LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Dicembre 27, 2007, 06:53:01 pm



Titolo: Luigi ZINGALES. -
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2007, 06:53:01 pm
Vent'anni di declino

Il boom degli anni '60, la tenuta fino a metà degli '80. Poi la caduta.

Fino a subire il sorpasso della Spagna

DI LUIGI ZINGALES


Esattamente vent'anni fa un Bettino Craxi trionfante annunciava al mondo che l'Italia aveva superato il Regno Unito ed era diventata la quinta potenza economica al mondo. Era un risultato più politico che economico. La ricchezza di un popolo è misurata dal reddito pro capite, non dal reddito totale. Il Lussemburgo ha un prodotto interno lordo di gran lunga inferiore a quello cinese, ma il suo reddito pro capite è 12 volte quello cinese. Ma a quell'epoca le popolazioni di Italia e Regno Unito erano molto simili, e quindi il sorpasso significava anche un sorpasso in termini di reddito pro capite. Era il conseguimento di un sogno.

L'Italia proletaria, che aveva cominciato a industrializzarsi con quasi 150 anni di ritardo rispetto alla potenza britannica, che ancora nel 1950 aveva un reddito pro capite pari a solo il 50 per cento di quello inglese, ora era più ricca. Con questo pretesto Bettino Craxi rivendicò la partecipazione italiana ai meeting dei grandi della Terra che diventarono il gruppo dei G7.

Vent'anni dopo difficilmente la situazione potrebbe essere simile. È oggi la Spagna ad annunciare il sorpasso dell'Italia in termini di GDP pro capite, mentre il Regno Unito ha già accumulato un vantaggio di più del 15 per cento e l'Irlanda, paese di carestie ed emigrazione che nel 1987 aveva un reddito pro capite pari solo al 60 per cento di quello italiano, oggi vanta il 30 per cento in più di noi. Solo il Portogallo e la Grecia sono più poveri di noi tra i paesi della Vecchia Europa.

Com'è potuto accadere? Come è possibile che in un ventennio il nostro Paese da potenza mondiale sia diventato marginale anche in Europa? Cosa ha trasformato il miracolo economico italiano in un triste declino?

Paradossalmente la risposta è: nulla. Non è successo assolutamente nulla. Il nostro Paese, con i suoi clientelismi, la sua corruzione, l'inefficienza della macchina pubblica, l'evasione fiscale, etc., è rimasto esattamente lo stesso. Ma il resto del mondo è cambiato. E quello che bastava per avere successo non basta più. Ma la classe politica non se n'è accorta.

Il miracolo economico italiano del Dopoguerra ha due ingredienti semplicissimi: liberismo e bassi salari. Finalmente liberata dall'autarchia fascista, l'economia italiana poteva esportare nel resto del mondo. E i bassi salari rendevano i nostri prodotti imbattibili. Non a caso tra il 1950 e il 1970 crescemmo a ritmi 'cinesi': 5,8 per cento per anno, il doppio del tasso di crescita inglese.

Alla fine degli anni '60, il differenziale di costi, però, si stava riducendo, e il Paese necessitava delle riforme istituzionali per trasformarsi in un'economia sviluppata, che compete nel terziario e nelle tecnologie avanzate. Purtroppo negli anni '70, la crisi petrolifera e le tensioni sociali resero questa transizione impossibile.

Quello che sorprende è che, nonostante le crisi e i problemi, tra il 1970 e il 1987 l'economia italiana crebbe ad un tasso del 2,7 per cento l'anno. Non favoloso, ma certamente superiore al misero 1,6 annuo messo a segno tra il 1987 e il 2004. La crescita degli anni '70 e '80, all'insegna del 'piccolo è bello', fu un 'regalo' del processo di unificazione europea. All'interno della Vecchia Europa, tutti i paesi si stavano spostando progressivamente verso i settori economici più avanzati e lasciavano scoperti i settori tradizionali, che godevano della protezione di dazi doganali che l'unione manteneva verso l'esterno. Risultava quindi facile conquistare questi mercati all'interno dell'Europa. Per esportare scarpe (Cina docet) non occorre un paese che funziona alle spalle, per ideare telefonini ed esportare servizi sì. L'Italia, quindi, crebbe specializzandosi ulteriormente nei settori sbagliati, gli unici in cui aveva un vantaggio comparato.

La storia recente la conosciamo tutti: l'allargamento dell'Unione a paesi a basso costo della manodopera e la liberalizzazione del commercio internazionale, con la massiccia entrata della Cina e dell'India, hanno distrutto la nostra nicchia. In un mercato mondiale non possiamo sopravvivere solo con il piccolo è bello. Non possiamo crescere con una manodopera che è tra le meno istruite dei paesi Ocse, con una università in sfacelo, con uno Stato che preleva più del 50 per cento del reddito e lo sperpera.

Per invertire rotta abbiamo bisogno di riforme strutturali, che non hanno benefici elettorali immediati. Per intraprenderle c'è bisogno di leader coraggiosi e lungimiranti. Proprio mentre Craxi celebrava l'effimera vittoria italiana sull'Inghilterra (affossando sempre più il nostro Paese), la Thatcher creava, dopo trent'anni di declino, le basi per la rinascita inglese. Quanti decenni dobbiamo aspettare ancora per avere la nostra Thatcher?

(27 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. -
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:26:00 am
Luigi Zingales

La Ferrari e lo sceicco


L'aumento del prezzo dell'oro nero si traduce in una 'tassa' di 28 miliardi. Che riduce il nostro potere d'acquisto del 2 per cento  Jean-Claude TrichetIl prezzo del petrolio aumentato del 74 per cento in un anno, il prezzo dell'oro del 18, mentre quello del frumento del 32. Per chi si ricorda gli anni '70, difficile non temere un forte rialzo dell'inflazione. Se poi si uniscono le magre (talvolta negative) previsioni di crescita, il pensiero va a quella terribile combinazione di inflazione e stagnazione economica che va sotto il nome di stagflazione. Quanto fondate sono queste paure?

Un rialzo, anche se molto elevato, di alcuni prezzi non significa necessariamente inflazione. L'inflazione è un aumento generalizzato e continuativo del livello dei prezzi. Una variazione dei prezzi relativi (il petrolio costa di più, ma i computer costano di meno) non implica inflazione. Non per questo tale variazione è indolore, soprattutto se, come nel caso dell'Italia, ci troviamo importatori di tutti i prodotti in forte aumento. Visto che l'Italia nel 2006 ha importato petrolio e derivati per 38 miliardi di euro, un aumento del 74 per cento dell'oro nero, significa una 'tassa' pari a 28 miliardi di euro, che va a ridurre il nostro potere d'acquisto di circa il 2 per cento. Si tratta di una vera e propria redistribuzione di reddito dai consumatori ai produttori di petrolio.

Per sottrarsi a questa tassa, nel lungo periodo l'unica via è lo sviluppo di energie alternative. Ma nel breve periodo ci sono tre modi per cercare di contrastare la riduzione di reddito che questa tassa comporta. Il primo è un aumento di produttività. Aumentando il prodotto per ora lavorata riusciamo a guadagnare di più, compensando il reddito perso. Il secondo metodo, il più penoso, è quello di lavorare un numero maggiore di ore. Il terzo metodo è quello di aumentare il prezzo dei nostri prodotti. Se gli sceicchi ci fanno pagare il petrolio di più, perché non far pagare loro di più le Ferrari che comprano da noi? Il primo problema con questa strategia è la competizione.
Gli sceicchi non devono comprare Ferrari, possono comprare Rolls Royce e Porsche. Un aumento dei prezzi si tradurrebbe in una riduzione delle vendite e non in un aumento dei profitti. Il secondo problema è che le Ferrari non sono vendute solo agli sceicchi. Un aumento colpirebbe anche i ricchi nostrani che, già impoveriti dall'aumento dei prezzi del petrolio, comprerebbero ancora meno macchine.

La terza via non è quindi percorribile, a meno che la banca centrale non decida di ridurre il costo del denaro e stampare più moneta. In questo caso, il ricco nostrano potrebbe comprare lo stesso la Ferrari a un prezzo più elevato perché il costo del denaro che prende a prestito (anche i ricchi comprano a rate) è sceso. Si tratta però di una vittoria di Pirro. Quando il produttore di Ferrari andrà a spendere il suo reddito, troverà che tutti gli altri produttori hanno fatto lo stesso ragionamento e i prezzi di tutti i prodotti sono aumentati. In altri termini, il valore del suo reddito è stato eroso dall'inflazione.

Come questa storiella cerca di dimostrare, a creare un legame tra aumento dei prezzi delle materie prime e inflazione è la politica espansiva della banca centrale. Senza di essa il tentativo di evitare la tassa degli sceicchi aumentando i prezzi si tradurrebbe in una flessione delle vendite. Anticipando questo risultato i produttori si asterrebbero dall'aumentare i prezzi.

Negli anni '70 l'elevata conflittualità sociale rese difficile far accettare una riduzione del potere di acquisto causata dai forti aumenti del prezzo del petrolio. In Italia una banca centrale non ancora indipendente si sentì in dovere di accomodare gli aumenti dei prezzi per evitare la possibilità di una riduzione delle vendite (e quindi una recessione). Il resto della storia lo conosciamo.

Oggi la situazione è molto diversa. Abbiamo una banca centrale europea che non solo è indipendente dal potere politico, ma ha anche un chiaro mandato di salvaguardarci dall'inflazione. Anticipando questa rigidità, produttori e lavoratori europei non cercheranno di proteggere il proprio potere d'acquisto attraverso un aumento dei prezzi.

Il vero rischio per l'Italia non è l'inflazione, ma la possibilità che i nostri produttori e lavoratori, ignorando i cambiamenti istituzionali, cerchino la scorciatoia offerta dalla terza via. Grazie alla Bce, questo tentativo non si tradurrebbe in un aumento generalizzato e continuato dei prezzi, ma solo in una perdita di competitività dei nostri prodotti, cui farebbe seguito una lunga recessione. La colpa non sarebbe del prezzo del petrolio: sarebbe solo nostra.

(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. +
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:33:10 am
Luigi Zingales

Crisi Usa al bivio



È finita o i suoi effetti si faranno sentire in ritardo? Molto dipenderà dalle decisioni sui mutui e sul mercato immobiliare  George BushA quasi un anno dall'inizio della più grave crisi finanziaria dagli anni Trenta la maggiore sorpresa è quanto solida sembra essere l'economia americana. A dispetto delle notizie catastrofiche, nel primo trimestre 2008 il Pil Usa è cresciuto dell'1%, e le stime parlano di un 2-2,5% nel secondo trimestre: tassi di crescita inferiori alla media, ma assolutamente invidiabili per noi italiani. Come spiegarlo?

Una possibilità è che gli effetti della crisi finanziaria si facciano sentire con ritardo. Quando le banche in difficoltà vogliono tagliare credito alle imprese, non riescono a farlo subito. Non possono cancellare le linee di credito esistenti, possono solo rifiutarsi di rinnovarle o di aprirne di nuove. Le imprese, da parte loro, quando non riescono ad ottenere credito, inizialmente usano le proprie riserve di liquidità per fare fronte agli impegni già presi. È solo con il passare del tempo che gli effetti della crisi del credito si ripercuotono sugli investimenti delle imprese ed i consumi delle famiglie, riducendo la domanda di beni e servizi e precipitando la crisi. Se così fosse, ci attende un triste futuro.

L'ipotesi alternativa è che l'economia reale sia diventata meno sensibile alle crisi finanziarie. Prima di questa crisi le imprese avevano accumulato forti riserve di liquidità, che permettono loro di continuare ad investire nonostante le riduzioni di credito. Queste riduzioni poi non sono così terribili come anticipato, perché i fondi sovrani hanno permesso alle banche di raccogliere una quantità enorme di capitale di rischio in tempi molto brevi, sollevandole dall'obbligo di tagliare i prestiti per mantenere i rapporti patrimoniali richiesti. Grazie al forte declino del dollaro, infine, il settore delle esportazioni sta tirando e gli interessi reali negativi rendono investimenti e consumi sempre più allettanti. Se così fosse, il peggio sarebbe già passato.


Quale futuro ci attende? Purtroppo ci troviamo ad un bivio. Entrambi gli scenari sono realistici. Quale dei due si realizzerà dipende dall'andamento delle insolvenze sui mutui immobiliari. Fino a questo momento, la maggior parte delle insolvenze è stata concentrata tra i mutui più a rischio, concessi nell'illusione che il mercato immobiliare salisse sempre. Adesso, però, il declino del 20% dei prezzi delle case minaccia anche i mutui 'normali'. L' americano medio che nel 2006 ha comprato una casa per 300mila dollari con un anticipo in contanti del 5%, si trova oggi a possedere una casa che vale 240mila dollari con un mutuo di 285mila. Se abbandona la casa e si libera del mutuo (negli Stati Uniti è possibile), il signor Smith risparmia la bellezza di 45mila dollari. Al suo guadagno, però corrisponde una perdita di 142mila dollari per la banca, perché le case abbandonate non vengono mantenute e sono difficili da vendere. Storicamente la perdita è pari al 50% del credito.

Se l'economia americana (e a seguito quella mondiale) entrerà in una crisi profonda o si solleverà rapidamente, dipende quindi dalle decisioni dei molti signor Smith che si trovano in questa situazione. Se la maggior parte di queste famiglie decide di abbandonare casa e mutuo, le perdite per le banche aumenteranno e i prezzi delle case si ridurranno ulteriormente, innescando una spirale negativa. In questo caso lo scenario catastrofico è assicurato. Se invece resistono, l'economia è nelle condizioni per riprendersi.

Storicamente lo stigma sociale della bancarotta e il costo (economico e psicologico) di un trasloco ha dissuaso le famiglie che si sono trovate con un valore netto della casa negativo ad andarsene. Le insolvenze si verificavano solo quando l'onere in interessi diventava insostenibile.

Oggi, però, la situazione è diversa. Da un lato, il forte declino dei valori immobiliari aumenta la tentazione di dichiararsi insolvente. Dall'altro, il problema è talmente diffuso che tale scelta potrebbe diventare socialmente accettabile, ampliando l'entità del fenomeno. Per evitare che questo succeda sarebbe utile un intervento del governo che riduca gli incentivi ad abbandonare mutui e case. Teoricamente questo obiettivo può essere conseguito in due modi. Si possono agevolare le banche che riducono l'ammontare dei loro mutui. O si puo rendere più costoso alle famiglie dichiararsi insolventi. In un anno elettorale, però, solo la prima strada è percorribile, perché la seconda sarebbe estremamente impopolare. Ma il tempo stringe. Domani potrebbe essere troppo tardi

(25 luglio 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. Bravo Obama alza le tasse
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 11:04:12 pm
Luigi Zingales


Bravo Obama alza le tasse

In America ci sono troppe disuguaglianze. E' giusta l'idea di aumentare le imposte ai ricchi 


L'altra sera un mio collega stava guardando la Convention democratica con il figlio di nove anni (la febbre elettorale qui ha contagiato anche i più piccini). Il ragazzino era un grosso sostenitore di Barack Obama di cui ammirava la proposta di tassare i ricchi per aiutare i poveri, fintantoché il padre gli chiese se sapeva in che categoria si trovava lui. Appreso con stupore che si trovava ad essere tra quelli che Obama definisce ricchi, il suo entusiasmo per il candidato democratico svanì.

Questa naïveté non è solo dei bimbi. La maggior parte dei cittadini pensa che ricchi siano solo gli altri. Ed essendo per definizione gli altri, i più pensano che sia sacrosanto tassarli. Soprattutto se questo serve a ridurre le imposte di chi, come loro, ricco non è.

Purtroppo, come economista, non posso godere di questa beata ignoranza. So che ricado tra quelli che Obama definisce come ricchi e mi aspetto uno dei più elevati aumenti di imposte che la storia ricordi. Tra l'eliminazione dei tagli di George W. Bush e l'aumento dei contributi sociali si parla di dieci punti percentuali di tasse in più. Una bella batosta, che riduce il mio entusiasmo per il candidato democratico alla Casa Bianca. Dopo aver riflettuto a lungo, però, ho deciso che ha ragione lui: anche se spiacevole, un aumento di imposte sui ceti più abbienti è necessario. E vi spiego perché.

Molti economisti, soprattutto se guadagnano bene, sostengono che un aumento delle aliquote è controproducente. Da un lato spinge tutti i contribuenti a eludere maggiormente le tasse. Dall'altro, spinge i ricchi a lavorare meno o addirittura a emigrare. Il risultato è che il paese produce meno e l'erario incassa meno. Insomma, un enorme autogol. Sicuramente c'è del vero in questa teoria, soprattutto quando le aliquote sono a livelli svedesi. Ma visto che negli Stati Uniti l'aliquota massima è tra il 35 per cento e il 42 per cento, a seconda dello Stato, la grandezza di questo effetto boomerang è discutibile.


Nonostante questi problemi, una redistribuzione del carico fiscale è giustificata dall'enorme aumento della ineguaglianza. Nonostante negli ultimi 25 anni il Pil americano sia più che raddoppiato in termini reali, la maggioranza degli americani ha visto il proprio reddito reale crescere di solo il 17 per cento. Dove sono finiti tutti i soldi? La risposta è: ai più ricchi.

Nell'ultimo quarto di secolo il reddito dell'1 per cento più ricco della popolazione è quasi triplicato, mentre quello dello 0,01 per cento più ricco è più che quintuplicato. Durante l'ultima espansione economica (tra il 2002 e il 2006), l'1 per cento dei più ricchi si è accaparrato il 75 per cento della crescita economica. Non stupisce quindi che ci sia un divario così forte tra le statistiche aggregate e la percezione della maggior parte della popolazione. Come diceva il poeta romano Trilussa, poco conta che in media tutti mangino mezzo pollo, quando c'è chi ne mangia uno intero e chi muore di fame.

Perché questo divario? È il risultato congiunto dell'innovazione tecnologica e della globalizzazione. Se gli amanti di calcio sono disposti a pagare un euro all'anno per vedere giocare il miglior calciatore, quando il mercato era costituito da 10 milioni di famiglie italiane, il compenso massimo per un giocatore era 10 milioni di euro. Quando il mercato diventa globale e comprende 2 miliardi di famiglie, lo stipendio potrebbe arrivare a raggiungere i 2 miliardi di euro. E quello che vale per il calcio, vale anche in altri campi. Una scrittrice di successo come J. K. Rowling oggi può vendere milioni di copie in tutto il mondo nello spazio di pochi giorni. Non a caso è diventata la donna più ricca d'Inghilterra dopo la regina.

Queste tendenze sono molto difficili da contrastare. Nessuno vuole imporre agli spettatori di guardare calciatori di secondo livello o impedire di comprare i libri di successo. Lasciato a se stesso, però, il mercato produce delle differenze di reddito che diventano sempre più insostenibili. Se in una generazione il reddito aumenta solo del 17 per cento, il sogno americano di un continuo progresso viene a infrangersi. Il contratto sociale su cui si basa il funzionamento dell'economia di mercato non regge più. La domanda di protezionismo e la diffidenza per il progresso tecnologico nascono proprio da queste paure.

Cedere alla pressione popolare su questi fronti, però, sarebbe molto più costoso che redistribuire il carico fiscale. Se il prezzo da pagare per preservare il mercato è un carico fiscale più elevato, lo pago volentieri. Il rischio di Obama è che, oltre al carico fiscale, introduca anche il protezionismo!

(05 settembre 2008)

espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. -
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 06:41:18 pm
Luigi Zingales.


Dio ci salvi da Wall Street


L'idea è buona, ma è folle il metodo scelto da Paulson: far pagare ai contribuenti gli errori di chi ha fatto scelte di investimento sbagliate 

Che la situazione delle istituzioni finanziarie americane fosse precaria lo andavamo dicendo da tempo. Purtroppo nelle ultime settimane questa situazione è precipitata. L'origine, come tutti sanno, è nelle forti perdite sui mutui immobiliari. Ma il problema maggiore non è l'entità di queste perdite. Quando la bolla Internet scoppiò, più di 3 mila miliardi di dollari andarono in fumo, ma il sistema finanziario americano non ne risentì. Oggi le perdite sui mutui sono 'solo' mille miliardi, perché allora il sistema finanziario è sull'orlo del collasso?

La principale differenza sta in chi subisce queste perdite. Le perdite borsistiche ricaddero principalmente sui fondi pensione. Tutti diventammo un po' più poveri, ma nessuna istituzione finì in bancarotta. Al contrario, le perdite sui mutui oggi ricadono sulle istituzioni finanziarie che sono i principali investitori in questo mercato. Per loro natura queste istituzioni funzionano con pochissimo capitale proprio e molto debito. Perdite anche limitate sono sufficienti a renderle insolventi anche quando il loro business sottostante è profittevole. È il caso di Lehman, andata in bancarotta due settimane fa, nonostante un solido business.

Se il problema è l'insufficienza del capitale di rischio, perchè è così difficile da risolvere? Basta ricapitalizzare le banche. Ma chi deve farlo? Quando la situazione sembrava meno seria i fondi sovrani si erano affrettati ad investire. Il prezzo che pagarono, però si rivelò troppo elevato e subirono forti perdite. Ora nessuno vuole farsi avanti. In una situazione di profonda incertezza, quale quella in cui ci troviamo, è pressoché impossibile determinare il prezzo equo di un aumento di capitale.

Il solo proporlo segnala al mercato che una banca vale meno di quanto stimato, riducendone il prezzo di Borsa.
Se la banca non desiste e decide di andare avanti con l'aumento di capitale, nonostante il minor prezzo, allora il mercato deduce che la banca è proprio disperata. E abbassa ancora il prezzo. Di questo passo, la banca fallisce prima di riuscire a raccogliere nuovo capitale.

Se si trattasse di una o due banche, non sarebbe un problema. Ma quando si tratta di quasi tutto il sistema finanziario, il rischio di un collasso diventa elevato. Le banche stesse rifiutano di prestarsi l'un l'altra per paura di perdere i soldi. Questo paralizza l'intero sistema finanziario. È per questo motivo che l'amministrazione Bush, nella persona del ministro del Tesoro Paulson, ha presentato un piano di salvataggio senza precedenti. L'idea di Paulson è di ricapitalizzare le banche comprando da loro i mutui incriminati. A questo scopo ha chiesto al Congresso la possibilità di utilizzare fino a 700 miliardi di dollari (più del costo della guerra in Iraq).

L'idea di un intervento radicale è buona, ma il metodo è folle. Il piano di Paulson prevede l'acquisto di centinaia di miliardi di mutui di dubbio valore da parte dello Stato. A che prezzo? Il motivo per cui il settore privato non vuole comprare è perché non è in grado di valutare questi mutui. Quale expertise ha il governo americano per fare meglio? Per funzionare il piano deve strapagare i mutui, ricapitalizzando le banche a spese dei contribuenti. È il più costoso piano di welfare mai concepito. Ma welfare per ricchi: si tassano i contribuenti per tutelare gli investitori. Come ho spiegato in un breve pamphlet disponibile su Internet (http://faculty. chicagogsb. edu/luigi.zingales/Why Paulson is wrong. pdf), un'alternativa esiste: forzare una riduzione del debito delle istituzioni finanziarie. Questa alternativa non tassa i contribuenti, ma impone sacrifici a chi ha fatto le scelte di investimento sbagliate. Ma, da un punto di vista politico, è proprio questo il suo tallone di Achille. L'interesse degli investitori è molto meglio rappresentato a Washington di quello dei contribuenti, e Wall Street adora l'idea di un salvataggio a spese del contribuente.

Ma non è solo una questione di giustizia. Socializzando le perdite (mentre i profitti restano ai privati), il piano di Paulson mina alla base il funzionamento dell'economia di mercato. È arrivato il momento di salvare il capitalismo americano da Wall Street.

(26 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. -
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2008, 12:12:29 pm
Luigi Zingales.


Una proposta per i mutui


Ecco come i proprietari di case e le banche possono trovare un accordo senza soldi pubblici  Il segno più tangibile di una sconfitta imminente è quando un candidato si trova costretto a copiare le proposte dell'avversario, o peggio a cercare di superarle in estremismo, abbracciando l'ideologia del rivale e rinnegando la propria. È quanto successo a McCain, che nel secondo dibattito ha giocato a sorpresa la carta populista sostenendo che il governo deve spendere 300 miliardi di dollari per comprare e ristrutturare i mutui delle famiglie che sono in difficoltà.

Non c'è dubbio che la risoluzione della crisi finanziaria americana richieda anche un piano di ristrutturazione dei mutui. Ma ci sono molti modi per farlo. Purtroppo McCain ha scelto quello più costoso e meno efficace. Meno efficace perché la cartolarizzazione ha diviso i mutui in tante tranche distinte che sono state vendute a investitori diversi, dispersi in tutto il mondo. Questo rende pressoché impossibile ricomprare tutte le tranche di un mutuo per rinegoziarlo. Più costoso, perché affida allo Stato l'onere di riparare gli errori passati, invece di farli pagare a chi li ha commessi.

Chi per prima avanzò questa proposta fu Hillary Clinton, non certo nota per essere una campionessa del mercato. Dove è finita l'ideologia liberista e anti-statalista del partito che fu di Ronald Reagan? Perfino l'anticonformista McCain non riesce a differenziarsi. Invece di ribellarsi al piano Paulson, lo ha accettato. Anzi lo ha sostenuto anche quando il Senato, per farlo approvare, ha riempito il piano di capitoli di spesa aggiuntivi, che McCain ha sempre odiato. E per risolvere il problema della crisi dei mutui, invece che ricercare una soluzione più in sintonia con le regole di mercato, McCain ha fatto sua la proposta della Clinton. Ma un'alternativa esiste in grado di beneficiare sia i mutuanti che le banche, senza costare un centesimo allo Stato. Un'alternativa che punisce chi ha sbagliato, senza danneggiare chi ha fatto scelte oculate. E che blocca la spirale negativa dei prezzi delle case, aiutando l'economia a ripartire.

Il punto di partenza è che quando un mutuante smette di pagare, il mutuatario (la banca) incorre in una grossa perdita. Tra il costo dello sfratto e i danni subiti dalla casa per mancanza di manutenzione, il valore di realizzo è inferiore di circa il 50 per cento del valore di mercato della casa prima dello sfratto. Per questo motivo, di fronte alla caduta verticale dei prezzi delle case in molte aree degli Stati Uniti è necessario un piano di rinegoziazione dei mutui, per evitare che tutti i proprietari abbandonino casa e mutuo, imponendo perdite ingenti al settore bancario.

In passato, quando il mutuo era posseduto da una banca locale, il processo di rinegoziazione era molto semplice. La cartolarizzazione dei mutui, però, ha reso queste rinegoziazioni molto difficili. È qui che un intervento statale può aiutare. La mia proposta è molto semplice. In tutte le aree dove i prezzi delle case sono scesi a un ritmo superiore al 20 per cento, il mutuo deve essere ridotto di una percentuale pari alla riduzione del valore delle case in quell'area. In cambio, quando la casa sarà venduta, il proprietario dovrà pagare al mutuatario il 50 per cento della differenza tra il valore di realizzo della casa e il nuovo valore del mutuo rinegoziato.

Questo meccanismo aiuta i proprietari a sostenere l'onere del mutuo e a non perdere la casa, riducendo il rischio di insolvenze che si tradurrebbero in vendite coatte degli immobili sul mercato, con ulteriore pressione sui prezzi. Questo obiettivo viene conseguito al minimo costo per il mutuante, perché la riduzione del valore nominale del mutuo viene compensata (almeno in parte) dalla comproprietà di una frazione della casa. In aggiunta, questo meccanismo dissuade coloro che non sono in difficoltà dal partecipare al programma. Per chi ha un mutuo molto al di sotto del valore della casa, la riduzione del valore del mutuo non vale la cessione di una frazione della proprietà della casa.

È una soluzione semplice, che raggiunge l'obiettivo senza costare nulla allo Stato. Richiede un intervento statale perché la dispersione dei mutui rende impossibile una rinegoziazione spontanea. Ma, a differenza della proposta di McCain, cerca di ridurre al minimo il ruolo dello Stato e il costo per il contribuente. Che McCain non ricerchi soluzioni simili, ma imiti quelle dei democratici, è un segnale della débâcle politica e ideologica del partito repubblicano dopo otto anni di Bush.

(17 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. -
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 04:07:34 pm
Luigi Zingales.


Quale futuro per l'euro?


Senza una politica economica comune tra i paesi dell'Unione la moneta unica è a rischio  La Banca centrale europea a FrancoforteNegli ultimi due mesi l'euro ha perso il 22per cento rispetto allo yen e il 12 per cento rispetto al dollaro. Se la rivalutazione dello yen può essere spiegata con la relativa solidità del sistema finanziario giapponese in un contesto internazionale molto difficile, come spiegare l'apprezzamento del dollaro, visto che l'epicentro della crisi è stato e rimane l'America? Alcuni sostengono si tratti solo di un fenomeno temporaneo, di una fuga verso le valute più sicure. Ma perché il dollaro è considerato più sicuro dell'euro?

Purtroppo ci sono due motivi reali che mettono in dubbio la solidità dell'Unione monetaria europea. Il primo riguarda la capacità dell'Unione di affrontare la prima vera recessione dalla sua nascita. Lo svantaggio di avere una moneta unica è che la politica monetaria non può adattarsi alle esigenze dei singoli paesi. Con valute nazionali, quando la Spagna è in recessione, ma la Germania no, la Spagna può adottare una politica monetaria più espansiva, mentre la Germania può mantenere la sua più restrittiva per controllare l'inflazione. Ma quando c'è un'unica valuta, la politica monetaria non può accontentare tutti. Allora dev'essere espansiva per aiutare gli spagnoli o restrittiva per prevenire il rischio di inflazione in Germania? Finora questa tensione è stata limitata. Le economie dei paesi europei si sono mosse in modo sincrono, eliminando il rischio di tensioni politiche tra nazioni.

Purtroppo questo fortunato periodo è terminato. Spagna, Portogallo e Irlanda risentono fortemente gli effetti della fine del boom immobiliare. In Irlanda si prevedono tre anni di crescita negativa del Pil, con forti deficit di bilancio. Per Spagna e Portogallo le previsioni si aspettano almeno un anno di recessione. Secondo le stesse previsioni, la Germania continuerà a crescere.

Qual è allora la politica monetaria giusta per la Banca centrale europea? Finora la paura dell'inflazione ha fatto prevalere una politica filo-tedesca restrittiva. Ma il crollo dei prezzi delle materie prime e lo spettro di una deflazione mondiale rendono difficile sostenere ancora queste posizioni. Se non c'è un pronto cambiamento di rotta, le tensioni centrifughe aumenteranno vertiginosamente.

L'altro motivo di incertezza sull'euro riguarda la capacità dei paesi membri di sostenere il peso dell'attuale crisi finanziaria. Nell'intervenire sul sistema bancario gli Stati Uniti hanno un grosso vantaggio: se il peso degli impegni presi dovesse rivelarsi sproporzionato alla capacità di assorbimento dei contribuenti, gli americani possono soddisfare questi impegni stampando moneta. I paesi dell'area euro invece non possono farlo, almeno non unilateralmente. Questo limite genera dubbi sulla solvibilità di alcuni governi europei, a cominciare da quello italiano. Il governo italiano non ha quantificato l'ammontare stanziato a sostegno del sistema bancario. Se l'avesse fatto sarebbe risultato evidente che il rischio è notevole. Se lo Stato fosse costretto ad assumersi effettivamente l'onere del debito delle banche italiane, il costo sarebbe stratosferico. Se lo Stato dovesse assumersi i debiti anche solo delle tre principali banche italiane, il rapporto tra debito e Pil raddoppierebbe, arrivando a più del 200 per cento. Un tale rapporto imporrebbe un peso fiscale insostenibile, che costringerebbe l'Italia a una dichiarazione di insolvenza. Ovviamente si tratta di un'ipotesi estrema. Se anche queste banche dovessero essere insolventi, l'onere per il governo sarebbe solo la differenza tra il valore del debito garantito e quella dell'attivo. Ciononostante è un rischio che il mercato percepisce come reale. Il costo di assicurarsi contro il rischio di una dichiarazione di insolvenza del sistema italiano suggerisce che il mercato attribuisce all'incirca il 2 per cento di probabilità a questo evento. Sembra poco, ma è sufficiente per creare incertezza sull'euro. Anche perché il problema non è solo italiano. La Grecia e l'Irlanda sono messe anche peggio.

Per fugare questi dubbi è necessario che i paesi dell'euro sviluppino una politica economica comune e un meccanismo di mutuo soccorso in caso di difficoltà. Negli Stati Uniti non è stato il governo della California a salvare Washington Mutual, una banca principalmente californiana, ma il governo federale. Senza un meccanismo di redistribuzione fiscale le unioni monetarie non hanno vissuto a lungo. L'euro non sarà un'eccezione.

(07 novembre 2008)
Da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. - Tentazione protezionismo
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 10:24:14 pm
Luigi Zingales.

Cura drastica per la GM


Il Congresso dovrà essere inflessibile sul piano di riassetto della casa di Detroit  Il segretario al Tesoro, Henry PaulsonIl congresso americano ha dimostrato una coerenza superiore alle previsioni. Di fronte alle richieste di sussidio degli amministratori delegati dei tre colossi automobilistici (General Motors, Ford, e Chrysler) non ha ceduto ed ha chiesto un piano di ristrutturazione credibile entro il 2 dicembre.

La situazione non è facile. Le vendite di automobili, già decimate nel 2007-2008 dagli aumenti del prezzo del petrolio, sono crollate nel mese di ottobre (meno 45 per cento per GM, meno 35 per cento per Chrysler e meno 32 per cento per Ford). Alla recessione si sommano i problemi sul mercato creditizio che hanno reso pressoché impossibile finanziare l'acquisto di autovetture, riducendone fortemente gli acquisti. In questi frangenti, GM ha cassa sufficiente solo per un paio di mesi. Chrysler non sta molto meglio. Solo Ford ha la speranza di evitare la bancarotta anche senza gli aiuti statali.

Di fronte a questa catastrofe, i manager americani si sono lanciati alla ricerca del sussidio statale. Gli interventi a favore delle banche proposti dal ministro del Tesoro repubblicano Paulson (e approvati dal Congresso) hanno scatenato la cupidigia di tutti. Dai comuni, ai falegnami, da General Electric a General Motors la corsa al sussidio sembra inarrestabile. L'America si sta trasformando in un'economia mista dove si privatizzano i profitti, ma si socializzano le perdite.

Con questo non voglio minimizzare il dramma di GM. Con 150 mila dipendenti negli Stati Uniti e 250 mila nel mondo, il fallimento di GM sarebbe un disastro economico e sociale. Il suo fallimento metterebbe in ginocchio anche molti dei suoi fornitori e tutti i suoi concessionari, con una perdita stimata di 3 milioni di posti di lavoro.

Il rischio di tale disastro, però, non può farci dimenticare che i problemi della prima casa automobilistica Usa non nascono ora. Nonostante gli sforzi effettuati, il costo del lavoro di GM è il 50 per cento più elevato di quello di Toyota Usa. E sono da più di 30 anni che GM non produce macchine competitive, con l'eccezione del mostruoso Hummer, in grado di fare solo sei chilometri con un litro di benzina. Non può neppure farci dimenticare che la domanda americana di automobili è in forte contrazione e che questo richiede un'altrettanta forte riduzione dell'offerta. Con o senza fallimento di GM, i licenziamenti nel settore saranno elevati.
 
Purtroppo il prestito di 25 miliardi di dollari richiesto (più di centomila euro a dipendente) è solo un palliativo. Serve per sopravvivere qualche mese nella speranza di un cambiamento della situazione economica o di un ulteriore sussidio statale. Noi italiani che abbiamo visto il declino dell'Alitalia conosciamo bene i deleteri effetti dei sussidi 'temporanei'.

Ma allora qual è la via di uscita? Per fortuna, l'insolvenza non determina subito la liquidazione. In America esiste la possibilità di una riorganizzazione sotto la supervisione del giudice (chiamata Chapter 11). Il vantaggio di questa soluzione è duplice. Da un lato, permette alla società di ottenere nuovi finanziamenti che godono di priorità (cioè sono pagati prima dei debiti esistenti in caso di liquidazione). Dall'altro, abolisce tutti i contratti esistenti (inclusi gli accordi con i sindacati), permettendo così una rinegoziazione totale.

L'unico vero problema è che nelle attuali condizioni di mercato una società in ristrutturazione (soprattutto se delle dimensioni di GM) non riesce a trovare facilmente i finanziamenti necessari per sopravvivere. Allora sì che l'insolvenza si tradurrebbe immediatamente in liquidazione, con danni per tutti, dipendenti in testa.

