusione della proprietà della casa, contribuisce all'impopolarità dell'Imu.

Ma quello che la rende così impopolare è la difficoltà che i cittadini incontrano quando aumentano le tasse sulla casa. Di fronte ad una nuova imposta sui tabacchi, un cittadino può limitare il proprio carico fiscale riducendo il numero di sigarette fumate. Di fronte a un aumento dell'imposta della benzina, può fare altrettanto acquistando una macchina con un consumo più contenuto. Per la casa, però, questo aggiustamento parziale è molto più complicato. Non è facile ridurre di una stanza la propria abitazione ed è estremamente costoso vendere la propria casa per traslocare in una più piccola. Nel lungo periodo, la gente si abitua comprando meno case o case più piccole, ma nel breve periodo questo aggiustamento è costosissimo. Le persone anziane, per esempio, che vivono in case acquistate decenni orsono si trovano spesso a possedere una casa di un valore spropositato rispetto al proprio reddito e non possono facilmente vendere un pezzo di casa per pagare l'imposta. Se non è giusto accollare sui giovani lavoratori il peso fiscale dei servizi per le ricche magioni dei pensionati, è ancora più crudele costringere dei vecchietti alla scelta tra vendere casa e non mangiare.

Per rendere l'Imu meno impopolare si sarebbe dovuto offrire ai proprietari a basso reddito l'opzione di posticipare il pagamento dell'imposta al momento della vendita o del passaggio di eredità dell'immobile. In altri termini, trasformare per loro l'imposta in un mutuo nei confronti dello Stato, un mutuo i cui gli interessi vengono pagati tutti alla vendita. In questo modo si sarebbero aiutati gli anziani, senza sovraccaricare i giovani lavoratori. Per assicurare il gettito immediato allo Stato, la Cassa Depositi e Prestiti avrebbe potuto scontare questi mutui a tassi agevolati. Se Monti avesse disegnata l'Imu in questo modo, forse oggi non avremmo il Pdl al governo ed avremmo più spazio per ridurre altre imposte.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/unidea-per-la-tanto-odiata-imu/2214000/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #78 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:29:11 pm »


Commenta

Libero mercato

Obama delude pure in economia

di Luigi Zingales

Alla maldestra gestione del caso Siria si affianca un calo di popolarità per le politiche anti-crisi. Pil e Wall Street salgono, ma il Presidente ha deluso la classe media che da lui si aspettava molto. E che invece sta peggio di prima

(20 settembre 2013)

Il sostegno alla politica estera del presidente Barack Obama è crollato dopo la maldestra gestione della crisi siriana. Secondo un sondaggio di Pew Research/USA Today solo il 33 per cento degli americani approva il suo operato in questo campo. Ma i sondaggi sulla sua politica economica non sono molto meglio: Gallup riporta una percentuale di consenso di solo il 35 per cento, contro un 62 di contrari. Questi sondaggi sono più difficili da capire visto lo stato dell'economia. Il Prodotto interno lordo (Pil) Usa entra nel suo quinto anno di crescita, con un + 2,5 per cento. La disoccupazione, che nei primi mesi del suo mandato aveva raggiunto il 10 per cento, è scesa al 7,3. Il mercato azionario ha raggiunto nuovi massimi, superando il livello pre crisi. Qualsiasi leader europeo darebbe la mano destra per avere indicatori economici a questi livelli, perché ad Obama questo non basta?

In parte si soffre per l'eccesso di aspettative. Nel 2008 la campagna elettorale di Obama aveva aspetti messianici: «Io sono quello che tutti noi stiamo aspettando», diceva uno dei suoi slogan. Partendo da questi livelli è difficile non deludere. Gli strascichi della situazione economica che ha ereditato (la peggiore del dopoguerra) contribuiscono a creare scontento. Un disoccupazione del 7,3 per cento può sembrare bassa ad un italiano, ma per un americano, abituato al 5 per cento, è causa di scontento. Come nel caso della Siria, però, l'impopolarità di Obama è anche frutto dei suoi errori e della sua inesperienza.

Il principale errore di Obama (e dei suoi advisor) è di non aver capito la natura della crisi. Recessioni prodotte da crisi finanziarie sono profondamente diverse dalle tipiche recessioni prodotte da una contrazione monetaria. Tagli fiscali e una politica monetaria espansiva bastano a curare le seconde. Per le prime occorrono interventi per favorire la rinegoziazione del debito e la ricapitalizzazione del settore finanziario. Obama è stato timido o inesistente su entrambi i fronti. Ha preferito giocare tutto il suo potere sulla riforma sanitaria. Su questo fronte ha ottenuto un risultato eccezionale ed irreversibile: l'assistenza medica per tutti. Il modo come questo risultato è stato raggiunto, però, ha avuto forti conseguenze negative sull'economia. L'aumento dei costi per le imprese ha ridotto gli incentivi ad assumere. E il probabile buco di bilancio creato dalla riforma contribuisce ad aumentare i timori per l'esplosione del livello debito, che sotto il suo mandato è quasi raddoppiato.

In campagna elettorale Obama aveva promesso di andare al di là delle divisioni partitiche. In pratica si è dimostrato incapace di mediare tra i repubblicani, che controllano la Camera, e i democratici. Una grossa fetta di colpa va ai repubblicani, che sembrano giocare la strategia del tanto peggio tanto meglio. Ma un buon presidente è in grado di esercitare moral suasion e di scendere a compromessi, come fece Clinton quando si trovò di fronte una maggioranza repubblicana al Congresso. Obama non è stato in grado di farlo.

Ma il fallimento più grande che gli americani rimproverano ad Obama è di non aver mantenuto la promessa di difendere la classe media. Nonostante il Pil sia il 4 per cento sopra al livello pre-crisi, almeno la metà delle famiglie americane sta peggio oggi di cinque anni fa. Neppure George W Bush aveva fatto così male. Dobbiamo concludere che la sua politica economica è stato un fallimento? No. L'assistenza medica per tutti è stato un grosso risultato. La politica nei confronti di Gm e Chrysler ha funzionato meglio di ogni più rosea previsione, creando 341mila posti di lavoro nel settore automobilistico. E il pacchetto di stimolo fiscale approvato appena eletto, pur sbilanciato nei suoi contenuti, ha contribuito ad evitare il peggio durante la crisi.

La colpa principale di Obama è di aver deluso le attese. Nel 2008, all'inizio delle primarie americane, lamentavo su "l'Espresso" la mancanza di esperienza gestionale dei principali candidati. Purtroppo, la storia mi ha dato ragione. La presidenza Obama conferma che saper far bene campagna elettorale non equivale a saper governare bene. E' una lezione che anche noi italiani dobbiamo tenere bene a mente.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/obama-delude-pure-in-economia/2215360/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #79 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:12:09 pm »

Luigi Zingales

Libero mercato Opa, peggio la toppa del buco

Va bene difendere i piccoli azionisti. Ma le norme sulle Offerte pubbliche di acquisto non sono la soluzione giusta. Perché creano incertezza, cristallizzano il controllo delle società e danno troppo potere alla Consob


Da giornalista, Massimo Mucchetti ha sempre difeso l’italianità delle imprese. Da senatore, invece, Mucchetti si è riscoperto difensore dei piccoli azionisti, tanto da farsi promotore, col deputato Pdl Altero Matteoli, di una modifica della normativa sulle offerte pubbliche di acquisto (Opa). Oggi chi compra un pacchetto di azioni di una società quotata ha l’obbligo di estendere l’offerta, allo stesso prezzo, a tutti gli azionisti solo se questo pacchetto supera il 30 per cento dei voti. Sotto questa soglia l’obbligo non sussiste anche quando il pacchetto garantisce il controllo di fatto. Non sorprendentemente la maggior parte dei trasferimenti di controllo avvengono al di sotto della soglia, senza compensare il mercato. La proposta di Mucchetti-Matteoli è molto semplice: estendiamo l’Opa obbligatoria anche al controllo di fatto. Come rappresentante delle minoranze di Telecom nonché suo piccolissimo azionista, questa norma mi protegge. Ma in genere è la soluzione giusta?

PURTROPPO il problema non è così semplice. Il vantaggio di una soglia predeterminata è nella sua oggettività. Se dobbiamo basarci su un concetto ambiguo, come quello del controllo di fatto, chi e come dovrebbe verificarlo? La proposta Mucchetti-Matteoli definisce per controllo di fatto «il potere di nomina, con voto determinante in almeno due assemblee ordinarie, di amministratori che abbiano poteri tali da esercitare un’influenza dominante sulla gestione sociale». Il compito di stabilire l’«influenza dominante sulla gestione sociale» spetterebbe alla Consob. Ma, siccome in Italia i consigli durano un triennio, potrà farlo solo dopo due tornate elettorali, ovvero in media dopo quattro anni e mezzo dalla transazione!

Oltre a creare un’enorme incertezza, la normativa proposta cristallizzerebbe il mercato del controllo societario. Pur di evitare il rischio di condividere il premio di controllo, i proprietari attuali farebbero come i Ligresti: porterebbero la società al collasso anziché vendere. Col risultato che per gli azionisti di minoranza il premio di controllo diventerebbe una chimera, mentre il fallimento una realtà.

LA NORMATIVA proposta fornirebbe anche un’enorme opportunità per discriminare gli acquirenti stranieri, come dimostrato dal recente passato. La normativa vigente permette alla Consob di esentare dall’obbligo di Opa gli acquirenti di società in crisi. Quando il gruppo assicurativo francese Groupama tentò di comprare Fonsai, la Consob non concesse l’esenzione, che fu invece concessa a Unipol. Ovviamente non mancano le differenze tra i due casi: ma proprio qui è il punto. La tendenza nostrana al cavillo permetterebbe una gestione politica del mercato del controllo societario. È questo il vero obiettivo della norma?

Nonostante i suoi possibili fini, la difesa dei piccoli azionisti sostenuta da Mucchetti è sacrosanta e merita maggiore attenzione. La vera ingiustizia, però, non è tanto la mancata condivisione del premio di controllo nel (raro) caso di trasferimento del medesimo, ma l’esistenza stessa di un elevato premio di controllo. Se un blocco del 20 per cento vale due volte la somma di 20 blocchi dell’1 per cento è perché chi ha il controllo sottrae valore ai piccoli azionisti a proprio vantaggio. Qui si deve intervenire. Ma come?

Come ci insegna il caso Ligresti, il tallone d’Achille sono le operazioni con parti correlate (Opc). È con queste operazioni che i controllori sottraggono risorse agli azionisti. L’introduzione nel 2010 del Regolamento sulle Opc ha già messo in crisi il capitalismo di relazione, che di queste operazioni viveva. Ma non basta: non tutte le società applicano la normativa in modo rigoroso, i consiglieri sono spesso troppo proni al volere di chi li ha nominati e i sindaci chiudono entrambi gli occhi. Per questo è necessario rafforzare i poteri e la rappresentanza delle minoranze azionarie. Ma il problema maggiore è che la Consob non interviene a punire chi sbaglia. Proprio per questo sarebbe ironico che, per rimediare a una grave deficienza della Consob in un campo, le si dessero maggiori poteri in un altro.

05 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2013/10/30/news/opa-peggio-la-toppa-del-buco-1.139522
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #80 inserito:: Dicembre 13, 2013, 05:30:46 pm »

Luigi Zingales
Libero mercato

Dal capitalismo al familismo

Ha ragione Vegas, presidente della Consob, quando dice che la crisi ha reso più complicata la finanza di relazione. Ma in Italia il vero problema è che le imprese, invece di competere, si scambiano favori. E anche i regolatori...

Le notizie sulla mia morte sono state grandemente esagerate... Viene spontaneo ricordare questa battuta di Mark Twain di fronte alle dichiarazioni del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, sulla fine del capitalismo di relazione in Italia.

Vegas ha ragione quando dice che la crisi economica ha reso troppo costosa la ragnatela di partecipazioni incrociate volte a proteggere i manager dalla disciplina del mercato. Vegas ha ragione anche quando dice che il regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate ha giustamente ridotto i benefici di questa ragnatela. Ma più ancora che sulle partecipazioni incrociate e le operazioni in conflitto il capitalismo di relazione in Italia si regge sul familismo amorale della nostra classe dirigente. Senza cambiare quello, non c’è un vero miglioramento.

Per apprezzare il problema è importante capire le differenze tra il capitalismo di mercato e quello di relazione. In un sistema di mercato ogni transazione viene effettuata sulla base della convenienza economica della transazione stessa. In un sistema di mercato quando la Fiat (per fare un esempio ipotetico) compra pneumatici guarda solo al miglior rapporto qualità prezzo. In un capitalismo di relazione, invece, le transazioni vengono analizzate nel complesso delle relazioni esistenti. In questo caso la Fiat potrebbe scegliere pneumatici Pirelli, anche se più costosi, in cambio di un sostegno della Pirelli alla scalata della Rcs da parte di John Elkann, presidente della Fiat.

A prima vista può sembrare una forma più cooperativa di capitalismo: invece di competere su tutti i fronti le imprese si scambiano favori. In realtà, questo sistema ha grossi problemi. Innanzitutto, è un sistema che difende l’establishment a danno dei consumatori e dei nuovi entranti. Se, per ipotesi, la Bridgestone offrisse pneumatici migliori, non vincerebbe comunque la commessa perché non è in grado di offrire favori su altri fronti. Solo chi partecipa alla rete di relazioni può competere con successo.

In secondo luogo, è un sistema inefficiente. È facile per la Fiat decidere quale sia lo pneumatico con il miglior rapporto qualità prezzo. È molto più difficile stabilire se l’ipotetico vantaggio ricevuto in Rcs compensi l’ulteriore costo sostenuto nell’acquisto degli pneumatici. Grossi errori sono inevitabili anche quando il capitalismo di relazione è gestito con la migliore buona fede.

Ma queste inefficienze diventano enormi quando la buona fede viene a mancare, perché l’opacità del sistema facilita scambi che, se non illegali, sono certamente immorali. Prendiamo ad esempio le ricche consulenze date da Fonsai al figlio dell’allora presidente dalla Consob, Lamberto Cardia. Furono date perché era il miglior avvocato in giro o come captatio benevolentiae nei confronti del padre che doveva supervisionare Fonsai? Nel secondo caso gli azionisti di Fonsai sarebbero cornuti e pure mazziati: non solo spendono soldi per un avvocato di cui la stessa Lionella Ligresti, all’epoca presidente di Fonsai, dice «non mi sembra un luminare», ma li spendono per assicurarsi che le autorità di vigilanza chiudano un occhio per i benefici privati che i Ligresti godevano a danno della società, benefici che - secondo la testimonianza di un ex dirigente Fonsai - erano pari a 100 milioni di euro all’anno.