In questo caso sarebbe inevitabile che lo stato intervenisse con un prestito, ma si tratterebbe comunque di un prestito con priorità, nel contesto di un'operazione di ristrutturazione. Non un palliativo per rimandare i problemi correnti. Ma il Congresso americano ha giocato d'anticipo, chiedendo un piano di ristrutturazione convincente ancora prima che i colossi automobilistici arrivino allo stato di insolvenza. Vediamo se il 2 dicembre i rappresentanti di Washington si lasceranno incantare da un piano di facciata o se richiederanno interventi sostanziali. Nella seconda ipotesi non avremmo che da invidiare il senso di responsabilità del Congresso: con un parlamento simile, che non regala i soldi ma è in grado di forzare le ristrutturazioni necessarie, forse l'Alitalia sarebbe ancora una compagnia area degna di questo nome.

(28 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. Cosa manca all'Italia
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 12:49:32 am
Luigi Zingales


Cosa manca all'Italia


Per far emergere politici nuovi servono Internet, primarie e giudici che condannino i corrotti alla galera  Rod Blagojevich, governatore
dell'IllinoisL'entusiasmo per l'elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti ha generato anche in Italia la speranza di cambiamento. Dopo molti anni di un Berlusconi-Bush, perché non possiamo anche noi avere un nostro Obama?

In Italia non mancano certo persone con l'intelletto e il carisma di Obama, quello che manca è un meccanismo di selezione che permetta loro di emergere. Per comprendere il fenomeno Obama, quindi, è necessario capire come è nato (politicamente) e soprattutto come ha potuto affermarsi in un mondo corrotto, come quello dell'Illinois, il neo presidente degli Stati Uniti. Per capirlo basta guardare al fallimento della sua controfigura, l'attuale governatore dell'Illinois, Milorad Blagojevich, arrestato la settimana scorsa con l'accusa di aver tentato di vendere al miglior offerente il seggio senatoriale lasciato proprio da Obama.

Nel 2002 Blagojevich era un astro nascente, mentre Obama non aveva alcuna chance. Quell'anno Obama aveva appena perso la corsa per un posto al Congresso, battuto dalla macchina elettorale del sindaco Daley. Chicago (e l'Illinois in genere) sono uno dei posti più corrotti degli Stati Uniti, dove le posizioni politiche sono tramandate da padre in figlio e le carriere terminano per lo più in galera. L'attuale sindaco è figlio del famoso sindaco di Chicago che nel 1960 si dice abbia fatto vincere John Kennedy facendo votare anche i morti. Delay padre controllò sempre la città con una rete capillare di boss locali che distribuivano favori in cambio di voti. Il figlio ne ha ereditato non solo il posto, ma anche il sistema. Fino a qualche anno fa, il più importante deputato dell'area di Chicago era Daniel Rostenkowski, figlio di uno dei 'boss di quartiere' della macchina del vecchio Daley. Finì in prigione per uso improprio di fondi pubblici nel 1996. Anche l'ex governatore Ryan nel 2006 finì in prigione per corruzione.

Proprio nel 2002 Milorad Blagojevich, già da sei anni deputato al Congresso, diventa governatore dell'Illinois e comincia a sognare la presidenza. Giovane (ha solo qualche anno di più di Obama), fotogenico, con una faccia pulita (le impressioni spesso ingannano), Blagojevich appena eletto governatore inizia la sua campagna per presidente. E la comincia nel modo più tradizionale: raccogliendo fondi in cambio di favori. Sebbene fosse figlio di un operaio dell'acciaio, Blagojevich non era un uomo nuovo. Non potendo contare su di un padre famoso, era entrato in politica usando l'alternativa maestra nei sistemi corrotti: sposando la figlia di uno dei boss di quartiere del vecchio Daley. E dal suocero aveva ereditato non solo i contatti, ma anche il modo di fare politica.

Che cosa ha fermato Blagojevich e spinto Obama? Innanzitutto un sistema giudiziario che funziona. I modi spregiudicati di Blagojevich attirarono subito le indagini della magistratura. Come per il suo predecessore al Congresso (Rostenkowski) e per il suo predecessore al governatorato dell'Illinois (Ryan), la carriera di Blagojevich viene distrutta dalla magistratura. Una magistratura che non indaga soltanto, ma anche condanna i colpevoli e li rinchiude in galera. Nonostante i suoi settant'anni, l'ex governatore Ryan è oggi in prigione, da cui uscirà solo nel 2013. Come nel campo economico solo i sistemi che forzano l'uscita delle imprese inefficienti permettono l'entrata di nuove imprese innovative, così in campo politico solo i sistemi che rinchiudono in galera i politici corrotti permettono ai politici onesti di affermarsi.

Il secondo ingrediente fondamentale che ha permesso il fenomeno Obama è il meccanismo delle primarie. Se le candidature fossero decise dalle segreterie dei partiti, oggi avremmo un presidente Blagojevich (o un presidente Clinton), non un presidente Obama. Come nel campo economico la competizione è il sistema migliore per selezionare le imprese più innovative ed efficienti, così in campo politico è la competizione a viso aperto che seleziona i candidati migliori.

Il terzo ingrediente è la diffusione di Internet, che ha permesso a Obama di raccogliere più fondi di qualsiasi politico consumato. Come nel campo economico l'accesso al pubblico risparmio permette alle nuove imprese di crescere, così in campo politico l'accesso al finanziamento del pubblico (invece che al finanziamento pubblico) permette ai candidati nuovi e onesti di vincere.

In Italia Internet si sta diffondendo e anche le primarie stanno lentamente affermandosi come metodo di selezione dei candidati. Quello che ci manca è una magistratura che metta in galera i politici corrotti e ce li tenga per molti anni!

(18 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. - Tentazione protezionismo
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2008, 12:06:03 am
Facciamo un bel default

di Luigi Zingales


Il nostro Paese secondo alcune Cassandre rischia il fallimento. Ma cosa succederebbe se davvero accadesse? Gli scenari di un economista  L'Italia non ce la fa, andava ripetendo Rudiger Dornbusch illustre e rimpianto economista di Mit, nel lontano 1989. E si riferiva al debito pubblico. Dornbusch sosteneva non solo che il nostro debito era insostenibile, ma che dichiarare default era la soluzione migliore per l'Italia. Un forte taglio del debito avrebbe reso possibile una riduzione del carico fiscale, permettendo all'Italia una crescita più elevata. Dornbusch sosteneva addirittura che un default fosse giusto, visto che lo Stato aveva pagato per molti anni un forte premio per il rischio. Una restituzione solo parziale avrebbe solo riportato il rendimento effettivo dei titoli pubblici a livelli normali.

Le sue previsioni si dimostrarono errate. Negli ultimi vent'anni l'Italia non solo è riuscita a sostenere il peso del debito pubblico, ma addirittura a ridurlo: da più del 120 per cento del Pil a 'solo' il 105 per cento. Ma è riuscita a farlo in condizioni economiche globali molto favorevoli e al prezzo di una crescita molto limitata: solo l'1,4 per cento l'anno contro il 2,3 per cento della media europea.

A fare la Cassandra oggi non è più Dornbusch, prematuramente scomparso, ma il più impersonale mercato dei credit default swap, un nome complicato per indicare contratti di assicurazione contro i rischi di fallimento. Dal costo di questa assicurazione si può dedurre la probabilità di default attribuita dal mercato: per lo Stato italiano 4,6 per cento all'anno (circa il 13 per cento su tre anni). È ragionevole?
Per rispondere a questa domanda è necessario capire come e quando gli Stati sovrani dichiarano bancarotta (come fece l'Argentina nel 2001). Un'impresa paga i suoi debiti per evitare che i creditori se ne impossessino, vendendone i beni. Nel caso di uno Stato sovrano non è così. Fortunatamente, i creditori dello Stato italiano non possono impadronirsi del Colosseo e venderlo all'asta. L'unica arma in loro possesso è quella di non prestare più. Questo rischio è sufficiente a indurre la maggior parte dei paesi a non fare default perché la maggior parte dei paesi (tra cui il nostro) sono perennamente in deficit e quindi bisognosi di prendere a prestito continuamente. Da un punto di vista strettamente economico, un default diventa conveniente solo se un governo risparmia così tanto in spese da interessi da non dover tornare più sul mercato del credito per molti anni.

Con una spesa per interessi pari al 5 per cento del Pil e un deficit che viaggia intorno al 3 per cento, difficilmente un default eliminerebbe all'Italia la necessità di nuovi prestiti. Anche se seguissimo l'Argentina, ripagando solo il 20 per cento del debito (portando la spesa per interessi all'1 per cento del Pil), ci troveremmo con un avanzo di bilancio di solo l'1 per cento del Pil, troppo poco per fronteggiare una recessione severa senza accesso al debito.

Si sbaglia il mercato? In questo periodo di forte volatilità è possibile che le probabilità implicite in questi contratti riflettano più l'avversione al rischio degli operatori che una stima accurata della probabilità che un default si realizzi. D'altra parte anche il governo americano (che puo' stampare la sua moneta) ha una probabilità di bancarotta pari al 1,5 per cento all'anno o 4,4 per cento su tre anni.
Se vogliamo credere a queste stime, gli scenari più plausibili sono due. Il primo è di una crisi dell'euro dovuto a tensioni interne su come fronteggiare la recessione.

Se l'euro dovesse disintegrarsi sull'opportunità di una politica monetaria e fiscale espansiva, l'Italia, con una moneta debole, si troverebbe a dover pagare tassi di interesse proibitivi. A questo punto il default sarebbe una necessità, non una scelta. Il secondo scenario vede l'Italia soccombere alla tentazione di una svalutazione competitiva. Se, come si teme, la recessione è molto seria con una caduta del Pil superiore al 5 per cento, la tentazione populista di uscire dall'euro per svalutare e ridare fiato alle esportazioni potrebbe diventare seria. Anche in questo caso, il default sarebbe una conseguenza inevitabile dell'uscita dall'euro. Quello che rende questo scenario possibile è che nel breve periodo l'Italia trarrebbe dei benefici rilevanti da questa doppia manovra. Con più di metà del debito pubblico detenuto all'estero, il default sarebbe una tassa pagata prevalentemente dagli stranieri.

Un'impennata di inflazione, non solo possibile ma anche probabile con una moneta nazionale, ridurrebbe il valore delle promesse pensionistiche, permettendo una riduzione del peso dei contributi sociali e quindi favorendo l'occupazione. La svalutazione, se non seguita da una serie di svalutazioni competitive degli altri paesi europei, permetterebbe una esplosione delle esportazioni, rimettendo in moto la crescita.

Ovviamente questa strategia avrebbe costi molti elevati nel lungo periodo. L'ancoraggio della nostra valuta all'euro era una scommessa che le nostre istituzioni potessero adeguarsi a quelle europee. Il default sarebbe un'ammissione non solo che abbiamo fallito in questo adeguamento (purtroppo questo è già evidente), ma che abbiamo perso perfino la speranza di riuscirci in futuro.
Se a prevenire il default fossero solo i costi di lungo periodo, non dormiremmo sonni tranquilli: difficilmente i politici, tanto più quelli nostrani, sacrificherebbero un guadagno immediato per un costo futuro. A prevenire il default sono invece gli effetti redistributivi. La doppia manovra tasserebbe gli anziani (che possiedono più titoli pubblici e diritti pensionistici) e favorirebbe i giovani, che si vedrebbero ridotti il carico fiscale e aumentate le prospettive occupazionali. Da un punto di vista sociale potrebbe trattarsi di una redistribuzione giustificata. Se oggi abbiamo un elevato debito pubblico e pensionistico è perché la generazione dei nostri padri ha speso senza pagare le tasse, scaricando il costo su di noi.

E se oggi il peso delle pensioni è così elevato, è perché quella stessa generazione si è promessa (sulla nostra pelle) pensioni sproporzionate rispetto ai contributi versati. Un default sarebbe solo una vendetta, crudele sì ma non del tutto ingiustificata. Ma a prevenire che questa vendetta possa consumarsi osta il fatto che quella generazione è ancora al potere. Con un presidente del Consiglio ultrasettantenne e un presidente della Repubblica ultraottantenne, l'interesse dei giovani può aspettare e i titoli di Stato sono al sicuro... Europa permettendo.

(30 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. Quanto vale la fiducia
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2009, 11:44:16 pm
Luigi Zingales.


Quanto vale la fiducia


Il consumatore americano non si fida più a investire in un mercato in cui le regole sono falsate dai continui interventi della Fed e del governo  L'unica cosa che dobbiamo temere è la paura, disse Franklin Roosevelt nel suo discorso inaugurale nel gennaio 1933. E nessuna citazione sarebbe più appropriata di questa per il discorso inaugurale del neopresidente Obama. Recuperare la fiducia nel Paese e nelle sue capacità di crescita è fondamentale. I dati sulla disoccupazione sono drammatici: 2,5 milioni di posti di lavoro persi nel 2008, il 75 per cento dei quali negli ultimi quattro mesi. A questo ritmo la disoccupazione potrebbe raggiungere il 12 per cento alla fine del 2009.
Per fronteggiare questa terribile crisi la maggior parte dei policy maker si è riscoperta keynesiana. Tutti parlano della necessità di uno stimolo fiscale che sostenga la domanda aggregata americana, per compensare la caduta dei consumi familiari. Il rischio di una simile manovra è che curi i sintomi invece che le cause della presente recessione. La riduzione dei consumi delle famiglie americane è un effetto salutare della crisi. Negli ultimi anni le famiglie avevano complessivamente speso più di quello che avevano guadagnato, uno squilibrio sostenuto da un forte accesso al credito reso possibile dal boom immobiliare.

Da parte sua l'amministrazione Bush aveva accentuato questo problema con una spesa federale di gran lunga superiore alle entrate. Se sia le famiglie che lo Stato consumano più di quanto guadagnano, chi paga il conto? In parte le imprese, che hanno speso meno di quello che hanno guadagnato, ma soprattutto il settore estero: negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno importato molto più di quello che hanno esportato. In altre parole, a finanziare i consumi americani sono stati i tedeschi e i cinesi, che hanno forti avanzi nei loro scambi commerciali con gli Stati Uniti.
Questo squilibro puo essere risolto solo in tre modi: con un aumento della domanda da parte dei paesi in surplus commerciale (tedeschi e cinesi), con un'ulteriore svalutazione del dollaro, e con un aggiustamento nella produzione americana verso prodotti e servizi che rimpiazzino le importazioni o aumentino le esportazioni.

Un aumento della spesa pubblica finanziato con debito fa poco o nulla per risolvere questo squilibrio. Anzi lo esagera. Da un lato, sostenendo la domanda, non fa altro che perpetuare il disavanzo commerciale. Dall'altro, sostenendo l'occupazione nei settori tradizionali, rallenta se non blocca il processo di aggiustamento. Paradossalmente, l'unico modo in cui lo stimolo fiscale può aiutare a risolvere lo squilibrio di fondo è se il disavanzo pubblico diventa così elevato da creare una crisi di fiducia nel dollaro, che porti a una forte svalutazione. Non penso che questo sia l'obiettivo dell'amministrazione Obama.

Ma allora perché la maggior parte degli economisti si professano a favore di un forte stimolo fiscale? Da un lato per paura. Il rischio di una disoccupazione al 12 per cento e lo spettro incombente della Grande Depressione incutono il terrore tra i policy maker. Nessuno vuole essere percepito un domani come corresponsabile di una nuova depressione. E visto che la Grande Depressione fu preceduta dall'immobilismo dell'amministrazione Hoover, oggi tutti si mostrano iperattivi.

L'altro, più serio motivo, è la convinzione che la crisi corrente sia accentuata dal panico. Le scelte economiche non sono solo il frutto della parte razionale del nostro cervello. Sono spesso governate dagli istinti, quegli 'animal spirits' di cui parla Keynes. Questo è tanto più vero in momenti traumatici come l'attuale. Paradossalmente il Keynes a cui tutti si rifanno non è quindi il Keynes economista ma il Keynes psicologo, che vedeva nell'intervento statale il modo per calmare e guidare questi animal spirits.
Se lo stimolo fiscale è il prezzo che dobbiamo pagare per calmare questi istinti animali, ben venga. Ma su quali basi? Se l'obiettivo è tranquillizzare gli animi e ridare fiducia, perché non affidarsi a degli psicologi veri e non a degli economisti che si improvvisano tali? Magari riescono a risolvere il problema con meno di 700 miliardi. Perché il problema oggi non è che il consumatore americano non spende abbastanza, ma che non si fida più a investire in un mercato le cui regole sono falsate ogni giorno dall'intervento della Fed e del governo. Forse lo stimolo più efficace che Obama può dare all'economia americana è la promessa che d'ora in poi il governo americano interverrà solo a protezione dei deboli, ma non sovvertirà le fondamentali leggi di mercato. È una piccola promessa, ma vale più di 700 miliardi.

(16 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. - Tentazione protezionismo
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 05:28:34 pm
Luigi Zingales


Tentazione protezionismo


Perché bisogna difendere il libero scambio anche in tempi di recessione. Evitando facili demagogie  Era inevitabile. Con l'aggravarsi della recessione, lo spettro del protezionismo si aggira non solo per l'Europa, ma per il mondo intero. L'abbiamo visto in Gran Bretagna, dove i lavoratori inglesi hanno manifestato contro l'impresa italiana che aveva vinto una commessa in loco. L'abbiamo visto negli Stati Uniti, dove il Congresso americano ha inserito nel pacchetto di stimolo la condizione che le imprese che ricevono lavori pubblici devono usare acciaio 'made in the Usa'. L'abbiamo visto in Spagna, dove il governo paga gli immigrati che se ne ritornano nel loro paese d'origine.

Per quanto prevedibile, l'insorgere di tendenze protezionistiche è l'aspetto di gran lunga più preoccupante di questa crisi. Tutti gli economisti sono d'accordo che il motivo principale per cui la crisi finanziaria americana del 1929 si tradusse in un decennio di depressione mondiale seguito da una spaventosa guerra fu l'insorgere del protezionismo. Il commercio internazionale non è un gioco a somma zero, in cui le nostre esportazioni rubano posti di lavoro all'estero e le nostre importazioni li rubano a noi, ma un gioco a somma positiva. Il progresso dell'umanità iniziò quando l'uomo primitivo smise di fare tutti i mestieri da solo, ma decise di organizzarsi in una comunità e a dividersi i compiti. Chi era più veloce si dedicava alla caccia, chi più resistente al lavoro nei campi, chi più abile manualmente alla tessitura. Il risultato di questa specializzazione, in cui ognuno si concentrava a fare solo quello che sapeva fare meglio, fu un aumento della produzione e quindi del benessere per tutti. Se questa divisione del lavoro aumenta il benessere in una comunità di cento persone, a maggior ragione lo fa quando la comunità diventa di sei miliardi di persone. Se a progettare i nuovi computer sono i più dotati al mondo, e non solo i più dotati del villaggio, i computer saranno di gran lunga migliori e molto meno costosi.

Se il principio è così semplice, perché è così difficile da accettare? Perché la globalizzazione richiede aggiustamenti e spesso sovverte l'ordine esistente. Il genio del villaggio rischia di perdere la sua supremazia, mentre quello che era considerato lo scemo può finire ad essere il miglior clown del mondo. Anche se complessivamente il villaggio ci guadagna, se il genio locale ha più potere politico dello scemo, il protezionismo finisce per prevalere. Quello che deve sorprendere non è tanto la rinascita del protezionismo, ma la sua temporanea sconfitta. Negli ultimi trent'anni abbiamo visto un'esplosione della globalizzazione. Come è stata possibile?

La riduzione dei costi di comunicazione prodotta dai satelliti prima e dai computer dopo ha aumentato a dismisura i benefici del libero scambio. Alcuni paesi hanno cominciato ad aprirsi maggiormente e questo ha messo in moto un circolo virtuoso. Quando i partner commerciali aprono le loro frontiere, i benefici del libero scambio sono così forti che è difficile per gli altri paesi rimanere protezionisti. Di fronte a questi benefici le resistenze delle élite locali sono state travolte. Il crollo del muro di Berlino è il simbolo di questa rivolta pacifica che ha portato trent'anni di straordinario progresso economico e pace nel mondo.

Purtroppo questo periodo d'oro sembra essersi concluso. I vantaggi del libero scambio rimangono, ma i benefici ulteriori sono minori e le tentazioni di tornare indietro si fanno sentire, soprattutto in un periodo di recessione. Quando la disoccupazione sale, paga politicamente giocare la carta protezionista. Ma è un gioco pericoloso. Innanzitutto, il protezionismo è contagioso. Se l'America diventa protezionista è più costoso per l'Europa mantenere aperte le sue frontiere e viceversa. In secondo luogo, alimentare il protezionismo stimola il nazionalismo, se non la xenofobia e il razzismo.

La precedente era d'oro della globalizzazione cominciò alla fine del Diciannovesimo secolo, con la riduzione dei costi di trasporto, e terminò negli anni Trenta sotto la pressione della crisi internazionale. Il rischio che la storia si ripeta è reale. Per evitarlo non bastano dichiarazioni di principio a Davos. Occorre l'impegno di ogni leader politico a proteggere il libero scambio e non usare la retorica protezionista a fini elettorali. Finora Obama ha mantenuto una posizione molto ambigua. Il voto del Congresso lo costringe a venire allo scoperto. Ci auguriamo che prenda la decisione giusta, per il benessere non solo degli Stati Uniti, ma del mondo intero.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Zingales Un'authority per le banche
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 11:24:08 pm
Zingales

Un'authority per le banche


La politica monetaria alla Fed, il credito a una nuova entità. Per avere più trasparenza  Ben Bernanke governatore
della Federal ReservePrima di diventare governatore della Riserva Federale, Ben Bernanke era conosciuto tra gli economisti come 'helicopter Ben'. Si era guadagnato questo nomignolo per il modo peculiare con cui sosteneva che la liquidità dovesse essere immessa nel sistema economico nelle situazioni più estreme: con lanci di banconote da un elicottero. Anche se non ha usato l'elicottero, Bernanke si è dimostrato degno del suo nomignolo, immettendo enormi quantità di denaro nel sistema.

Dopo il salvataggio di Bear Stearns, Bernanke si è guadagnato il nomignolo di 'bailout Ben', per le sue convinzioni che gli intermediari finanziari debbano essere salvati ad ogni costo. Come scrissi lo scorso anno, l'altra faccia del 'bailout Ben' era quella di 'regulator Ben'.

Se le grosse istituzioni finanziarie sono troppo grandi per fallire, la conseguenza logica è che debbano essere fortemente regolamentate: senza rischio di fallimento e senza regolamentazione mancherebbero di qualsiasi forma di disciplina, con le conseguenze ormai note a tutti. Come era facilmente prevedibile, quest'altra faccia è apparsa dopo l'elezione di Obama.

Con un discorso al Council on Foreign Relations, Bernanke ha reso esplicita la sua posizione in materia. A questo punto la domanda non è più se ci sarà nuova regolamentazione, ma quale forma questa regolamentazione dovrà prendere e chi dovrà supervisionarla.

Sul primo punto la risposta è relativamente semplice. Per eliminare il rischio di insolvenza bancaria basta imparare da come le banche si comportano con i loro clienti. Quando un cliente prende a prestito dei soldi per investire in Borsa, la banca richiede un margine di garanzia (ad esempio il cliente deve investire almeno il 20 per cento del costo dell'operazione) e una soglia minima al di sotto della quale o il cliente versa capitale addizionale o la banca liquida la sua posizione, prima che il valore del titolo scenda al di sotto del valore del debito.


La stessa idea si può applicare alle banche. Il capitale di rischio altro non è che il loro margine di garanzia. Il problema è che oggi tale margine è stato pensato solo per proteggere i depositati. Se l'obiettivo è quello di proteggere anche tutte le controparti di una banca contro il rischio di insolvenza, il livello di questo capitale di rischio deve aumentare significativamente. Ma questo non basta. Per quanto ampio sia questo capitale di rischio, può essere rapidamente depauperato da forti perdite.

Per eliminare il rischio di insolvenza delle banche è necessario introdurre un meccanismo di intervento rapido, simile a quello che la banca adotta con i propri clienti. Siccome non è pensabile un meccanismo di liquidazione forzata, è necessario avere almeno un meccanismo di amministrazione controllata che scatta ogniqualvolta le banche scendono al di sotto di una soglia minima di capitale di rischio e non siano in grado di reintegrarlo rapidamente con un'emissione azionaria. In amministrazione controllata il top management della banca viene rimpiazzato e la banca viene gestita con lo scopo di reintegrare il capitale di rischio o di liquidare lentamente l'attivo per soddisfare in toto i creditori.

L'aspetto più complicato è a quale organismo dare questo potere, che corrisponde a un diritto di vita o di morte sulle banche. Bernanke e tutte le banche centrali lo vorrebbero avere loro. Ma la funzione di stabilità sistemica è distinta da quella di gestione della politica monetaria, e può entrare in conflitto con essa. Quando una banca centrale sta cercando di stimolare l'economia, l'ultima cosa che desidera è che una delle principali banche venga gestita in maniera prudenziale in un'amministrazione controllata. Questo trade-off tra rischio di recessione e rischio di crisi sistemica è essenzialmente politico e deve essere risolto in modo trasparente, non all'interno di una burocrazia non soggetta ad alcun controllo politico.

Pertanto, questo potere deve essere assegnato a una nuova authority, diversa dalla Fed, che abbia come obiettivo primario la stabilità sistemica. Tale authority dovrebbe poi negoziare i propri interventi con la Fed e l'autorità di controllo della Borsa, in un apposito comitato, che pubblichi i verbali delle proprie decisioni, garantendo l'opportuna trasparenza.

La Fed, come tutte le banche centrali, si opporrà con veemenza a questa soluzione, che vede come una riduzione del proprio potere. Ma, come disse Lord Acton, un famoso storico inglese, il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe in modo assoluto.


(20 marzo 2009)
da espèresoo.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES.
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 10:48:52 am
Luigi Zingales.


La trappola titoli tossici


Grazie al piano Geithner le banche Usa potranno acquistare nuovi prodotti a rischio. E a pagare sarà il contribuente  La sede della Morgan Stanley
a New YorkSe fosse stata pubblicata due giorni prima poteva sembrare un fantastico pesce d'aprile. Ma la notizia apparsa sul 'Financial Times' il 3 di aprile è tristemente vera: le banche americane vogliono partecipare al nuovo programma di Geithner disegnato per aiutarle a liberarsi dai titoli tossici.

Ma come? È da 18 mesi che il governo (Bush prima ed Obama poi) va ripetendo che i bilanci bancari sono eccessivamente oberati dal peso dei titoli legati ai mutui. Se non le aiutiamo a liberarsi di questi titoli, sostiene il governo, le banche non hanno la capacità di fare prestiti, accentuando la crisi economica. Questa era la motivazione sottostante il piano proposto da Paulson il 19 settembre 2008 e questa era la motivazione della riedizione del piano Paulson presentata il 23 marzo scorso dal nuovo segretario del Tesoro americano Tim Geithner.

Se queste motivazioni sono vere, come si spiega che le principali banche (da Citigroup a Goldman Sachs, da Morgan Stanley a JP Morgan Chase) starebbero considerando di utilizzare il piano per comprare altri titoli tossici?

La risposta è fin troppo semplice: pecunia non olet. Al prezzo giusto (o meglio con un sussidio sufficientemente generoso) anche i titoli tossici non puzzano più tanto. E il sussidio offerto dal nuovo piano Geithner è veramente generoso. Per indurre il capitale privato a investire in titoli tossici il piano Geithner offre 86 dollari in prestito e 7 dollari come capitale di rischio per ogni 100 dollari di titoli comprati, lasciando ai privati l'onere di metterne solo 7. Per di più il prestito è 'non recourse'.

Questo significa che se il valore dei titoli è inferiore al valore del prestito, il governo assorbe interamente la perdita, senza alcun diritto di rivalsa sulle altre proprietà dell'investitore. In altri termini, se il prezzo dei titoli sale, gli investitori privati si prenderanno il 50 per cento dei guadagni, se scende i privati devono assorbire solo sette dollari di perdite.


È un enorme sussidio che trasferisce la maggior parte del rischio sul contribuente. Immaginatevi il seguente ipotetico scenario: Citigroup e Goldman posseggono entrambi 100 miliardi di dollari degli stessi identici titoli tossici. Grazie al piano Geithner con soli 7 miliardi di investimento Citigroup può comprare i titoli di Goldman.

La quale ricambierebbe investendo 7 dei 100 miliardi di dollari che riceve comprando 100 miliardi di titoli tossici da Citigroup attraverso il piano Geithner. Il risultato è che in cambio di 100 miliardi di titoli tossici di dubbio valore, entrambe le banche riceverebbero 93 miliardi in contante, mantenendo il diritto a ricevere il 50 per cento di qualsiasi possibile apprezzamento di questi titoli. Un vero affare.

A pagare il conto sarebbe il contribuente che si troverebbe ad aver investito 186 miliardi di dollari con prospettive di guadagno limitate e grossi rischi di perdite. Nel caso più estremo, in cui i titoli non valgono nulla, le due banche sarebbero comunque contente di effettuare questa operazione, perchè riceverebbero 93 miliardi ognuna a spese del contribuente.

La verità quindi non è che le banche devono essere liberate dai titoli tossici, ma che le banche vogliono essere salvate dal fallimento con i soldi dei contribuenti. Se questo è l'obiettivo, il piano Geithner sembra geniale. Utilizzando principalmente prestiti della Fed, il piano Geithner, a differenza del piano Paulson, non richiede alcuna approvazione da parte del Congresso, minimizzando l'esposizione mediatica e quindi il risentimento popolare. I suoi dettagli sono sufficientemente complicati da oscurare ai più la dimensione del sussidio. In questo modo le banche vengono salvate con i soldi dei contribuenti senza che questi se ne accorgano.

Dal punto di vista politico, pero, è un grosso rischio. Se i titoli tossici perdono molto valore e il governo si trova ad assorbire forti perdite, i contribuenti realizzeranno di essere stati ingannati e sfogheranno la loro rabbia contro l'attuale ministro del Tesoro e probabilmente anche contro Obama che lo ha nominato.

Se invece i titoli tossici aumentano fortemente di valore, un numero ristretto di investitori prescelti dal governo diventerà estremamente ricco, a spese dei contribuenti. Questo può scatenare una rabbia populista ancora maggiore, da far impallidire la reazione che ha suscitato il pagamento di bonus milionari ai manager di AIG, la compagnia di assicurazione sull'orlo del fallimento che è stata sostenuta con 180 miliardi dal governo. Geithner gioca col fuoco.

(09 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES.
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:52:25 pm
Luigi Zingales.


A che servono gli economisti


È vero che si sono sbagliate le previsioni sulla crisi. Ma non si può dimenticare che spesso la verità non piace a chi ci comanda  La sede della Aig a New YorkA che servono gli economisti? A domandarselo non è solo il ministro Giulio Tremonti, ma anche la rivista americana 'Business Week'. L'accusa sollevata contro gli economisti è di essere stati incapaci di prevedere la crisi e di non avere una soluzione condivisa. A raccogliere le critiche sono anche il 'Financial Times' e molti altri giornali. Quanto c'è di vero?

Per quanto riguarda la capacità predittiva, l'accusa è fondata ma ingiusta. È vero che la maggior parte degli economisti non è stata in grado di pronosticare il tracollo, ma, come i terremoti, eventi finanziari di queste dimensioni sono difficili da aspettarsi. Per di più se una crisi fosse correttamente anticipata, potrebbe essere evitata, rendendo la previsione errata. In altre parole, se la maggior parte degli economisti avesse anticipato un crollo dei prezzi delle case, gli stessi prezzi non sarebbero saliti così vertiginosamente, rendendo errata la previsione di un crollo. Per definizione, quindi, le grandi crisi sono imprevedibili.

Ciononostante la critica ha dei fondamenti. Anche se il compito principale degli economisti non è quello di fare le previsioni, una delle maggiori responsabilità di chi lavora al Fondo monetario internazionale o in una banca centrale è di metterci in guardia dai possibili rischi cui ci espone il nostro sistema finanziario. In questo senso noi tutti economisti, con poche eccezioni, abbiamo sbagliato. Purtroppo, questo fallimento non è un caso, ma è il risultato di incentivi perversi.

Uno dei governatori della Riserva federale americana, Edward M. Gramlich, avvertì per anni l'allora presidente dello stesso istituto centrale, Alan Greenspan, sui rischi di una crisi immobiliare. Purtroppo Gramlich morì di leucemia prima che le sue previsioni si avverassero. Malattia a parte, la sua posizione coraggiosa non gli conquistò molti amici: dire la verità non paga quando questa verità non è gradita a chi ci sta sopra. D'altra parte la favola del re nudo di Hans Christian Andersen non è stata inventata per gli economisti, purtroppo è universale. Ma questo non esime gli economisti dalle loro responsabilità. Non ci sono state abbastanza analisi critiche sui possibili rischi. Era troppo facile dire che tutto andava bene e ignorare che il re era nudo.

La seconda accusa sollevata contro gli economisti è di avere visioni così contrastanti sui rimedi della crisi da risultare irrilevanti. Sembra un paradosso visto che nel 2006 Paul Krugman, vincitore del premio Nobel in economia ed editorialista del 'New York Times', scrisse nel suo libro di testo che "uno dei segreti della macroeconomia è quanto consenso è stato raggiunto negli ultimi settant'anni". Questo consenso sembra oggi svanito come neve al sole. Mentre lo stesso Krugman accusa Obama di aver approvato un piano fiscale troppo prudente, 250 economisti firmano un appello denunciando il piano del capo della Casa Bianca come fiscalmente irresponsabile. La causa di questo dissenso è la straordinarietà della crisi attuale. Finché il ciclo economico seguiva delle fluttuazioni standard, era facile predire il futuro estrapolando il passato. Ma quando il ciclo rompe tutti gli schemi, la situazione diventa così lontana da quella ordinaria che nessuno sa cosa succederà. È in questi frangenti, dove l'analisi empirica non può farci da supporto per la mancanza di dati (per fortuna le grandi crisi sono rare), che l'ideologia prevale. Non sorprendentemente Krugman e i 250 economisti che hanno criticato il piano di Obama sono agli estremi opposti dello spettro politico.

Ma il fatto più sorprendente di questa crisi è - come ebbi occasione di scrivere con Oliver Hart in un articolo apparso sul 'Wall Street Journal' - che gli economisti sono oggi facilmente disposti a violare i loro stessi principi.

Per esempio, quale principio economico giustifica il salvataggio di un'assicurazione come Aig? Non solo questo intervento si è tradotto in un trasferimento di denaro dal contribuente ai creditori della Aig ma, sussidiando i creditori, ha anche distrutto gli incentivi per i creditori futuri a selezionare i prenditori più affidabili. Questa obiezione è stata ignorata con l'alibi di dire che, quando una casa è in fiamme, il primo obiettivo sia quello di spegnere l'incendio. Ma così facendo si piantano i semi per la prossima crisi. È discutibile che gli economisti siano tra i principali responsabili di questa crisi, ma, con questo loro comportamento, sono certamente i principali responsabili della prossima.

(30 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. Sogno americano addio
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2009, 10:42:16 am
Sogno americano addio

di Luigi Zingales
 
 13 maggio 2009
 


All'indomani del salvataggio di Aig scrissi sul Sole 24 Ore (20 settembre 2008) che la crisi segnava la fine del capitalismo americano come noi l'abbiamo conosciuto. Oggi, a otto mesi di distanza, il dibattito iniziato da Guido Tabellini mi permette di ritornare su questo punto. E devo ammettere che rimango della stessa opinione, anzi sono ancor più radicato nel mio convincimento. Non penso affatto alla fine del capitalismo, ma a sostanziali cambiamenti nel modo in cui il capitalismo è vissuto negli Stati Uniti. E purtroppo questi cambiamenti non sono per il meglio. A farmi dissentire dalle opinioni di Guido Tabellini non è una diversità di vedute sulle cause della crisi. Anzi apprezzo molto e condivido la sua lucida analisi. Naturalmente ci sono differenze di enfasi. Io avrei maggiormente accentuato la responsabilità della politica monetaria espansiva di Alan Greenspan.

Avrei sottolineato anche il ruolo che il debito a breve ha avuto sul precipitare della crisi. Quello che mise in crisi Bear Stearns, Lehman, Merryl Lynch, e poi (all'apice della crisi) anche Morgan Stanley e Goldman non fu solo la leva finanziaria, ma l'enorme quantità di debito a breve.
Se Goldman Sachs, oggi dichiarata ampiamente solvente dallo stress test, rischiava di fallire a fine settembre non era perché aveva troppo debito in assoluto, ma perché aveva troppo debito a breve. In una situazione d'incertezza il creditore a breve ha un'unica scelta razionale: scappare. Per quanto elevato sia il rendimento offerto, su un orizzonte di pochi giorni non vale il rischio di un'insolvenza. Ecco perché nell'incertezza sia Morgan che Goldman videro la fuga dei creditori a breve. Per ripagare questi crediti tutte le investment banks si videro costrette a liquidare rapidamente parte dell'attivo, sopportando grosse perdite e quindi rendendo più probabile l'insolvenza vera. A parità di leva finanziaria, la quantità di debito a breve è un forte meccanismo d'instabilità sistemica che deve essere in qualche modo considerato per evitare una tragica ripetizione.