Purtroppo, anche grazie al familismo amorale della nostra classe dirigente, questo è il tipo di capitalismo di relazione che prevale in Italia. Le relazioni tra controllori e controllati diventano incestuose e gli arbitri diventano di parte. Secondo alcune testimonianze è quello che sarebbe avvenuto nella fusione Unipol-Fonsai, dove Mediobanca interloquiva con l’Isvap (il regolatore delle assicurazioni) e con la Consob, come fossero partner attivi dell’operazione. Con queste relazioni, nessun concorrente ha una possibilità di riuscita.
Se vuole contribuire a seppellire il capitalismo di relazione, Vegas cominci a cambiare i suoi rapporti con i regolati. Si impegni a non comunicare direttamente con loro, se non in incontri ufficiali (verbalizzati) in presenza degli uffici legali della Consob. Sarebbe veramente un segnale di novità.

 
02 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2013/11/28/news/dal-capitalismo-al-familismo-1.143214
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #81 inserito:: Gennaio 24, 2014, 05:49:35 pm »

Luigi Zingales
Libero mercato

Prendere esempio da Oltretevere
Bergoglio ha dato ai pm carte sullo Ior (suggerimento per il sindaco di Siena?). Ha tagliato le proprie spese (suggerimento per Napolitano?). Ha decapitato la curia (suggerimento per Letta?). Speriamo che ora non finisca come Pio IX...
   
In risposta alle mie critiche sulla scarsa trasparenza delle finanze vaticane, un cardinale americano rispose: «Il problema del Vaticano è che è in Italia». Rimasi folgorato. Da buon laico aveva sempre ritenuto che la presenza del Vaticano fosse uno dei problemi del nostro Paese. Ma se fosse vero il contrario? L’elezione di Papa Francesco rappresenta un test interessante di queste teorie alternative. Riuscirà il cambiamento della Chiesa a cambiare l’Italia o sarà l’Italia a cambiare Bergoglio?

Come la risposta del porporato lascia intendere, l’elezione di Papa Francesco è il risultato di una rivolta dei cardinali americani contro la curia romana. Ad alimentare questa rivolta è stato il comportamento della chiesa di Roma di fronte agli scandali dei preti pedofili esplosi negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni. La chiesa americana si è trovata sola nel difendere errori spesso commessi altrove e si è trovata sola a pagare i pesanti risarcimenti alle vittime. Mentre a Roma l’Istituto opere religiose (Ior) sperperava i propri soldi in investimenti per lo meno dubbi, i vescovi americani rischiavano la bancarotta. Tuttavia gli scandali non sono stati solo un problema finanziario, ma soprattutto un enorme problema di immagine, i cui costi sono stati sostenuti principalmente dalla chiesa cattolica americana. Non tanto perché i maggiori scandali sono emersi lì, ma perché in Italia i media hanno usato il guanto di velluto nei confronti della Chiesa, non così negli Stati Uniti (basta vedere il film «Mea Maxima Culpa»). Queste motivazioni spiegano il forte desiderio di cambiamento tra i cattolici del nuovo continente, che ormai rappresenta la maggioranza nel mondo. I due precedenti papi, anche se non italiani, si erano dimostrati troppo succubi alla curia romana. Ci voleva un papa manager, che portasse trasparenza in Vaticano e riportasse credibilità alla Chiesa Cattolica. Ci voleva un papa al di fuori delle beghe interne alla curia romana. Per questo la scelta cadde su Bergoglio, un papa in grado di coagulare il consenso del Nord e del Sud America.

Nonostante i punti oscuri sul suo passato durante il regime militare argentino, difficilmente si può immaginare una scelta migliore. Bergoglio rappresenta tutto quello di cui la Chiesa (ma anche l’Italia) ha bisogno in questo momento. Senza timore delle conseguenze di immagine, Bergoglio ha trasmesso tutti i documenti compromettenti dello Ior alla magistratura, affinché facesse pulizia (un suggerimento per il sindaco di Siena?). Senza nominare zar incaricati della spending review, ha tagliato i costi subito, a cominciare dalle proprie spese (un suggerimento per Napolitano?). Senza indugio, ha decapitato i vertici della curia romana, portando trasparenza e accountability nelle istituzioni vaticane (un suggerimento per Letta?).

Con coraggio ha rifiutato 300 milioni di depositi di correntisti Ior di dubbia provenienza, dimostrando che è disposto a pagare di persona per difendere i suoi principi. Il tutto condito da un’empatia che non è solo di facciata. Dieci anni prima di essere eletto Papa, Bergoglio lavava i piedi ai malati di Aids, rischiando lui stesso il contagio. È un meraviglioso esempio di leader al servizio della gente, invece che di leader che usa la gente al suo servizio. Il legittimo entusiasmo che il nuovo Papa ha sollevato nasce proprio da un disperato bisogno di leadership tra gli italiani.

Nel 1846, spinto da una coalizione di cardinali favorevoli a una modernizzazione della Chiesa, fu eletto papa Giovanni Maria Mastai Ferretti. La sua elezione generò speranze di cambiamento in tutta Italia. Purtroppo molte di queste speranze andarono deluse. Ciononostante il seme della libertà, alimentato dalla sua elezione, sopravvisse e portò i suoi frutti. L’augurio per il nuovo anno è che la rivoluzione rappresentata dall’elezione di Bergoglio travalichi il Tevere e contagi non solo i Palazzi del potere romano, ma l’Italia intera. E per Papa Francesco l’augurio che non finisca ... come Pio IX. Altrimenti mi tocca dare ragione al cardinale americano.

13 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/01/08/news/prendere-esempio-da-oltretevere-1.148109
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #82 inserito:: Febbraio 11, 2014, 05:25:50 pm »

Luigi Zingales
Libero mercato

Manager stranieri per le imprese di Stato
Il rinnovamento generazionale c’è in politica.
Non nelle aziende, soprattutto pubbliche. Dove la vera svolta sarebbe nominare amministratori delegati di altri paesi: una garanzia di scelte basate sul merito. È chiedere troppo a Letta?

   
L’élite politica italiana si sta rinnovando (almeno dal punto di vista generazionale) e diversificando (almeno in termine di genere). Movimento 5 Stelle a parte, i principali partiti sono guidati da trenta o quarantenni. Un terzo dei ministri del governo Letta sono donne. Abbiamo anche un ministro di colore. Di contro, l’élite economica sembra sempre la stessa: vecchia e di sesso maschile. L’età media degli amministratori delegati delle dieci più grandi società non finanziarie italiane sfiora i sessant’anni e nessuno di loro è di sesso femminile.

Il mancato rinnovamento produce anche una forte omogeneità culturale della nostra élite economica, come si può vedere da raffronti internazionali. Il 60 per cento degli amministratori delegati (Ad) delle dieci principali società non finanziarie inglesi è di origine straniera. In Italia nessuno degli Ad è straniero, solo due hanno un titolo di studio estero, e la metà non ha mai fatto una esperienza di lavoro all’estero in tutta la carriera.

Questi ultimi aspetti, ancora più dell’età, stupiscono. Nel calcio siamo stati in grado di attrarre numerosi allenatori stranieri, perché non siamo in grado di fare altrettanto in campo economico? Gli inglesi riescono ad attirare i manager da tutto il mondo (compreso il nostro Vittorio Colao), perché noi non siamo in grado di fare altrettanto? In un mondo globalizzato, come si fa a gestire una società senza avere avuto esperienza diretta in mercati esteri?