Ma si tratta di dettagli. Condivido la linea di fondo e la necessità di alcune riforme. Nonostante questa identità di vedute, però, non sono d'accordo sulla predizione che tutto tornerà come prima e meglio di prima. A differenziarmi da Tabellini è la mia prospettiva americana e, paradossalmente, la mia visione di political economy (dico paradossalmente perché il massimo esperto di political economy è lui).
Da una prospettiva europea, capisco che il capitalismo di domani non sembra molto diverso da quello di ieri. Il governo ha sempre influito massicciamente sull'economia e in particolar modo sulle banche. E il governo ha sempre pagato questa influenza con ampi sussidi (espliciti e impliciti) di varia natura. In questo contesto, l'intervento deciso dai vari ministri europei e in particolar modo l'intervento del governo italiano sono ben poco al di fuori dell'ordinario. Nel nostro paese la diffidenza contro i principi di mercato è ben diffusa sia tra la maggioranza che tra l'opposizione. Anche se la crisi sposterà un po' il pendolo, non si tratterà di una variazione sistemica.

Ben diversa è la storia negli Stati Uniti. Dalla vittoria di Reagan in poi si era affermato il principio che lo Stato era il problema, non la soluzione dei problemi. Si era affermato il principio che la disuguaglianza doveva essere tollerata per produrre incentivi migliori, perché questi incentivi migliori avrebbero generato crescita e benessere per tutti. Si era affermato il principio che lo Stato non aveva diritto d'intromettersi nel business privato. Drexel ed Enron erano state lasciate fallire, nonostante le implicazioni sistemiche di queste decisioni, perché la maggioranza degli americani credeva fermamente nel principio "chi sbaglia paga". Questo principio faceva tollerare all'americano medio le centinaia di milioni di dollari guadagnati dai top manager. Forniva le basi morali per un consenso sociale nel libero mercato che non aveva eguali in Europa.

Purtroppo la crisi (e ancor più la gestione della crisi) ha minato queste basi in un modo che io considero irreparabile. Come si fa ancora a credere a quei principi quando si vedono quegli stessi banchieri, che altezzosamente difendevano i loro compensi, chiedere allo Stato di accollarsi le perdite? Come si fa a credere in questi principi quando lo Stato interviene a giorni alterni dando l'impressione di favorire gli amici del governo? Come si fa a credere in questi principi quando il governo espropria i creditori di Chrysler con garanzie reali esercitando pressioni politiche che avrebbero fatto impallidire anche il peggior ministro democristiano?
L'americano non si fida più del sistema di mercato. Non solo il 65% degli americani vuole un tetto per legge agli stipendi dei manager, il 60% vuole un maggior coinvolgimento dello Stato nella gestione delle imprese. Non per fiducia nello Stato, ma per mancanza di fiducia nelle imprese. Questa mancanza di consenso sociale porta il capitalismo ad arroccarsi. Per sopravvivere di fronte alla minaccia populista, i capitalisti colludono con lo Stato. Scambiano favori. Il libero mercato si trasforma in una casta di potere economico (parte politica, parte privata) che si autosostiene. Non è un caso che due giorni dopo che il Congresso americano ha votato la tassa del 90% sullo stipendio dei manager, il governo ha offerto condizioni d'enorme favore ai pochi fondi privati ammessi a partecipare ai suoi programmi d'investimento.
 
Ma perché - mi chiederete - questo dovrebbe interessare a noi europei? Perché nel bene e nel male gli Stati Uniti nel dopoguerra sono stati la forza trainante del libero mercato a livello mondiale. La liberalizzazione a livello mondiale del movimento di merci e capitali deve molto alle pressioni americane. Dove andrà il capitalismo mondiale senza di essa? Difficile dirlo, ma non sarà più come prima. Di certo sopravviverà. Ma sarà un capitalismo dove prevale la libertà d'iniziativa privata e la competizione o un capitalismo di relazione stile renano?

13 maggio 2009
da ilsole24ore.com


Titolo: Luigi ZINGALES. Un Marchionne per le banche
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:28:14 am
Luigi ZINGALES


Un Marchionne per le banche


Il settore automobilistico si ristruttura mentre nelle banche continua a prevalere l'immobilismo e la "Geronzocrazia"  In cinese la parola 'crisi' (weiji) è formata da due caratteri: uno (wei) significa pericolo, l'altro (ji) significa opportunità. Non è un caso. Ogni crisi porta con sé molti rischi, ma anche molte opportunità. Alterando lo status quo, le crisi permettono l'emergere di nuove idee organizzative e di nuove imprese.

Questo processo di 'distruzione creatrice' - scrive l'economista austriaco J. A. Schumpeter - è la vera essenza del capitalismo.Questa distruzione creatrice è certamente all'opera nel settore automobilistico. Dalle ceneri della bancarotta di Chrysler e della crisi finanziaria di General Motors nascono nuove opportunità per consolidare un'industria malata di eccesso di capacità produttiva.

In genere io non sono un grosso sostenitore delle grandi fusioni. Le uniche vere 'sinergie' derivanti dalla stragrande maggioranza delle fusioni vengono dall'aumento del potere di mercato (a danno dei consumatori) o del potere politico (a danno dei contribuenti). A fronte di queste, ci sono enormi costi di integrazione: dai sistemi informativi alla cultura manageriale. Ma l'ardita operazione progettata da Sergio Marchionne sembra essere un'eccezione.

L'accordo con Chrysler permette alla Fiat di entrare sul mercato americano con una struttura capillare di distribuzione. L'acquisto della Opel facilita il consolidamento del settore auto in Europa. Entrambe queste operazioni consentono alla Fiat di ammortizzare i costi di ricerca e sviluppo su una produzione molto maggiore. Non ultimo, questa espansione avviene a prezzi stracciati. Anche se il successo non è garantito, questa operazione di sicuro ridisegna l'industria dell'auto nel mondo, creando importanti guadagni di efficienza. E non sarebbe mai avvenuta se l'industria automobilistica americana fosse state tenuta in vita artificialmente dai sussidi statali.


A fronte di queste profonde ristrutturazioni nel mondo dell'auto, nel settore del credito prevale l'immobilismo. Abbiamo assistito, è vero, a delle fusioni (JP Morgan ha comprato Bear Stearns, Wells Fargo si è presa Wachovia, Bank of America ha messo le mani su Merrill Lynch). Ma si è trattato di matrimoni di convenienza, forzati o favoriti da una Federal Reserve ansiosa di stabilizzare il settore, anche a costo di renderlo meno efficiente.

Basti pensare all'acquisto di Merrill Lynch da parte di Bank of America. Non solo quest'ultima ha strapagato, ma ora si trova a perdere la maggior parte dei migliori talenti della banca d'investimento, non abituati a operare all'interno della burocrazia di una banca commerciale.

Come è possibile che nulla si muova proprio nel settore che ha innescato la crisi? Forse non abbiamo realizzato l'inettitudine dei sistemi di controllo del rischio delle principali banche? L'inefficienza delle procedure di concessione del credito? Le sinergie negative tra l'attività di trading e quella di raccolta di depositi? L'incapacità della maggior parte dei sistemi informativi bancari di incrociare le informazioni sui depositi con quelle sui prestiti dello stesso cliente? Non è un caso che Citigroup sia stata sull'orlo della bancarotta in tre delle ultime quattro recessioni: il modello del supermercato finanziario non funziona. Ma allora perché non assistiamo a una profonda trasformazione?

A ostacolare questo processo di 'creazione' nel settore bancario è proprio l'intervento statale. Non esiste creazione senza distruzione. Fermando con i suoi sussidi il processo di distruzione, lo Stato inevitabilmente ostacola anche il processo di ricerca di alternative: il processo creativo. Parafrasando Schumpeter, è proprio dal 'trial and error' che nascono i nuovi modelli organizzativi, perché nessuno sa oggi con certezza quale sia la ricetta giusta per il futuro. Di sicuro sappiamo solo che, mantenendo artificialmente in vita le imprese esistenti, il supporto statale ostacola la ricerca di alternative migliori.

Questo è vero in generale, ma è maggiormente vero nel settore bancario, dove la protezione offerta dallo Stato alle istituzioni considerate 'troppo grosse per fallire' non solo ostacola la ricerca di alternative, ma va nella direzione opposta, sussidiando la creazione di giganti del credito che sappiamo essere inefficienti. Tanto negli Stati Uniti come in Italia, se vogliamo l'emergere di un Marchionne del credito dobbiamo porre fine ai sussidi a favore della Geronzocrazia.

(22 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. Quanto conta la fiducia
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 05:06:09 pm
Quanto conta la fiducia

di Luigi Zingales


Il peso dell'immagine di un popolo e di chi lo governa nei rapporti economici tra i paesi  Silvio Berlusconi e Barack ObamaPraticamente ogni transazione economica, scrisse il premio Nobel per l'economia Kenneth Arrow, ha in se stessa un elemento di fiducia". Quando depositiamo i nostri soldi in banca, acquistiamo delle azioni, compriamo dei beni sul Web dobbiamo avere della fiducia. Fiducia che i nostri depositi ci saranno restituiti, che la società in cui investiamo non sia una frode, e che il prodotto comprato corrisponda a quello che abbiamo ordinato.

Gran parte di questa fiducia ci viene dall'esistenza di leggi e pratiche commerciali volte a proteggere i contraenti. In molti paesi i depositi bancari sono assicurati, esistono delle autorità di controllo che vagliano (o dovrebbero vagliare) sulla legittimità delle imprese che fanno richiesta di denaro al pubblico, e molte imprese offrono ai loro clienti il diritto di restituire senza alcun aggravio il prodotto acquistato via Internet se il compratore non è soddisfatto.

Tutte queste protezioni contano poco se non abbiamo fiducia che la controparte abbia intenzione di adempiere alla sua obbligazione in buona fede. Le leggi possono essere aggirate, le pratiche commerciali seguite nella forma ma non nella sostanza, e il rimedio legale può essere tanto costoso da ottenere e distante nel tempo da essere inutile.

Quando nel 1989 investii tutti i miei risparmi nel comprarmi per posta il mio primo computer, dovetti sopprimere la mia italica diffidenza. Immaginatevi il terrore quando scoprii che il computer non funzionava e che la società che l'aveva prodotto era finita in bancarotta. A quel punto poco valeva la garanzia e poco valeva il mio diritto a restituire il prodotto, perché avrei ricevuto invece del denaro un credito nei confronti di un'impresa fallita. Ma la mia fiducia fu premiata: il computer fu riparato senza alcun aggravio e funzionò meravigliosamente per molti anni.

Questa fiducia non è importante solo nelle transazioni spicciole. È importante anche negli scambi commerciali e negli investimenti. Senza la fiducia nella serietà di un venditore nessun investitore perde tempo a valutare un'opportunità di acquisizione. Senza la fiducia nella buona fede della controparte, nessun compratore si impegna in un accordo commerciale. Non si tratta di semplici aneddoti. In un lavoro di prossima pubblicazione Luigi Guiso, Paola Sapienza ed io dimostriamo come il grado di fiducia tra diverse nazioni influenza le esportazioni e gli investimenti (Luigi Guiso, Paola Sapienza, Luigi Zingales, 'Cultural Biases in Economic Exchange?', Quarterly Journal of Economics, forthcoming).

Un aumento di fiducia del 12 per cento degli inglesi negli italiani si traduce in un aumento del 10 per cento delle esportazioni italiane in Inghilterra e del 30 per cento lo stock degli investimenti inglesi in Italia.

Cosa determina questa fiducia? In parte si tratta di dati oggettivi. Tutti i paesi europei (tranne il Portogallo) si fidano degli svedesi più che degli italiani perché la percentuale di frodi in Svezia è molto più bassa che in Italia. Accanto a questi dati oggettivi, però esiste anche una componente soggettiva: l'immagine di un paese che hanno gli abitanti di un altro paese. Questa immagine può essere il frutto di una storia di conflitti, di un'affinità culturale, perfino di una somiglianza fisica. Anche da occupanti gli italiani vennero accolti bene in Grecia perché venivano visti come 'una faccia, una razza' dalla popolazione locale.

La fiducia verso gli abitanti di un paese tende a scendere quando i suoi abitanti finiscono troppo spesso sulle pagine dei giornali di un altro paese. La maggior parte delle notizie riportate purtroppo non è positiva, e questo mina la fiducia.

Purtroppo dati recenti non sono disponibili. Ma la mia paura è che le notizie che vengono dall'Italia in questi giorni non giovino. Film come 'Gomorra' e 'Il Divo' rafforzano l'immagine di un paese in preda alla mafia e le vicende personali del nostro presidente del Consiglio non fanno altro che rinforzare uno stereotipo degli italiani come donnaiuoli da strapazzo, poco seri e poco affidabili. Un tedesco mi diceva che se Silvio Berlusconi avesse telefonato alla Merkel per fare pressioni per l'accordo Fiat-Opel, il suo intervento sarebbe stato controproducente, tanto è il disprezzo del cancelliere tedesco per il nostro premier.

Berlusconi sostiene che gli italiani lo vogliono così. E i sondaggi gli danno ragione. Ma se sapessero quanto ci costano certe vicende in termini di esportazioni mancate e investimenti esteri perduti, una buona fetta di quel consenso probabilmente sparirebbe.

(03 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. Tornano gli speculatori
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:58:28 pm
Tornano gli speculatori

di Luigi Zingales


Con i tassi bassi si cercano investimenti più redditizi. E così si rischia una nuova bolla.

Intanto la Goldman Sachs ha annunciato i profitti trimestrali più elevati della sua storia, e lo stesso hanno fatto le maggiori imprese finanziarie

 
Goldman Sachs ha annunciato i profitti trimestrali più elevati della sua storia: 3,44 miliardi di dollari, corrispondenti a 4,58 dollari per azione, battendo del 29 per cento le previsioni degli analisti. Le maggiori imprese finanziarie hanno seguito a ruota. Perfino Citigroup ha riportato profitti trimestrali per 4,3 miliardi di dollari, pari a 0,49 dollari per azione, un'azione che a marzo valeva solo 0,97. Ma marzo sembra lontanissimo, così come sembrano appartenere ad un passato remoto le immagini di Goldman Sachs e Morgan Stanley in crisi di liquidità, salvate dall'intervento propizio dello stato. Insomma non c'è più area di crisi a Wall Street, dove era proprio nata. Possiamo quindi dedurre da questi segnali che la crisi sia finita anche per il resto del paese (e del mondo)?

Purtroppo no. Innanzitutto non è tutto oro quel che luccica. Mentre la performance di Goldman Sachs e JP Morgan sono state veramente straordinarie, quelle delle altre banche no. Togliendo i profitti per il conferimento della controllata Smith Barney a una joint venture con Morgan Stanley, Citigroup avrebbe riportato nel trimestre una perdita di 2,4 miliardi e non un profitto di 4,3 miliardi. Lo stesso si può dire per Bank of America. E Cit, un intermediario finanziario specializzato nei prestiti alle piccole e medie imprese, si avvia ad essere la quinta più grossa bancarotta nella storia degli Stati Uniti.

In secondo luogo i profitti ottenuti derivano principalmente da condizioni di mercato eccezionali e difficilmente ripetibili. Con tassi di interesse pressoché nulli, forti rialzi azionari, e una valanga di collocamenti di titoli, i settori del trading e dell'investment banking hanno messo a segno profitti record. Ma per quanto riguarda il business del credito tradizionale la situazione non è altrettanto rosea. JP Morgan, una delle banche migliori, ha riportato perdite di 955 milioni di dollari nel settore del credito al consumo e di 672 milioni nel settore carte di credito. Citigroup ha dovuto accantonare 3,9 miliardi per perdite attese sui prestiti. Visto che in passato Citigroup ha sottostimato queste perdite, il futuro non sembra molto roseo.

Per finire, anche se la crisi è iniziata a Wall Street, non finisce lì. Con un livello di disoccupazione che si sta avviando al 10 per cento e i pignoramenti delle case in aumento (+15 per cento nei primi sei mesi dell'anno), l'economia reale non sembra dare grossi segnali di ripresa. Ma allora perché Wall Street gioisce?

Una possibile spiegazione, fornita da molti analisti, è che il settore finanziario e la Borsa in generale anticipino l'economia reale di circa sei mesi. Il crollo di ottobre-novembre anticipava la crisi economica attuale. E il boom degli ultimi tre mesi anticiperebbe una ripresa a fine anno. Storicamente questa relazione è giustificata. Ma se c'è una cosa che questa recessione ci ha insegnato è di non fidarsi troppo delle correlazioni passate.

L'alternativa, molto più pessimista, è che Wall Street sia drogata da quegli stessi fattori che hanno causato la crisi. Dopo lo scoppio della bolla Internet i bassi tassi di interesse hanno favorito la nascita della bolla immobiliare. Allo stesso modo oggi i bassi tassi di interesse e la massa di liquidità immessa dalla Federal Reserve creano le condizioni per la formazione di una nuova bolla. All'apice della crisi, quando si temeva che il sistema finanziario implodesse, i risparmiatori erano contenti di detenere contanti e titoli del Tesoro americano. Ma ora che questo rischio sembra rientrato, i risparmiatori cercano impieghi più redditizi per la liquidità in loro possesso. Questo li spinge verso investimenti più rischiosi. Il mercato ha ben recepito una cartolarizzazione di titoli cartolarizzati (in gergo Cdo al quadrato) fatta da Morgan Stanley. Con l'alchimia tipica di questi processi dei titoli cartolarizzati che erano stati downgraded dalle agenzie di rating sono stati trasformati in titoli da tripla A. E il mercato si è affrettato a comprarli

Gli operatori finanziari, lungi dall'essere contriti per gli errori passati, si sentono ringalluzziti. La storia recente ha dimostrato che è nel loro interesse assumersi rischi. Se le cose vanno bene guadagnano cifre favolose: su base annua i compensi di Goldman per il primo semestre 2009 corrispondono ad una media di 772.000 dollari per dipendente, segretarie e portieri inclusi. Se le cose vanno male, interviene lo Stato. E il gioco ricomincia.

(24 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES.
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 11:21:32 pm
Un modello per Obama

di Luigi Zingales


Il presidente Usa dovrebbe adottare il sistema elvetico: polizze malattie obbligatorie come la rc auto
 

Per un europeo, abituato alla sanità statale, il sistema sanitario americano, dove il 15 per cento della popolazione non è coperta da assicurazione, sembra assolutamente incomprensibile. Per gli americani, invece, è il sistema europeo a sembrare incomprensibile. Il 67 per cento degli americani si dichiara soddisfatto o molto soddisfatto dell'attuale sistema sanitario. In parte questa soddisfazione deriva da una superiore performance della sanità americana per quanto riguarda la cura di malattie gravi (l'89 per cento delle donne colpite da cancro al seno e il 72 per cento di quelle colpite dal cancro alla cervice sopravvive almeno cinque anni contro l'85 per cento e il 66 per cento in Italia). Ma in grossa parte deriva da una visione molto diversa su a chi sia meglio affidare decisioni sulla quantità e qualità dei servizi sanitari offerti.
Il 57 per cento degli americani si fida di più di un'assicurazione privata che dello Stato. Queste profonde divisioni sono il risultato di una storia molto diversa.

Negli Stati Uniti l'assicurazione medica privata si diffuse durante la Seconda guerra mondiale. Per ridurre l'inflazione, lo Stato impose un tetto ai salari. Con molti uomini al fronte, però, la manodopera scarseggiava e le imprese cominciarono a competere per i lavoratori, offrendo fringe benefit che non rientravano nel salario controllato: assicurazione sanitaria e pensioni. Progressivamente questo sistema si diffuse nel Paese con due effetti. Primo, la maggior parte della popolazione, coperta dall'assicurazione privata, si è abituata a una sanità privata non razionata. L'idea di aspettare mesi per una mammografia è assolutamente inconcepibile. Secondo, i grossi beneficiari di questo sistema sono i sindacati e le imprese assicurative, lobbies molto potenti che fanno di tutto per mantenere i loro privilegi. La riforma di
Lyndon Johnson, che nel 1965 introdusse l'assistenza sanitaria pubblica gratuita per i più poveri e gli anziani, se da un lato ridusse l'iniquità del sistema, dall'altro lo rese ancora più difficilmente riformabile. La più forte opposizione alla proposta di riforma avanzata da Obama è la potentissima lobby dei pensionati, che teme una riduzione delle risorse dedicate agli anziani.

Finora questi veti incrociati delle organizzazioni che difendono i diversi interessi particolari sono riusciti a mantenere uno status quo estremamente inefficiente ed estremamente iniquo. Anche se gli americani si dichiarano generalmente soddisfatti del loro sistema sanitario, i paragoni internazionali non sono lusinghieri. Gli americani spendono in sanità il doppio (in relazione al Pil) dell'Italia e il 50 per cento in più della Francia, con una performance che in media non è superiore. Se le malattie gravi sono curate meglio, quelle croniche sono curate peggio: ogni 100 mila malati di asma tra i 5 e i 39 anni, in Italia ne muoiono 0,11 all'anno, in Svizzera zero e negli Stati Uniti 0,33. E la mortalità infantile negli Stati Uniti è quasi doppia di quella in Italia e Francia. Se è vero che chiunque si presenti al pronto soccorso viene curato, è anche vero che le persone senza assicurazione aspettano un'emergenza per andare dal medico, peggiorando i loro problemi e aumentando i costi di cura.

Da un punto di vista economico la soluzione del problema è molto semplice. L'inefficienza del sistema sta alla radice: al legame accidentale tra assicurazione e posto di lavoro. Questo riduce la scelta degli individui, limita la loro mobilità (i malati cronici rischiano di perdere l'assicurazione se cambiano lavoro) e rende costosissimo per i lavoratori autonomi procurarsi un'assicurazione. Basta rendere l'assicurazione obbligatoria (come si fa per l'automobile) e lasciar scegliere ai cittadini quale assicurazione prendersi, offrendo un sussidio per i più indigenti, come fatto in Svizzera. Chi è oggi assicurato potrebbe scegliere se tenersi quell'assicurazione o ricevere un voucher per l'ammontare pagato dall'azienda da spendere nell'acquisto di un'assicurazione alternativa.

Ma questo tipo di riforma non verrà mai attuato. Toglie potere ai sindacati, grossi sostenitori di Obama, crea competizione tra le assicurazioni sanitarie (forzandole a ridurre i costi e i profitti) e non piace neppure ai medici che, dall'aumento della competizione vedrebbero compressi i guadagni. Uno specialista americano oggi guadagna 6,5 volte il salario medio, contro le 3,5 volte di uno specialista svizzero, dove la competizione tra assicurazioni è più intensa.

La riforma che probabilmente sarà approvata centralizzerà il potere di scelta, favorendo le assicurazioni, i sindacati e i medici. Iniziata in nome dell'equità finirà per favorire i soliti noti.

(15 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. La riforma universitaria della Gelmini è un passo avanti.
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 11:58:39 am
Meno potere ai professori

di Luigi Zingales

La riforma universitaria della Gelmini è un passo avanti.

Ma la lobby in Parlamento la bloccherà
 

L'università italiana versa in condizioni gravissime, tali da richiedere terapie radicali. La coraggiosa proposta di riforma del ministro Gelmini va in questo senso. È una riforma a 360 gradi che introduce due elementi fondamentali e rivoluzionari: la meritocrazia e la fine del potere assoluto dei professori.

Per capire il dramma in cui si trova l'università italiana basta analizzarne la performance. Tranne poche nobili eccezioni, i nostri atenei forniscono un servizio per cui non c'è domanda. Il 38 per cento dei laureati italiani non ha ancora un lavoro tre anni dopo la laurea. Il differenziale di salario di un laureato non giustifica né il tempo né il denaro speso per acquisire la laurea. Se le nostre università hanno ancora studenti è per le distorsioni introdotte dallo Stato che crea domanda fittizia imponendo un valore legale al titolo di studio, sussidia la produzione (mentre allo Stato una laurea breve costa 56 mila euro, lo studente in media ne paga solo 2.100), e di fatto blocca la concorrenza. Se non fosse per la barriera linguistica, la maggioranza degli studenti italiani andrebbe a studiare all'estero e un numero crescente lo sta già facendo.

L'università oggi non risponde alle esigenze degli studenti (la domanda) ma a quelle dei professori (l'offerta). Non si propongono i corsi che interessano agli studenti e alle imprese che li assumeranno, ma quelli che i professori vogliono insegnare. Questo isolamento dalle forze del mercato non è in nome di una più elevata forma di sapere: da un punto di produzione scientifica gli istituti italiani sono un disastro. Nella classifica internazionale creata dall'università di Shanghai, che misura la qualità dell'output di conoscenza prodotto, nel 2008 la prima italiana (Milano) si trova soltanto al 138esimo posto. L'Inghilterra ha 11 centri nei primi 100 posti, la
Germania e la Svezia 5, la Svizzera e la Francia 3.

Come uscire da questo impasse? Come ho già scritto in questa rubrica, la soluzione ideale sarebbe quella di trasformare almeno parte del sussidio statale alle università in prestiti agli studenti, che in questo modo diventerebbero consumatori più esigenti. L'abolizione del valore legale poi eliminerebbe la domanda fittizia. Una completa autonomia (e quindi responsabilizzazione) finanziaria chiuderebbe il cerchio, forzando le università a rispondere alle esigenze della domanda.

La riforma del ministro Gelmini non è così radicale come quella da me auspicata, ma fa passi significativi in questa direzione. Per la prima volta si introduce il principio della meritocrazia. Non tutti gli atenei devono ricevere gli stessi fondi, ma quelli migliori ne riceveranno di più. Non tutti i professori riceveranno lo stesso stipendio, ma quelli migliori riceveranno di più. Si creano quindi degli incentivi a migliorare. Per la prima volta si introduce anche un meccanismo tramite il quale la domanda possa influenzare l'offerta: le valutazioni degli studenti determineranno l'allocazione dei fondi ministeriali.
Affinché questi incentivi abbiano effetto, però, è necessario cambiare i meccanismi decisionali all'interno delle strutture. Oggi il potere è completamente nelle mani dei professori, che gestiscono tutto a loro uso e consumo. Questo impedisce riforme in senso meritocratico. Se la maggioranza dei professori è mediocre, come possiamo aspettarci che abbracci consensualmente la competizione e la meritocrazia?
La riforma ha il coraggio di intaccare questo potere affidando la responsabilità gestionale a un consiglio di amministrazione non eletto dai professori, con il 40 per cento di membri esterni. Questo è quello che già succede nelle migliori università private come laBocconi di Milano.

Mi aspetto un'opposizione feroce. In Parlamento la lobby dei professori è seconda solo a quella degli avvocati. Farà di tutto per snaturare gli elementi innovativi di questa riforma che vede come un pericolo alla propria esistenza. E per conquistarsi il favore dell'opinione pubblica i professori sventoleranno la bandiera della libertà accademica contro l'asservimento dell'università al mercato.

Ma ricordatevi che stanno solo difendendo la propria rendita di posizione, né più né meno dei camalli del porto di Genova. L'unica differenza sta nel fatto che hanno più contatti e più potere in Parlamento, e quindi rischiano di prevalere, condannando l'università italiana a un coma irreversibile.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi Zingales. Se l'acqua va ai privati
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 03:56:25 pm
Se l'acqua va ai privati

di Luigi Zingales


Dove l'amministrazione è inefficiente e corrotta il monopolio pubblico risulta il male minore  La privatizzazione dell'acqua (o più propriamente delle concessioni per i servizi idrici) è uno di quei temi che suscita reazioni viscerali. A destra viene vista come una battaglia contro le inefficienze statali per garantire migliore qualità e prezzi minori. A sinistra come una svendita del bene più prezioso per consegnarlo "agli interessi delle grandi multinazionali e farne un nuovo business per i privati e per le banche". Come spesso accade la verità sta nel mezzo.

Vent'anni di ricerca empirica sugli effetti delle privatizzazioni hanno dimostrato che il trasferimento del controllo in mani private nella stragrande maggioranza dei casi aumenta l'efficienza di un'impresa. Le imprese private producono più output a meno costo. Quanto all'accusa di trasformare la fornitura di acqua potabile in un business, è una colpa solo agli occhi di una sinistra veteromarxista che vede nel profitto un capo di imputazione. Nella tradizione liberale il fine di lucro è la migliore garanzia che un prodotto sia offerto al miglior prezzo. Come diceva Adam Smith, il padre dell'economia, se mangiamo pane fresco la mattina non è per la benevolenza del panettiere, ma per il suo desiderio di guadagno. È la mano invisibile del mercato che trasforma l'interesse individuale nel benessere collettivo.

Ma allora ha ragione la destra a celebrare il decreto Ronchi che privatizza le forniture idriche? Non totalmente. Innanzitutto, la ricerca empirica suggerisce che i benefici inerenti alla privatizzazione si manifestano solo quando la proprietà di un'impresa viene totalmente trasferita in mani private: le partnership tra pubblico e privato auspicate dal governo non sembrano migliorare l'efficienza rispetto alle società totalmente pubbliche. Il motivo è che uno dei maggiori benefici della gestione privata è quello di liberarsi dalle interferenze politiche nelle decisioni aziendali. Le assunzioni, per esempio, vengono fatte in base ai criteri di competenza e non in base all'affiliazione politica. Quando pubblico e privato convivono, però, è difficile eliminare le pratiche clientelari.

In secondo luogo, l'evidenza empirica è meno chiara su quali siano gli effetti delle privatizzazioni sui prezzi. Se in un regime di concorrenza questo non è un problema, la questione è più delicata quando si tratta di un monopolio naturale, come la fornitura di acqua potabile. Una delle inefficienze delle società pubbliche è che non sfruttano interamente il loro potere di mercato. Ma questa inefficienza si trasforma in un beneficio per la collettività. Un monopolista efficiente tende ad imporre prezzi molto al di sopra del costo di produzione, con un doppio danno sociale: non solo il produttore si arricchisce a spese dei consumatori, ma anche costringe potenziali consumatori, disposti a pagare di più del costo di produzione, a rinunciare al prodotto. Nonostante quest'ultimo risultato possa essere visto come positivo dai gruppi verdi, perché tende a conservare le risorse idriche, non incontra il consenso della maggior parte dei cittadini, che finisce per pagare molto di più per l'acqua.

Questo è il motivo per cui in tutti i paesi sviluppati la privatizzazione dei monopoli naturali è preceduta dalla creazione di un'autorità di regolamentazione finalizzata alla protezione degli interessi dei consumatori. Invece di affidarsi all'inefficienza della proprietà pubblica, che tiene i prezzi relativamente bassi per incapacità di sfruttare il potere di mercato, in questi paesi il consumatore si affida all'integrità dell'amministrazione pubblica, che protegge i suoi interessi con tetti sui prezzi e requisiti minimi di qualità.

In paesi in cui l'amministrazione pubblica è efficiente e non corrotta, i monopoli privati regolati funzionano meglio dei monopoli pubblici: la proprietà privata aumenta l'efficienza, mentre il regolatore limita i prezzi. Laddove l'amministrazione pubblica è inefficiente e corrotta, invece, i monopoli privati regolati tendono ad avere prezzi troppo elevati, ridistribuendo risorse dai consumatori ai produttori. In questi paesi il male minore è il monopolio pubblico: la sua inefficienza impedisce alle imprese di sfruttare interamente il loro potere monopolistico, mantenendo i prezzi più bassi che in un regime di monopolio privato, anche se più elevati che in un regime di monopolio regolato efficientemente.

Di fronte a questa alternativa, possiamo forse dire che il nostro paese ha un'amministrazione pubblica sufficientemente efficiente e non corrotta da meritarsi la privatizzazione di un monopolio naturale come la distribuzione dell'acqua?

(26 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. Bisogna ammetterlo: Goldman Sachs ci sa fare.
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 10:12:01 am
Per le regole sui bonus una lezione da Goldman

di Luigi Zingales


Bisogna ammetterlo: Goldman Sachs ci sa fare.

Non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello politico. Avendo fiutato il vento populista, Goldman Sachs si è seriamente impegnata in una campagna per migliorare la propria immagine pubblica, che non è delle migliori (sulla rivista Rolling Stones era rappresentata come un vampiro). Ha cominciato la campagna in luglio, quando ha accettato di ricomprarsi al prezzo richiesto i warrant che il Tesoro americano aveva acquisito grazie agli aiuti offerti. Mentre gli altri beneficiari si erano messi a negoziare al ribasso, Goldman ha pagato senza fiatare. Poi a novembre ha annunciato la creazione di un fondo di 500 milioni di dollari per finanziare le piccole imprese, che soffrono particolarmente questa crisi. E ora ha annunciato che quest'anno non pagherà il bonus ai top 30 dirigenti.
O meglio non lo pagherà in contanti, ma in azioni vincolate per i prossimi cinque anni.

Così facendo, Goldman ha anche reso più difficile per il governo inglese procedere con la windfall tax dei bonus. Come potrà il fisco richiedere il 50% di una somma che per cinque anni non rientra nelle disponibilità del contribuente? Da un lato sembra una pura manovra propagandistica. Goldman forzava già i propri dipendenti a reinvestire una quota significativa dei bonus in azioni della società. Quindi non si tratta di una rivoluzione copernicana. Dall'altro, però, è un utile segnale alle molte autorità regolatorie che si stanno arrogando il diritto di intervenire sui compensi.

Il vero problema non è quanto i manager vengono pagati, ma quanto sia facile per loro incassare la propria retribuzione, sottraendo risorse all'impresa, anche a fronte di un forte deterioramento delle condizioni finanziarie della loro società. All'inizio del 2008, quando la società era già nel mezzo del disastro finanziario, Lehman ha pagato 5,7 miliardi di dollari di bonus. Questa cifra è pari all'ammontare di capitale che Lehman stava cercando di ottenere dalla Korean Development Bank.

A fine 2007 un dirigente di Lehman propose di rinunciare ai bonus, ma fu ridicolizzato dagli altri manager. Questo non stupisce: ai dipendenti di un'istituzione fortemente indebitata conviene prendere i soldi il prima possibile. Sfortunatamente, nemmeno gli azionisti hanno un grosso incentivo a fermarli: il costo maggiore ricade sui creditori. I creditori, dal canto loro, hanno pochi incentivi a richiedere un limite alla componente dei bonus pagata in cash se si aspettano un salvataggio del governo, come nel caso di Aig.
Se è difficile trovare giustificazioni economiche (di politiche ce ne sono molte) per un intervento dello stato sul livello di retribuzioni dei manager finanziari, è facile spiegare perché lo stato debba imporre dei limiti a quanto velocemente i manager possono incassare i propri bonus. Goldman ha semplicemente giocato d'anticipo, sperando che la sua decisione spontanea plachi la sete di intervento dei vari regolatori. Ma sarebbe un errore. La regola seguita da Goldman quest'anno dovrebbe valere sempre, per tutte le grosse imprese finanziarie, e non solo per i 30 top manager.

La trasformazione di una parte significativa dei bonus in azioni vincolate si dovrebbe applicare sempre, ma specialmente quando una società non versa in buone condizioni finanziarie. Il problema, naturalmente, è come determinare queste condizioni, dato che i valori di bilancio possono essere manipolati e spesso riflettono più il passato che il futuro. Per le grosse società, però, abbiamo un indicatore molto accurato del rischio di insolvenza: il famigerato credit default swap, il costo di assicurarsi contro il rischio di insolvenza.
La regola giusta sarebbe che quando il credit default swap è elevato (indice di un'alta probabilità di insolvenza), tutte le remunerazioni al di sopra di una certa soglia (diciamo 500mila dollari) debbano essere investite in azioni vincolate per almeno tre anni.

Questa norma, coerente con le guidelines indicate dal Financial Stability Board, contribuirebbe a rendere più stabili le società finanziarie in due modi: legando il management alle sorti dell'impresa e motivandolo ad emettere azioni quando necessario. Durante la crisi gli amministratori delegati delle maggiori banche americane sostenevano che fosse impossibile emettere azioni. Questa «impossibilità» tuttavia scomparì quando il piano Tarp impose limitazioni sulle retribuzioni ai suoi beneficiari: pur di sfuggire alle restrizioni i manager trovarono improvvisamente facile emettere azioni.

Una norma così fatta non soddisferebbe la sete di vendetta dell'opinione pubblica ma, diversamente da tutte le proposte finora avanzate, avrebbe aiutato Lehman a evitare il collasso e contribuirebbe a impedire una nuova crisi finanziaria nel futuro.
Anche i regolatori hanno da imparare da Goldman.

12 dicembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da ilsole24ore


Titolo: Luigi ZINGALES. I veri nemici dello sviluppo
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:41:34 am
I veri nemici dello sviluppo

di Luigi Zingales

I paesi avanzati e le imprese più grandi temono la competizione delle economie emergenti

L'imperialismo, secondo Lenin, è la fase suprema del capitalismo. In alcuni paesi - scriveva nel 1916 - il capitalismo è diventato più che maturo e al capitale non rimane più un campo di investimento redditizio. Per questo le nazioni capitaliste sono spinte a conquistare i paesi meno sviluppati per poterli sfruttare, arricchendosi alle loro spalle.

In qualche forma questa visione negativa degli effetti del capitalismo sui paesi in via di sviluppo rimase dominante nei primi decenni dell'era postcoloniale, ovvero subito dopo la seconda guerra mondiale. Oggi il mondo è molto diverso. Mentre in America ed Europa si discute sui fallimenti del capitalismo, in Asia se ne celebrano i trionfi. A spingere per una maggior liberalizzazione del commercio mondiale non sono più gli Stati Uniti, ma paesi emergenti come il Brasile, la Cina e l'India. Cosa ha cambiato così totalmente le visioni politiche?

L'esperienza della globalizzazione dell'ultimo trentennio. Nonostante la crisi del 2008, il trentennio che va dal 1980 al 2010 si caratterizza come probabilmente il più prospero nella storia dell'umanità. In questi trent'anni il prodotto pro capite di un miliardo e 300 milioni di cinesi (un quinto dell'intera umanità) è quasi decuplicato. Nello stesso periodo il prodotto pro capite di un miliardo e cento milioni di indiani (un sesto dell'umanità) è quasi triplicato. Altre nazioni (come la Corea del Sud, Singapore e Taiwan) hanno sperimentato crescite fenomenali, ma a livello mondiale il loro peso è relativamente piccolo.

A questi enormi successi dei paesi in via di sviluppo si è contrapposta una crescita molto più limitata dei paesi avanzati. Nell'ultimo trentennio il reddito pro capite dei tedeschi, francesi, italiani e giapponesi è aumentato del 50-60 per cento. Gli americani e gli inglesi hanno fatto un po' meglio con un aumento rispettivamente del 75 e del 93 per cento. Ma si tratta di poca cosa, non solo in confronto ai paesi emergenti, ma anche rispetto ai tassi di crescita del trentennio precedente. Grazie al miracolo postbellico, nel periodo che va dal 1950 al 1980, il Giappone aveva visto il reddito pro capite aumentare di sei volte, l'Italia di quasi tre e la Francia di due. Nello stesso periodo, il prodotto pro capite in Cina era aumentato di 1,4 volte e quello dell'India di solo 0,7 volte. Come si spiega questo capovolgimento?

In parte questi differenziali di crescita riflettono i diversi punti di partenza. Quando si parte da molto in basso è più facile crescere che partendo da livelli più elevati. Ma questo non spiega perché l'India e la Cina sono cresciute così poco tra il 1950 e il 1980. La verità è che nel primo trentennio dopo la guerra entrambi questi paesi abbracciarono idee socialiste e limitarono fortemente quell'importazione di capitali esteri tanto temuta da Lenin. Il risultato fu una crescita asfittica. L'accettazione dell'economia di mercato e l'apertura ai capitali esteri cambiò le sorti della Cina e dell'India.

Lungi da impoverire questi paesi, i capitali esteri non solo creano posti di lavoro, ma trasferiscono know how alla popolazione locale. Una volta acquisito il know how iniziale, le imprese indiane e cinesi possono accumularne di più attraverso l'esperienza. In altre parole, gli investimenti esteri mettono in moto un meccanismo virtuoso di learning by doing. Se da un lato i paesi avanzati beneficiano dall'importazione di prodotti a basso costo, dall'altro vedono progressivamente erodere i loro margini di competitività da imprese locali che diventano sempre più competitive. Contrariamente alla visione di Lenin, la competizione tra le imprese di paesi avanzati non porta allo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo, ma ad un loro arricchimento. Il vero ostacolo allo sviluppo dei paesi ancora arretrati nasce dal crescente protezionismo dei paesi sviluppati come il nostro.

All'interno di ogni paese, nemici giurati del mercato sono le imprese più grosse, che temono la concorrenza e cercano di proteggere le loro rendite di posizione sfruttando il loro potere politico. Allo stesso modo, in ambito internazionale i veri nemici dello sviluppo sono i paesi avanzati, che temono la competizione dei paesi emergenti e cercano di utilizzare il loro potere politico per limitarne la capacità di crescita. Se vogliamo un miglioramento degli standard di vita dell'intero pianeta dobbiamo salvare il capitalismo. dai paesi capitalisti.

(31 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. Obama cambia scuola
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 04:03:08 pm
Obama cambia scuola

di Luigi Zingales

Soldi agli insegnanti ma legati ai risultati degli alunni.

Anno scolastico più lungo. E via libera alle 'charter school'
 

Molti presidenti si accontenterebbero di celebrare la storica approvazione della riforma sanitaria, un obiettivo inseguito in America da più di cento anni. Obama no. Prima ancora di essersi assicurato gli ultimi decisivi voti, il presidente americano era già partito alla carica per promuovere una riforma radicale dell'istruzione primaria. L'obiettivo è di "preparare ciascun bambino, dovunque in America, a vincere la competizione con qualsiasi lavoratore, in qualunque parte del mondo".

L'enfasi sull'istruzione non è sorprendente. Nei paragoni internazionali sulla performance in matematica e lettura gli Stati Uniti sono agli ultimi posti dei paesi sviluppati (anche se al di sopra dell'Italia). Per di più la variabilità dei punteggi è tra le più alte (anche se inferiore a quella italiana) segno che una fetta consistente di ragazzini è tagliata fuori da un livello di istruzione sufficiente per riuscire nella vita.

Quello che è più sorprendente sono le linee della riforma che Obama vuole proporre, sintetizzate in un passaggio del suo discorso di presentazione: "È ora che ci aspettiamo di più dai nostri studenti. È ora che cominciamo a ricompensare i bravi insegnanti e smettiamo di trovare scuse per i cattivi. È ora che domandiamo risultati dal governo ad ogni livello".

L'approccio tradizionale al problema dell'istruzione è sempre stato quello di spendere più soldi e ridurre il numero di studenti per classe, anche se manca evidenza empirica che questo abbia alcun effetto sulla performance degli studenti. Obama rigetta quest'approccio in favore della meritocrazia. Giustamente il presidente americano identifica nella mancanza degli incentivi per gli insegnanti uno dei mali del sistema educativo americano. Grazie al potere dei sindacati il salario di un insegnante cresce solo sulla base dell'anzianità e non del merito. Giovani insegnanti che danno l'anima per i loro allievi guadagnano la metà degli insegnanti più anziani che passano le loro ore a mostrare film agli studenti.

Obama vuole rivoluzionare questo sistema, premiando gli insegnanti più bravi, ma anche quelli che lavorano nelle zone più povere e quindi più svantaggiate. Il metro per i bonus non sarà dato dal semplice punteggio degli studenti, ma dall'aumento di questi punteggi che gli allievi riusciranno a conseguire durante l'anno scolastico. In altri termini, un insegnante non sarà considerato bravo se insegna in una scuola di ricchi dove i bambini sono tutti al di sopra della media nazionale, ma solo se riesce ad elevare il punteggio dei bambini che gli vengono assegnati. Tanto più un insegnante riesce ad aumentare la performance dei suoi studenti, tanto più sarà pagato. Non solo gli insegnanti migliori saranno premiati, ma i peggiori saranno puniti. Obama è stato chiarissimo su questo punto.

Con grosso scorno dei sindacati, Obama si è anche dichiarato a favore delle 'charter school', un interessante esperimento che si è sviluppato in America negli ultimi vent'anni. Le 'charter school' sono scuole pubbliche non confessionali che operano al di fuori del sistema scolastico tradizionale, ma che si impegnano con un charter a raggiungere certi risultati minimi in termini di performance. È come se in Italia i genitori di un quartiere ottenessero di gestire una scuola con finanziamenti pubblici al di fuori delle regole del provveditorato. Secondo la maggior parte degli esperti queste scuole non solo ottengono risultati migliori a costi inferiori, ma migliorano anche la qualità media dei distretti in cui operano grazie alla pressione competitiva che esercitano.

La riforma di Obama non è solo all'insegna degli incentivi, ma si impegna seriamente anche sull'uguaglianza dei punti di partenza. L'evidenza empirica mostra che gli studenti meno abbienti partono svantaggiati all'inizio della loro carriera scolastica e perdono terreno rispetto agli studenti più abbienti durante l'estate, che passano in attività meno intellettualmente stimolanti. Per questo Obama ha proposto un allungamento dell'anno scolastico ed un aumento dei programmi di istruzione per i bambini meno abbienti tra zero e cinque anni.

Lungi dal sedersi sugli allori, con questa riforma Obama si ricolloca al centro dello schieramento politico, prendendo il meglio che sia la destra che la sinistra possono offrire su un fronte di primaria importanza per tutti. È troppo sperare che un po' di questa saggezza politica pervada anche l'Italia?

La nostra scuola ne ha più bisogno di quella americana.

(15 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Luigi ZINGALES. Una terza via per curare i conti
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2010, 09:01:57 am
Una terza via per curare i conti

di Luigi Zingales

Sabato 01 Maggio 2010

Dicevano che fosse una cospirazione di Wall Street, l'effetto della speculazione perversa di hedge fund senza scrupoli, che la crisi della Grecia fosse solo un'invenzione del mondo finanziario. Oggi la triste realtà sembra emergere. La Grecia non soffre di una crisi di liquidità: è insolvente. Con un deficit di bilancio del 13,6% del Pil, un debito del 115% del Pil, e una crescita attesa che secondo le opinioni più ottimiste è del -2% e secondo quelle più realiste del -4%, la Grecia non ce la fa a pagare i suoi debiti. La stretta fiscale richiesta per ridurre il deficit avrà effetti negativi sulla crescita e quindi sul Pil, finendo per aumentare il peso del debito sul Pil, invece che ridurlo. Senza contare la protesta sociale che sta causando.
L'assistenza richiesta ai partner europei non è un temporaneo sostegno finanziario, ma un aiuto a fondo perduto. Se il 67% dei tedeschi è contrario all'aiuto alla Grecia non è per egoismo. È una posizione sacrosanta di chi capisce che l'aiuto non è ai greci, ma alle banche e assicurazioni francesi e tedesche, esposte con la Grecia per 78 miliardi. Una delle regole fondamentali del mercato è che chi gode dei guadagni debba assumersi anche le perdite. I risparmiatori italiani hanno imparato a loro spese la lezione che titoli di stato ad alto rendimento sono rischiosi.
Quando l'Argentina fece default persero una percentuale rilevante del loro investimento, e non furono indennizzati da alcun soccorso statale. Perché le banche devono essere trattate in maniera diversa?
Mi si dirà che il soccorso è inevitabile; che senza un "bailout" l'Europa precipiterà in una crisi finanziaria profonda, con effetti devastanti sull'economia. È vero che se la Grecia dichiarerà default come ha fatto l'Argentina questo avrebbe effetti devastanti e quindi va evitato. Ma la scelta non è tra un soccorso incondizionato e l'abbandono. Esiste una terza via. Una via che elimina gli effetti devastanti di un default, ma non regala i soldi dei contribuenti alle banche.
La prima regola di questo piano alternativo è un allungamento della maturità del debito greco, spostandone di almeno tre anni la scadenza. Questo consolidamento è di fatto un parziale default, che ridurrebbe il valore del debito di circa il 15-20 per cento. Ha l'effetto di dare alla Grecia il tempo di ristrutturarsi, forzando al tempo stesso i creditori attuali ad assorbire una perdita, invece che trasferirla ai contribuenti.
Senza l'obbligo a breve di fare fronte al debito in scadenza, la Grecia ha bisogno di circa 25 miliardi di euro per finanziare il deficit del 2010. Queste risorse potrebbero essere fornite dal Fondo monetario internazionale con un prestito. Affinché non si tramuti in un sussidio indiretto alle banche internazionali, questo prestito dovrebbe avere priorità nella restituzione rispetto a tutti i debiti esistenti. In aggiunta, come tutti i prestiti dell'Fmi, anche questo dovrebbe essere condizionato a una rigida manovra fiscale, che possibilmente minimizzi gli effetti negativi sull'economia. Ad esempio, un'imposta sulla proprietà immobiliare, difficile da evadere, potrebbe essere una buona nuova fonte di entrate.
Il rischio maggiore di questa manovra sarebbe per le banche greche. Il parziale consolidamento avrebbe un immediato effetto sul valore dei titoli pubblici greci con un impatto immediato sul patrimonio bancario. Mentre le banche francesi e tedesche dovrebbero essere in grado di assorbire il colpo, quelle greche, che secondo uno studio di Barclays detengono 42 miliardi di euro, rischierebbero l'insolvenza. Anche in questo caso, la soluzione non sarebbe un bailout incondizionato, ma un sostegno selettivo. Se le banche greche sono a rischio, l'Fmi potrebbe prenderne controllo, garantendone i depositi e i debiti interbancari, ma spazzando via gli azionisti e, se le perdite lo richiedono, anche gli obbligazionisti. Si tratterebbe di una nazionalizzazione, ma non operata dal governo greco, con i rischi di corruzione e influenza politica che questo comporterebbe, ma da parte dell'Fmi, che si impegnerebbe a riprivatizzare quanto prima, recuperando con questo i possibili costi dell'intervento. L'esborso in caso di intervento non dovrebbe superare i 10 miliardi di euro.
Condizionatamente al raggiungimento degli obiettivi prefissati, il Fondo potrebbe promettere altri 5-10 miliardi di euro per finanziare il debito del 2011, che nel frattempo dovrebbe ridursi al di sotto del 5% del Pil. Questo consentirebbe alla Grecia di raggiungere l'obiettivo di un deficit del 3% nel 2012, che le permetterebbe di riaccedere ai mercati, rifinanziando il debito che agli inizi del 2013 comincerebbe a venire a scadenza.
Si tratta di un piano equo, che penalizza giustamente la Grecia, ma anche i creditori che le hanno concesso credito troppo facilmente. Un piano che protegge l'interesse dei contribuenti. Un piano che non sarà mai non solo attuato, ma tantomeno discusso perché a Francoforte e Parigi, come a Washington nel 2008, i voti non si contano, ma si pesano.

Luigi Zingales

© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Italia/2009/commenti-sole-24-ore/1-maggio-2010/rimedi-grecia-terza-via-cura-conti.shtml


Titolo: Luigi Zingales. La svolta americana
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 12:13:25 am
La svolta americana

di Luigi Zingales

Sì all'agenzia per il consumatore e all'obbligo di trattare i derivati in Borsa. No al fondo di protezione per le grandi banche
 

L'America sta preparando la più importante riforma del sistema finanziario dagli anni Trenta. Nel 1933 il terreno fu preparato da una commissione di inchiesta condotta da un giovane procuratore italo-americano: Ferdinand Pecora. Anche se le accuse di manipolazione dei prezzi di Borsa sollevate da Pecora si rivelarono per la maggior parte infondate (o almeno non furono mai provate), le sue udienze ebbero un enorme effetto politico. Trasmesse per radio, fomentarono la rabbia contro il settore finanziario responsabile, secondo la visione popolare, del crollo azionario e della depressione che ne era seguita. Sullo sfondo di questo contesto politico il Securities Act (uno dei cardini legislativi del mercato azionario americano) fu approvato in pochi mesi. Per approvare il secondo pilastro (il Securities and Exchange Act) ci volle più di un anno. Per approvare il terzo pilastro (l'Investment Companies Act) ci vollero altri sei anni. Questo progressivo rallentamento non fu dovuto alla complessità degli argomenti trattati, ma all'affievolirsi del sostegno popolare per le riforme accompagnato da un crescente potere di interdizione dell'industria finanziaria che, dopo la crisi, si stava lentamente risollevando.

Phil Angelides, l'attuale presidente della Commissione di indagine sulla crisi finanziaria, non ha la stessa verve di Pecora. Eppure il sostegno popolare per una riforma rimane alto, nonostante la crisi finanziaria ed economica sembra essere alle nostre spalle. A riaccendere gli animi ha contribuito l'accusa di false comunicazioni sollevata dalla Securities and Exchange Commission nei confronti di Goldman Sachs. In queste condizioni risulta difficile, per i deputati e i senatori che si devono confrontare con gli elettori a ottobre, spiegare perché non hanno approvato alcuna riforma. Per questo motivo il presidente Obama spinge, rendendosi conto che ha di fronte un'opportunità irripetibile: se la riforma non passa entro ottobre, rischia di non passare mai. Anche i repubblicani, che finora hanno fatto l'opposizione a tutti i costi, si trovano in difficoltà. Se si azzardano a fare filibustering, rischiano di trovarsi contro l'intera opinione pubblica.

Una riforma, quindi, è quasi inevitabile, ma sarà una buona riforma? Per lo più sì. Il maggior passo avanti contenuto nella proposta del Senato è l'obbligo di contrattare la maggior parte dei derivati in Borsa, con la liquidazione effettuata da una parte terza. Questo aumenta la trasparenza del sistema e ne aumenta la stabilità. Come avviene oggi per futures and options, la Borsa dove verranno scambiati gli altri derivati richiederà margini sufficienti per garantire la solvibilità delle controparti ed evitare di trovarsi nella situazione del gruppo Aig, che richiese l'intervento del governo americano per 180 miliardi di dollari. Anche l'istituzione di un'agenzia per proteggere il consumatore è una buona idea. La crisi è stata in parte dovuta a molte famiglie che hanno preso a prestito dei mutui a condizioni che non capivano. Come la Sec fu creata per proteggere gli investitori non sofisticati è giusto che ci sia un'agenzia a protezione dei debitori non sofisticati.

Gli altri due punti della riforma sono più controversi. La cosiddetta Volcker rule, che impedisce alle banche di fare attività di trading, è una risposta sbagliata ad una esigenza legittima, ovvero limitare il rischio assunto dalle banche. Questa crisi non è nata dall'attività di trading delle banche, ma dalla eccessiva esposizione ai mutui subprime. La Volcker rule non avrebbe evitato la crisi e rischia di aggravare i costi delle banche.

Ma l'aspetto più controverso è quello del fondo di protezione per le grosse banche. Questo fondo viene creato imponendo una tassa alle banche che sono considerate troppo grandi per fallire. Anche qui la proposta nasce da un'esigenza più che legittima: evitare che in futuro i contribuenti siano chiamati di nuovo a pagare per salvare delle banche. Imponendo una tassa che è indipendente dal rischio assunto, però, non si fa altro che favorire l'assunzione di rischio. La tassa renderà palese quali sono le istituzioni garantite. E queste istituzioni avranno tutto l'interesse a rischiare: se sono fortunate guadagnano in proprio, se falliscono paga il fondo di protezione. L'opposizione dei repubblicani su questo punto è sacrosanta. Speriamo che per una volta lo spirito bipartisan prevalga, partorendo un compromesso migliore. Tutti ne sarebbero grati. E non solo negli Stati Uniti.

(29 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-svolta-americana/2126064/18/1


Titolo: Luigi ZINGALES. Due euro sono meglio di uno?
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 06:06:41 pm
9 MAGGIO, SAN BEATO-2 /

Due euro sono meglio di uno?

di Luigi Zingales
   

Spesso le difficoltà della vita allontanano anche le coppie più innamorate. Quando le differenze di vedute diventano insanabili, a nulla serve ricordare l'amore che fu. Cercare di attribuire la responsabilità del fallimento è controproducente. Non fa che peggiorare le cose. Meglio una separazione consensuale e, come dicono gli inglesi, move on.

Lo stesso vale per l'euro. Fu un matrimonio d'amore. Contro il pessimismo della ragione, i padri fondatori addussero l'ottimismo della volontà: la speranza (illusione?) che le ovvie incompatibilità sarebbero state superate in corso d'opera. A chi (gli economisti americani) diceva che l'area dell'euro non era fatta per avere una sola valuta, si ribattè che parlavano per invidia o, peggio, per paura che l'euro avrebbe un giorno soppiantato il dollaro.

Come in molte coppie, l'attrazione fatale nasceva dalla diversità. L'Europa del Sud cercava un impegno esterno che le desse la disciplina monetaria e fiscale che non era stata in grado di darsi da sola.

Il Nord dell'Europa sperava che il Sud con il matrimonio mettesse la testa a posto ed evitasse, con le sue continue svalutazioni, di creare tensioni sul mercato dei cambi e delle esportazioni. Come in molte coppie, quella diversità, inizialmente così attraente, è divenuta insostenibile con gli anni.

La teoria economica suggerisce che per condividere la stessa moneta un'area geografica deve soddisfare due condizioni. La prima è che abbia un'economia relativamente omogenea, sottoposta agli stessi shock. Se parte dell'economia si basa sul petrolio e parte su high tech, gli shock saranno molto diversi e la politica monetaria che si addice a un'area non funzionerà nell'altra.

La seconda condizione, ancora più importante, è la mobilità interna. Se il Texas (economia tradizionalmente basata sul petrolio) riesce a convivere con la California (più basata sull'high tech) è perché i californiani si muovono facilmente in Texas e viceversa, tanto che Austin (Texas) è diventata una delle capitali dei personal computer.

Lo stesso non vale per l'Europa. Non solo il Nord dell'Europa, basato principalmente sull'industria manifatturiera avanzata, è molto diverso economicamente dal Sud, basato sul turismo. Ma la mobilità è molto limitata. Quella poca che esiste è dal Sud verso il Nord, non viceversa.

Dall'introduzione dell'euro il Sud ha avuto una crescita dei prezzi più elevata del Nord. Paradossalmente questa crescita è stata "colpa" dell'euro. L'introduzione di una moneta unica ha prodotto una riduzione dei tassi d'interesse per i paesi del Sud Europa che ha favorito un boom immobiliare. Fossimo stati negli Stati Uniti, gli abitanti del Michigan e del Minnesota si sarebbero trasferiti in Florida e Louisiana. Così non è in Europa. I tedeschi e gli olandesi in Grecia e Spagna ci vanno in vacanza, non a lavorare.

Il risultato di questa segmentazione è che i prezzi nel Sud Europa sono cresciuti per molti anni più che nel Nord, senza che il mercato interno costringesse a un reallineamento. Ora, finito il boom immobiliare, il Sud si trova ad essere molto meno competitivo del Nord.

Senza l'opzione di svalutare, ci sono solo tre possibili forme di aggiustamento. La prima è che i prezzi al Sud crescano meno dei prezzi al Nord. Il problema è che, con la bassa crescita mondiale e la politica monetaria della Bce, i prezzi al Nord difficilmente cresceranno più del 2 per cento.

Per recuperare differenziali del 20-30% (tali sono quelli dei paesi meridionali) il Sud deve subire molti anni d'inflazione a tasso zero o peggio di deflazione. L'elevato livello d'indebitamento privato di paesi come la Grecia e la Spagna, però, rende questa deflazione estremamente costosa. Se i prezzi scendono e il debito rimane fisso in termini nominali, ci saranno fallimenti a catena. La crisi del governo greco "ce n'est qu'un début": il problema si trasferirà presto al settore privato.

Un'alternativa è che i paesi del Nord accettino un livello d'inflazione più elevato, rendendo possibile ai paesi del Sud di recuperare competitività senza dover accettare una pericolosa deflazione. Ma questo equivale a chiedere al proprio coniuge di non essere più se stesso per salvare il matrimonio. I tedeschi non accetteranno. La loro condizione per l'unione era che la Bce avrebbe seguito la stessa rigida politica monetaria della Bundesbank. Quest'accordo è stato incorporato nei trattati e difficilmente potrà essere modificato, soprattutto senza il consenso tedesco. E i tedeschi non vedono perché debbano accettare l'odiata inflazione per rimediare agli errori altrui.

L'unica via d'uscita indolore sarebbe che il Sud Europa guadagnasse di competitività rispetto al Nord aumentando la produttività. Ma questo richiede riforme, tempo e investimenti. Se le ripercussioni della crisi greca possono aver aumentato la pressione per le riforme, hanno ridotto drammaticamente il tempo a disposizione e gli incentivi a investire. Quanti anni di disoccupazione a due cifre sono disposti a sopportare greci e spagnoli?

La maggior parte degli economisti accetta quest'analisi: perfino il premio Nobel Stiglitz, che non può certo essere accusato di essere un economista di destra. Dove nasce il disaccordo è sul rimedio. Molti, tra cui Stiglitz, sostengono che la soluzione alla crisi attuale è un'ulteriore integrazione politica e fiscale. Certo che se il governo europeo potesse prendere a prestito come tale e destinare le risorse raccolte al Sud, la crisi attuale potrebbe essere alleviata.

Il ragionamento è corretto, ma solleva due grossi problemi. Il primo politico. Politicamente non è facile spiegare ai tedeschi che devono indebitarsi maggiormente (e quindi pagare maggiori tasse in futuro) per risolvere i problemi dei loro cugini greci e spagnoli. Non lo può fare un governo elettoralmente debole e diviso come quello della Merkel. Ma probabilmente non potrebbe farlo neppure il governo del miglior leader tedesco.

Noi italiani, che viviamo in un paese che parla la stessa lingua e che, nel bene e nel male, è unito da 150 anni, stiamo muovendoci verso il federalismo fiscale, che contribuirà a ridurre i trasferimenti dal Nord al Sud. Come possiamo aspettarci che le nazioni europee vadano in direzione assolutamente opposta, nonostante la mancanza di una storia unitaria?

Il secondo problema è economico. I trasferimenti alleviano i problemi economici nel breve periodo, ma non li risolvono. Anzi li cronicizzano. Grazie ai sussidi le aree fuori mercato possono permettersi di rimanere tali, senza aggiustare i prezzi. Il nostro Mezzogiorno ha un livello di prezzi superiore alla sua produttività media. Sessant'anni di trasferimenti non hanno alleviato questo problema, lo hanno trasformato in gangrena. Vogliamo forse meridionalizzare il Sud d'Europa?

L'unica soluzione rimasta è riconoscere le differenze insanabili e spezzare consensualmente l'area euro. In economia il male maggiore è l'incertezza. La crisi greca ha seminato il dubbio che uno o più paesi possano uscire dall'euro. Difficilmente tale dubbio potrà essere fugato. Ma il mercato non ha idea di come tale uscita possa avvenire. Travolti dalla passione amorosa, i fondatori dell'euro si rifiutarono di considerare una via d'uscita. L'euro, si diceva, è irreversibile. Ma perfino la Chiesa, che non riconosce il divorzio, in situazioni estreme ha una procedura per la separazione. Perché l'euro no?

Questa mancanza di regole sta gettando il panico nei mercati finanziari e paralizzando gli investimenti. Chi uscirà per primo? Come verranno trattati i contratti in euro di questo paese? Quali conseguenze avrà sugli altri paesi e sulle loro banche? Una separazione pilotata e rapida sarebbe il male minore.

Creando due blocchi, ridurrebbe lo stigma su ogni singolo paese e consentirebbe al Sud di continuare a detenere una valuta liquida. La svalutazione dell'euro-sud rispetto all'euro-nord ridurrebbe il peso del debito pubblico e privato e permetterebbe un recupero di competitività che rilancerebbe l'economia. Eliminata l'incertezza gli investimenti riprenderebbero.

Inconcepibile? Perfino gli Stati Uniti lo fecero negli anni 30. Di fronte ai costi economici e sociali prodotti dalla Grande Depressione, gli Stati Uniti abbandonarono la parità aurea e trasformarono tutti i contratti scritti in dollari-oro in contratti in dollari carta svalutati. Perché gli stati del Sud Europa non dovrebbero abbandonare la parità con l'euro e trasformare i contratti scritti in euro in contratti in uno svalutato euro-sud?

Una legittima passione per l'unità europea ha accecato i padri fondatori dell'euro. Come due innamorati che sperano che il loro matrimonio eliminerà i rispettivi difetti, i padri fondatori si sono illusi che l'Unione Europea avrebbe creato lo spirito europeo. In verità, la libera circolazione delle persone, le borse di studio Erasmus e l'uso sempre più diffuso dell'inglese stanno lentamente formando uno spirito europeo.

Ma ci vorranno molti decenni, forse secoli, prima che un cittadino finlandese consideri un greco alla stregua del suo vicino di casa. Più di un millennio di divisioni non si cancella nello spazio di un decennio. Un'unione coatta non aiuta l'economia, ma neppure le possibilità di un'unione futura. Per salvare lo spirito europeo è meglio un divorzio consensuale, che preservi l'unione economica senza forzare quella monetaria. L'alternativa, uno stillicidio di litigi e recriminazioni, potrebbe essere devastante.

9 Maggio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Italia/2009/commenti-sole-24-ore/9-maggio-2010/due-euro-meglio-uno_2.shtml


Titolo: Luigi ZINGALES. - L'America non è la Grecia
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2010, 05:13:09 pm
L'America non è la Grecia

Luigi Zingales

Il debito è molto alto anche negli Stati Uniti: ma qui il rischio è una impennata dell'inflazione più che il default
 

Nel 2008, durante la fase più acuta della crisi finanziaria, molti americani si consolavano del collasso delle loro banche dicendo che quelle europee erano ancora peggio. Oggi, di fronte all'espandersi della crisi greca, gli europei puntano il dito sugli Stati Uniti. Forse che gli Stati Uniti sono molto meglio della Grecia? Con un debito lordo sul Prodotto interno lordo del 98 per cento e un deficit corrente pari al 10,3 per cento del Pil, gli Stati Uniti non sembrano essere molto diversi dalla Grecia, che ha un rapporto debito-Pil del 115 per cento e un deficit (prima delle ultime misure) del 13,6 del cento del Pil. Ma allora perchè i titoli del governo americano vantano ancora il tanto desiderato rating AAA (riservato ai titoli meno rischiosi), mentre quelli del governo greco sono stati declassati a titoli "spazzatura"?

I più maligni potrebbero addirittura pensare che le agenzie di rating americane abbiano un occhio di riguardo per i titoli emessi dal loro paese di origine. A pensare che i titoli americani siano più sicuri non sono solo le agenzie di rating, ma il mercato stesso. Il tasso sui famigerati credit default swap (Cds) ci dà un'indicazione della probabilità di default che il mercato attribuisce a titoli dei vari paesi. Il tasso dei Cds, per esempio, attribuisce una probabilità di bancarotta del governo inglese pari al 2 per cento all'anno. Su questa base i titoli di Sua Maestà dovrebbero avere un rating di AA e non AAA. Nel caso della Grecia il mercato anticipava una probabilità di default pari al 23 per cento all'anno prima dell'intervento europeo e tuttora siamo al 18 per cento. Per i titoli americani, invece, si scende allo 0,9 per cento, coerente con un rating AAA.

Come mai i titoli americani sono considerati più sicuri di quelli greci?
Il primo motivo è che il debito effettivo degli Stati Uniti è molto più basso. Circa il 30 per cento del debito non è detenuto dal pubblico, ma da altre agenzie governative, portando il debito netto a "solo" il 70 per cento del Pil. Questa differenza è ancor più rilevante quando il debito ha una struttura per scadenza particolarmente ravvicinata. Un terzo del debito greco (quasi 40 percento del Pil) scade nei prossimi tre anni. A questo si aggiungono i disavanzi di bilancio che devono essere finanziati. In questa situazione un aumento temporaneo dei tassi si traduce in un immediato e forte aumento delle spese per interesse su una grossa parte del debito, che rappresenta una frazione ancora più elevata del Pil. Senza una pronta manovra fiscale il deficit aumenta, aumentando il rischio di insolvenza, il quale a sua volta fa lievitare i tassi. La Grecia è caduta in questo circolo vizioso a causa dell'elevato livello del debito e della struttura delle scadenze troppo ravvicinata.

Il secondo motivo è la situazione economica di lungo periodo. Con una crescita della popolazione dell'1 per cento e un aumento medio della produttività negli ultimi vent'anni dell'1,9 per cento, gli Stati Uniti hanno un tasso di crescita tendenziale del 3 per cento. Questo permette agli Stati Uniti di avere un deficit strutturale di bilancio superiore al 2 per cento del Pil senza veder lievitare il rapporto tra debito e Pil. La Grecia invece, con crescita della popolazione tendenzialmente negativa e un bassissimo aumento della produttività, non può permettersi alcun deficit strutturale. Anzi, ad Atene devono conseguire un avanzo di bilancio per ridurre un debito già troppo elevato. Una contrazione fiscale, però, ha effetti negativi sul Pil e peggiora ulteriormente il rapporto debito-Pil, mettendo in dubbio la capacità di fronteggiare il peso del debito.
Non da ultimo, gli Stati Uniti dispongono della leva monetaria, di cui la Grecia non dispone. A differenza della Banca centrale europea, la Federal reserve non ha la proibizione di comprare titoli del Tesoro all'emissione. In sostanza, gli Stati Uniti possono permettersi di monetizzare il debito, creando inflazione. La Grecia no.

L'unione monetaria europea è stata creata proprio per eliminare il rischio di inflazione. Quello che non fu adeguatamente spiegato all'epoca è che il rischio di inflazione è stato sostituito dal rischio di default. Possiamo discutere quale sia peggio. Resta il fatto che la Grecia, il Portogallo e, in misura inferiore, la Spagna hanno oggi un rischio elevato di insolvenza. Se non risistemano prontamente le loro finanze, gli Stati Uniti non rischiano un default, ma un'impennata inflazionistica. Il mercato non sembra temerlo ancora, ma ad ottobre il rischio Grecia sembrava minimo. Di questi tempi il mercato cambia rapidamente. Sarebbe quindi meglio che Obama facesse attenzione.

(20 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lamerica-non-e-la-grecia/2127412/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Manager in fuorigioco
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2010, 05:08:54 pm
Manager in fuorigioco

Luigi Zingales

La performance di un'impresa peggiora dopo che il capo ha vinto un premio: come Lippi crede di non aver più nulla da imparare

(02 luglio 2010)

Per molti versi la gestione di una squadra di calcio è simile a quella di un'impresa. Se gestite bene, sia una squadra che un'impresa valgono molto di più che la somma delle risorse di cui dispongono. Se gestite male, valgono molto meno. La storia del calcio è piena di squadre zeppe di campioni, ma incapaci di vincere. E il mondo del business è ricco di imprese come la Xerox, che hanno sprecato risorse eccezionali, mentre imprese che hanno cominciato con pochissime risorse, come Microsoft, sono riuscite a conquistare il mondo. Nelle squadre di calcio la differenza è spesso fatta dall'allenatore, così come nelle imprese dall'imprenditore. Apple era sull'orlo del fallimento quando Steve Jobs la riprese in mano. Oggi ha superato Microsoft per valore di mercato.
L'accresciuta importanza degli allenatori e dei manager si manifesta nella crescita dei loro compensi. Sia Nereo Rocco che Enrico Cuccia guadagnavano inezie se comparati agli stipendi di Jose Mourinho e Alessandro Profumo. Questi mondiali, però, ci insegnano che l'allenatore non basta o, meglio, che l'allenatore di successo spesso fallisce. Marcello Lippi, che era stato il vero vincitore del Mondiale di Berlino, è emerso come il principale responsabile della disfatta di Johannesburg. E Fabio Capello, uno degli allenatori che ha vinto di più al mondo, è uscito malamente agli ottavi di finale, dopo una perfomance molto opaca della sua Inghilterra. Come spiegare questi fallimenti? Quali lezioni possiamo trarre per il management d'impresa?

Innanzitutto che soffriamo tutti di un vizio di attribuzione. Ci piace razionalizzare successi e sconfitte attribuendo meriti e colpe ad un responsabile, sia esso il manager o l'allenatore. Ma così nel calcio come nel business esiste un'elevata componente di imponderabile. Se nel 2006 Totti avesse sbagliato il rigore contro l'Australia, invece che essere celebrato come l'eroe di Berlino Lippi sarebbe stato probabilmente sbeffeggiato. E se il tiro di Quagliarella fosse stato ribattuto da Skrtel un solo centimetro più indietro, quest'anno Lippi avrebbe evitato il disonore di un'eliminazione al primo turno. Entrambi questi eventi nulla hanno a che fare con le sue decisioni. Ciononostante a noi piace dare ragione a chi vince e torto a chi perde, indipendentemente da meriti e demeriti.
Questo problema di attribuzione affligge gli stessi manager/allenatori. Quando vincono tendono a credere che il merito sia tutto della loro strategia. E quindi tendono a ripeterla, indipendentemente da quanto si adatti alla situazione contingente. In un' Italia martoriata da calciopoli, fare gruppo ignorando le critiche provenienti dall'esterno era una strategia ottimale. Nel 2010, in un'Italia ancora ebbra dei trionfi di Berlino, la stessa strategia si è rivelata letale. Ha isolato i giocatori e l'allenatore dalle critiche esterne, impedendo loro di vedere i propri limiti e quindi di porvi rimedio. Forse che la figuraccia dell'Italia alla Confederations Cup del 2009 non era un segnale sufficiente che qualcosa non funzionava?
Lo stesso capita per i manager: tendono ad adattare l'impresa alla loro strategia, invece che la strategia alla loro impresa. Al Dunlop, soprannominato la sega elettrica per la sua abilità nel tagliare i costi, applicò la stessa strategia in ogni impresa che diresse. Funzionò con Scott Paper e con Crown Zellerbach, ma non funzionò con Sunbeam perché non trovò subito un acquirente. E si scoprì che la sua strategia non era poi così vincente.