Si potrebbe obiettare che la composizione della nostra business élite è determinata dalle forze di mercato: se è fatta di uomini vecchi e rigidamente italioti vorrà dire che è quello di cui le nostre imprese hanno bisogno. Per quanto attraente questo ragionamento è sbagliato. Molte delle principali società italiane (da Eni a Enel, da Finmeccanica a Poste) sono controllate dallo Stato. I vertici di queste imprese riflettono il clientelismo politico più che l’efficienza economica. Anche per le imprese private, l’interazione con lo Stato rappresenta un importante aspetto strategico. Una scarsa capacità dell’Ad a gestire i rapporti con la politica penalizza un’azienda. Basta guardare le difficoltà di Marchionne, amministratore delegato della Fiat. Ma le colpe non sono solo dello Stato. Il modo di fare business in Italia è diverso, come mi viene costantemente ricordato quando sono in Italia. Le regole non vengono sempre seguite, la tolleranza per l’illegalità è diffusa, e proprio per questo si preferisce un manager fidato a quello bravo. Queste differenze non solo scoraggiano gli stranieri a venire nel nostro Paese: fanno anche emigrare quei nostri compatrioti con una mentalità più internazionale (come è stato il caso di Colao, fuggito all’estero dopo degli scontri con gli azionisti di Rcs).

Se nel breve periodo un Ad autarchico sembra beneficiare un’impresa, nel lungo periodo la trascina nella tomba. Privo di una visione ed esperienza internazionale, è inadatto a fronteggiare la competizione estera. Per di più un Ad autarchico contribuisce a perpetuare il nostro provincialismo: minacciato dai colleghi stranieri si sentirà in dovere di giocare la carta dell’italianità a protezione della categoria.

Per rompere questo stallo è necessaria una terapia shock. Interventi graduali non servono, perché pochi manager diversi verrebbero immediatamente rigettati dal sistema. Per questo ritengo che in occasione dei rinnovi dei vertici delle società a partecipazione statale dovrebbero venir nominati solo manager stranieri. Non perché siano necessariamente più bravi degli italiani, ma perché sarebbero un segnale fortissimo di cambiamento. Cambiamento nel modo di fare politica: sarebbero garanzia di scelte basate sul merito e non sul clientelismo politico. Cambiamento nel modo di gestire le partecipazioni statali: difficilmente uno straniero si presta a quei do ut des tipici dei boiardi di Stato. Cambiamento anche del modo di fare business in Italia. Una massa critica di persone con mentalità diversa permetterebbe al Paese di fare quel salto culturale di cui ha bisogno. È chiedere troppo a Letta?

05 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/01/29/news/manager-stranieri-per-le-imprese-di-stato-1.150422
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #83 inserito:: Marzo 01, 2014, 07:44:47 pm »

Zingales: così il merito può guidare le nomine pubbliche

di Luigi Zingales

Il governo Renzi è alla prova del fuoco. Deve dimostrare che le speranze nel giovane primo ministro sono ben riposte. Deve dare un segnale di cambiamento che ridia fiducia al Paese. Deve fare qualche cosa per rilanciare subito l'economia. Ma cosa?

Il vincolo di bilancio imposto dall'Europa rende difficile una manovra fiscale espansiva. La maggioranza disomogenea rallenta qualsiasi riforma, tantomeno la possibilità di una riforma al mese. E anche se le riforme venissero approvate a ritmo battente, la lentezza della macchina burocratica non ne renderebbe percepibili gli effetti per molti mesi (se non anni). Stiamo ancora aspettando i decreti attuativi di molte delle riforme approvate dal governo Monti. Ma allora che fare? Uno dei pochi campi in cui il potere del governo è assoluto e immediato è quello delle nomine. Nei prossimi mesi ci sono più di 400 nomine da effettuare: dall'amministratore delegato dell'Eni al commissario Consob scaduto già a dicembre.

Tradizionalmente queste nomine sono viste come un'opportunità per distribuire prebende ed ingraziarsi persone, non come una decisione di politica economica. E fintantoché rimangono un puro esercizio di potere, non potranno avere alcun effetto benefico sull'economia. Eppure un cambiamento radicale non solo nelle persone, ma nel metodo, un'affermazione del principio della meritocrazia - sconosciuto in Italia - potrebbe avere un enorme effetto positivo non solo sul morale degli italiani, ma anche sulla nostra economia.

Gestite da persone competenti, le imprese pubbliche comincerebbero a funzionare meglio e le agenzie governative a essere più efficienti. Ancora più importante sarebbe il fatto che i nominati per merito sarebbero liberi di operare nell'interesse dell'azienda, non limitati nelle loro azioni dalla necessità di restituire il favore a chi li ha nominati. Dal vertice delle imprese e delle agenzie governative, il principio della meritocrazia comincerebbe a diffondersi a cascata all'interno delle varie organizzazioni, motivando i dipendenti capaci e isolando faccendieri e intriganti. Quante ore-uomo vengono sprecate ogni giorno nelle nostre imprese in office politics? Se un nuovo metodo di nomina riducesse solo di un terzo questo spreco, il beneficio in termini di efficienza sarebbe enorme.

Non basta. Una rivoluzione meritocratica spingerebbe i giovani a studiare (che serve lo studio se la nomina avviene per conoscenze) e a non emigrare. Una rivoluzione meritocratica ridarebbe speranza a una gioventù che l'ha persa.

Ma come dare inizio a questa rivoluzione meritocratica? Il grande rischio che corre Renzi è quello di pensare di essere in grado di fare meglio di chi lo ha preceduto semplicemente perché lui è diverso (più bravo, più onesto, più giovane, più...). È l'illusione in cui cadono tutti: che sia principalmente un problema che affligge gli altri, non un problema di metodo, che affligge tutti fintantoché il metodo non cambia. In realtà, anche il politico più onesto e ben intenzionato cade vittima di pressioni e raccomandazioni (la fila dei questuanti è pressoché infinita). Tanto più un politico inesperto come Renzi. Lui dovrà inevitabilmente appoggiarsi a consigli di amici e sostenitori. Al vecchio sottobosco se ne sostituirà uno nuovo, forse più giovane, ma non necessariamente migliore.

Non basta neppure la foglia di fico della società di head hunting, usata dal governo Letta. Queste società adempiono un mandato. Se il mandato (esplicito o implicito) è quello di trovare il meno peggio (o il più ammanicato) tra gli amici di chi sta al potere, la maggior parte delle società di revisione si adegua (anche se per fortuna ci sono delle nobili eccezioni).

Per funzionare il metodo di selezione deve essere trasparente e deve ridurre al minimo la discrezionalità del governo nella scelta della persona, pur lasciando al governo stesso la scelta degli obiettivi che questa persona dovrebbe raggiungere. A questo scopo propongo il seguente metodo. Innanzitutto, il governo annuncia dei criteri oggettivi di performance e numero di mandati sulla base dei quali decide se confermare la persona esistente al suo poso. Se la persona va sostituita il governo dichiara pubblicamente le caratteristiche della persona che vorrebbe in quella posizione e gli obiettivi che questa persona dovrebbe conseguire. Sulla base di questa indicazione si chiede alle prime cinque società di cacciatori di teste sul territorio nazionale di presentare un nome ciascuna. Dalla rosa di cinque nomi il governo elimina i due che considera meno adatti e poi sorteggia (in modo pubblico) il nominato tra i tre rimanenti. Le due società di head hunting che hanno proposto il candidato scartato non vengono pagate, le altre tre si dividono la parcella equamente. Alla fine del mandato, se il candidato non ha raggiunto gli obiettivi stabiliti, la società di head hunting che ha proposto il nome del candidato scadente sarà esclusa dalle cinque che presentano un candidato e un'altra verrà inserita nella lista. In questo modo si premia la qualità della scelta e si riduce il rischio che i cacciatori di teste presentino un candidato indicato in modo informale dal governo.