Il successo tende anche a rendere conservatori. Squadra che vince non si cambia, dice un vecchio detto. Ma gli anni passano e le squadre devono cambiare.
Il successo è pericoloso anche perché toglie motivazioni e monta la testa. Un recente studio empirico mostra che la performance di un'impresa peggiora dopo che il suo capo ha vinto un premio. Il motivo è molto semplice: un manager che viene riconosciuto come un eroe si sente arrivato e si mette a scrivere le sue memorie. Non ha più nulla da desiderare e crede di non aver più nulla da imparare. Sia nel calcio che nel business, difficilmente si riesce a vincere con quest'attitudine. Meglio la sete di chi sente che deve ancora provare qualcosa a se stesso e al mondo. E l'umiltà di chi sa di avere ancora molto da imparare.

Per questo nel mondo del calcio come quello del business la sconfitta ha un lato positivo: forza il cambiamento. La Germania sconfitta in casa quattro anni fa si è rinnovata profondamente. Noi non possiamo perdere questa occasione storica.


© Riproduzione riservata


Titolo: Luigi ZINGALES. - La roulette dei bonus
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 10:24:26 am
La roulette dei bonus

di Luigi Zingales

Le regole Ue sui premi ai banchieri si possono aggirare: aumentando ogni anno lo stipendio

(23 luglio 2010)

Il Parlamento europeo ha votato nuove regole per i bonus dei banchieri. Non più del 30 per cento dei bonus potrà essere pagato in denaro, tra il 40 e il 60 per cento dovrà essere differito per almeno tre anni, almeno il 50 per cento dovrà essere investito in "contingent capital", una nuova forma di debito che si trasforma in azioni quando la banca è in difficoltà (e quindi quando le azioni valgono poco). L'aspetto più interessante è che questi limiti non sono imposti solo all'amministratore delegato, ma a tutti i principali dirigenti. Il "New York Times" ha lodato l'iniziativa, che non ha eguali in nessun altro paese. Il settore finanziario non ha gradito, parlando di rischio di perdita di competitività delle banche europee rispetto a quelle americane.
Chi ha ragione? L'interferenza politica sulle scelte delle imprese private è sempre rischiosa. In un mercato competitivo lo stipendio è determinato dal contributo che ciascun individuo fornisce. Quando sono decisi per legge, invece, i compensi sono influenzati dal potere politico, incentivando le persone ad accumulare potere politico invece che a produrre di più e meglio.

Nel settore bancario, però, la crisi ha evidenziato un problema. Bonus molto elevati possono indurre i banchieri ad assumersi toppo rischio. Per capire il problema immaginatevi che qualcuno vi dia 100 euro per fare una scommessa alla roulette e vi prometta il 20 per cento di quello che vincete. Quale giocata farete? Puntando sul rosso, se vincete il croupier vi paga la posta. Quindi il guadagno è di soli 100 euro, 20 dei quali costituiscono il vostro compenso. La pallina ha 18 probabilità su 37 di finire su un numero rosso (ci sono 18 rossi, 18 neri e lo zero). Quindi il vostro compenso atteso, che si ottiene moltiplicando l'ammontare del compenso in caso di vincita per la probabilità di vincere, è di 9,7 euro. Se invece puntate su un numero singolo, in caso di vittoria ricevete 35 volte la posta, quindi un guadagno netto di 3500 euro, e il vostro compenso sarà di 700 euro. Ovviamente la probabilità di vincere è molto più bassa (una su 37). Ciononostante il vostro compenso atteso sarà di 18,9 euro, quasi il doppio di prima. Nonostante che il gioco della roulette sia disegnato in modo tale da eguagliare il valore atteso di ogni puntata, il contratto che avete ricevuto vi farà preferire le puntate più rischiose. Perché?

Come agente voi non tenete in considerazione la probabilità con cui l'investitore recupera i suoi soldi, ma solo il valore atteso della vincita netta, che aumenta con l'aumentare del rischio. La struttura dei bonus nel settore finanziario è molto simile, soprattutto nel settore del trading. I gestori scommettono: se vincono, si prendono il loro bonus; se perdono, si spostano ad un'altra banca e ricominciano.
A questo punto dovreste domandarvi perché la struttura del bonus è fatta così male. In parte è il risultato di una combinazione perversa tra il desiderio di motivare i manager con compensi che crescono con il risultato e la possibilità che il settore finanziario ha di aumentare a dismisura il rischio. In parte, è il risultato di un problema di corporate governance. Nella migliore delle ipotesi a decidere i compensi sono gli azionisti. Data la forte leva finanziaria delle banche, gli azionisti si arricchiscono quando le scommesse sono fortunate e, quando sono sfortunate, a pagare sono i creditori (o lo Stato che li assiste). Nella peggiore delle ipotesi a decidere i compensi sono altri manager, che hanno contratti simili e quindi gli stessi incentivi a rischiare.

L'idea migliore per risolvere questo problema è quella di imporre dei requisiti minimi di capitale basati sul rischio delle scelte fatte dai banchieri. È quello che si è cercato di fare con gli accordi di Basilea, con pessimi risultati. Di qui il desiderio di agire anche sugli altri margini. Imporre il pagamento differito di una grossa parte del bonus è sicuramente una buona idea, così come il requisito che la parte differita sia investita in modo da rendere il manager compartecipe delle perdite, per ridurre gli incentivi ad assumersi rischio. Il vero problema è che queste nuove regole si applicano ai bonus, non agli stipendi. Invece che pagare a gennaio un bonus per la performance dell'anno precedente, le banche pagheranno il bonus lungo il corso dell'anno sotto forma di stipendio, che verrà rinegoziato ogni anno.
In altre parole, senza regole più effettive per ridurre gli incentivi al rischio degli azionisti, limitare i bonus è solo un palliativo poco efficace, che sarà facilmente aggirato.

   © Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-roulette-dei-bonus/2131276/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Tra diritti e flessibilità
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 09:29:13 am
Tra diritti e flessibilità

di Luigi Zingales

Su libertà, dignità e sicurezza non si tratta.

Ma il sindacato in tempi di crisi deve discutere di turni e di lavoro il sabato

(03 settembre 2010)

I periodi di recessione sono particolarmente difficili per la tutela dei diritti dei lavoratori. Come nei momenti di boom i dipendenti si affrettano a chiedere aumenti e nuove tutele, in quelli di recessione sono le imprese a sfruttare il maggior potere contrattuale per cercare di comprimere non solo i salari, ma anche molti dei diritti acquisiti dai dipendenti.

Lo abbiamo visto nel caso della Fiat, dove l'amministratore delegato Sergio Marchionne ha messo di fronte agli operai di Pomigliano d'Arco la scelta tra un cambiamento delle regole in fabbrica e la chiusura degli impianti. Lo abbiamo sentito nelle parole del ministro Giulio Tremonti che, intervenendo al convegno di Cl di Rimini, ha dichiarato "se vuoi diritti perfetti nella fabbrica ideale rischi di avere diritti perfetti ma perdi la fabbrica, che va da un'altra parte".

Stiamo forse ritornando al capitalismo selvaggio? Per quanto terribile sembri questo processo, fa parte di una sana dialettica di mercato. Esistono alcuni diritti fondamentali, come quello della tutela della libertà, della dignità e della sicurezza sul lavoro, che fanno parte dei diritti individuali, in quanto persona prima ancora che in quanto lavoratore. Come tali questi diritti non sono e non devono essere soggetti alla contrattazione tra le parti. Al di fuori di questi, però, è difficile stabilire cosa sia giusto. Da un lato, gli imprenditori si lamentano che ogni restrizione riduce la produttività aumentando il costo del lavoro per unità di prodotto e rendendo le loro imprese meno competitive. Dall'altro lato, i sindacati si lamentano che ogni cambiamento penalizza fortemente gli operai, aggravando le loro condizioni lavorative e la loro salute. Molto spesso si esagera da entrambe le parti, per portare acqua al proprio mulino. Ma esiste del vero da entrambi i lati.

Tutte le forme di protezione, dalle restrizioni sui turni festivi alla lunghezza delle ferie, tendono ad avere un costo in termini di competitività. Se gli impianti di Pomigliano d'Arco possono lavorare solo cinque giorni alla settimana, invece di sei, gli investimenti devono essere ammortizzati su un numero minore di automobili, alzando i costi e quindi riducendo la competitività. D'altro canto lavorare di sabato rende più difficile agli operai avere una normale vita familiare e sociale, con conseguenze sul loro benessere e anche sulla loro salute.

Che cosa è giusto fare? In un libero mercato la scelta non viene fatta a livello centralizzato sulla base di criteri di giustizia, ma viene delegata ai singoli operatori economici, sulla base del prezzo. Molti operai sono contenti di lavorare anche di sabato in cambio di un compenso più elevato. Altri no. Se un'impresa vuole ammortizzare gli impianti su sei turni settimanali, deve riuscire a convincere un numero sufficiente di operai a lavorare di sabato e per far questo deve pagarli di più. Se il beneficio in termini di più rapida ammortizzazione degli impianti è sufficiente a pagare il maggior salario richiesto, la produzione avverrà su sei turni, altrimenti no.

In realtà, le contrattazioni a cui assistiamo in questi mesi hanno ben poco a che vedere con questa immagine ideale. Innanzitutto, le imprese chiedono maggiore flessibilità, offrendo nulla in cambio, anzi minacciando i licenziamenti. Il motivo è che i salari sono rigidi verso il basso. Non potendo ridurli neanche in piena recessione, alle imprese non resta che concentrarsi nel tagliare le altre componenti del costo del lavoro. Da qui il recente "attacco" a molte conquiste sindacali.

Il secondo motivo è che questa diversità di preferenze tra lavoratori spaventa ilsindacato che fa di tutto per coprirla. Per massimizzare il proprio potere contrattuale, il sindacato ha bisogno di un fronte compatto. Per ottenerlo deve assicurarsi che tutti gli operai siano trattati allo stesso modo, anche quando questo danneggia non solo l'impresa, ma anche l'operaio. Per questo il sindacato non vuole permettere ai lavoratori di scegliere se lavorare di sabato o no sulla base delle loro preferenze individuali (e del prezzo che viene offerto loro), perché teme che gli imprenditori sfruttino la competizione tra lavoratori per ridurre i salari (e il potere del sindacato).

Questa logica funziona bene nei momenti di espansione, ma è controproducente nei momenti di crisi. Nei paesi scandinavi i sindacati sono riusciti a proteggere i fondamentali diritti dei lavoratori offrendo in cambio una maggiore flessibilità. È tempo che questo avvenga anche in Italia.

© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tra-diritti-e-flessibilita/2133579/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - I politici italiani vadano a scuola di mercato da Sarah Palin
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 05:51:03 pm
I politici italiani vadano a scuola di mercato da Sarah Palin

di Luigi Zingales

Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2010 alle ore 09:32.

   
Era da giorni che ricevevo telefonate da giornalisti americani che mi domandavano se ero l'advisor economico di Sarah Palin. La cosa mi sembrava alquanto strana. Non solo non avevo mai avuto il piacere di conoscere l'ex governatore dell'Alaska, ma dubitavo perfino che lei sapesse della mia esistenza. In America sono poco conosciuto al di fuori del mondo accademico. E anche i miei scritti più divulgativi non sono circolati al di fuori di una ristretta cerchia di intellettuali.

Martedì il mistero è stato risolto, con l'uscita del suo nuovo libro: America by Heart. Non solo dal libro risulta che Sarah Palin conosce alcuni dei miei lavori, ma mi cita nel suo libro come l'economista che ha fatto di più per difendere il libero mercato durante la crisi, abbracciando la mia idea di un capitalismo "pro market e non pro business". Quello che sorprende è che non solo conosce il mio nome, ma che dimostra di capire pienamente la mia posizione. È una posizione non facile tra chi, in nome della difesa del mercato, difende il sistema a oltranza, comprese le degenerazioni che abbiamo visto durante la crisi, e chi invece non crede nel mercato e vuole soffocarlo o peggio distruggerlo. Un difficile distinguo tra un populismo crescente che vede nel ricco un approfittatore e nel finanziere un criminale e una cortigianeria imperante che difende i ricchi in quanto tali e li rispetta, indipendentemente dal modo in cui hanno accumulato la loro ricchezza.

È una posizione rischiosa da un punto di vista politico perché denuncia come le grosse imprese si siano appropriate della bandiera del libero mercato, utilizzandola per arricchirsi mentre di fatto restringevano la competizione e succhiavano soldi ai contribuenti. Difficile perché rischia di alienare l'establishment economico e quindi di perdere la più grossa fonte di finanziamento in campagna elettorale, almeno per chi non è sostenuto dai sindacati. Forse la Palin se lo può permettere perché l'establishment economico e politico è già tutto contro di lei e quindi non ha nulla da perdere. E perché gode di un seguito popolare che le consente di imitare (almeno dal punto di vista del finanziamento elettorale) le orme di Barak Obama, che ha raccolto enormi somme di denaro con piccoli contributi attraverso internet. Obama, però, a fianco della marea di piccoli finanziatori, si è avvalso di massicci contributi del mondo finanziario. Contributi che poi ha ripagato, al di là della retorica elettorale, con un occhio di riguardo verso questo mondo. Farà la Palin la stessa fine: paladina di un capitalismo popolare da candidata e poi difensore degli interessi costituiti una volta eletta?

È possibile. Ma in America, almeno durante la campagna elettorale, c'è chi sente il bisogno di difendere l'interesse del mercato anche quando contrasta con l'interesse dei grossi capitalisti.

In Italia, questa distinzione è perduta tra una sinistra che ancora diffida del mercato e una destra che è posseduta da un capitalista. Vorrei illudermi che la mancanza di interesse da parte dei politici italiani per l'idea di "pro market e non pro business" sia solo dovuta al fatto che nemo propheta in patria. Temo però che le ragioni siano ben più profonde: cresciuta in un capitalismo relazionale e corrotto la maggior parte dei politici italiani non riesce neppure a concepire i benefici del libero mercato e della vera competizione, una competizione non distorta dall'interesse dei grossi capitalisti. È facile ridere di Sarah Palin, ma dimostra di avere dei valori che i nostri politici non hanno.

©RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-11-26/politici-italiani-vadano-scuola-203420.shtml?uuid=AYvPqtmC


Titolo: Luigi ZINGALES. - Purché scandalo sia
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:20:42 am
L'opinione

Purché scandalo sia

di Luigi Zingales

L'uso politico e non partitico delle inchieste giornalistiche è la via giusta per informare gli elettori e battere la corruzione

(26 novembre 2010)

Se uno dovesse giudicare l'Italia dagli articoli che appaiono sulla stampa estera, ne avrebbe una visione terribile.
Gli scandali sessuali rappresentano (triste a dirsi) l'aspetto più innocente. Quando i nostri ministri non sono accusati di ricevere tangenti, gli ex ministri sono condannati per mafia. Scandali che in altri paesi distruggerebbero la carriera del personaggio politico più rispettabile, vengono ignorati. La corruzione non viene più percepita come una degenerazione, ma come la norma. Il Paese sembra aver perso perfino la forza di indignarsi.

Quale futuro ci attende? Per fortuna, la situazione non è così bieca. Se l'Italia vista dall'America può sembrare un paese moralmente sottosviluppato, non lo è in un contesto storico. Gli stessi Stati Uniti, che oggi si ergono come esempio di moralità, agli inizi del Ventesimo secolo erano più corrotti dell'Italia. La polizia era un feudo dei partiti. I senatori erano al soldo dei grossi industriali come Rockefeller e la corruzione dilagava.

Migliorare è possibile. Per capire come farlo è necessario imparare dai successi altrui. Come hanno fatto gli Stati Uniti ad emergere dalla corruzione imperante agli inizi del secolo scorso? La risposta è semplice: attraverso l'uso politico (non partitico) degli scandali. Il problema fondamentale di ogni democrazia è che la maggior parte degli elettori non è informata. Informarsi richiede tempo e il tempo è denaro. Per l'elettore medio il costo di diventare informato eccede il beneficio che ne può ricavare attraverso un voto informato. Il risultato è che la stragrande maggioranza dei cittadini rimane ignorante sulle decisioni politiche fondamentali. Questa ignoranza favorisce la corruzione: i politici prendono decisioni nell'interesse loro e dei loro finanziatori, non della maggioranza.
L'unico antidoto a questa triste situazione è rappresentato dai mass media. I media hanno la capacità di trasformare anche l'argomento più noioso in intrattenimento e così facendo educano gli elettori, spesso a loro stessa insaputa. Il film documentario di Al Gore ha fatto di più per la causa dell'ambiente che mezzo secolo di campagne dei Verdi.

Negli Stati Uniti del primo Novecento questo ruolo di sensibilizzazione non veniva svolto dai film documentari, ma dai periodici, che scoprirono i benefici, in termini di vendite, delle inchieste giornalistiche. Nel 1905 "Collier's Weekly" pubblicò una serie sulla "Grande Frode Americana", sulle medicine che nuocevano alla salute. Lo stesso anno Upton Sinclair pubblicò a puntate su "Appeal to Reason" il libro "La Giungla", una descrizione impietosa dell'industria degli insaccati. Il disgusto fu tale che il Congresso approvò una legge sul controllo dei salumi e il Pure Food and Drug Act, che creò la famosissima Food and Drug Administration, che ancora oggi regola gli standard di sicurezza del cibo e dei medicinali americani. Nel 1906 "Cosmopolitan" pubblicò a puntate "Il Tradimento del Senato", una descrizione impietosa della corruzione dei senatori americani, che all'epoca non venivano eletti, ma nominati dai governatori. Nel 1912 la costituzione fu riformata per rendere il Senato elettivo.Tutte queste riforme furono approvate da un presidente Repubblicano (Theodore Roosevelt prima e Taft poi) e da un Congresso per lo più a maggioranza repubblicana. Non fu quindi una battaglia tra democratici e repubblicani, ma una risposta di politici attenti alla volontà popolare. Per dei politici emergenti, gli scandali rappresentano una ghiotta opportunità di successo. In un mondo politico competitivo, in pochi se la lasciano scappare.

Cosa manca all'Italia d'oggi per cominciare una stagione di riforme? Innanzitutto, un settore dei media animato da motivi commerciali e non politici. I coraggiosi documentari della Gabanelli hanno un grosso successo di pubblico. Se ne vediamo così pochi è perché tanto la Rai quanto Mediaset non operano secondo logiche commerciali, ma secondo logiche politiche.

In secondo luogo, il sistema politico italiano rende difficile l'entrata di outsider. A destra abbiamo un'azienda padronale trasformata in partito, a sinistra un partito erede del centralismo democratico trasformato in azienda. In questo contesto è difficile per donne e uomini nuovi irrompere sul mercato politico sfruttando il malcontento diffuso.
Senza un pubblico informato, però, non esiste spazio per un politico nuovo. Se vogliamo cambiare, dobbiamo cominciare riportando le logiche di mercato nel mercato dei media.

© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/puche-scandalo-sia/2139102/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Se fallisce lo Stato
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2010, 06:34:01 pm
Se fallisce lo Stato

di Luigi Zingales

I casi di default si sono ridotti perché i governi hanno rimediato stampando moneta.

Ma ora per i paesi dell'area euro questa opzione non è più disponibile.

Resta la ristrutturazione del debito con quel che ne consegue

(17 dicembre 2010)

Irlanda, manifestazione Irlanda, manifestazioneIl primo default di uno Stato sovrano di cui si abbia memoria avvenne, guarda a caso, in Grecia nel IV secolo avanti Cristo, quando dieci delle 13 città-Stato appartenenti alla lega Attica non ripagarono i prestiti contratti con il tempio di Apollo a Delo (letteralmente il santuario della finanza dell'epoca). Ma nella Storia l'infamia del default non ha risparmiato nessuno. Fecero default i sovrani inglesi, come si ricordano ancora a Firenze, e fecero default perfino i tedeschi nel 1683 con Federico Guglielmo I. Tra il XVI e la fine del XVIII secolo, però, il primato spetta alla Francia (otto default), seguita a ruota dalla Spagna (sei default). Non sorprende tanto che gli Stati sovrani talora non paghino, quanto che questo avvenga così di rado, dati i poteri molto limitati dei creditori di uno Stato sovrano. Se escludiamo le guerre e le riparazioni ad esse connesse, l'ultimo default di uno stato dell'Europa occidentale risale al 1893 ad opera della Grecia (sempre lei). Perché gli Stati fanno default così raramente?

Il primo motivo è che gli Stati moderni sono costantemente affamati di soldi. Un paese in cui le spese al netto degli interessi eccedono le entrate non può sospendere i pagamenti così facilmente. Appena lo fa si trova tagliato fuori dai mercati, e quindi incapace di raccogliere le risorse per finanziare la spesa corrente. In questa situazione è meglio per un governo indebitarsi ulteriormente, spostando il peso del debito su generazioni e governi futuri, invece che affrontare oggi il caos che un default comporterebbe.
Anche quando costringere i creditori ad una ristrutturazione è la soluzione migliore, i governi democratici hanno paura di intraprenderla. Era facile per Eduardo III d'Inghilterra non pagare i Perruzzi e i Bardi, che erano stranieri. Molto più difficile è per un leader politico ripresentarsi alle elezioni dopo aver fatto default sul debito, soprattutto quando questo è detenuto internamente.
Ma il terzo, e forse principale, motivo è che nell'ultimo secolo i governi europei hanno avuto un altro strumento per fare parziale default, ovvero l'inflazione. Con l'avvento della moneta cartacea gli Stati sovrani hanno potuto ridurre il valore reale del loro debito stampando più moneta, facoltà di cui si sono ampiamente avvalsi. Essendo un default mascherato e strisciante, l'inflazione è meno costosa politicamente, almeno nel breve periodo.
Per i paesi dell'area euro questa opzione non è più disponibile, almeno a livello individuale. È sempre possibile che la Banca centrale europea monetizzi parte del debito dei paesi a rischio, ma per farlo dovrebbe ricevere il consenso anche della Germania, molto avversa al rischio di inflazione. Senza questa via di scampo, il rischio di un default è molto più elevato. Quanto elevato?

Per paesi con un forte deficit al netto degli interessi, come la Grecia e l'Irlanda, il costo economico e politico di un default sarebbe stato enorme. Per questo hanno fatto di tutto per evitarlo. Paradossalmente, però, il sostegno offerto dal Fondo monetario internazionale e dall'Unione europea rende loro più agevole una ristrutturazione parziale del debito (una forma di parziale default). Non dovendo tornare immediatamente sul mercato, si possono permettere di imporre delle concessioni ai creditori senza mettere in ginocchio il Paese. E questa sarà l'inevitabile sorte di questi due Paesi, anche perché una fetta consistente del loro debito è detenuto da stranieri. Il costo della ristrutturazione, quindi, ricade in gran parte sul resto del mondo: un aspetto molto interessante dal punto di vista politico.

Più complessa è la situazione per l'Italia. Il deficit al netto degli interessi è limitato. Se i tassi sul nostro debito dovessero impennarsi, aumentando a dismisura la spesa per interessi, l'opzione di un default, almeno parziale, diventerebbe più attraente. Rimane, però, politicamente molto costosa: la metà del nostro debito è detenuto internamente e gran parte del rimanente è detenuto da banche europee che sarebbero messe in ginocchio da un nostro default, con ripercussioni sul nostro sistema bancario. Al momento quindi possiamo dormire sonni tranquilli. Ma se oltre l'Irlanda anche la Spagna dovesse ristrutturare il debito, i nostri governanti avrebbero sufficiente copertura politica per forzare anche loro una ristrutturazione. Al grido di "l'hanno fatto gli altri, perché non possiamo farlo anche noi", un consolidamento del debito (allungamento delle scadenze con una riduzione dei tassi) diventerebbe inevitabile.

© Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/se-fallisce-lo-stato/2140550/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Mister Bondi fatti più là
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2011, 04:56:30 pm
Mister Bondi fatti più là

di Luigi Zingales

(18 febbraio 2011)

Stabilimento Parmalat Stabilimento ParmalatQuando si parla di risanatori di aziende in Italia non c'è nessuno che eguagli Enrico Bondi. A lui sono stati affidati i casi più difficili, da Montedison a Parmalat. Bondi ha saputo fronteggiare difficilissime negoziazioni con le banche, tagli pesanti del personale, indagini per recuperare fondi occultati in un meandro di partecipazioni incrociate. In aggiunta, nel caso Parmalat ha mostrato un'aggressività nel far causa a tutti (dalle banche alla società di revisione alle agenzie di rating) degna dei migliori liquidatori d'oltreoceano. Così facendo è stato in grado di recuperare per vie legali più di 1,5 miliardi di euro. Parmalat, che nel dicembre del 2003 sembrava destinata alla liquidazione, è oggi un'azienda sana, che nel 2009 ha fatturato quasi 4 miliardi di euro, con un utile netto di gestione di 230 milioni di euro.

Per molto meno, altri amministratori delegati sono stati considerati degli eroi. Bondi invece non solo non viene celebrato, ma rischia addirittura di essere licenziato. Un gruppo di investitori stranieri ha preparato una lista alternativa per il consiglio di amministrazione che verrà presentata alla prossima assemblea. Questo gruppo ha già dichiarato che, se vince, sostituirà l'amministratore delegato: un fatto senza precedenti in Italia. Si tratta di una manovra di speculatori senza scrupoli o di un'importante novità nel governo societario in Italia?

Innanzitutto, è importante capire che in un mondo che cambia i successi passati non sono necessariamente un indicatore di capacità a gestire il futuro. Marcello Lippi, l'allenatore che ci portò al trionfo di Berlino, è stato anche uno dei principali responsabili del disastro in Sudafrica. All'indomani della fine della seconda guerra mondiale, gli elettori inglesi scelsero di mandare a casa il vittorioso Winston Churchill per sostituirlo con Clement Attlee. Non fu ingratitudine. Le leve del comando non devono essere assegnate per riconoscenza, ma per competenza. Quelle stesse qualità che resero Churchill un leader ineguagliabile durante il conflitto lo rendevano poco adatto a gestire le riforme necessarie nel periodo post bellico.

Lo stesso vale per Bondi. La persona migliore per gestire un'azienda in crisi finanziaria, non è necessariamente quella ideale per rilanciarla. Tanto bravo è stato Bondi a gestire la ristrutturazione, tanto lento è nell'individuare le nuove vie di sviluppo. Il fatturato organico di Parmalat è fermo, i profitti sono in discesa e il mercato domestico del latte Uht è fortemente insidiato dai prodotti generici. La distribuzione geografica dell'azienda (con una forte presenza in Italia e Canada) risulta troppo sbilanciata e non sufficientemente diversificata. Nel contempo, Parmalat siede su 1,34 miliardi di euro di liquidità, frutto dei pagamenti ricevuti nelle cause legali. Perché non usare parte di quei proventi per completare l'espansione geografica dell'azienda? E perché non distribuirne una parte agli investitori, invece che tenerla malamente impiegata in titoli finanziari?

Sono queste le domande che con tutta probabilità si sono posti gli invesitori istituzionali esteri. Per la maggior parte non si tratta di hedge fund con un orizzonte temporale breve, ma fondi comuni come Skagen, la prima società di fondi norvegese, e la canadese Mackenzie. Insieme hanno presentato una lista per proporre una strategia alternativa.

Si tratta di un'iniziativa senza precedenti anche sul mercato americano, dove gli investitori istituzionali detengono più del 60 per cento delle azioni quotate. Ma si tratta di un'iniziativa positiva. In qualità di maggiori azionisti questi investitori dovrebbero partecipare maggiormente al governo societario. Purtroppo invece sono troppo cauti nel prendere posizioni contro il management per paura di inimicarsi la categoria: non vogliono mettere a rischio i ricavi che fanno vendendo servizi alle imprese. Non a caso l'iniziativa è partita da fondi norvegesi e canadesi con presenza nulla in Italia. Fino a quest'anno, l'altro motivo per la scarsa partecipazione degli investitori istituzionali erano le regole di voto, che rendevano molto difficile agli investitori istituzionali votare in assemblea.

Grazie ad un nuovo regolamento dell'Unione europea, questa complicazione è stata eliminata. Mi auguro quindi che la lista Parmalat rappresenti l'alba di un nuovo giorno. Sarebbe ora che la scelta dei leader delle principali aziende italiane non venisse più fatta nei salotti buoni in base al principio della lealtà e della riconoscenza, ma sul mercato in base al principio della competenza.

   
© Riproduzione riservata
da - espresso.repubblica.it/dettaglio


Titolo: Luigi Zingales Dove Geronzi ha sbagliato
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:19:30 pm
Dove Geronzi ha sbagliato

di Luigi Zingales

Il presidente delle Generali è strapagato e come responsabilità ha solo comunicazione e gestione del consiglio. In entrambi i casi ha fatto errori. Cosa ne pensano coloro che gli hanno dato quello stipendio?

(07 aprile 2011)

All'indomani della nomina di Cesare Geronzi a presidente di Assicurazioni Generali avevo indicato quanto, secondo i parametri di mercato, un presidente senza deleghe come lui avrebbe dovuto guadagnare: circa 600 mila euro all'anno. Con una pratica in voga in Italia, la scelta del consiglio non fu rivelata al mercato al momento in cui fu effettuata, ma solo ora, undici mesi dopo, all'interno della relazione annuale.

Lo stipendio di Geronzi è di 3.3 milioni all'anno, un compenso che lo posiziona tra i presidenti senza deleghe più pagati d'Europa.
Posso facilmente immaginarmi come i membri del comitato remunerazioni (Paolo Scaroni, Leonardo Del Vecchio e Lorenzo Pellicioli) abbiano giustificato questa scelta al consiglio. Un manager del talento di Geronzi deve essere adeguatamente compensato. Il valore che crea per l'azienda è di gran lunga superiore allo stipendio offerto. Come il 90 per cento dei guidatori pensa di essere migliore della media, così il 90 per cento di consigli pensa che i suoi manager meritino compensi superiori alla media perché di qualità eccezionali. Undici mesi dopo possiamo valutare se queste aspettative corrispondano alla realtà. In genere è molto difficile stabilire quando un manager crea o distrugge valore. Le imprese sono organizzazioni complesse, al cui successo (o insuccesso) contribuiscono molte persone. Ma a Geronzi il consiglio di Generali ha affidato solo due responsabilità: la comunicazione e la gestione del consiglio. Quindi è relativamente facile determinare se in questi undici mesi si è guadagnato lo stipendio.

Cominciamo dalla comunicazione.
Generali non è mai stata una società molto forte dal punto di vista comunicativo. � comprensibile che in soli undici mesi Geronzi non abbia potuto migliorare di molto questa situazione. Ma sarebbe stato auspicabile che non la peggiorasse. La sua intervista al "Financial Times", in cui prospettava progetti di investimento opposti a quelli annunciati dal management durante l'investor day, ha confuso maggiormente il mercato. Geronzi non sembra neppure molto bravo nella comunicazione con l'Istituto di vigilanza delle assicurazioni private (Isvap). Stando alle notizie apparse sui giornali, da quando Geronzi si è insediato, Generali ha ricevuto ben due rilievi.

Ma il vero punto di debolezza della presidenza Geronzi riguarda la gestione del consiglio. In genere è impossibile valutarne dall'esterno il funzionamento. Il motivo è che le riunioni sono segrete e tali devono rimanere. Che un consigliere del calibro di Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, si dimetta, però, non è certo un buon segno. Il segno diventa decisamente brutto quando altri consiglieri parlano sui giornali. Se sui giornali si insultano, come è accaduto nel caso di Generali, è ancora peggio. Quando poi a parlare è un vicepresidente della società, come Vincent Bolloré, la situazione è patologica.

Se poi il vicepresidente comunica informazioni che secondo gli amministratori indipendenti sono non corrette e il presidente, responsabile della comunicazione non interviene a smentirlo, lasciando il mercato nel dubbio, possiamo chiederci se si tratti di un consiglio ben gestito. Questa visione è condivisa dal mercato. Un report di Kepler Capital Markets, una delle principali reti di consulenti finanziari indipendenti, scrive: "Il prezzo delle azioni Generali non dipende dalla qualità delle operazioni o dalla crescita della società (che rimane forte), ma piuttosto dall'imbarazzante corporate governance. La soap opera può essere sintetizzata come segue: il presidente Cesare Geronzi (un manager con esperienza nel settore bancario, ma non in quello delle assicurazioni) continua a disturbare il lavoro di un top management molto capace". In qualsiasi altro paese al mondo un presidente avrebbe richiesto le dimissioni di un vicepresidente che attacca la società.

E se fosse stato incapace di ottenerle, si sarebbe dimesso. Geronzi no. Non ha fatto né l'uno né l'altro. A questo punto il problema non è più di Geronzi, ma di coloro che l'hanno proposto (Mediobanca), che l'hanno votato (il consiglio) e, in particolar modo, che hanno deciso di strapagarlo. Leonardo Del Vecchio, che è una persona seria, si è già dimesso. Che fanno Scaroni e Pellicioli?

© Riproduzione riservata
da - espresso.repubblica.it/dettaglio/


Titolo: Luigi ZINGALES. - Che fine farà Mediobanca
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:31:57 pm
Che fine farà Mediobanca

di Luigi Zingales

Con le nuove regole della Ue investitori istituzionali e piccoli azionisti avranno più potere: si comincerà a contare i voti e non solo a pesarli.

Così l'istituto fondato da Cuccia muterà da centro di potere a fondo chiuso

(22 aprile 2011)

"Le azioni non si contano", affermò il mitico presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, "Ma si pesano". Su questa filosofia orwelliana, in cui alcuni sono più uguali degli altri, si fondò il potere di Mediobanca. L'idea di Cuccia fu geniale. Nell'Italia provinciale del dopoguerra, il capitalismo italiano aveva bisogno di un country club, una società di mutuo soccorso per proteggere gli imprenditori nostrani. In un mondo non ancora contaminato dal golf, Mediobanca inventò il "salotto buono", il club più esclusivo, cui si accedeva solo per invito. Invece che green incontaminati, ai capitalisti nostrani il country club made in Italy offrì riserve di caccia sconfinate.

Come tutti i country club, anche Mediobanca aveva le sue regole. La prima era il mutuo soccorso. I membri del salotto buono dovevano evitare di competere tra loro e assistersi vicendevolmente, votando l'un per l'altro e associandosi in arcani patti di sindacato. La seconda regola era la tolleranza. Se alcuni dei membri del salotto buono risultavano incompetenti o incapaci, non venivano cacciati ma aiutati, come le pecore nere delle grandi famiglie nobiliari.

Era cruciale che il management di ogni impresa importante appartenesse al salotto buono. Che fosse poi bravo era un plus non richiesto. La terza regola era l'eccesso di riservatezza. Non solo non si parla coi giornali, ma neanche con la magistratura. Più che il senso civico, valevano i vincoli di appartenenza.

Tale appartenenza al salotto buono offriva molti vantaggi. Innanzitutto, i suoi membri potevano usare la leva finanziaria e rischiare, perché sapevano che, in caso di crisi, Mediobanca li avrebbe salvati. I Pirelli, gli Agnelli e molti altri potevano controllare le loro aziende con quote ridotte di capitale, grazie alla ragnatela di incroci azionari tessuta da Mediobanca. Infine, qualsiasi pacchetto azionario comprato da un membro del salotto valeva automaticamente di più, perché parte di una coalizione vincente. E' come se esistessero azioni di serie B e azioni di serie A, e ai membri del salotto buono era dato di trasformare le prime nelle seconde. Col tempo, come tutti i club troppo esclusivi, anche il nostro salotto buono è diventato un po' asfittico.

Negli anni, le rigide regole hanno scoraggiato gli imprenditori migliori (i del Vecchio, i Moretti Polegato, gli Illy), attirando invece i peggiori. La globalizzazione del mercato dei capitali ha creato alternative. Alcune grandi imprese, come la Fiat, l'hanno abbandonata, dimostrando che fuori del salotto buono non solo si sopravvive, ma si prospera.

Il seme dell'inevitabile declino, però, è stato piantato da una oscura regola dell'Unione europea. Il potere di Mediobanca nasceva dai complicati intrecci azionari, che si reggevano su un'assenza, almeno alle assemblee, degli investitori istituzionali italiani ed esteri. Per costoro era troppo costoso bloccare grossi pacchetti di azioni per molti giorni solo per votare. Le nuove regole, imposte dall'Ue, hanno ridotto questo costo, facilitando la presenza dei fondi esteri. Nelle assemblee Ansaldo e Telecom gli investitori istituzionali hanno sfiorato la maggioranza.

Vedremo cosa succederà in Eni e Generali. L'anno prossimo, con l'introduzione del voto telematico, anche i piccoli investitori potranno votare senza sobbarcarsi il peso di un viaggio o di una delega. Questo non farà che ridurre il peso di Mediobanca. I voti si cominceranno a contare, non pesare.