Liberi da debiti di riconoscenza (il governo non nomina, elimina solo) e con precisi obiettivi da conseguire, i nominati potranno finalmente gestire le imprese in modo efficiente e non clientelare. Sarebbe una vera rivoluzione. Una rivoluzione che Renzi può e deve fare. Altrimenti la colpa è solo sua.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-03-01/cosi-merito-puo-guidare-nomine-pubbliche-104007.shtml?uuid=ABWUS3z
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #84 inserito:: Marzo 13, 2014, 11:29:42 pm »

Luigi Zingales
Libero mercato

L’Italicum porterà cattivi politici
Per come sta nascendo, la nuova legge elettorale non cancella il peccato originale del Porcellum perché non elimina le candidature multiple. E i capi sceglieranno la classe dirigente in base alla fedeltà e non al merito

La crisi di governo ha temporaneamente messo in secondo piano la riforma elettorale, ma il problema si riproporrà presto. Altri, più qualificati di me, hanno già discusso come la nuova legge può alterare le future alleanze elettorali e il vincitore delle prossime elezioni. Io voglio analizzare la riforma da un altro punto di vista: come meccanismo di selezione della classe dirigente politica. Nel lungo periodo la qualità di un sistema è determinata dalla qualità delle persone che vi partecipano. In che misura il nuovo sistema proposto (Italicum) migliora i meccanismi di selezione rispetto al sistema oggi in vigore (Porcellum)?

La combinazione di liste bloccate e candidature in multipli collegi rende il Porcellum il peggiore possibile. La lista bloccata toglie libertà di scelta all’elettore. Purtuttavia, se gli elettori conoscessero al momento dell’elezione l’identità del candidato che il loro voto andrà ad eleggere, ci sarebbe almeno un piccolo incentivo per i partiti a scegliere candidati decenti: il partito che presenta dei capilista mediocri, rischia di perdere voti e quindi seggi. Purtroppo, questo non è vero nel Porcellum, per la possibilità concessa di presentarsi contemporaneamente in molti collegi. Grazie a questa possibilità un elettore, quando vota, non sa chi verrà eletto. Il gioco è lasciato in mano ai capipartito che dopo le elezioni decidono per quale collegio optare e quindi chi tra i non eletti andrà in Parlamento. In questo modo i candidati dipendono dai capipartito in due modi: per la scelta di posizione nella lista e per il recupero come primi dei non eletti. Questo potere ha effetti devastanti sulla qualità e il comportamento degli eletti.

Sapendo che la qualità dei candidati è poco visibile agli elettori, di fronte alla scelta tra un candidato competente ed uno fedele i capi di partito sceglieranno sempre quello fedele. Ma non c’è persona più fedele del buono a nulla. Proprio perché buono a nulla non ha alternative e quindi non abbandonerà mai il suo capo, cui deve tutto. Non solo i candidati scelti non saranno tra le persone migliori, non saranno neppure i mediocri. I meccanismi di questo sistema inducono la scelta dei peggiori: una delle cause della peggiocrazia italiana è proprio da ricercarsi in questo sistema elettorale. Se anche dovesse capitare che qualche persona capace venisse eletta, questo sistema assicura il totale asservimento ai capipartito: da qui deriva molto del potere di Berlusconi, Grillo, e ora Renzi.

Le “parlamentarie” organizzate dal Pd e dal Movimento 5 Stelle attenuano, ma non eliminano, il problema. Innanzitutto sono state effettuate tra un numero limitato di fedeli, e non tra tutti gli elettori. In secondo luogo, le preferenze espresse alle primarie possono venire facilmente stravolte dalle candidature multiple. Fino a quando il candidato non sarà sufficientemente visibile da influenzare il voto, i partiti non avranno incentivi a presentare candidati di talento.

Pur mantenendo l’obbrobrio delle liste bloccate, l’Italicum fa dei piccoli passi avanti nei meccanismi di selezione. La riduzione della dimensione dei collegi aumenta la visibilità dei candidati e quindi la probabilità che un elettore selezioni il partito anche sulla base della persona candidata. Ma il passo avanti più importante sarebbe la proibizione di candidature multiple, che occultano all’elettore la vera identità dell’eletto. Purtroppo sembra che in fase di negoziazione con i partiti minori, questa caratteristica sia stata eliminata, con grande gioia dei capi partito, che vedono riconfermato il loro potere.

Ma esiste un sistema elettorale che favorisce la meritocrazia? Sì, l’uninominale secca. Con l’uninominale secca la qualità del candidato non solo è fortemente visibile, ma può fare la differenza tra ottenere un seggio o perderlo. In questo caso, anche un capo partito padrone tra un candidato fedele che rischia di perdere ed uno bravo con maggior possibilità di vittoria, sceglierà quello bravo. Ma candidati bravi selezionati in questo modo non si comporteranno come dipendenti fedeli e questo non è tollerabile per i partiti-azienda.

26 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/02/19/news/l-italicum-portera-cattivi-politici-1.153945
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #85 inserito:: Marzo 13, 2014, 11:31:03 pm »

Luigi Zingales
Libero mercato

Come fermare la fuga dei laureati
È ora di rimettere in discussione i diritti acquisiti degli anziani. Perché, a forza di tutelarli, abbiamo lasciato senza speranza i giovani. Che vanno in massa all’estero. Come ha documentato l’inchiesta de “l’Espresso”
   
Venticinque anni fa a lasciare l’Italia, spinti dal desiderio di continuare a studiare oltre ai limiti di quello che l’università italiana poteva offrirci, eravamo in pochi. Pianificavamo tutti di tornare, anche se poi per molti le cose sono andate in altro modo. Oggi ad emigrare sono in tanti (vedi l’inchiesta di qualche giorno fa). Non solo per ricerca, ma per lavoro, per ottenere quelle prospettive di carriera che sono negate loro nel nostro Paese. È una fuga che si preannuncia senza ritorno. Perché quella che era una goccia si è trasformata in un fiume in piena?

Paradossalmente, uno dei motivi è l’integrazione europea. La libertà di movimento e di lavoro all’interno dell’Unione europea facilitano la migrazione. Ma è la stessa integrazione monetaria a rendere la migrazione necessaria. Prima della moneta unica, quando solo alcuni dei Paesi dell’eurozona erano colpiti dalla recessione, la differenza tra domanda ed offerta di lavoro in questi Paesi veniva risolta con un aggiustamento dei tassi di cambio o con una politica monetaria differenziata, che stimolasse la domanda di lavoro nei Paesi in recessione e la raffreddasse nei Paesi in boom. Oggi che c’è una moneta e una politica monetaria comune per l’eurozona l’unica forma di aggiustamento possibile di fronte a shock asimmetrici è la migrazione.

Da questo punto di vista la migrazione è un bene perché riduce la caduta dei salari necessaria per riassorbire la disoccupazione in Italia e riduce l’inflazione che la domanda di lavoro in Germania potrebbe produrre. Ma questa migrazione sembra avvenire in una direzione sola. Quando era il sud d’Europa in fase di boom, non molti tedeschi migravano a sud. Ora che è la Germania in fase di boom (almeno in termini relativi) sono tantissimi gli spagnoli, i greci, e gli italiani ad emigrare lì.