La democrazia azionaria trasformerà Mediobanca da centro di potere, che detiene i pacchetti di controllo di tutte le imprese italiane, in un fondo chiuso, una holding di partecipazione che detiene quote non decisive, ma fortemente illiquide. Come tutti i fondi chiusi, quoterà a sconto rispetto al valore di mercato delle attività che detiene. E come tutti i fondi chiusi finirà per essere liquidata, e con essa quello che Guido Carli chiamava «il bidone vuoto del capitalismo italiano» che Cuccia teneva tanto gelosamente a guardia.

© Riproduzione riservata
da - espresso.repubblica.it/dettaglio/


Titolo: Luigi ZINGALES. - Attenzione alla bolla brasiliana
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 06:33:41 pm
Attenzione alla bolla brasiliana

di Luigi Zingales

Entrambi fanno parte dei Bric. Ma il Brasile non è la Cina che punta tutto sull'industria: prospera grazie al boom dell'export di materie prime e di prodotti agricoli. Ma se la crescita mondiale rallenta...

(03 giugno 2011)

I rappresentanti dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) I rappresentanti dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina)Alla stampa anglosassone piacciono gli acronimi. Se le nazioni europee in crisi sono i PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), le nuove potenze emergenti sono i BRIC: Brasile, Russia, India e Cina. Nonostante siano localizzati ai quattro angoli del mondo, questi quattro paesi hanno molto in comune: sono grandi (insieme rappresentano il 25 per cento della superficie e il 42 per cento della popolazione del mondo), sono in forte crescita (l'anno scorso in media il 7,5 per cento) e vogliono contare di più sulla scena mondiale.

In Brasile, dove sono in visita in questi giorni, il miracolo dei Bric si sente in maniera palpabile. L'aumento dei prezzi delle materie prime ha arricchito il Paese. Un boom immobiliare ha stimolato l'edilizia. Un forte apprezzamento del cambio ha reso economici i prodotti di importazione e ha trasformato San Paolo in una delle città più care al mondo. Ma questo miracolo si vede anche nei numeri ufficiali.

Quest'anno il Brasile supererà l'Italia in Prodotto interno lordo, diventando la sesta potenza economica del mondo. Le prospettive di crescita sono rosee anche grazie a una situazione demografica molto positiva. La popolazione del Brasile ha un'età media di 29 anni (contro i 53 dell'Italia). Questo significa che nei prossimi anni ci saranno molti più giovani che entreranno nella forza lavoro dei vecchi che andranno in pensione, aumentando le prospettive di crescita futura. Il petrolio scoperto al largo di Rio de Janeiro promette al Brasile l'indipendenza energetica. I Campionati del mondo del 2014 e le Olimpiadi del 2016 non fanno altro che suggellare agli occhi di molti il ruolo del Brasile come il nuovo Eldorado.

E' tutto oro quel che luccica?
Non basta appartenere ai Bric per assicurarsi una crescita a livelli cinesi. A differenza della Cina, il successo del Brasile non è dovuto a una rapida industrializzazione, ma al boom dei prezzi e delle esportazioni di materie prime e di prodotti agricoli. Ogni qual volta il prezzo delle materie prime sale, il Sud America conosce una fase di espansione, che finisce quando i prezzi scendono.

Il Brasile non sta facendo nulla per gettare le basi per una crescita più duratura. Non si sta dotando delle infrastrutture necessarie allo sviluppo. Mentre a Shanghai un treno superveloce ti porta dall'aeroporto al centro città in 9 minuti, a San Paolo ci vogliono due ore e mezza nel traffico infernale. Il Brasile non sta neppure investendo in istruzione. Nelle statistiche internazionali il Brasile è agli ultimi posti sia per la qualità sia per la quantità di istruzione. Solo il 26 per cento dei brasiliani ha un diploma di scuola media superiore, contro il 46 dei cinesi.

Nonostante la popolarità, l'ex presidente Lula non è riuscito in otto anni ad attuare riforme strutturali. Ha approvato, è vero, il primo piano di trasferimenti alle famiglie indigenti. Ma si tratta di un puro sussidio che non risolve la disoccupazione e la sottoccupazione, anzi tende a perpetuarla creando incentivi a lavorare in nero. Si tratta di briciole: i sussidi al credito industriale ammontano a più del doppio.

La corruzione rimane alta. E' di questi giorni uno scandalo che vede coinvolto un ministro che in sei mesi avrebbe guadagnato 10 milioni di euro in consulenze. E il governo distorce pesantemente le scelte economiche del Paese per fini politici. La compagnia petrolifera nazionale Petrobras è costretta a tenere artificialmente basso il prezzo della benzina per ridurre surrettiziamente l'inflazione misurata.

L'amministratore delegato di una delle più grosse imprese private del Paese è stato licenziato, nonostante la sua ottima performance, per far posto a un manager più vicino al governo. Anche a capo della Banca centrale è stato messo un governatore docile, che fa temere un rialzo dell'inflazione, che viaggia già intorno al 6 per cento.

Finché l'economia mondiale cresce a ritmi elevati, il Brasile godrà, suo malgrado, di un boom economico. Ma un rallentamento della crescita mondiale potrebbe avere effetti devastanti sull'economia brasiliana. A differenza della Cina, il Brasile sta godendo un breve Carnevale. Purtroppo dopo il Carnevale arriva sempre la Quaresima.

© Riproduzione riservata
da - espresso.repubblica.it/dettaglio/attenzione-alla-bolla-brasiliana/2152808/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Perché Tremonti se ne infischia
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2011, 06:35:45 pm
Perché Tremonti se ne infischia

di Luigi Zingales

Quasi tutto il Pdl lo vorrebbe far fuori. Le Lega lo ha abbandonato.

Ma ha l'appoggio dell'establishment economico mondiale.

Che ha sedotto con il suo rigore. E che lo può portare a Palazzo Chigi

(24 giugno 2011)

Anche i piu' acerrimi nemici di Giulio Tremonti gli riconoscono il merito di aver tenuto saldi i conti pubblici durante la crisi pi? grave degli ultimi ottanta anni. Tra il 2007 e il 2010, quando il disavanzo pubblico dell'Inghilterra E' passato dal 2,7 per cento del PIL al 13,3 per cento, quello dell'America dal 2,8 al 10,7, e la Spagna E' passata da un avanzo del 1,9 a un disavanzo dell' 8,5 per cento, il disavanzo italiano E' salito "solo" dall'1,5 al 5,4 per cento del PIL.

Perfino l'"Economist", non certo tenero con il governo Berlusconi, ha elogiato Tremonti scrivendo che è grazie alla sua rigida politica fiscale che l'Italia ha evitato (finora) la crisi dell'Eurozona. Agli occhi del mondo Tremonti è oggi la persona di fiducia, l'uomo su cui i mercati finanziari internazionali contano per tenere l'Italia fuori dalla crisi dei debiti sovrani. Ma Tremonti non è sempre stato un Quintino Sella. Da ministro delle Finanze del primo governo Berlusconi promosse la legge per la defiscalizzazione degli utili di impresa reinvestiti, riducendo fortemente la pressione fiscale. Da ministro dell'economia del secondo governo Berlusconi ridusse le aliquote Irpef e Ires e abolì l'imposta su donazioni e successioni, invertendo il processo di riduzione del debito pubblico. Durante il suo mandato nel secondo governo Berlusconi l'avanzo primario (ovvero la differenza tra entrate dello Stato e le sue uscite al netto degli interessi sul debito pubblico) si ridusse dal 3,2 per cento del Pil nel 2001 allo 0,3 nel 2005.

Cosa ha provocato questa trasformazione del Tremonti dei condoni e della finanza allegra al Tremonti del rigore?

L'ipotesi più semplice è che Tremonti abbia fatto di necessità virtù. Agli inizi del secondo governo Berlusconi l'obiettivo era rilanciare la crescita, e Tremonti cercò di farlo con una politica fiscale espansiva. Nel contesto corrente, la situazione dei conti pubblici italiani è talmente a rischio che anche un keynesiano come Tremonti si trova costretto a fare il rigorista. Seppur credibile questa tesi si scontra contro i tempi della "conversione" di Tremonti. Il suo rigorismo non nasce con la crisi del 2008, ma con il ritorno al ministero dell'Economia nel terzo governo Berlusconi. Vi ricordate il famoso "tesoretto" che si trovò il governo Prodi? Fu il risultato di un inaspettato aumento del gettito fiscale all'inizio del secondo governo Prodi.

L'aumento fu troppo immediato per essere attribuibile a qualsiasi iniziativa del governo di sinistra. La stretta fiscale fu effettuata da Tremonti quando ritornò al dicastero dell'economia tra il settembre 2005 e il maggio 2006. Nonostante le virtù profetiche di cui si vanta il nostro ministro è difficile sostenere che si preparasse già allora alla crisi internazionale. Perchè allora si trasformò in rigorista?

I più maligni sostengono per far perdere Berlusconi alle elezioni e prenderne il posto. Ma l'ipotesi più probabile è che si tratti di una più acuta intuizione politica. Mancando di una forte base politica, se voleva succedere a Berlusconi, Tremonti, doveva da un lato rendersi indispensabile alla Destra, dall'altro indebolire i suoi rivali all'interno della Destra. La stretta fiscale consegue entrambi gli obiettivi.

Riducendo il deficit, Tremonti si accredita all'estero come l'unico esponente credibile del governo Berlusconi, manovra perfettamente riuscita visto gli elogi dell'"Economist". Contenendo la spesa, Tremonti indebolisce i suoi rivali interni, che dipendono dalla spesa pubblica per sostenere la loro rete clientelare.

La crisi internazionale non fu che un fortunato accidente, che rese questa strategia ancora più vincente. Queste motivazioni personali non tolgono il merito a Tremonti. In politica non contano le intenzioni, ma i risultati, e Tremonti li ha ottenuti. Ma ci devono mettere in guardia dai rischi futuri. Il rigorismo di Tremonti non è frutto di convinzioni personali, ma di tatticismo. Quali che siano le sue motivazioni per imporre una disciplina fiscale, speriamo che resistano all'offensiva populista di Berlusconi. Altrimenti dopo il Portogallo ci sarà l'Italia.

 
© Riproduzione riservata
da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-tremonti-se-ne-infischia/2154515/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Un Bruce Willis all'Economia
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:26:33 am
L'opinione

Un Bruce Willis all'Economia

di Luigi Zingales

La catastrofe era annunciata: a far traboccare il vaso è stata la perdita di fiducia nel ministro Tremonti dopo il caso Milanese. Adesso solo un piano eroico può salvare l'Italia. Ma serve un eroe in grado di attuarlo

(14 luglio 2011)

Nel film "Armageddon: lo scontro finale", un meteorite della dimensione del Texas è in rotta di collisione con la Terra. Per evitare il cataclisma, la migliore squadra di geologi (capitanata da Bruce Willis) è mandata nello spazio per far esplodere il meteorite.

L'Armageddon finanziario che sta per colpire l'Italia ha lo stesso grado di prevedibilità. Come da tempo vado scrivendo su queste colonne, la solvibilità dell'Italia è a rischio. Una dichiarazione di insolvenza da parte del nostro governo avrebbe effetti devastanti sul patrimonio delle principali banche e assicurazioni italiane ed europee, con conseguenze economiche disastrose non solo sull'Italia, ma sull'interno continente europeo.

La solvibilità di un paese è determinata da tre fattori: i fondamentali economici, quelli politici e le aspettative del mercato. I fondamentali economici dipendono dal rapporto tra crescita del Prodotto interno lordo (Pil) e crescita del debito. Se un paese ha un deficit elevato e un tasso di crescita del Pil basso o addirittura negativo, il debito cresce più rapidamente del Pil e quindi diventa rapidamente insostenibile. Per brevi periodi di tempo il rapporto deficit/Pil può essere più elevato del tasso di crescita del Pil, purché ci sia fiducia che il governo sia in grado di riaggiustare il deficit e di rilanciare la crescita. Il che ci porta alle aspettative.

Quando il mercato perde la fiducia nella capacità di un governo di fronteggiare la crisi, comincia a richiedere dei tassi di interesse più elevati per compensare il rischio di un possibile default. Purtroppo, questa reazione può trasformare un timore in una profezia che si autorealizza: i più alti tassi di interesse aumentano il costo del debito pubblico e quindi la dimensione del deficit, aggravando i fondamentali e peggiorando ulteriormente le aspettative. A questo punto il meteorite entra in rotta di collisione e, a meno di un intervento eroico alla Bruce Willis, il disastro diventa inevitabile.

In aggiunta, nel caso italiano le aspettative sono influenzate negativamente dalla tardiva reazione dell'Europa alle crisi degli altri paesi. In passato, anche di fronte a fondamentali molto deboli, il mercato è stato generoso con in paesi europei in crisi, fidandosi delle promesse di aiuto ripetutamente avanzate dai leader europei. Di conseguenza, i possibili aiuti europei sono diventati un fattore cruciale nelle aspettative. Per questo ogni indicazione di una mancanza di unità d'azione a livello europeo, si traduce in un aumento del rischio di insolvenza di tutti i paesi in difficoltà.

Finora l'Italia era riuscita a evitare la rotta di collisione, in parte per meriti propri (un deficit di bilancio relativamente contenuto), in parte per demeriti altrui. Siccome Grecia, Irlanda e Portogallo erano messi peggio di noi, il mercato si era concentrato maggiormente sulla possibilità (ora quasi certezza) di una loro insolvenza. La cattiva gestione a livello europeo di queste crisi, però, ha aumentato il nostro rischio paese.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è il crollo di fiducia internazionale nei confronti del governo e in particolar modo del ministro Tremonti. Nel bene e nel male, fino a questo momento Tremonti aveva rappresentato una garanzia di solidità finanziaria. Vere o presunte che siano, le strette relazioni tra il ministro e il suo ex braccio destro Marco Milanese, accusato di corruzione, minano la fiducia nei confronti del nostro Paese.

Non si tratta di una cospirazione internazionale, ma di una reazione perfettamente razionale. Come ci si può fidare di un ministro che - secondo l'accusa - vive a casa di un corrotto? Purtroppo, queste notizie finiscono con l'apparire più credibili perché si innestano su una percezione del nostro Paese come corrotto e disonesto. Ed è difficile sostenere che questa percezione è del tutto ingiustificata quando la Corte di Appello di Milano conferma indirettamente che lo stesso premier ha corrotto un giudice.

Ora che il circolo vizioso aumento tassi-aumento deficit si è messo in moto, solo un piano eroico potrà salvarci. Troverà l'Italia il suo Bruce Willis?

© Riproduzione riservata
da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/un-bruce-willis-alleconomia/2156119/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Quando anche i ricchi piangono
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 06:05:23 pm
Quando anche i ricchi piangono

di Luigi Zingales

Nel confronto con gli Stati Uniti il contribuente medio-alto italiano paga più tasse.

Le aliquote sono alte, ma il vero problema è l'allargamento della base imponibile e la lotta all'evasione

(25 agosto 2011)

"Fatemi pagare più tasse". Raramente si sente questa frase. Ma se a scriverla è Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi d'America, non può non fare scalpore. E' come se in Italia lo scrivesse Berlusconi. Ed è vero che Luca Cordero di Montezemolo si è espresso a favore di una patrimoniale, ma non ha riportato, come ha fatto Warren Buffett, il suo reddito e le imposte da lui effettivamente pagate dicendo che erano troppo poche. La destra repubblicana ha ironizzato che se Warren Buffett vuole pagare più tasse è libero di farlo: l'Agenzia delle Entrate americana accetta donazioni.

L'ironia è fuori luogo. Warren Buffett ha già donato 8 miliardi di dollari (metà della sua ricchezza) alla fondazione Gates. E una cosa è pagare più imposte da solo e un'altra sapere che si è parte di un sacrificio che può fare la differenza. Se fosse solo Buffett a pagare più imposte, la situazione fiscale americana non cambierebbe. Se applicate a tutti i ricchi, non risolverebbero il deficit fiscale, ma sarebbero un utile contributo. Il Tax Policy Center ha stimato che un'aliquota del 50 per cento per redditi superiori al milione di dollari frutterebbe circa 5 miliardi di dollari di entrate all'anno. Se lo dice anche Buffett è vero che i ricchi pagano troppe poche tasse?
Quale sia l'ammontare equo di imposte è difficile da stabilire. La scienza economica ci dice che aliquote elevate aumentano l'evasione e l'elusione e riducono gli incentivi a lavorare, ma non è in grado di dire quale sia il livello giusto. Alla fine si tratta di una scelta politica. Io ritengo che aliquote superiori al 50 per cento siano inique, a qualsiasi livello di ricchezza. Un'aliquota superiore al 50 significa che una persona lavora più per lo Stato che per se stesso.

Rispetto a questo limite (arbitrario) come si comparano gli Stati Uniti e l'Italia? Negli Stati Uniti l'aliquota federale più elevata è il 35 per cento, cui si somma un'imposta statale e (spesso) un'imposta comunale. Un abitante di New York che guadagni più di 500 mila dollari, paga un'imposta statale dell'8,97 per cento e una comunale del 3,876, per un complessivo 43,3 per cento (le imposte locali sono detraibili dal reddito federale). Quando tra due anni terminerà la riduzione delle aliquote approvata da Bush, si arriverà al 47,7 per cento, molto vicino al fatidico 50. Si noti che questa imposta si applica anche ai redditi da interessi.
Perché allora Buffett si lamenta? Non solo perché vive in Nebraska, dove le imposte locali sono più basse, ma soprattutto perché esistono troppe esenzioni. Molto onestamente Buffett ammette che, grazie a varie esenzioni legali, lui paga in imposte solo il 17,4 per cento del reddito. Lo scandalo quindi non è che le aliquote sono troppo basse, ma che le elusioni sono troppo elevate. Dalla riforma fiscale di Reagan, che ridusse le aliquote ed aumentò la base imponibile, sono stati introdotti 7000 cambiamenti e le pagine del codice tributario sono aumentate del 74 per cento. Oltre a fare felici i commercialisti, queste leggi creano sperequazione: i più potenti si fanno fare le norme all'uopo per eludere legalmente le imposte. E' giunto il momento di rifare una riforma alla Reagan. Purtroppo le condizioni fiscali del Paese non permettono un forte abbassamento delle aliquote, ma un allargamento della base è assolutamente necessario.

E l'Italia? Le imposte locali sono ancora agli albori e l'aliquota marginale l'anno scorso (prima dell'imposta di solidarietà) era il 43 per cento, molto simile a quella americana. La differenza è che in Italia quell'aliquota comincia a 75.000 euro. A pari livello di reddito l'aliquota a New York è solo del 33. L'altra grossa differenza è che in Italia i redditi da interessi non si sommano al reddito da lavoro, mentre negli Usa sì. Per non parlare poi dell'evasione. Il fisco italiano quindi tartassa proporzionalmente di più i contribuenti medio alti. Come negli Stati Uniti, però, la soluzione non sta in un aumento delle aliquote, ma in un allargamento della base imponibile e una riduzione dell'evasione. Con l'eccezione dei supermilionari, sui redditi tassati in Italia di imposte se ne pagano anche troppe, il problema è elusione ed evasione.

© Riproduzione riservata
da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quando-anche-i-ricchi-piangono/2159099/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Il dilemma infernale della Bce e dell'Italia
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2011, 12:27:54 pm
Il dilemma infernale della Bce e dell'Italia

di Luigi Zingales

4 settembre 2011

Un mese fa lo spread tra i BTp italiani e i Bund tedeschi raggiunse i 413 punti base (ovvero il 4,13%). Senza un immediato intervento della Banca centrale europea il Governo italiano rischiava di perdere l'accesso al mercato e quindi di fare default.

Per questo fu spedita la famosa lettera di Trichet a Berlusconi in cui - si dice - la Bce si impegnava ad acquistare titoli italiani in cambio di una manovra del nostro Governo che anticipasse il pareggio di bilancio al 2013 e rilanciasse la crescita.
L'intervento della Bce si basava sulla presunzione che il mercato fosse eccessivamente pessimista sulle capacità del Governo italiano di ripagare il debito e promuovere la crescita. La lettera di intenti serviva a rendere più credibile l'azione del Governo italiano. Combinata con alcuni acquisti strategici sul mercato secondario, poteva stabilizzare la situazione.

La condizione necessaria per il successo di questo intervento, però, era la capacità del Governo italiano di approvare in tempi rapidi una manovra adeguata. Per quanto elevati, gli acquisti dei nostri titoli da parte della Bce erano solo un palliativo. Nel corso di una giornata, acquisti concentrati possono temporaneamente elevare i prezzi. Questi temporanei rialzi generano perdite (temporanee) a chi specula al ribasso. Il rischio di queste perdite (anche se temporanee) può dissuadere degli speculatori da assumere posizioni molto aggressive. In altri termini, la Bce, spaventando gli speculatori, può ridurne la pressione. Anche questi benefici, però, sono temporanei. Se la situazione reale sottostante non cambia, gli effetti dell'intervento svaniscono quasi subito.
E così è stato. L'intervento della Banca centrale europea e l'immediata presentazione di una nuova, più ambiziosa, manovra da parte del nostro Governo hanno temporaneamente ridotto lo spread al di sotto dei 300 punti. Ma era solo una pausa, non una svolta. Il mercato aspettava di vedere se poteva ancora credere nella nuova manovra del Governo italiano.

Purtroppo, le lotte intestine nel Governo hanno avuto un effetto negativo. Perfino il Wall Street Journal, uno dei pochi giornali internazionali che ha sempre mostrato un occhio di riguardo verso il nostro presidente del Consiglio, ha scritto un articolo molto critico in cui si sottolineava che le recenti proposte di Silvio Berlusconi avevano «seminato confusione sia tra i suoi alleati che tra i suoi critici».
La speranza della Banca centrale europea era che bastasse dettare delle condizioni per indurre il Governo italiano a fare quello che avrebbe dovuto fare già dai primi di luglio. Purtroppo si è rivelata una pia illusione. Rassicurato dalla riduzione degli spread, il Governo italiano ha cominciato lentamente a fare marcia indietro. I tagli delle Province sono stati aboliti, il "contributo di solidarietà" eliminato, tutta la manovra fortemente annacquata.

A questo punto la Banca centrale europea si trova di fronte a una scelta difficilissima. Se vuole favorire il processo di integrazione europea, deve punire l'Italia o per lo meno il suo Governo che non ha mantenuto i patti. La fattibilità di un'unione fiscale, con i trasferimenti che essa comporta, si basa sulla capacità delle istituzioni europee di controllare i Governi nazionali eccessivamente prodighi. Senza questa capacità di controllo i trasferimenti avrebbero solo l'effetto di prolungare il dissesto finanziario dei Governi nazionali, non di risolverlo. Continuare a sostenere l'Italia nonostante la violazione della promessa fatta, distrugge la credibilità di ogni condizione futura e quindi il futuro dell'Unione Europea.

Tuttavia, la Bce è consapevole che abbandonare adesso l'Italia al suo destino equivarrebbe alla fine dell'euro. Spingendo il Governo a fare il suo dovere, la Bce ne ha messo a nudo l'inaffidabilità, paradossalmente peggiorandone l'immagine. Per questo motivo è possibile che domani, anche in presenza di acquisti della Bce, gli spread schizzino al rialzo. È certo però che in assenza del sostegno della Bce la situazione sarebbe di gran lunga peggiore a quella del 5 agosto. Anche se l'European Financial Stability Facility (Efsf) volesse intervenire, non avrebbe sufficienti risorse per farlo. D'altra parte non ci sarebbe il tempo per far votare a tutti i Parlamenti europei un aumento della dotazione dell'Efsf, anche se ci fosse la volontà politica di farlo.

L'abbandono dell'Italia da parte della Bce porterebbe quasi inevitabilmente a un default del Paese (e quindi delle banche italiane che detengono grosse quantità di titoli pubblici). Facilmente questi default si propagherebbero alle banche francesi e tedesche, con conseguenze inimmaginabili. Difficilmente l'euro sopravvivrebbe a questo scenario.
In altre parole, punire il Governo italiano avrebbe effetti così catastrofici che la Banca centrale europea non può credibilmente minacciarlo. Non potendo farlo, manca di credibilità. Pensava di poter facilmente controllare il Governo italiano. Ora invece, paradossalmente, ne è vittima.

Quale via di uscita? Che sia il nostro Parlamento a punire il Governo per la sua inettitudine. Non è tanto un problema di maggioranza quanto di capacità e credibilità dell'azione di governo: o si cambia o si esce dall'Europa
Clicca per Condividere

Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 13 articoli)
Roma rassicura i mercati (per ora)
Continua a leggere »

©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-09-04/dilemma-infernale-italia-134742.shtml


Titolo: Luigi ZINGALES. - Se la Bce fa il gioco dei governi
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2011, 05:13:26 pm
L'opinione

Se la Bce fa il gioco dei governi

di Luigi Zingales

Prima Weber poi Stark si sono ribellati a una banca centrale che tassa i cittadini europei a vantaggio dei Paesi in difficoltà. Senza averne il potere. Draghi non poteva arrivare in un momento peggiore

(14 settembre 2011)

La crisi finanziaria ha costretto gli italiani a un corso intensivo di economia. La differenza di rendimento tra i titoli del tesoro italiani e quelli tedeschi, che un tempo interessava solo i trader, è oggi notizia di apertura dei telegiornali. Per capire le tensioni politiche a livello europeo, però, non basta aver imparato il gergo della finanza, richiede una comprensione profonda della funzione di una banca centrale: il controllo dell'offerta di moneta al fine di garantire la stabilità dei prezzi.

Un tempo la stabilità dei prezzi era garantita tramite la convertibilità della moneta in oro. Questa soluzione aveva due grossi limiti.
Primo, il livello dei prezzi era determinato dalla disponibilità mondiale di oro. La scoperta di una nuova miniera creava inflazione, l'aumento della domanda di oro per usi industriali deflazione. Secondo, l'impossibilità di accomodare improvvisi aumenti nella domanda di moneta. Quando un fallimento, una guerra, o un terremoto aumentavano l'avversione al rischio degli investitori e quindi la loro domanda di moneta, la banca centrale non poteva rispondere aumentando temporaneamente l'offerta di moneta. Era costretta quindi ad alzare i tassi di interesse per rendere più costoso detenere moneta e quindi per ridurne la domanda. L'aumento dei tassi però deprimeva gli investimenti reali, causando una recessione: fu l'origine principale della Grande Depressione. Una moneta non convertibile, però, manca di un'ancora di riferimento. Può essere più facilmente usata per finanziare i deficit pubblici e generare inflazione, come avvenne in Italia negli anni Settanta. Per questo motivo tutti i Paesi sviluppati hanno creato delle banche centrali indipendenti dal potere politico. La Banca centrale europea (Bce) ne è l'esempio più estremo.

Come fa la Bce a fornire liquidità senza generare inflazione? Il modo più tradizionale è quello di prestare dei soldi alle banche in cambio di garanzie (titoli). Queste operazioni immettono liquidità nel sistema solo temporaneamente, perché alla scadenza del prestito le banche devono restituire la liquidità alla Bce. Un altro modo per farlo è quello di comprare dei titoli per poi rivenderli per drenare liquidità. Entrambe queste operazioni presuppongono la solvibilità dei titoli comperati o presi a garanzia. Se la Bce compra dei titoli che fanno default, non può rivenderli per drenare liquidità e quindi di fatto immette nel sistema moneta che può generare inflazione. Se da un lato l'acquisto di titoli a rischio di fallimento impone una tassa da inflazione a tutti i cittadini europei, dall'altro fornisce un sussidio agli emittenti di quei titoli. Non si tratta quindi più di una operazione di politica monetaria, ma di un'operazione di politica fiscale, legittima solo se approvata dal Parlamento. Come possono dei tecnocrati non eletti e, per disegno costituzionale, non responsabili di fronte a nessun organo elettivo decidere chi tassare e chi sussidiare?

Questo è il punto essenziale del dibattito all'interno della Bce. Preoccupato della lentezza della politica, nel maggio 2010 il consiglio della Bce decise a maggioranza di acquistare titoli greci. L'allora governatore della Bundesbank, Axel Weber, votò contro e poi si dimise, perché in questo atto vide una pericolosa violazione dei principi ispiratori della Bce. Per lo stesso motivo si è dimesso la settimana scorsa Jürgen Stark, il rappresentante tedesco nel consiglio della Bce. Invece che attenersi al suo compito di autorità monetaria, la Bce si è trasformata in un'autorità fiscale che tassa tutti i cittadini europei a vantaggio del governo greco (e ora italiano). Per molti la Bce non ha né l'autorità politica né quella legale per fare queste operazioni. Per altri il fine giustifica i mezzi. In assenza di un intervento dei governi, la Bce deve sostituirsi a essi, per evitare la catastrofe. E' in parte quello che ha fatto la Federal Reserve che, per questo motivo, è sotto attacco del Congresso Usa. Se continua così la Bce sarà sotto attacco del Parlamento tedesco. Mario Draghi non poteva assumere l'incarico in un momento peggiore.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/se-la-bce-fa-il-gioco-dei-governi/2160521/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Gli istituti italiani sono molto esposti sui titoli pubblici.
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 04:34:25 pm
Rischio Paese per le banche

di Luigi Zingales

Gli istituti italiani sono molto esposti sui titoli pubblici.

Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dovere parlare chiaro: se questo governo privo di credibilità continua, prima o poi falliscono tutti

(06 ottobre 2011)

Durante la crisi finanziaria del 2008, i governi intervennero ad aiutare le banche in difficoltà. Sfruttando la posizione di forza, i politici, da Obama a Tremonti, si sentirono in diritto di redarguire, se non di licenziare, i banchieri. Oggi le parti si sono invertite. Sono i problemi di finanza pubblica a generare la crisi delle banche. E' forse giunto il momento per i banchieri di redarguire, se non di licenziare, i politici? Per capire questo capovolgimento di fronti è necessario comprendere come è cambiato il mondo bancario.

La banca tradizionale, in cui l'attivo era principalmente composto da prestiti alle imprese e il passivo di depositi, appartiene al passato. Tra le principali banche europee, i prestiti tradizionali rappresentano in media solo il 51 per cento dell'attivo e i depositi solo il 36 per cento del passivo. Oggi le banche hanno all'attivo azioni, obbligazioni, e derivati e si finanziano massicciamente con obbligazioni, sia a breve che a lungo. L'introduzione di modelli più sofisticati (ma non necessariamente più precisi) di valutazione del rischio ha anche permesso alle banche, secondo le regole di Basilea II, di ridurre il loro capitale di rischio.

In media solo il 4 per cento del valore totale dell'attivo è finanziato da capitale azionario. Questi cambiamenti creano un doppio legame tra le banche e i mercati finanziari. Da un lato, il valore dell'attivo delle banche è maggiormente esposto alle fluttuazioni nel valore dei titoli. Dall'altro, la loro capacità di finanziamento dipende in modo cruciale dal mercato obbligazionario.
Nel 2008, la crisi bancaria in America, Inghilterra e Germania fu dovuta a cattivi investimenti in titoli, aggravati da una leva finanziaria molto elevata. In questo caso la colpa fu principalmente dei banchieri. In Irlanda e Spagna, la causa fu l'esplosione della bolla immobiliare. Qui i banchieri sono corresponsabili, ma raramente il sistema bancario sopravvive a crolli nel mercato immobiliare.

Anzi, il fatto sorprendente è che le due principali banche spagnole, Bbva e Santander, siano ancora in piedi nonostante il ciclone che ha colpito la Spagna. Alcuni sostengono sia merito delle misure precauzionali imposte dalla Banca di Spagna, altri di una finzione contabile: non hanno ancora adeguato completamente il valore dei loro prestiti al crollo dei prezzi immobiliari. In Italia e nel resto d'Europa la crisi bancaria del 2008 fu principalmente dovuta alla difficoltà di reperire fondi sui mercati obbligazionari europei ed americani. Le perdite subite dai fondi di mercato monetario americano che avevano investito in Lehman crearono una fuga dei risparmiatori da questi strumenti. Dovendo fronteggiare massicci riscatti i fondi monetari smisero di investire in titoli, rendendo pressoché impossibile alle banche europee reperire fondi su questo mercato.

Oggi la causa dello shock è diversa, ma la dinamica è simile. Le banche europee sono imbottite di titoli pubblici. Le banche francesi e tedesche sono molto esposte alla Grecia, quelle italiane no. Ma sono enormemente esposte al rischio Italia, sia nel settore pubblico, che nel settore privato. La crisi di finanza pubblica, elevando lo spread dei titoli pubblici italiani, ne fa scendere i prezzi, causando forti perdite alle banche.

D'altro lato, le banche subiscono anche il rischio Paese. Se la manovra fiscale restrittiva del governo causa una forte recessione, a patire sono le imprese e quindi i crediti che le banche hanno verso di loro. Il mercato è consapevole di questi rischi e quindi fa pagare un costo addizionale alle banche italiane per raccogliere fondi sui mercati. Dato l'elevato costo della loro raccolta, le banche italiane fanno fatica a diversificare il loro rischio, comprando ad esempio titoli tedeschi. Il rendimento di questi titoli è inferiore al costo della raccolta, compromettendo la profittabilità e quindi la solvibilità di lungo periodo delle banche. Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dover parlare chiaro. Se questo governo, privo di credibilità, continua, chi prima chi dopo, falliscono tutti. E' ora che lo dicano.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/rischio-paese-per-le-banche/2163187/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Rischio Paese per le banche
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 05:16:15 pm
Diverso parere

Rischio Paese per le banche

di Luigi Zingales

Gli istituti italiani sono molto esposti sui titoli pubblici.

Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dovere parlare chiaro: se questo governo privo di credibilità continua, prima o poi falliscono tutti

(06 ottobre 2011)

Durante la crisi finanziaria del 2008, i governi intervennero ad aiutare le banche in difficoltà. Sfruttando la posizione di forza, i politici, da Obama a Tremonti, si sentirono in diritto di redarguire, se non di licenziare, i banchieri. Oggi le parti si sono invertite. Sono i problemi di finanza pubblica a generare la crisi delle banche. E' forse giunto il momento per i banchieri di redarguire, se non di licenziare, i politici? Per capire questo capovolgimento di fronti è necessario comprendere come è cambiato il mondo bancario.

La banca tradizionale, in cui l'attivo era principalmente composto da prestiti alle imprese e il passivo di depositi, appartiene al passato. Tra le principali banche europee, i prestiti tradizionali rappresentano in media solo il 51 per cento dell'attivo e i depositi solo il 36 per cento del passivo. Oggi le banche hanno all'attivo azioni, obbligazioni, e derivati e si finanziano massicciamente con obbligazioni, sia a breve che a lungo. L'introduzione di modelli più sofisticati (ma non necessariamente più precisi) di valutazione del rischio ha anche permesso alle banche, secondo le regole di Basilea II, di ridurre il loro capitale di rischio.

In media solo il 4 per cento del valore totale dell'attivo è finanziato da capitale azionario. Questi cambiamenti creano un doppio legame tra le banche e i mercati finanziari. Da un lato, il valore dell'attivo delle banche è maggiormente esposto alle fluttuazioni nel valore dei titoli. Dall'altro, la loro capacità di finanziamento dipende in modo cruciale dal mercato obbligazionario.
Nel 2008, la crisi bancaria in America, Inghilterra e Germania fu dovuta a cattivi investimenti in titoli, aggravati da una leva finanziaria molto elevata. In questo caso la colpa fu principalmente dei banchieri. In Irlanda e Spagna, la causa fu l'esplosione della bolla immobiliare. Qui i banchieri sono corresponsabili, ma raramente il sistema bancario sopravvive a crolli nel mercato immobiliare.

Anzi, il fatto sorprendente è che le due principali banche spagnole, Bbva e Santander, siano ancora in piedi nonostante il ciclone che ha colpito la Spagna. Alcuni sostengono sia merito delle misure precauzionali imposte dalla Banca di Spagna, altri di una finzione contabile: non hanno ancora adeguato completamente il valore dei loro prestiti al crollo dei prezzi immobiliari. In Italia e nel resto d'Europa la crisi bancaria del 2008 fu principalmente dovuta alla difficoltà di reperire fondi sui mercati obbligazionari europei ed americani. Le perdite subite dai fondi di mercato monetario americano che avevano investito in Lehman crearono una fuga dei risparmiatori da questi strumenti. Dovendo fronteggiare massicci riscatti i fondi monetari smisero di investire in titoli, rendendo pressoché impossibile alle banche europee reperire fondi su questo mercato.

Oggi la causa dello shock è diversa, ma la dinamica è simile. Le banche europee sono imbottite di titoli pubblici. Le banche francesi e tedesche sono molto esposte alla Grecia, quelle italiane no. Ma sono enormemente esposte al rischio Italia, sia nel settore pubblico, che nel settore privato. La crisi di finanza pubblica, elevando lo spread dei titoli pubblici italiani, ne fa scendere i prezzi, causando forti perdite alle banche.