Questa migrazione non è neppure equamente distribuita a diversi livelli di abilità. Migra la crema dei laureati, che sa le lingue ed ha una cultura che rende più facile l’adattamento in un Paese straniero. E migrano i muratori ed i gelatai che possono facilmente lavorare all’estero anche senza la piena conoscenza della lingua. Nel mezzo della distribuzione dei talenti, dove risiede la maggior parte della popolazione, la migrazione è difficile e permane la disoccupazione.

La migrazione è anche il prodotto del nostro sistema pensionistico, che concede generose pensioni ai vecchi, finanziate con il prelievo sui giovani. A fronte dei loro contributi questi stessi giovani non riceveranno pensioni altrettanto generose. Si tratta a tutti gli effetti di un’imposta sui giovani. Quando si tassano le sigarette, il consumo di sigarette scende. Quando tassiamo i giovani lavoratori in Italia, dobbiamo forse stupirci se il numero di giovani lavoratori nel nostro Paese scende?

Ma la fuga dei giovani è dovuta soprattutto alla mancanza di prospettive che il nostro Paese offre alle nuove generazioni. Mia nipote, neolaureata in Farmacia a Milano, è andata in visita all’University of Illinois. È rimasta stupita non solo del livello di preparazione dei farmacisti clinici, ma soprattutto della diversa attitudine che gli anziani mostravano per i giovani. Quando c’è da prescrivere dei medicinali al paziente, il chirurgo chiede consiglio al farmacista, anche se ha metà dei suoi anni. I professori consigliano ed indirizzano i neolaureati, invece di rifuggirli quasi fossero delle pesti. I giovani di talento fanno carriera rapidamente e non solo per anzianità. Lei vorrebbe poter vivere e lavorare in Italia. Ma vorrebbe anche poter avere un lavoro retribuito e delle prospettive di carriera. È troppo chiedere entrambe le cose?

In questo momento in Italia sembrerebbe di sì. A suon di proteggere tutti i diritti “acquisiti”, abbiamo finito per lasciare i nostri giovani senza speranza. È giunta l’ora di ridiscutere tali diritti, non per sostituirli con un giovanilismo disperato, ma per rimpiazzare all’anzianità il merito. Speriamo che il più giovane presidente del Consiglio della nostra storia sia in grado di effettuare questa trasformazione. Non solo per il bene della sua generazione, ma per quello di tutto il Paese.

10 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/03/05/news/come-fermarela-fuga-dei-laureati-1.155962
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #86 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:31:03 pm »

Luigi Zingales
Libero mercato

Siamo tutti sessisti, lo prova un test
I pregiudizi antifemminili nel mondo del lavoro sono condivisi dalle stesse donne. Lo dimostrano diversi esperimenti scientifici. Che offrono però anche qualche soluzione al problema. Più efficace delle quote rosa

Gli indizi di discriminazione contro le donne non mancano: il loro scarso numero a capo di imprese o ai vertici del mondo politico, la sotto rappresentazione nelle università, soprattutto scientifiche. Ma dimostrare in modo inconfutabile che la discriminazione esiste e individuarne le cause è sorprendentemente difficile. È sempre possibile argomentare che se le donne non sono in posizioni apicali è perché preferiscono uno stile di vita diverso, che mal si concilia con quegli impegni. E se sono sotto rappresentate nel mondo scientifico c’è chi sostiene, come Larry Summers ex presidente di Harvard, che è perché i talenti matematici non sono distribuiti in modo eguale. Per finire, può contare la discriminazione passata. Negli Stati Uniti le donne non venivano ammesse ai dottorati in matematica fino agli anni Sessanta. Dovrebbe forse sorprendere se oggi sono più riluttanti nell’intraprendere quella carriera?

Identificare la causa della discriminazione è importante per capire se e come agire. Se le donne non salgono ai vertici aziendali per scelta, perché mai dovremmo preoccuparci? Se le donne soffrono solo dei residui del passato, possiamo almeno consolarci, il problema è in via di soluzione. Se invece la discriminazione è tutt’ora presente, allora è una questione della massima urgenza, non solo per sanare un’ingiustizia, ma anche per il bene dell’intera società. Lo spreco di talenti danneggia tutti. Quante Madame Curie, quante Rita Levi Montalcini abbiamo perso per colpa della discriminazione?

Per identificare in modo convincente la discriminazione, psicologi ed economisti ricorrono agli esperimenti di laboratorio. Lo svantaggio di queste prove è che avvengono in situazioni molto astratte. Il vantaggio è che possono escludere qualsiasi teoria alternativa e identificare con precisione una causa. Con questo obiettivo due colleghi e io abbiamo condotto un esperimento per identificare in che misura gli stereotipi sulle donne e la matematica giocano nel caso di un’assunzione. Abbiamo chiesto a degli studenti di Northwestern di assumere un candidato per svolgere un compito vagamente matematico: sommare il più velocemente possibile una serie di quattro numeri a due cifre. Chi sceglieva il candidato migliore riceveva un premio in denaro. Nonostante non ci fosse alcuna differenza nelle performance, i “datori di lavoro” assumevano uomini con una frequenza doppia.

L'aspetto più interessante è che la probabilità di scegliere un uomo è positivamente correlata con una misura di stereotipi impliciti del datore di lavoro, chiamato Implicit Association Test (Iat). Questo test consiste nell’associare velocemente immagini di competenza scientifico-matematica a immagini di uomini e donne. È stato dimostrato che in media tutti, maschi e femmine, associano più velocemente il concetto di matematica ad un uomo che a una donna, uno stereotipo radicato nel nostro subconscio. Il nostro esperimento dimostra che tanto più forte è questo stereotipo, tanto maggiore è la preferenza nell’assumere uomini. Quando forniamo ai datori di lavoro le informazioni sulla performance effettiva dei candidati, la discriminazione si riduce, ma non si elimina

L’esperimento dimostra che la discriminazione esiste ancora oggi in America, anche tra le nuove generazioni. Non solo, fornisce pure uno strumento per combatterla. Basta richiedere a tutti i potenziali capi del personale di effettuare un test Iat. Coloro che risultano coltivare stereotipi troppo forti non dovrebbero neppure essere assunti in quella posizione. Gli altri dovrebbero essere sensibilizzati sulle conseguenze pratiche dei loro pregiudizi: e cioè quanto sia ingiusta la loro preferenza ad assumere gli uomini a svantaggio delle donne. Certo, la soluzione è lungi dall’essere perfetta e richiede tempo. Può essere però un primo passo per affrontare un problema molto serio negli Stati Uniti. In Italia è, invece, semplicemente gigantesco.
04 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/03/26/news/siamo-tutti-sessisti-lo-prova-un-test-1.158575
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #87 inserito:: Maggio 01, 2014, 07:00:54 pm »

Luigi Zingales

Libero mercato
Oggi in Grecia domani in Italia

Il governo di Atene ha fatto (con enormi sacrifici) grandi progressi sul fronte dei conti pubblici. Ora la sfida passa sul terreno della produttività e dell’innovazione. Le ricette possibili, molto simili a quelle utili per il nostro Paese

Dopo una depressione durata sei anni, anche la Grecia sembra avviata al suo primo anno di modesta crescita (+0,6%). A segnare la svolta c’è anche l’emissione di 3 miliardi di titoli quinquennali del governo ellenico (la prima da quattro anni) ad un tasso del 4,75%, ben lontano dal 30% di solo 18 mesi fa. Siamo all’atto finale della tragedia greca?

Sicuramente la Grecia ha fatto enormi progressi sul fronte fiscale. Nel 2009, quando l’allora primo ministro Papandreu rivelò i trucchi contabili del suo predecessore, il deficit pubblico era al 15,4% del Prodotto interno lordo (Pil). L’anno scorso si era ridotto a poco sopra il 4%, portando il bilancio al netto degli interessi addirittura in surplus. Quest’aggiustamento, però, è stato ottenuto a costi elevatissimi: il Pil si è ridotto del 25% e la disoccupazione ha raggiunto un massimo del 26,7%. Come se non bastasse, la strada per evitare un altro default è ancora lunga e tortuosa. Se l’economia si riprende, il rapporto tra debito e Pil (oggi al 176%) si ridurrà al 118% solo nel 2021. Nel 2030 sarà ancora al 86,5%, ovvero superiore ai parametri di Maastricht.

Ma i conti pubblici rappresentano solo metà del problema greco. Tra il 1999 e il 2008 la Grecia ha anche importato molti più beni di quelli che ha esportato, ovvero ha generato ogni anno un disavanzo della bilancia commerciale pari a circa il 9% del Pil. Questo disavanzo commerciale si è ora ridotto a zero, ma l’aggiustamento è avvenuto interamente attraverso una contrazione delle importazioni. Non solo le esportazioni non sono aumentate, sono addirittura diminuite.

Dopo i tagli fiscali e le riduzioni dei salari nominali, le esportazioni sono l’unica fonte di un aumento della domanda che possa trainare la crescita. D’altro lato, se l’economia si riprende, anche le importazioni saliranno, rendendo necessario un aumento delle esportazioni per evitare ulteriori squilibri commerciali. La soluzione della crisi greca, quindi, deve passare attraverso una ripresa delle esportazioni. Ma come?

Se la Grecia avesse una moneta nazionale, una svalutazione sarebbe sufficiente per risolvere il problema. Ma la Grecia (come l’Italia) ha rinunciato a questa opzione aderendo all’euro. Le rimane quindi solo una possibilità: una riduzione dei prezzi. Troppo spesso pensiamo alla riduzione dei prezzi solo in termini di riduzione dei salari. Ma, i salari sono solo una delle determinanti e quella che oggi andrebbe meno toccata: una riduzione dei salari, porterebbe ad una riduzione del potere di acquisto dei lavoratori, che ridurrebbe ulteriormente la domanda aggregata.

Bisogna agire quindi sul fronte della produttività. Una delle fonti di aumenti di produttività è il progresso tecnico incorporato nei nuovi investimenti. Ma dopo una riduzione del 25% del Pil, c’è molto eccesso di capacità produttiva, quindi le imprese tendono a ritardare i nuovi investimenti, rallentando gli aumenti di produttività. Un’altra fonte di aumento di produttività è l’entrata nella forza lavoro di giovani, meglio preparati dei loro padri a usare le nuove tecnologie. Ma con una disoccupazione giovanile di quasi il 60%, la Grecia non può sperare molto in questa possibilità.

Alla Grecia non rimane che spingere su di un aumento della competizione. Riducendo i margini di profitto, la competizione riesce a ridurre i prezzi senza necessariamente ridurre i salari. Il Fondo Monetario ha stimato che la mancanza di competizione nel solo settore della benzina costa ai consumatori più di un miliardo di dollari l’anno.

Favorire la competizione significa anche favorire l’entrata di nuove imprese, in grado di rivoluzionare i processi produttivi, con elevati guadagni di produttività. Ma questa battaglia si preannuncia più difficile di quella fiscale. Aumentare la competizione significa toccare le posizioni di rendita e privilegio dell’élite greca, spezzare gli oligopoli dominati dai notabili locali. Il messaggio non vale solo per la Grecia. In questo caso si può proprio dire: italiani e greci, una faccia, una razza.

21 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/04/16/news/oggi-in-grecia-domani-in-italia-1.161354
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #88 inserito:: Maggio 12, 2014, 11:00:05 am »

Luigi Zingales
Libero mercato

Oggi in Grecia domani in Italia
Il governo di Atene ha fatto (con enormi sacrifici) grandi progressi sul fronte dei conti pubblici.
Ora la sfida passa sul terreno della produttività e dell’innovazione.
Le ricette possibili, molto simili a quelle utili per il nostro Paese

   
Dopo una depressione durata sei anni, anche la Grecia sembra avviata al suo primo anno di modesta crescita (+0,6%). A segnare la svolta c’è anche l’emissione di 3 miliardi di titoli quinquennali del governo ellenico (la prima da quattro anni) ad un tasso del 4,75%, ben lontano dal 30% di solo 18 mesi fa. Siamo all’atto finale della tragedia greca?

Sicuramente la Grecia ha fatto enormi progressi sul fronte fiscale. Nel 2009, quando l’allora primo ministro Papandreu rivelò i trucchi contabili del suo predecessore, il deficit pubblico era al 15,4% del Prodotto interno lordo (Pil). L’anno scorso si era ridotto a poco sopra il 4%, portando il bilancio al netto degli interessi addirittura in surplus. Quest’aggiustamento, però, è stato ottenuto a costi elevatissimi: il Pil si è ridotto del 25% e la disoccupazione ha raggiunto un massimo del 26,7%. Come se non bastasse, la strada per evitare un altro default è ancora lunga e tortuosa. Se l’economia si riprende, il rapporto tra debito e Pil (oggi al 176%) si ridurrà al 118% solo nel 2021. Nel 2030 sarà ancora al 86,5%, ovvero superiore ai parametri di Maastricht.

Ma i conti pubblici rappresentano solo metà del problema greco. Tra il 1999 e il 2008 la Grecia ha anche importato molti più beni di quelli che ha esportato, ovvero ha generato ogni anno un disavanzo della bilancia commerciale pari a circa il 9% del Pil. Questo disavanzo commerciale si è ora ridotto a zero, ma l’aggiustamento è avvenuto interamente attraverso una contrazione delle importazioni. Non solo le esportazioni non sono aumentate, sono addirittura diminuite.

Dopo i tagli fiscali e le riduzioni dei salari nominali, le esportazioni sono l’unica fonte di un aumento della domanda che possa trainare la crescita. D’altro lato, se l’economia si riprende, anche le importazioni saliranno, rendendo necessario un aumento delle esportazioni per evitare ulteriori squilibri commerciali. La soluzione della crisi greca, quindi, deve passare attraverso una ripresa delle esportazioni. Ma come?

Se la Grecia avesse una moneta nazionale, una svalutazione sarebbe sufficiente per risolvere il problema. Ma la Grecia (come l’Italia) ha rinunciato a questa opzione aderendo all’euro. Le rimane quindi solo una possibilità: una riduzione dei prezzi. Troppo spesso pensiamo alla riduzione dei prezzi solo in termini di riduzione dei salari. Ma, i salari sono solo una delle determinanti e quella che oggi andrebbe meno toccata: una riduzione dei salari, porterebbe ad una riduzione del potere di acquisto dei lavoratori, che ridurrebbe ulteriormente la domanda aggregata.

Bisogna agire quindi sul fronte della produttività. Una delle fonti di aumenti di produttività è il progresso tecnico incorporato nei nuovi investimenti. Ma dopo una riduzione del 25% del Pil, c’è molto eccesso di capacità produttiva, quindi le imprese tendono a ritardare i nuovi investimenti, rallentando gli aumenti di produttività. Un’altra fonte di aumento di produttività è l’entrata nella forza lavoro di giovani, meglio preparati dei loro padri a usare le nuove tecnologie. Ma con una disoccupazione giovanile di quasi il 60%, la Grecia non può sperare molto in questa possibilità.