D'altro lato, le banche subiscono anche il rischio Paese. Se la manovra fiscale restrittiva del governo causa una forte recessione, a patire sono le imprese e quindi i crediti che le banche hanno verso di loro. Il mercato è consapevole di questi rischi e quindi fa pagare un costo addizionale alle banche italiane per raccogliere fondi sui mercati. Dato l'elevato costo della loro raccolta, le banche italiane fanno fatica a diversificare il loro rischio, comprando ad esempio titoli tedeschi. Il rendimento di questi titoli è inferiore al costo della raccolta, compromettendo la profittabilità e quindi la solvibilità di lungo periodo delle banche. Non spetta ai banchieri scendere in politica, ma è loro dover parlare chiaro. Se questo governo, privo di credibilità, continua, chi prima chi dopo, falliscono tutti. E' ora che lo dicano.

© Riproduzione riservata
da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/rischio-paese-per-le-banche/2163187/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Il futuro dell'euro è scritto in rete
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2011, 11:38:18 pm
L'opinione

Il futuro dell'euro è scritto in rete

di Luigi Zingales

Quando una previsione è la media di molte stime, è affidabile. Un esempio?

Le puntate via Internet sulla moneta unica: la probabilità che un paese esca entro il 2012 è al 43 per cento.

Malgrado le certezze dei politici

(28 ottobre 2011)

Lo statistico inglese Francesco Galton un giorno passeggiava per la fiera del suo paese e notò un'interessante gara a premi.
Ai partecipanti veniva richiesto di indovinare quante libbre di carne si sarebbero ottenute macellando un manzo che pascolava di fronte alla folla. Ben 800 persone parteciparono alla gara e nessuno indovinò il peso esatto, ovvero 1.198 libbre. Da bravo statistico Galton analizzò i dati e scoprì che la media delle stime era vicina alla cifra esatta: 1.197 libbre, un errore di meno dello 0,1 per cento.
Nessun partecipante, neppure i macellai più esperti, era stato in grado di fare meglio.

La saggezza della folla batteva quella degli esperti. Era l'anno di grazia 1906. Da allora esperimenti simili sono stati ripetuti a migliaia. La scoperta di Galton rimane vera: la folla batte gli esperti. Non si tratta di una semplice curiosità statistica ma di una realtà straordinariamente importante, che sta alla base di fenomeni disparati come la superiorità del sistema democratico, l'affidabilità delle enciclopedie su Internet e il successo dell'economia di mercato. Nella Repubblica di Platone, il governo spettava agli esperti (gli aristoi) perché erano più sapienti. Ma se la media della folla è più brava degli esperti, la democrazia è preferibile all'aristocrazia.
Se la media è meglio degli esperti, Wikipedia, l'enciclopedia su Internet che aggrega l'opinione degli internauti, è più affidabile dell'Enciclopedia Treccani, che per ogni voce si basa sull'opinione di pochi esperti. Se la media batte gli esperti, il mercato (che aggrega l'opinione degli operatori) batte qualsiasi esperto nelle previsioni.

Ovviamente ci sono eccezioni. Per essere una stima affidabile, la media deve essere fatta aggregando stime indipendenti, ovvero stime che non si influenzino l'una con l'altra, né che siano influenzate da un fattore comune. Se aggrego le opinioni di una folla che esce da un film dell'orrore avrò delle stime falsate. Gli appassionati dei film dell'orrore hanno delle caratteristiche in comune: non rappresentano la media della popolazione. In aggiunta, la visione del film può avere influenzato le loro attitudini: spaventati diventano tutti più avversi al rischio. Nello stesso modo se aggrego l'opinione di un comitato di persone, che hanno discusso tra loro le proprie opinioni, non ottengo necessariamente una stima più accurata di quella di un esperto, perché i membri del comitato possono essersi influenzati l'un l'altro.

Per questo motivo, noi economisti ci fidiamo particolarmente dei prezzi di mercato, quando questi mercati sono liquidi (ovvero hanno un numero sufficiente di partecipanti). Non solo i prezzi di mercato rappresentano un'aggregazione della domanda e dell'offerta di molti operatori, ma sono validati dal fatto che gli operatori investono i propri soldi su queste opinioni. Se questo non bastasse, c'è un ulteriore meccanismo che rende i mercati credibili. Se un operatore ritiene che il prezzo di mercato non corrisponda al vero valore, può arricchirsi speculando sulla differenza e la sua speculazione spinge il prezzo verso il valore effettivo. Questa teoria non vale solo per i mercati finanziari, ma per qualsiasi mercato sufficientemente liquido.

Internet ha permesso la creazione di molti mercati. Su www.intrade.com si scommette su tutto. Su chi vincerà la nomination per il partito Repubblicano (Mitt Romney è favorito con il 67 per cento delle possibilità), se Murdoch lascerà la guida di News Corp entro la fine dell'anno (12,5 per cento), se l'oro chiuderà il 2011 al di sopra dei 1.700 dollari l'oncia (49,3 per cento).

Purtroppo tra queste previsioni, che tendono a essere molto affidabili, non c'è traccia di una sulla caduta di Berlusconi. Ma ce ne sono molte sull'euro. La probabilità che uno dei paesi appartenenti all'euro ne esca prima del 31 dicembre 2012 è stimata al 43 per cento.
A Francoforte e Bruxelles politici e banchieri centrali sostengono che l'euro è irreversibile. Il mercato non sembra condividere questa opinione. A chi credete?


© Riproduzione riservata
da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-futuro-delleuro-e-scritto-in-rete/2164860/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - La Merkel deve cambiare ricetta
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2011, 06:05:42 pm
Germania

La Merkel deve cambiare ricetta

di Luigi Zingales

La crisi dell'euro è arrivata a toccare anche il cuore dell'Unione, compresa la stessa Germania. È ora che cadano i paletti posti dalla
Cancelliera all'acquisto di titoli sovrani da parte della Bce

(02 dicembre 2011)

Ogni malattia ha i suoi rimedi.

Per il mal di testa c'è l'aspirina, per la polmonite la penicillna, per il cancro le radiazioni. Anche in economia i rimedi differiscono a seconda delle situazioni. Stampare moneta, quando c'è inflazione è disastroso. Farlo nel mezzo di una recessione può essere salutare. Il medico non deve impegnarsi in anticipo sulle proprie cure, perché può venir sostituito in qualsiasi momento. I politici, invece, ricevono una delega per cinque anni. Per ottenerla devono creare un rapporto fiduciario con gli elettori, impegnandosi su proposte semplici. Una promessa di non aumentare le imposte se non quando assolutamente necessario rende un candidato poco credibile.

Una volta eletto è facile sostenere che la situazione è eccezionale e proporre un aumento delle tasse. Fa molto più presa una promessa assoluta. Vi ricordate lo slogan di George Bush padre? Niente nuove tasse. Semplice e credibile. Grazie a questo slogan fu eletto. Una volta diventato presidente, però, Bush si rese conto che il deficit era troppo elevato e decise di aumentare le imposte. Fu una scelta responsabile, ma gli costò la rielezione. Il problema è ancora maggiore quando certe scelte economiche diventano un simbolo, come la parità aurea negli anni Venti.

Ancorare la propria valuta all'oro è un modo per garantirne la stabilità. Ma questa parità deve essere fissata ad un livello sostenibile, cioè ad un tasso di cambio che bilanci le importazioni con le esportazioni. Per gli elettori traumatizzati dall'inflazione, la parità pre-bellica aveva un forte valore simbolico. Promettendo questa parità i politici evocavano la prosperità perduta e guadagnavano consenso. Fu così che molti governi europei fecero l'errore di tornare a parità auree insostenibili, come la mitica quota Novanta sostenuta da Mussolini.

Il segno che la ragione politica sta prevalendo su quella economica è che le scelte economiche vengono vendute come valori morali o dimostrazione di virilità politica, invece che come risposte ottimale ai problemi esistenti. Questo è il problema che i politici europei, e in particolare il cancelliere tedesco Angela Merkel, si trovano ad affrontare. L'euro è in crisi. La crisi di fiducia non è più limitata ai Paesi periferici, ma si sta estendendo al nocciolo duro: Austria, Finlandia, Germania stessa. Di fronte a una crisi generalizzata dei titoli sovrani, i governi hanno solo una risorsa: l'uso della banca centrale come acquirente di ultima istanza.

Se la crisi non è di insolvenza, ma di illiquidità, l'intervento della banca centrale è sufficiente ad arrestarla, senza costi per l'Unione. Se però si tratta di una crisi di insolvenza, un intervento della Bce può creare inflazione e soprattutto induce i governi nazionali a posticipare il risanamento, trasformando una crisi di illiquidità in una di insolvenza. Angela Merkel aveva ragione quando diceva che la Grecia era insolvente e la Bce non doveva intervenire. Aveva ragione anche quando diceva che l'Italia doveva fare il suo dovere prima di essere salvata. Adesso però che sia la Grecia che l'Italia stanno facendo il loro dovere e la crisi si è spostata sulla Francia e il Belgio, la sua posizione di rigidità diventa eccessiva. Le radiazioni servono a curare il cancro, ma, se si eccede, si uccide il malato.

Il rischio di Angela Merkel è proprio questo. E' molto difficile cambiare una posizione quando questa posizione è stata fin qui corretta. E' ancora più difficile farlo quando questa è la promessa fatta agli elettori. La Merkel e, prima di lei, Kohl promisero ai tedeschi che non avrebbero mai dovuto scegliere tra l'euro e il rischio di inflazione. Fin dall'inizio questa promessa era di dubbia sostenibilità. Tuttavia fino a questo momento è stata una promessa utile non solo dal punto di vista elettorale, ma anche da quello economico, guidando la Merkel a scelte economicamente corrette. Ora che la diagnosi è cambiata, però, questa promessa rischia di diventare come la mitica quota Novanta: propaganda utile per il consenso ma disastrosa per l'economia. Dal coraggio di cambiare ricetta si vede non solo il vero medico, ma soprattutto il vero statista.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-merkel-deve-cambiare-ricetta/2167808/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Dopo il rigore ora una svolta culturale
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 11:16:29 am
Dopo il rigore ora una svolta culturale

di Luigi Zingales

7 dicembre 2011


Dopo le prime tre settimane è venuto il momento di tirare i primi (provvisori) bilanci sul Governo Monti. Nei rapporti con i nostri partner europei, Monti ha conseguito un istantaneo successo. La sua esperienza e competenza lo collocano una spanna sopra Sarkozy e la Merkel. Il suo programma di austerità, pur con luci ed ombre, è coraggioso. Rappresenta il massimo di rigore fiscale che il nostro Paese può sostenere (e forse anche di più).

Il vero tallone d'Achille riguarda quello che io considero l'obiettivo principale: una riforma culturale. Può sembrare strano che un economista anteponga la riforma culturale a quella fiscale. Ma proprio perché economista mi rendo conto che il rigore fiscale è condizione necessaria ma non sufficiente per salvare l'Italia.

Il vero problema dell'Italia è la mancanza di crescita e alla base di questa mancata crescita ci sono due cause: la peggiocrazia e la conseguente mancanza di fiducia che questa genera. La peggiocrazia non è solo mancanza di merito nelle nomine, ma anche mancanza di rigore logico e morale nelle scelte. I balzelli casuali (vedi tassa sui depositi del Governo Amato) o i condoni periodici alla Tremonti distruggono il rapporto fiduciario tra Governo e cittadini. La sola parvenza del conflitto di interessi mette in dubbio la legittimità delle scelte. Affinché noi italiani cominciamo a sentirci cittadini e non sudditi, le scelte del Governo devono essere giustificate, devono seguire un rigore logico e morale. Il seguirlo crea fiducia, aumenta il consenso, riduce l'incertezza, e aumenta il desiderio di investire in questo Paese.

Nel nominare Monti il presidente della Repubblica Napolitano ha dato inizio a questo processo di riforma culturale. Monti non è stato scelto per logiche politiche ma per competenza: non solo la sua conoscenza tecnica, ma il buon lavoro svolto da commissario europeo.

Inizialmente, Monti aveva proseguito su questa strada. Nel suo complesso la scelta dei ministri è stata basata sui principi di competenza e integrità. Il migliore esempio sono le donne ministro. Non nominate per soddisfare una quota rosa o per retribuire ex amanti, ma perché rappresentano il meglio che il Paese può offrire nei rispettivi campi. Vorrei che le imprese seguissero quest'esempio.

La riforma delle pensioni proposta dal ministro Fornero, un'autorità in materia e di gran lunga il miglior ministro, va nella stessa direzione. Al sistema retributivo, che premia le categorie più influenti politicamente, si sostituisce il principio contributivo, che eroga pensioni in proporzioni ai contributi versati. Non è solo una buona regola di finanza pubblica, è anche un buon principio morale.

Purtroppo dopo questo inizio promettente, il Governo Monti ha fatto alcuni passi falsi. Il primo è stata Finmeccanica. È vero, Guarguaglini si è dimesso. Ma ad essere revocato doveva essere l'intero consiglio che aveva rinominato Guarguaglini quando le notizie degli scandali già circolavano e che gli aveva offerto un paracadute milionario. Un nuovo consiglio avrebbe potuto impugnare senza timori il paracadute e far luce su tutte le dubbie vicende che circondano la società. Per cambiare la cultura di questo Paese è necessario estirpare il sottobosco politico. La crisi al vertice di Finmeccanica rappresentava un'opportunità per farlo, dato che il Governo controlla Finmeccanica. Monti ha sprecato questa opportunità.

Il secondo passo falso è stato il blocco dell'indicizzazione delle pensioni. Non bisogna essere Freud per capire che il pianto del ministro Fornero rifletteva il dolore per aver dovuto accettare una decisione ingiusta, contraria ai suoi principi. Si tratta della più iniqua delle imposte, che lascerà un segno nella mancanza di fiducia della gente.

Il terzo passo falso riguarda la partecipazione a un programma televisivo per presentare le sue riforme. È apprezzabile il desiderio di Monti di spiegare le sue proposte alla gente. Se ha bisogno di prime time, faccia - come tutti i presidenti del mondo - una conferenza stampa in diretta all'ora giusta. Presidente, sappia che è un errore andare da Vespa, non importa se prima o dopo essere andato in Parlamento.

Ma il più grosso passo falso è l'autorità che il decreto concede al Governo di garantire le emissioni obbligazionarie delle banche. È un potere enorme di cui si può facilmente abusare e che rischia di accollare sul contribuente italiano gli errori delle banche.

A questo punto il Governo Monti si trova a un bivio. Deve scegliere se essere il commissario dell Fondo monetario in Italia, che aggiusta solo i conti, o il salvatore della patria che riforma il Paese. Dopo i passi falsi, Monti ha tre opportunità per dimostrare le sue intenzioni.
La prima riguarda l'introduzione dell'Ici, che deve essere estesa anche agli immobili non di culto della Chiesa. Non si possono chiedere sacrifici agli italiani se non si trattano tutti nello stesso modo. Non farlo minerebbe l'autorità morale del Governo e del suo presidente.

La seconda riguarda la parte del decreto salva banche. Monti deve urgentemente emettere un regolamento in cui spiega come e a che condizioni queste garanzie saranno emesse.

Infine Monti deve essere più rigoroso sugli investimenti personali dei suoi ministri. Non dubito che tutti i ministri abbiano a cuore solo l'interesse del Paese. Ma negli Stati Uniti i ministri alla nomina devono vendere le azioni possedute e investire il ricavato in titoli di Stato, per evitare che le loro decisioni possano essere contaminate dal sospetto di voler beneficiare il loro portafoglio. Data la vocazione di Intesa Sanpaolo a banca di sistema, fino a che il ministro Passera non vende le azioni che detiene nella banca ci sarebbe sempre il sospetto che agisca per interesse personale. Per questo, Monti e i suoi ministri dovrebbero fare come quelli americani. Questo darebbe fiducia al mercato dei nostri titoli sovrani, ma ancor di più rimuoverebbe l'ombra del sospetto dall'azione del Governo.

In politica non bisogna solo essere onesti, occorre anche apparire tali. Le vere riforme culturali cominciano anche dai piccoli gesti.

Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (3 di 13 articoli)

©RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-12-07/dopo-rigore-svolta-culturale-083048.shtml?uuid=Aa3vy7RE


Titolo: Luigi ZINGALES. - O via le caste o si muore
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2011, 05:50:09 pm
O via le caste o si muore

di Luigi Zingales

Tutti ce l'hanno con i partiti, che in effetti hanno molte colpe. Ma il Paese è pieno di gruppi chiusi, che mirano solo a perpetuare i propri privilegi e le proprie rendite di posizione. Danneggiando tutti gli altri, specie i giovani

(22 dicembre 2011)

Negli Stati Uniti la protesta ha scelto come obiettivo Wall Street, simbolo della finanza, il luogo dove lavora l'1 per cento più ricco della popolazione. Coloro che - secondo i manifestanti - avrebbero derubato il rimanente 99 per cento di un futuro migliore. L'Italia è messa molto peggio degli Stati Uniti. Quale dovrebbe essere l'obiettivo della protesta? Dove si annida l'1 per cento di privilegiati che impedisce il successo al rimanente 99 per cento? La risposta più naturale sarebbe Montecitorio, simbolo del potere politico. Non sono forse i politici che ci hanno ridotto in questa situazione? Ma è una risposta che oscura la vera fonte del problema. I politici li eleggiamo noi.

Riflettono gli interessi (le lobby) del nostro Paese. Negli Stati Uniti la lobby più potente è sicuramente quella finanziaria, da cui il luogo della protesta. Seguendo la stessa logica in Italia il luogo adeguato per la protesta dovrebbe essere la piazza centrale di ogni paese. Lì si annida la lobby più potente d'Italia: i notabili locali. A differenza dei ragazzini maleducati di Wall Street, si tratta di signori di buone maniere. Ma dietro la loro aria bonaria, non sono meno pericolosi. Molti di loro criticano i sindacati per la difesa corporativa del posto di lavoro, ma la loro difesa dei privilegi è più strenua di quella dei camalli del porto di Genova. Non lo fanno in piazza, ma nei corridoi dei palazzi, e proprio per questo hanno maggiore successo.

Chi sono i notabili della piazza centrale? C'è il farmacista, spesso figlio del farmacista del paese. Le farmacie godono di restrizioni imposte dallo Stato alla vendita dei medicinali. Queste restrizioni mantengono i prezzi elevati a danno dei consumatori. Anche le timide riforme di Bersani sono state affossate dal governo Monti. Il commissario europeo che ha osato sfidare Microsoft ha dovuto chinarsi di fronte alla lobby dei farmacisti. Sopra la farmacia in molti paesi c'è' l'ufficio del notaio, altra professione tramandata di padre in figlio e protetta dallo Stato, che limita il numero di notai e impone tariffe minime. Non è solo una tassa su tutte le attività produttive, ma anche uno spreco di cervelli. I guadagni gonfiati dai limiti alla concorrenza attirano nella professione molti giovani brillanti, che avrebbero potuto dedicarsi proficuamente ad attività più produttive.

A fianco del notaio nella piazza principale c'è l'ufficio dell'avvocato, un'altra professione spesso tramandata di padre in figlio, protetta da un ordine corporativo. Di fronte alla farmacia in molte piazze centrali c'è la sede di una banca. Una volta era una banca locale, oggi è parte di un gruppo nazionale. Ma anche qui i posti si tramandano di padre in figlio. Il motivo è che la banca non è gestita secondo criteri di efficienza, ma secondo criteri clientelari. Anche se perde, poco importa, tanto i principali azionisti non hanno messo i soldi loro, ma i soldi altrui. Anzi i soldi nostri, i soldi che appartenevano ai comuni e che oggi sono controllati da fondazioni gestite dai residui della prima Repubblica.

Il notaio, il farmacista, il bancario, l'avvocato e il presidente della fondazione si trovano tutti a prendere l'aperitivo al bar centrale, anche quello tramandato di padre in figlio. Questo settore, almeno, è competitivo. Ma anche il barista gode di un vantaggio: una certa tolleranza nell'applicazione delle leggi. La sua cucina non è proprio a norma e la cassiera non sempre emette lo scontrino fiscale. Ma con l'appoggio dei notabili clienti riesce a farla franca.

Ognuno difende strenuamente il proprio privilegio, non capendo che il privilegio mio è costo tuo. L'Italia si sta trasformando in una società per caste, dove i giovani non hanno futuro. La strenua difesa dei privilegi personali alla fine danneggia tutti. Ma nessuno è disposto a rinunciare da solo al suo privilegio. Se è l'unico a farlo, ci perde. Solo se tutti lo facciamo contemporaneamente, ci guadagniamo tutti. C'è bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinunciano a qualcosa, per guadagnarci tutti. Se Monti non è capace di farlo chi mai lo potrà fare?


© Riproduzione riservata
da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/o-via-le-caste-o-si-muore/2169125/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Forza Monti: sennò torna B.
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2012, 06:27:22 pm
Politica

Forza Monti: sennò torna B.

di Luigi Zingales

L'attuale governo può piacere o meno, ma una cosa è certa: se non vince la battaglia del debito, il Cavaliere scatenerà una massiccia campagna demagogica anti-euro con cui può riprendere il potere l'anno prossimo
 
(13 gennaio 2012)

Dall'irlandese Cowen allo spagnolo Zapatero, dal portoghese Sócrates, al greco Papandreu, per finire a Berlusconi, la crisi del debito sovrano sta falcidiando i capi dei governi dei paesi coinvolti. Poco importa se di destra o di sinistra, chi governa quando arriva la crisi ne paga le conseguenze.

Uno studio empirico presentato lo scorso fine settimana ai meeting dell'American Economic Association ci dice che queste conseguenze erano facilmente prevedibili. Contrariamente all'opinione prevalente, le crisi finanziarie sono frequenti. Nel periodo 1975-2010 nei 70 principali paesi al mondo ci sono state 448 crisi bancarie e 488 crisi del debito: in media ogni paese ha una crisi bancaria ogni sei anni e una crisi del debito ogni sette. Gli autori sono stati in grado di isolare alcune interessanti regolarità sulle conseguenze politiche delle varie crisi.

Dopo una generica crisi finanziaria, il partito di maggioranza perde in media il 6 per cento dei consensi. A questa perdita si associa in genere una frammentazione del voto, sia nella coalizione di maggioranza sia in quella di minoranza, che rende i governi meno stabili e le riforme più difficili. In questo terremoto elettorale post crisi a perdere sono solitamente i partiti di centro, mentre guadagnano gli estremisti, sia di destra sia di sinistra. Questa radicalizzazione della politica, che vediamo sia negli Stati Uniti sia in Italia, rende più difficile qualsiasi riforma, proprio nel momento in cui un paese ha il maggior bisogno di riforme.

Ma l'effetto è molto diverso a seconda del tipo di crisi. Dopo le crisi bancarie ad aumentare è l'estremismo di destra, mentre dopo le crisi debitorie a guadagnare consensi è la sinistra radicale. Il motivo è molto semplice. Le crisi bancarie tendono a concludersi con una nazionalizzazione delle banche.

La reazione a questo interventismo fa aumentare consensi alla destra. Per contro, le crisi debitorie creano una forte domanda di remissione (almeno parziale) dei debiti, che trova maggiori consensi a sinistra. Molte delle crisi debitorie analizzate dagli autori, però, sono crisi di debito privato, come quello dei mutui americani e spagnoli, non del debito pubblico.

Un'insolvenza del pubblico è più assimilabile a un'esplosione dell'inflazione, perché entrambe implicano un esproprio forzoso di parte della ricchezza dei creditori.

Storicamente l'effetto politico di una crisi inflazionistica è un forte aumento dei voti dell'estrema destra, come successe nella Germania di Weimar dopo l'iperinflazione degli anni Venti. Se così è, qual è la lezione per l'Italia d'oggi?

Innanzitutto che la speranza che il governo Monti possa portare a termine riforme radicali è forse eccessiva. Nonostante la buona volontà, la radicalizzazione dell'elettorato e del parlamento rende qualsiasi riforma estremamente difficile. Questo aiuta a spiegare i problemi incontrati da Monti anche nei più timidi piani di riduzione dei costi.

La seconda lezione è che Berlusconi è stato molto furbo. Ha passato la patata bollente a Monti al momento giusto, quando ha capito che la risoluzione della crisi non dipendeva più dall'Italia ma dall'Europa e che i nostri partner europei non avevano la capacità (o peggio la volontà) di risolverla. Monti lo sta scoprendo a sue spese.

La sua manovra non è bastata a ridurre lo spread dei nostri titoli pubblici rispetto a quelli tedeschi. Questo rende precaria la posizione del suo governo che ha chiesto al paese enorme sacrifici per salvare l'Italia, ma non è in grado di mantenere la promessa fatta. Nel frattempo il paese, sulla spinta della contrazione fiscale e di quella creditizia, sta entrando in una pesante recessione.

Se la crisi del debito dovesse peggiorare, Berlusconi avrebbe gioco facile ad attaccare il governo da destra, scaricando su di esso la responsabilità della crisi. Posizionandosi come partito anti-europeo e anti-euro, sarebbe in grado di attirare il consenso di quanti sognano una svalutazione per far ripartire le esportazioni. Purtroppo la storia ci insegna che questa strategia riporterebbe Berlusconi al potere con una maggioranza schiacciante.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/forza-monti-senno-torna-b/2171881/24


Titolo: Luigi ZINGALES. - Troppo scandalo sui soldi di Romney
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 12:02:46 am
Opinione

Troppo scandalo sui soldi di Romney

di Luigi Zingales

In America cambia la percezione della ricchezza. E così il candidato repubblicano è al centro di polemiche anche se guadagnò rilanciando piccole imprese. Cosa si dirà allora di Passera se un domani dovesse entrare in politica?

(02 febbraio 2012)

Più spietato di Wall Street, arricchitosi alle spalle dei poveri lavoratori che ha licenziato". A descrivere così Mitt Romney, il favorito alla nomination repubblicana per le prossime elezioni presidenziali americane, non è la sinistra più estrema, ma Newt Gingrich, il suo rivale conservatore. Non stupisce tanto la spregiudicatezza di Gingrich (nella sua vita ha fatto di peggio) quanto il successo che questa strategia ha conseguito. Nella primaria del Sud Carolina Gingrich ha stravinto ribaltando i pronostici. Anche la base repubblicana, quindi, è sensibile ai toni populisti. La ricchezza di Mitt Romney, stimata tra i 190 e i 250 milioni di dollari, invece che un merito, si è trasformata in una colpa.

In Italia questo non sorprende. La tradizione cattolica ha sempre visto la ricchezza, anche quella accumulata onestamente, come un peccato. "E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago", recita il Vangelo di San Matteo, "che un ricco entri nel regno dei Cieli". Alla tradizione cattolica si somma quella marxista, per cui la ricchezza nasce sempre da una forma di sfruttamento.
In America, invece, la tradizione calvinista dominante ha sempre visto il successo economico come una manifestazione della predestinazione divina. Fino a poco fa la ricchezza (propriamente accumulata) era un titolo di merito. Che cosa è cambiato?

In parte questo è dovuto al modo in cui Romney si è arricchito. Pochi negli Stati Uniti obiettano alla ricchezza accumulata da innovatori come Steve Jobs, il rimpianto fondatore di Apple. Tutti conoscevano Steve Jobs perché creava beni di consumo. Ma chi sa cosa ha creato Mitt Romney, che lavorava nel "private equity"?
In genere i fondi di private equity acquistano, gestiscono e rivendono imprese. Molti in questa industria fanno i soldi in maniera opportunista, sfruttando le occasioni giuste per comprare e vendere, senza aggiungere alcun valore. Altri invece aggiungono valore. Mitt Romney fu tra questi. La sua idea geniale fu quella di applicare la consulenza aziendale al mondo delle piccole imprese in crescita.

I consulenti aziendali sono famosi per dare consigli agli altri, senza assumersi alcun rischio. Quando era manager di Bain Capital, Mitt Romney capì il valore aggiunto dalla consulenza aziendale. A questo scopo convinse i colleghi di Bain & Co di cimentarsi con le piccole imprese, non in cambio di parcelle astronomiche, ma in cambio di partecipazioni azionarie nelle imprese stesse. Se le idee funzionavano, il prezzo delle azioni saliva e i consulenti creavano profitto dai loro consigli. Se invece le idee non funzionavano, lavoravano di fatto gratis. L'idea ebbe immediato successo e fu poi copiata da tutti i rivali in private equity.

Questo rigetto di Romney, però, ha cause più profonde della mancanza di familiarità con il private equity. La prima causa è la perdita di fiducia in un benessere diffuso. In America la disuguaglianza di ricchezza veniva accettata perché era vista come un passo necessario per la crescita. Poco importa se alcuni diventano ricchi, purché anche gli altri beneficino della crescita. Purtroppo nell'ultimo decennio gran parte della crescita è finita ad arricchire la parte più ricca della popolazione. Il 50 per cento degli americani guadagna meno oggi in termini reali di quanto guadagnasse dieci anni fa.

La seconda causa di questo cambiamento di attitudini è che gli americani hanno perso fiducia nell'equità delle regole del gioco. Il salvataggio delle banche da parte del governo e gli scandali finanziari hanno minato la fiducia degli americani in un sistema capitalista dalle regole ben definite. Il sistema sembra taroccato e chiunque vinca in questo sistema è sospettato di aver barato.

Se questo accade nella patria del capitalismo, ci viene da domandarci cosa succederà in Italia. Potrà mai un ex banchiere come Corrado Passera, che non ha certo alle sue spalle il record di successi di Mitt Romney, entrare in politica? Se le scelte di investimento effettuate da Romney sono passate al setaccio, cosa ne sarebbe di quelle di Passera? Più si impegna in politica e più spazio ci sarà per i non meno pericolosi Gingrich di casa nostra.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/troppo-scandalo-sui-soldi-di-romney/2173313/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Un problema sistemico
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2012, 07:09:08 pm
Un problema sistemico

di Luigi Zingales

11 aprile 2012

Lo scandalo sull'uso personale dei fondi pubblici della Lega, che fa seguito a un simile scandalo riguardante l'ex tesoriere della Margherita, dimostra che la mala gestio e la corruzione non hanno barriere ideologiche: sono presenti in tutti i partiti. Senza togliere nulla alle colpe individuali, non si può ignorare la natura sistemica del problema.
Senza una riforma del sistema, gli errori si ripeteranno.

Purtroppo il dibattito politico sul come riformarlo oscilla tra la demagogia e il gattopardismo. È difficile pensare che dei politici, figli di questo sistema, abbiano le capacità di cambiarlo.
In questo senso, il governo tecnico fornisce un'opportunità unica. Non essendo composto da persone nate e cresciute in questo sistema, ha una vera chance di riformarlo. Per farlo, però, deve essere veramente tecnico, ovvero deve cominciare da uno studio sui pregi e difetti dei sistemi di finanziamento che esistono nelle varie parti del mondo. Ci permettiamo di offrire al governo una prima traccia di quest'analisi. Per cercare di essere il più asettici possibile, ci riferiremo ai dati americani, non perché gli Stati Uniti rappresentino un modello, ma perché sono il sistema più studiato.
Il punto di partenza, anche se impopolare, è che la politica costa. Nel 2008 la campagna presidenziale di Obama costò 760 milioni di dollari. Sembra un'enormità, ma non è molto se lo confrontiamo con le spese di pubblicità che le imprese sostengono per i prodotti più semplici.

Nel 1999 la campagna pubblicitaria per il nuovo rasoio della Gillette costò 300 milioni di dollari. Un presidente sarà più importante di un rasoio!
Il problema non è tanto di costo, ma di rapporto costi benefici. Se questi soldi aiutano i cittadini a selezionare dei rappresentanti migliori, sono soldi ben spesi (il costo di un cattivo governo è di molte volte superiore). Se invece favoriscono la sopravvivenza di un sottobosco di politici mediocri, anche pochi euro sono mal spesi. Quindi, entro limiti ragionevoli, non conta tanto la quantità di denaro spesa in campagne elettorali, quanto l'effetto che questo finanziamento ha sull'efficienza e la rappresentatività del nostro sistema politico.
Il secondo punto è che il finanziamento della politica non può venire lasciato interamente al mercato. Questa affermazione può sembrare strana venendo da chi crede nel mercato. Ma la regola numero uno per l'efficienza del libero mercato è che le scelte di un individuo non influenzino quelle altrui se non attraverso i prezzi. Se Bill Gates preferisce le cravatte rosse a quelle blu, il prezzo delle cravatte rosse probabilmente aumenterà, ma la nostra possibilità di comprare cravatte blu non cambia.

Questa condizione è violata nel mercato politico. La maggioranza impone delle scelte sulla minoranza. Quindi se Bill Gates decide di finanziare massicciamente un candidato, aumentandone la probabilità di vittoria, questo influisce sulla nostra libertà di scelta.
Il secondo motivo per cui il mercato non produce risultati ottimali è che in politica l'incentivo è di battere il rivale, non di eleggere il candidato migliore. Questo porta ad una escalation delle spese elettorali, così come nel calcio c'è stata una escalation degli stipendi dei giocatori.
Questa escalation è tanto più costosa quanto più influenza gli incentivi degli eletti. Oggigiorno il tipico politico americano partecipa a più di 500 fund raising events all'anno. È difficile immaginare che tutti questi eventi non influenzino i suoi voti in parlamento.

Il laissez faire quindi non funziona in politica. C'è la necessità di regole e c'è la necessità di un contributo pubblico. Il rischio, però, è che queste regole e questo contributo siano disegnati a protezione dei partiti esistenti, invece che a favore dell'efficienza ed equità del sistema elettorale nel suo complesso. La competizione elettorale rimane una forza importante. E vera competizione non esiste se non esista la possibilità per nuove formazioni di entrare nell'agone politico.
Per questo ci sentiamo di sottoscrivere la proposta avanzata dal famoso giurista americano Larry Lessig nel suo ultimo libro. Si tratta di un sistema di matching funds. Ogni individuo può donare fino a 100 dollari al suo candidato preferito. Lo Stato a sua volta raddoppierà la cifra raccolta.

Altre forme di finanziamento sono proibite. In questo modo si limita l'ammontare complessivo delle spese elettorali, senza limitare la competizione, anzi rendendola più intensa. Si limita l'influenza dei grossi gruppi sui candidati, ma si limita anche il potere dei partiti sui candidati. Proprio per questo è una proposta che difficilmente sarà sottoscritta dalla segreteria dei maggiori partiti. Ciononostante è una riforma che può trovare consenso in parlamento. Per attuarla negli Stati Uniti Lessig propone una convenzione costituzionale. A noi potrebbe bastare un governo tecnico.

Il Sole 24 ORE - Commenti e Idee (1 di 5 articoli)

©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-10/problema-sistemico-233338.shtml?uuid=AbG2EBMF


Titolo: Luigi ZINGALES. - Troppe Authority non aprono il mercato
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2012, 05:02:34 pm
Troppe Authority non aprono il mercato

di Luigi Zingales

19 aprile 2012


Il Governo Monti è giustamente impegnato in una riforma delle “authority”. Affinché questa riforma non si riduca ad un semplice (seppur sacrosanto) taglio della spesa, è giusto chiedersi quali sono le funzioni assolte da queste authority e come tali funzioni possano essere svolte più efficacemente in altro modo.

Il modello delle authority nasce nel 1887 negli Stati Uniti. All'epoca i piccoli coltivatori premevano politicamente per imporre limiti al potere delle società ferroviarie. Domandavano un prezzo «equo», che non avvantaggiasse i grandi coltivatori. Le imprese ferroviarie, inizialmente contrarie, abbracciarono l'idea: capirono che l'Interstate Commerce Commission (l'authority dei trasporti) li avrebbe aiutati a sostenere un cartello di prezzo. E così fu. Da strumento di protezione dei consumatori, l'Icc divenne strumento della loro oppressione, imponendo dei prezzi minimi e sostenendo i profitti delle imprese ferroviarie.

Quando i camion cominciarono a minacciare il monopolio delle ferrovie, il Congresso americano estese l'authority dell'Icc anche ai trasporti su gomma e poi anche agli aerei. Fu solo alla fine degli anni 70 che Carter liberalizzò il settore.
Nonostante il fallimento della prima authority, le agenzie di regolamentazione si moltiplicarono. Oggi negli Stati Uniti se ne contano più di cento. Il modello fu poi esportato in molti paesi, tra cui il nostro. La prima authority italiana fu la Consob nel 1975. Da allora ne sono nate più di 14. Perché? La dottrina ufficiale vuole che questo successo derivi dalla necessità di regolare settori molto specifici, che richiedono elevata competenza, limitando al tempo stesso un'eccessiva influenza dell'esecutivo.

Guardando alla realtà (sia americana che italiana) è difficile credere a questa versione. Salve nobili eccezioni, la competenza dei commissari è generalmente mediocre (basti pensare al macellaio Guazzaloca commissario dell'antitrust). E lungi dall'essere indipendenti dall'esecutivo, le authority spesso ne fanno i voleri, senza sopportare alcuna conseguenza politica. È forse una fortuita coincidenza che l'americana Sec iniziò la causa contro Goldman Sachs all'inizio del dibattito parlamentare sulla riforma finanziaria e la chiuse il giorno in cui la riforma fu approvata dal Senato?
Le authority non sono solo costose ed inutili: sono anche dannose. Invece che proteggere i consumatori, proteggono le imprese esistenti dalla concorrenza, bloccando i nuovi entranti. Quando la francese Groupama acquistò azioni in Premafin la Consob (a mio avviso giustamente) impose l'obbligo di Opa a cascata su tutte le sussidiarie. Groupama si ritirò. Ma oggi che la stessa offerta la fa Unipol, la Consob non si muove. Perché?