Alla Grecia non rimane che spingere su di un aumento della competizione. Riducendo i margini di profitto, la competizione riesce a ridurre i prezzi senza necessariamente ridurre i salari. Il Fondo Monetario ha stimato che la mancanza di competizione nel solo settore della benzina costa ai consumatori più di un miliardo di dollari l’anno.

Favorire la competizione significa anche favorire l’entrata di nuove imprese, in grado di rivoluzionare i processi produttivi, con elevati guadagni di produttività. Ma questa battaglia si preannuncia più difficile di quella fiscale. Aumentare la competizione significa toccare le posizioni di rendita e privilegio dell’élite greca, spezzare gli oligopoli dominati dai notabili locali. Il messaggio non vale solo per la Grecia. In questo caso si può proprio dire: italiani e greci, una faccia, una razza.

21 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/04/16/news/oggi-in-Grecia-domani-in-italia-1.161354
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #89 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:52:02 pm »

Grecia, Zingales: “Atene quasi forzata ad uscire dall’euro per creare un precedente”
Lobby
L'economista della Chicago Booth School of Business punta il dito contro la Banca Centrale Europea: "I principali istituti greci hanno passato un test di solvibilità condotto dall'Ue. Perché allora la Bce non fornisce loro liquidità illimitata? Perché la fornitura di liquidità di emergenza è stata centellinata di giorno in giorno e poi bloccata? In sostanza, Francoforte tiene la Grecia appesa a un filo". Così Atene, che "non vuole uscire dall'euro, viene quasi forzata a farlo"

Di Marco Pasciuti | 3 luglio 2015

Luigi Zingales, economista presso la Chicago Booth School of Business. L’Ue ha fatto tutto quanto era in suo potere per salvare la Grecia?
“No, nel gestire la crisi si è anche tenuto conto del precedente che si andava creando”.

Un monito per gli altri Paesi che si trovano in una situazione di rischio. Un monito anche per l’Italia, quindi.
“La preoccupazione per l’Italia non riguarda l’arco temporale di un anno. I problemi nasceranno dopo, quando finirà il Quantitative Easing (piano di acquisto di titoli di Stato da parte della Bce con l’obiettivo di far ripartire la crescita dell’Eurozona, ndr), i tassi cominceranno a salire e la situazione si farà più difficile “.

Perché invece di puntare a riavere indietro una parte dei prestiti ma a riaverla con certezza, i creditori continuano a chiedere indietro tutta la somma, sapendo che non riusciranno mai a ottenerla?
“L’errore fondamentale è stato commesso nel 2010, quando si fece finta che la Grecia fosse solvente, in grado di ripagare tutto il debito, quando era già chiaro che non era così”.

Tsipras ha deciso di interpellare il popolo greco: decisione giusta o populismo?
“Il referendum è sostanzialmente sbagliato, sembra la scelta più democratica che si possa fare, ma non è così. Indire una consultazione di questo genere, interpellare il popolo durante una fase così delicata del negoziato, su una proposta che non è neanche più sul tavolo è velleitario. Per di più Tsipras sembra non aver capito che non sarebbe riuscito a fare il referendum con le banche aperte, per la corsa agli sportelli. Per il governo greco potrebbe rivelarsi un gigantesco autogol“.

Juncker, presidente della Commissione Ue, è intervenuto in tv per dire ai greci di votare sì al referendum. Dov’è finita la sovranità nazionale?

“Non è la cosa peggiore che abbia fatto Juncker. Negli Stati Uniti, se c’è un referendum a livello locale, il presidente può prendere posizione. Quello che trovo più pericoloso è che la Banca Centrale Europea controlli la sopravvivenza delle banche, forzando la mano in una direzione o nell’altra al governo. Questo fatto è molto più lesivo della sovranità popolare del fatto che Juncker dica la propria opinione. Tra l’altro, ogni volta che il presidente della Commissione parla fa campagna per il no”.

Draghi però in questo momento sta tenendo in vita il sistema.
“Lo sta tenendo in vita, ma non lo sta tenendo aperto e funzionante. Le principali banche greche hanno passato un test di solvibilità condotto dall’Ue, quindi ora la Bce dovrebbe essere il garante della loro solvibilità. Se Francoforte si è presa un impegno, ha fatto un’analisi e ha detto che le banche sono solventi, ora dovrebbe in tutti i modi aiutarle a sopravvivere, altrimenti che unità europea è? Di che unità monetaria parliamo? Se la sopravvivenza delle banche è decisa dalla Bce non è più solo un’unione monetaria, ma una egemonia della Bce”.

Egemonia?
“Quella di dare liquidità alle banche è una decisione che prende qualsiasi banca centrale nel momento in cui stabilisce che le banche sono solventi ma illiquide. Questo perché la funzione principale di una banca centrale è quella di essere disponibile a fare prestiti in situazioni di tensioni di mercato alle banche che sono solventi. Ora, nel caso della Grecia, abbiamo la certificazione fornita dalla stessa Bce qualche mese fa, che le sue banche sono solventi. Perché allora la Bce non fornisce loro liquidità illimitata? Perché la ELA (fornitura di liquidità di emergenza, ndr) è stata centellinata di giorno in giorno e poi bloccata (il 1° luglio La Bce ha fissato a 89 miliardi il livello massimo stabilito per l’erogazione di Ela alle banche greche, ndr)? In sostanza, la Bce tiene la Grecia appesa a un filo“.

Un precedente che sia anche un memento mori per tutti gli altri.
“Se crediamo veramente che questa unità monetaria sia irreversibile e che, come ha promesso, Draghi farà “whatever it takes” per tenerla in piedi (“Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”, affermava il 26 luglio 2012 il governatore della Bce, promettendo cioè che avrebbe “fatto di tutto per salvare l’euro”, ndr), concludiamo che si può fare di più per la Grecia”.

Come diceva lei, nel 2012 e nel 2014 Mario Draghi ha affermato che l’euro è “irrevocabile” e “irreversibile”: Ribaltando il concetto, vuol dire che se la Grecia esce, l’euro diventa reversibile e crolla l’intero impianto.

“Sono abituato a pensare che di irreversibile esista solo la morte. Certo è che nel momento in cui un Paese viene sostanzialmente escluso dall’unione monetaria, tutto diventa possibile. La Grecia non vuole uscire dall’euro, si trova in una situazione diversa da quella del Regno Unito: Londra non è nell’euro, ma ipotizza la possibilità di uscire dall’Unione Europea. Atene, invece, non vuole uscire dall’euro eppure viene praticamente messa nelle condizioni di farlo, viene quasi forzata a farlo”.

Tutto ciò come potrà influire sull’Italia? Una volta stabilito che dall’euro si può uscire, i paesi fortemente indebitati possono essere oggetto di attacchi speculativi. Il pericolo per l’Italia è reale?
“Il pericolo è reale, ma non immediato. Quello che oggi ci protegge dagli attacchi speculativi è il Quantitative Easing in corso. Per cui chiunque provi a fare un attacco speculativo si troverebbe contro la Bce dall’altra parte che compra titoli di Stato, calmierando il mercato. C’è però un costo nel lungo periodo, perché il QE non sarà infinito e alla prossima crisi, che potrà arrivare tra una anno o tra dieci, cui troveremmo con lo stesso problema”.

Come finirà?
“Non finirà. Qualunque soluzione verrà presa, sarà temporanea. La crisi greca sarà con noi ancora a lungo”.

Di Marco Pasciuti | 3 luglio 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/03/grecia-zingales-atene-quasi-forzata-ad-uscire-dalleuro-per-creare-un-precedente/1836120/
Registrato
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!