Il favoritismo verso le imprese regolate nasce dalla pressione ambientale in cui le authority operano. Se, per esempio, l'Isvap, che vigila sulle assicurazioni, impone regole troppo severe, le società interessate possono ricorrere al tribunale amministrativo, rendendo difficile la vita del presidente dell'ente. Ma se l'Isvap chiude un occhio sulla cattiva gestione di un'impresa assicurativa, chi protesta? Non certo gli assicurati, che non sono informati e, anche se lo fossero, non avrebbero un interesse economico sufficientemente grande da giustificare il costo di una causa. Lo stesso vale per i piccoli azionisti.

E qui sta il paradosso delle authority. Nacquero per proteggere i consumatori, che sono poco informati e troppo dispersi per difendere i propri interessi. Ma falliscono per lo stesso motivo: la scarsa capacità di pressione economica e politica dei consumatori dispersi e poco informati.

La soluzione non è eliminare tutta la regolamentazione, ma cambiare il meccanismo con cui questa regolamentazione viene fatta rispettare. Il motivo per cui gli standard di sicurezza effettivi in America sono così elevati non è dovuto a nessuna authority, ma al rischio di una causa legale. La class action (quella vera, non il simulacro italiano) ristabilisce i rapporti di forza tra i consumatori e i produttori. Un produttore è politicamente più influente perché solitamente ha molto da perdere. Ogni consumatore, invece, ha poco da perdere. Moltiplicata per il numero di consumatori, però, la perdita può essere notevole. La class action permette di aggregare questi casi individuali in un procedimento collettivo: una causa da un milione di euro diventa uguale a un milione di cause da un euro l'una.

Il vantaggio di regole fatte applicare dalle class action, invece che da un'authority, è che chi deve fare rispettare le regole non può essere facilmente “catturato” da interessi politici ed economici. Come è possibile mantenere la neutralità di un presidente di authority (non eletto) che può spostare centinaia di milioni di euro con le sue decisioni? Anche senza tangenti, i meccanismi di pressione non mancano. Se invece qualunque avvocato può fare causa a nome dei consumatori danneggiati, il rischio di cattura non esiste.

Ovviamente, affinché le regole possano essere fatte rispettare dalla class action e non dalle authority, occorre che le regole siano poche e ben chiare. Ma questo è un ulteriore beneficio del sistema alternativo. Oggi regolatori e regolati (per non parlare dei loro avvocati) sono tanto più contenti quanto più la regolamentazione è complicata, perché diventa una fonte di potere per i regolatori e una barriera all'entrata per i regolati. La regolamentazione ideale invece è limitata e semplice. Ma in quanto tale può essere approvata direttamente dal parlamento, che ne risponde all'elettorato. Oggi nessuno è politicamente responsabile di una miriade di regolamenti che pesano sulla nostra economia.
Forse questa riforma è troppo radicale per un governo tecnico. Ma Monti potrebbe almeno ridurre il numero delle authority e far sì che i loro presidenti siano nominati non dall'esecutivo, ma dal Presidente della Repubblica. L'imposizione di rigide norme temporali sulle assunzioni degli ex commissari nel settore privato ridurrebbe il rischio di cattura. Per finire, l'introduzione di una seria norma sulle class action potrebbe supplire alle scarse capacità di enforcement di queste authority. Anche questa riforma limitata sarebbe meglio dello status quo.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-19/troppe-authority-aprono-mercato-063538.shtml?uuid=Ab0jsJQF&p=2


Titolo: Luigi ZINGALES. - Il disastro è dietro l'angolo
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:59:12 am
Grecia

Il disastro è dietro l'angolo

di Luigi Zingales

Se Atene fallisce l'Italia rischia un contagio economico ma soprattutto politico.

Aumenterebbero le spinte populiste a uscire dall'euro. Con conseguenze disastrose

(18 maggio 2012)

I bookmaker di Londra non accettano più scommesse sull'uscita della Grecia dall'euro: viene data pressoché per certa. A rendere questa scelta inevitabile non sono tanto ragioni economiche, ma ragioni politiche. Basta citare un breve dibattito che ho avuto con un ex consulente del Fondo monetario internazionale. Alla mia richiesta di cosa avrebbe fatto se gli fosse stato attribuito il potere assoluto in Grecia, mi ha risposto che avrebbe seguito fedelmente il piano di austerità e riforme strutturali delineato da Lucas Papademos, il primo ministro tecnico uscente.

Ma quando poi gli ho chiesto che reazione avrebbe avuto se la tensione sociale avesse minacciato il suo potere, ha risposto immediatamente: "Uscirei subito dall'euro". Qui sta il dilemma. Ammesso (e non concesso) che l'austerità funzioni, ha bisogno di tempo. E la gente non può più aspettare. Con il prodotto interno lordo che si è ridotto del 17 per cento dall'inizio della crisi (e continua a scendere), la disoccupazione che è salita al 22 per cento, e più di un giovane su due senza lavoro, i greci non ce la fanno più. Quando non si manifesta in piazza, questo scontento si riflette nelle urne. Dopo la disfatta elettorale dei partiti che hanno concordato il piano di austerità, nessun leader vuole suicidarsi politicamente sostenendolo. La stragrande maggioranza dei greci non vuole uscire dall'euro, ma non vuole neppure accettare il piano di austerità. D'altra parte, il Fmi e la Banca centrale europea non possono fare concessioni sui loro prestiti, per motivi reputazionali. Lo facessero, come potrebbero non garantirle a tutti gli altri Stati debitori in difficoltà? Rimane la possibilità di ulteriori aiuti da parte della Germania. Ma questo sarebbe un suicidio per la Merkel.

In questo contesto, governare la Grecia è come far quadrare il cerchio. Non è un caso se i tentativi di formare un governo si sono esauriti in pochi giorni e i partiti sono più desiderosi di tornare al voto che di assumersi la responsabilità di governo. La Grecia oggi ricorda l'Argentina del 2001, quando i presidenti si succedevano con lo stesso ritmo. Allora finì con il default e la rottura della parità tra il pesos argentino e il dollaro. Qui finirà nello stesso modo. E poi?


L'uscita della Grecia dall'euro implica necessariamente il default dello Stato greco sul suo debito. La Grecia non è in grado di pagare i suoi debiti oggi, tanto meno sarà in grado di farlo dopo aver reintrodotto la dracma, che si svaluterà fortemente rispetto all'euro. Come nel caso dell'Argentina il default sarebbe totale. Una volta pagato il costo politico di un default, allo Stato greco conviene non pagare più nulla. Questo comporterebbe il fallimento delle banche greche, che sono imbottite di titoli di Stato. Per permettere loro di funzionare lo Stato dovrebbe indebitarsi nuovamente per sostenerle. Visto che nessuno vorrà sottoscrivere il suo debito lo farà stampando moneta. Seguirà un'elevata inflazione. Per evitare la fuga di capitali, la Grecia dovrà introdurre controlli ai movimenti di capitale e, probabilmente, anche un congelamento di parte dei depositi bancari, come fece l'Argentina. Almeno all'inizio, però, la svalutazione della dracma ridarebbe competitività alla Grecia. Anche se Atene non ha un forte settore export, una svalutazione del 40-50 per cento può fare miracoli. E se i disordini di piazza si placano la Grecia può diventare la meta turistica d'Europa.

Dal punto di vista economico la Grecia non è un Paese rilevante e questi scenari catastrofici non dovrebbero influenzare direttamente l'economia italiana. L'esposizione del sistema bancario nazionale nei confronti della Grecia è di solo 1,5 miliardi di euro. Indirettamente, però, l'Italia rischia due tipi di contagio. Il primo è un contagio psicologico. Il giorno in cui vedremo i cittadini greci fare la coda per cercare di ritirare i risparmi dalle loro banche, il panico potrebbe diffondersi anche in Italia e in altri Paesi europei a rischio. Se tutti si precipitano in banca, la corsa agli sportelli si trasforma in una profezia autorealizzantesi: a meno di un aggressivo intervento della Bce, le banche non sarebbero in grado di farvi fronte da sole. Né potrebbero gli Stati sovrani, già fortemente indebitati, intervenire in soccorso. Anzi la crisi bancaria trascinerebbe in default anche gli Stati sovrani.

Ma il contagio più pericoloso è quello politico. Le elezioni greche dimostrano che la politica di austerità non paga dal punto di vista elettorale. Meglio cavalcare il populismo. I primi sentori li abbiamo già visti alle amministrative, dove il movimento di Beppe Grillo ha ottenuto importanti risultati invocando la nostra uscita dall'euro. Il suo successo spinge altri a seguirlo. La Lega si sta orientando sulla stessa posizione e anche il Pdl, uscito sconfitto dalle elezioni amministrative, potrebbe muoversi in quella direzione.

Il problema è che l'Italia non è la Grecia. Le nostre grandi imprese e le nostre grandi banche sono indebitate in euro sui mercati internazionali. Uno Stato sovrano ha il diritto di ridenominare tutti i contratti all'interno del suo Paese, ma non può farlo con quelli internazionali, come le obbligazioni emesse a Londra o a New York. Terna, ad esempio, ha più di 4 miliardi di obbligazioni in euro e la maggior parte sono soggette al diritto estero. Quindi se l'Italia uscisse dall'euro, i ricavi di Terna, che opera solo in Italia, sarebbero tutti trasformati ope legis in lire, mentre le sue passività rimarrebbero in euro. Siccome la lira si svaluterebbe del 30-40 per cento rispetto all'euro, questo equivarrebbe a un aumento effettivo del debito di Terna del 30-40 per cento. Per alcune società questo vorrebbe dire il fallimento, per altre una crisi profonda con tagli enormi degli investimenti. In entrambi i casi, sarebbe un costo molto elevato per il Paese.

Nei quattro anni successivi al default l'Argentina perse in totale il 40 per cento del Prodotto interno lordo.
Ma per l'Italia il vero costo di un'uscita dall'euro sarebbe nel lungo periodo. Senza un vincolo esterno, la lira sarebbe soggetta a pressioni inflazionistiche e a continue svalutazioni. Le svalutazioni sono come una droga: stimolano nel breve periodo, ma distruggono nel lungo. L'effetto stimolante della svalutazione svanisce presto, nella forma di prezzi più elevati. E come la droga, le svalutazioni alla lunga distruggono. Favoriscono le imprese meno innovative che competono sul prezzo e non sulla qualità. Se negli anni Settanta e Ottanta ci siamo specializzati in prodotti maturi, oggi soggetti alla competizione cinese, è anche perché le continue svalutazioni hanno favorito gli imprenditori in questi settori. E oggi ne paghiamo il costo in termini di competitività. Se vogliamo rimanere tra i Paesi avanzati, dobbiamo vincere sui mercati internazionali con la qualità, non con il prezzo più basso. Per fare questo abbiamo bisogno di cambiare le nostre istituzioni, non di svalutare. L'euro non è la causa dei nostri mali, ne è solo l'effetto. Aizzare la rabbia popolare contro l'euro serve solo a distrarre l'attenzione dai veri responsabili del nostro declino: la nostra classe politica.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-disastro-e-dietro-langolo/2181264/18/1


Titolo: Luigi ZINGALES. - Ecco perché è sbagliato criticare Mediobanca su Generali
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2012, 10:38:01 pm
Ecco perché è sbagliato criticare Mediobanca su Generali

di Luigi Zingales

7 giugno 2012


Ci sono poche persone, in Italia o all'estero, che hanno criticato e continuano a criticare la corporate governance italiana come me. E ci sono poche persone, in Italia e all'estero, che hanno criticato (e continuano a criticare) il sistema di potere che ruota intorno a Mediobanca come me. Eppure questa volta non capisco perché il Financial Times sia andato a testa bassa contro il cambio della guardia a Generali.
«Qualsiasi mossa di Mediobanca per espellere Perissinotto sarebbe considerata dal mercato un segnale terribile» scriveva con aria minacciosa l'FT sabato, citando un anonimo investitore, nonostante il titolo Generali fosse salito quando i rumor di un cambio di guardia si erano diffusi sul mercato. Dopo il fatto, l'FT calcava la dose scrivendo «il colpo che ha defenestrato Perissinotto ricorda ere passate del mondo societario italiano, quando decisioni importanti per imprese quotate erano prese a porte chiuse e gli azionisti di minoranza scoprivano il destino del loro investimento aprendo il giornale la mattina». A leggere l'FT sembra quasi che nel mondo societario anglosassone i Ceo siano scelti per referendum su internet.

Poi, a conferma delle minacce della vigilia, l'Ft cita un ex-ambasciatore Usa a Roma, Mel Sembler, che dichiara «L'iniziativa di rimuovere Perissinotto da Ceo di Generali è mal congegnata e trasmette un'immagine negativa dell'Italia al mondo». Certamente al "suo" mondo, visto che dall'Ina di Perissinotto aveva comprato l'ex-palazzo Massimo Colonna, da lui fatto ridenominare Palazzo Mel Sembler. Sarò il solito bastian contrario, ma a dispetto dell'Ft, penso che questa decisione rappresenti una svolta positiva nella corporate governance in Italia.

Che la gestione di Perissinotto lasciasse a desiderare non lo avevo scritto solo io qualche mese fa, ma l'avevo detto il fondatore di Luxottica Del Vecchio, uno che di management se ne intende e che in Generali ha messo i soldi suoi, non quegli altrui. Se a Mediobanca c'è da rimproverare qualcosa non è che si sia mossa, ma che si sia mossa troppo tardi, forse spinta solo dal timore del suo amministratore delegato che a prendere il posto potesse essere lui. Ma ben venga. Alcuni economisti chiamano le recessioni "cleansing" (che fanno pulizia), perché spingono le imprese ad eliminare inefficienze, incluse quelle ai vertice delle imprese.

L'FT non poteva avere maggiormente torto quando accusa che la decisione sia stata presa «dietro porte chiuse». Questa è una delle poche decisioni che è stata presa in consiglio con un voto controverso. È non solo naturale ma anche giusto che sia stata preceduta da una discussione tra gli azionisti, d'altra parte sono loro che ci mettono i soldi. Non so quale ruolo Mediobanca abbia avuto in queste discussioni, ma di certo non ha dettato legge. Senza i voti di Caltagirone, Scaroni, Pelliccioli, e di due indipendenti di minoranza, la mozione di sfiducia non sarebbe mai stata approvata. Vista la consuetata e deplorevole fuga di notizie, direi che non ci sia stata decisione più trasparente e meno "a porte chiuse" di questa. Il fatto stesso che i tre indipendenti di minoranza abbiano votato � a quanto risulta - in modo differenziato è dimostrazione dell'indipendenza di questa scelta: il dissenso è naturale quando la gente pensa con la propria testa.

Il nuovo manager poi non ha le caratteristiche tipiche del protetto di Mediobanca. Sembra un manager capace e indipendente che porta un po' di aria fresca a Trieste. L'università di Trieste ha ottime facoltà, ma possibile che tutti i manager del Leone dovessero venire da lì?

L'unico aspetto negativo della faccenda è stato il clamore mediatico sollevato da Perissinotto per cercare di salvare la propria posizione. Con una tenacia degna dei migliori politici democristiani, non ha esitato a trascinare in basso la sua società pur di rimanerne al vertice. Se c'era dubbio alcuno che non fosse più la persona giusta per guidare il Leone, il suo comportamento recente lo ha fugato.

Nei miei studi accademici mi sono occupato dell'importante ruolo che i giornali giocano nella corporate governance. Proprio perché importanti, anche i giornali sono spesso vittime delle pressioni delle parti in causa. Talora si tratta solo di un oculato spin, che le agenzie di public relation riescono a comunicare ai giornalisti. Per esempio, Bill Browder, manager del fondo Hermitage, era un mago nell'influenzare lo spin degli articoli pubblicati sulla stampa angloamericana riguardanti le imprese russe in cui aveva investito. Nel suo caso si trattava di esporre violazioni di corporate governance e conflitti di interesse, quindi era solo che positivo. Ma alcuni articoli assomigliavano un po' troppo alle presentazioni preparate dall'Hermitage fund, che in genere non veniva neppure citato come fonte.

Spesso la colpa è solo di alcuni giornalisti che per pigrizia si fanno "catturare" dalle loro fonti. La qualità e l'autorevolezza di un giornale consiste anche nel saper contrastare le sollecitazioni che ricevono dagli "spin doctor" e nel prevenire che i suoi giornalisti si facciano "catturare" dalle loro fonti.

Giustamente l'FT ha una ottima reputazione in questo campo. Ma proprio per questo, prima di criticare la governance in Italia, dovrebbe essere sicuro di presentare sempre un'analisi bilanciata dei fatti.
Clicca per Condividere


©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-06-07/ecco-perche-sbagliato-criticare-073933.shtml?uuid=AbPRtVoF


Titolo: Luigi ZINGALES. - La crisi è colpa dei corrotti
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:20:32 pm
Opinione

La crisi è colpa dei corrotti

di Luigi Zingales

Altro che articolo 18: in Italia l'economia non cresce a causa dei troppi ladri e dei furbetti, sia nella politica sia nelle imprese. Non è un'opinione, parlano i dati. E finché non ci sarà una rivoluzione morale, non ne usciremo

(12 giugno 2012)

Era il 1981 e in un'intervista su 'la Repubblica' Enrico Berlinguer, capo dell'allora Partito comunista, sollevava la 'questione morale' contro il sistema di potere democristiano. «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela - diceva Berlinguer - gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi». Sono passati più di trent'anni. La Democrazia cristiana non c'è più, il Partito comunista nemmeno. Ma la questione morale resta, anzi si è metastatizzata nel settore privato. Non si tratta più solo di politici che prendono soldi per finanziare illecitamente i loro partiti. Non ci si limita neanche ai politici che favoriscono gli amici, ricevendone in cambio vacanze, denaro, perfino case. Il cancro ha raggiunto ogni aspetto della società civile. I banchieri sono accusati di prendere mazzette per concedere credito, perfino i calciatori sono accusati di percepire tangenti per perdere le partite. Da tema solamente politico, la questione morale è diventata una questione economica: la causa ultima del mancato sviluppo dell'ultimo decennio. Se le nostre imprese non crescono, non è tanto per il famigerato articolo 18, ma per l'amoralità economica diffusa nel nostro paese.

NON E' SOLO LA MIA OPINIONE: sono i dati a dirlo. Nei paesi in cui c'è maggiore fiducia nell'onestà dei propri concittadini le imprese sono più grandi. Il motivo è che un proprietario delega i suoi poteri solo quando si fida del dipendente, perché tanto più delega, quanto più è il rischio che un dipendente infedele ne approfitti: rubando o arricchendosi alle sue spalle. L'impossibilità di delegare dovuta alla mancanza di fiducia forza le imprese a rimanere piccole. Per questo non si espandono, per questo non vogliono cedere il controllo, che vale nel nostro paese molto di più che negli altri. La mancanza di fiducia diffusa impedisce anche i meccanismi di selezione meritocratica. Se temo che il manager sia infedele, scelgo il nipote, il parente, l'amico anche quando costoro sono meno competenti. Per questo la qualità dei manager non è sempre delle migliori: in Italia la fedeltà fa premio sulla competenza. Perché in Italia non ci si può fidare? Perché un sondaggio tra i manager dei principali paesi europei colloca quelli italiani all'ultimo posto nella classifica dei colleghi di cui ci si può fidare? Perché in Italia prevale la cultura della furbizia invece che quella dell'onestà. In Italia il conflitto di interessi è così diffuso da non essere neppure percepito come un problema, se non per motivi politici contro Berlusconi.

UN EX MANAGER di una grande azienda italiana mi raccontava fiero come grazie al suo ingegno fosse nato uno dei fornitori dell'azienda stessa. Ma come, lavorando per un'azienda regalava opportunità di investimento a dei fornitori? E cosa riceveva in cambio? E' solo un caso che, licenziato dall'impresa per cui lavorava, quel manager sia finito a dirigere l'azienda fornitrice? La cosa più sorprendente era l'assenza di qualsiasi forma di rimorso nel suo racconto. Anzi c'era la fierezza di chi è stato più furbo. Nel lanciare la questione morale Berlinguer rivendicava la diversità del Partito comunista. La sua speranza era di cambiare l'Italia. Invece fu l'Italia a cambiare la diversità comunista. Lo stesso accadde dieci anni dopo con la Lega. Oggi ci riprova il MoVimento 5 Stelle. Fintantoché la questione morale rimane un pretesto per affermare la superiorità della propria parte politica, ogni riforma è destinata a fallire. Marce non sono solo le persone al potere, marcio è il sistema di valori. Ma è possibile cambiare un sistema di valori? Sì, se esiste una consapevolezza diffusa che questa amoralità non può più essere tollerata. In America le tensioni razziali degli anni Sessanta crearono la consapevolezza che il razzismo non poteva essere più tollerato. Ne seguì uno sforzo collettivo per sradicare questa malapianta. Oggi gli Stati Uniti hanno un presidente nero. Se la crisi economica che stiamo vivendo desse a tutti la consapevolezza che dobbiamo cambiare, questa crisi non sarebbe venuta invano

 
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-crisi-e-colpa-dei-corrotti/2184007/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Amo il mercato, ma non così
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2012, 09:50:20 am
Crisi

Amo il mercato, ma non così

di Luigi Zingales

"Lo scandalo Libor dimostra che il capitalismo ha bisogno di regole giuste. E che le grandi banche non hanno alcun interesse a farsele imporre.
Quindi serve un controllo democratico. E lo dico da liberista"

(30 luglio 2012)

In apparenza sono tempi duri per chi, come me, crede nel mercato. Non passa giorno che non ci sia un nuovo scandalo: da top manager condannati per insider trading a banche che perdono cifre astronomiche. Ma lo scandalo di gran lunga più importante è senza dubbio quello che ha coinvolto il London Interbank Offer Rate, meglio noto come Libor. Il Libor è per il dollaro quello che l'Euribor è per l'area euro: il tasso di interesse di riferimento cui sono indicizzati i mutui immobiliari e i prestiti che le banche fanno alle imprese. In America a essere legati al Libor sono anche molti prodotti derivati. Per proteggersi contro variazioni dei tassi, banche e imprese entrano in contratti che pagano in funzione del livello del Libor a una data futura. Il totale di contratti derivati ancorati al Libor è stimato in 350.000 miliardi di dollari. Con queste cifre anche un punto base di differenza (ovvero un centesimo di punto percentuale) nel Libor si traduce in 35 miliardi di dollari l'anno.

C'è chi uccide per molto meno. Per tradizione il Libor viene fissato a Londra dall'Associazione bancaria britannica, che poco prima delle 11 raccoglie le quotazioni di un pool di 18 banche. Per eliminare deviazioni estreme (e ridurre la possibilità di manipolazioni), l'Abb elimina le tre quotazioni più basse e le tre più alte e calcola la media del resto. Questo è il tasso di riferimento. Da tempo giravano voci di possibili manipolazioni, ma erano sempre state smentite con sdegno dall'Abb. Quest'anno, però, un'indagine congiunta americana ed inglese ha messo in luce dei fatti scioccanti. Barclays ha falsato le sue quotazioni non solo durante la crisi finanziaria, ma anche nel biennio precedente. «Per favore vai ancora per un Libor a 5.36» si legge in un'e-mail del 2007 scritta da un trader di Barclays al collega che doveva riportare la quotazione -«è molto importante che il dato ufficiale sia il più alto possibile». Molte e-mail si susseguono. Barclays è stata la prima banca ad ammettere la colpa e pagare una sanzione. Altre seguiranno. Scandali di questo tipo minano la fiducia nel mercato. Soprattutto in momenti come questo, dove noi italiani viviamo sotto l'incubo dello spread. Non vediamo l'ora di poter accusare il nostro tiranno di essere manipolato. Purtroppo per noi lo scandalo del Libor dimostra il contrario: l'importanza di affidarsi a veri prezzi di mercato e non a opinioni, per quanto provenienti da esperti.

Perché il Libor non è un prezzo di mercato. E' la risposta delle banche alla domanda: "A che tasso potresti prendere a prestito se decidessi di farlo". Se il prezzo fosse corrisposto a una transazione effettiva, Barclays non avrebbe potuto tenere artificialmente basso il Libor senza la collaborazione di un'altra banca, e l'altra banca avrebbe dovuto pagare un costo (in rendimenti più bassi). Così invece mentire era più semplice e meno costoso. Il secondo problema del Libor è che, a differenza della maggior parte dei prezzi di mercato, viene calcolato sulla base di un numero molto ristretto di banche (18 contro le 43 dell'Euribor), la metà delle quali viene eliminata dalla procedura di calcolo. Questo dà troppo potere a ciascuna banca del panel. Il mercato funziona solo quando è composto da tanti trader indipendenti. Tanto più il mercato è concentrato, tanto peggio funziona. La vera domanda da porsi è perché un indicatore tanto importante è calcolato in modo così poco serio. La risposta è molto semplice: questioni di potere. L'Abb e i suoi associati vogliono mantenerne il controllo. Per questo hanno ostacolato qualsiasi cambiamento. Il mercato, con le regole giuste, funziona. Ma chi ha l'interesse che le regole siano giuste? Non le grandi banche, che guadagnano dalle inefficienze, né i regolatori, che hanno preferito ignorare il problema. Senza un sano controllo democratico il capitalismo diventa corrotto. Questa corruzione non si risolve sopprimendo il mercato, ma rendendo il mercato più trasparente, più competitivo, più... vero mercato.
 
 
© Riproduzione riservata

da - L'ESPRESSO


Titolo: Luigi ZINGALES. - Perché Facebook ha fatto flop
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2012, 05:32:05 pm
 Commenta

Economia

Perché Facebook ha fatto flop

di Luigi Zingales

L'azienda di Zuckerberg è una buona impresa, ma nessuno sa quali saranno veramente i suoi incassi. Eppure l'hanno piazzata a Wall Street a un prezzo altissimo, non considerando il peso che ha sempre, in Borsa, l'incertezza

(27 agosto 2012)

Per capire il crollo di Borsa di Facebook bisogna realizzare che esiste una differenza tra un buon investimento e una buona impresa. Facebook è certamente una buona impresa. Con quasi un miliardo di utilizzatori, più di 3 miliardi di dollari di ricavi e un tasso di crescita del 33 per cento all'anno, Facebook rappresenta il sogno di ogni imprenditore. Il valore di Facebook non è solo che possiede l'accesso a un miliardo di consumatori, ma che di questi consumatori sa tutto: la loro passione per il vino, se hanno un cane, se viaggiano e dove viaggiano, se sono in cerca di un fidanzato, addirittura se sono tristi. Questi dati hanno un valore incredibile per chi fa marketing.

Il modo tradizionale di fare pubblicità sulla carta stampata e la televisione è molto inefficiente. Al lettore settantenne non interessano le pubblicità di biberon, come al lettore ventenne non interessano quelle sulle dentiere. In parte i pubblicitari cercano di segmentare il tipo di programma o giornale su cui comprano spazi. Se vogliono raggiungere i più giovani fanno pubblicità su Mtv, se invece vogliono raggiungere i consumatori più maturi sponsorizzano un programma con Pippo Baudo. Ma queste metodologie di marketing stanno alle potenzialità di Facebook, come i calcoli balistici stanno ai proiettili teleguidati con il laser. La pubblicità per i biberon non sarà diretta semplicemente "ai giovani", ma solo a coloro che hanno appena avuto un figlio. Non solo, in funzione del livello del reddito del neogenitore (che può venir facilmente desunto dalle sue abitudini di consumo visibili su Facebook) il tipo di biberon e di offerta promozionale saranno diversi. Per finire, seguendo i link utilizzati si può avere un feedback immediato sul successo della campagna pubblicitaria.

Come potete facilmente immaginare le potenzialità sono infinite. Non altrettanto i profitti. Altri protagonisti (da Linkedin a Google+) competono sullo stesso mercato ed altri entreranno. Allo stesso tempo un cambio della regolamentazione sulla privacy dei dati può ridurre molto i profitti futuri. Per questo è così difficile stabilire quanto valga Facebook. La Borsa valuta le imprese in base al valore scontato dei profitti attesi. Per un'impresa come At&T, con profitti stabili, è relativamente semplice prevedere i profitti futuri e quindi determinare un plausibile valore di Borsa. Per Facebook no.

Proprio per questo titoli come Facebook si prestano facilmente a speculazioni. E' come il titolo di una miniera d'oro di cui non si conosce l'entità, pronto tanto all'entusiasmo quanto al panico. Abbiamo già visto questo fenomeno alla fine degli anni Novanta, con la bolla Internet. A fronte di alcune imprese solide (come Amazon), ce n'erano tante con valutazioni iperboliche basate su improbabili profitti futuri, che poi sono miseramente fallite.

Aspettandosi un simile entusiasmo, Morgan Stanley, che ha quotato il titolo, ha alzato il prezzo al massimo. Quando un titolo è prezzato in base alle migliori previsioni, non può che deludere. A luglio il prezzo di Facebook è sceso del 10 per cento quando la società ha annunciato utili pari alle previsioni: paradossalmente tutti si aspettavano utili superiori alle attese. In aggiunta, la forte caduta di prezzo dalla data di quotazione (quasi il 50 per cento) ha innervosito i dipendenti e gli investitori iniziali. Si erano sentiti ricchi il giorno della quotazione e ora vedono questa ricchezza dimezzarsi. Memori di quello che è successo a molti degli imprenditori Internet, vogliono mettere del fieno in cascina. Se il vostro gruzzolo oggi vale un milione, ma può salire a 3 o scendere a 300 mila, siete disposti a rischiare? Molti non lo sono. Per questo vendono creando pressione al ribasso sul titolo. Da oggi a novembre 1,4 miliardi di azioni (sul totale di 2,7 miliardi in circolazione) saranno progressivamente liberate da vincoli contrattuali alla vendita. Questo rende probabili ulteriori cadute del titolo da qui a fine d'anno. Anche a un prezzo dimezzato rispetto alla quotazione Facebook non sembra oggi un buon investimento. Anche se è un'ottima impresa.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-facebook-ha-fatto-flop/2189515/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Il vero rischio è la deflazione
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2012, 10:54:44 am
Opinione

Il vero rischio è la deflazione

di Luigi Zingales

Le immissioni di liquidità decise da Bce e Fed servono a evitare una caduta dei prezzi, più pericolosa dell'inflazione. E a ridurre i tassi sul debito pubblico. Ma in cambio Draghi impone ai governi condizioni pesanti. Ecco perché

(20 settembre 2012)

Il torchio - disse Grigori Sokolnikov, ministro delle Finanze di Lenin - è la mitragliatrice del proletariato, che spazza via le classi agiate». Eppure oggi a manovrare i torchi elettronici che battono moneta non sono i rivoluzionari bolscevichi, ma i più ortodossi banchieri centrali. Il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha promesso di stampare 40 miliardi di dollari al mese, mentre il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, si prepara a stampare "whatever it takes" (costi quel che costi) per calmierare i tassi di interesse dei paesi a rischio. Ma a gioire sono proprio i ricchi, da Wall Street a Piazza Affari, mentre l'uomo della strada teme l'inflazione. Che sta succedendo?

Innanzitutto, è necessario capire che la liquidità presente in un sistema economico non è rappresentata solo dalle banconote in circolazione (ed equivalenti elettronici) ma anche dai depositi bancari. Ogniqualvolta una banca apre una linea di credito a un cliente, aumenta la liquidità presente nel sistema. Il collasso di alcune banche e l'estrema fragilità di molte altre hanno ridotto il credito accordato, riducendo la liquidità aggregata. Questa riduzione spinge l'economia mondiale verso una pericolosa deflazione, ovvero una riduzione generalizzata dei prezzi. La deflazione è ancora più pericolosa dell'inflazione: con ricavi in diminuzione le imprese indebitate falliscono, mentre consumatori ed investitori, invece di spendere, ammassano liquidità, scommettendo che domani potranno comprare/investire a prezzi migliori.

PER CONTRASTARE il rischio di deflazione, le banche centrali hanno cercato di pompare più liquidità (leggi moneta) nel sistema. Purtroppo il canale tradizionale per farlo (ovvero il sistema bancario) è fortemente danneggiato. E' come innaffiare un giardino con una canna bucata: per quanta pressione si usi, il risultato lascia a desiderare. Per questo Ben Bernanke si è dovuto inventare nuove tecniche, tra cui il famigerato quantitative easing. Il nome esoterico nasconde la semplicità dell'idea: la banca centrale stampa moneta con cui compra titoli pubblici. In questo modo ottiene due obiettivi: aumenta la liquidità del sistema e riduce i tassi di interesse a lungo termine. Ai non addetti ai lavori questa manovra può sembrare folle, simile al finanziamento con moneta del deficit pubblico che in Italia portò l'inflazione al 20 per cento. In realtà, esiste una grossa differenza. La moneta emessa per finanziare il deficit non può essere facilmente ritirata dal sistema. Al contrario, se la moneta è emessa per comprare titoli, la banca centrale può ridurre la massa monetaria rivendendo i titoli che ha acquistato. Per questo la prima manovra genera necessariamente inflazione, mentre la seconda no. Ovviamente questa differenza sussiste solo nella misura in cui lo Stato sovrano non faccia default. Qualora i titoli pubblici non valessero più nulla, le due operazioni avrebbero esattamente lo stesso effetto.

SE QUESTA MANOVRA riesce nel suo intento, evita una caduta dei prezzi e riduce i tassi di interesse sul debito pubblico. Da un lato questo ha effetti benefici sul peso del debito (e quindi anche sul rischio di default). Dall'altro, riduce gli incentivi politici a contenere il deficit (e quindi il debito).

Per questo, Draghi ha promesso di intervenire solo a condizioni politicamente molto pesanti (un paese deve andare a Canossa e chiedere aiuto all'Europa). Queste condizioni, necessarie per evitare un abuso da parte dei governi europei, rischiano di svuotare l'effetto di liquidità desiderato. In America il quantitative easing (alla terza edizione) sembra essere stato abusato. Se dopo quattro anni dall'inizio della crisi, l'economia non si avvicina al pieno impiego, le cause non possono essere solo monetarie. Cercare di guarirle con il quantitative easing rischia di essere un errore. Ma in Europa il quantitative easing è stato sotto utilizzato. Con un'economia in recessione, il rischio di inflazione è molto remoto. Il vero rischio è quello della deflazione. Per combatterlo non basta promettere liquidità, bisogna immetterla nel sistema.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-vero-rischio-e-la-deflazione/2191487/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Il manager senza qualità
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2012, 05:24:09 pm
Opinioni

Il manager senza qualità

di Luigi Zingales


Costo del lavoro e produttività: l'Italia è in coda alle classifiche. Eppure i salari sono tra i più bassi. Si cercano le cause nell'eccessiva tutela sindacale o nel cuneo fiscale. Ma non si parla mai di chi gestisce le imprese. Che invece ha le sue colpe

(25 ottobre 2012)

Capri espiatori per la crisi non mancano: le banche americane, l'euro, la cancelliera tedesca Angela Merkel, i sindacati, il costo del lavoro. A questa lunga lista di indiziati, che vengono giornalmente vilipesi sui media, ne manca uno importante: i manager. E' possibile che il problema risieda li?

Guardiamo ai dati. Un importante indicatore del livello di competitività di un paese è il costo del lavoro per unità di prodotto: ovvero quale frazione dei ricavi deve essere spesa per compensare la forza lavoro. Tanto più elevata è questa frazione, tanto più è difficile per un paese esportare i propri beni e servizi. In Irlanda solo il 33 per cento dei ricavi va a compensare la forza lavoro, in Finlandia e Olanda il 51, in Spagna il 67, in Germania e Francia rispettivamente il 71 e 72. L'Italia è in cima alla classifica con il 74. E' il paese dell'area euro con il più elevato costo del lavoro per unità di prodotto e quindi con il più basso livello di competitività.

SE IL COSTO DEL LAVORO per unità di prodotto è così elevato, sembra naturale dare la colpa ai sindacati: il costo del lavoro è troppo alto. Non lo sentiamo ripetere ogni giorno dalla Confindustria? Eppure se guardiamo ai dati non è così. L'Italia è tra i paesi dell'area euro con i salari più bassi: 22 euro all'ora nel 2008, contro i 23 dell'Irlanda, i 31 della Francia e i 33 della Germania. Ma com'è possibile che l'Italia abbia il costo del lavoro per unità di prodotto più alto e i salari più bassi?
Oltre al salario ci sono due fattori che influenzano il costo del lavoro per unità di prodotto: il cuneo fiscale e la produttività del lavoro. Se i contributi sociali sono molto elevati, un lavoratore costa a un'impresa molto più di quanto percepisca, e quindi il costo del lavoro può essere molto elevato anche se i salari sono bassi. Questo è sicuramente un fattore. Nel 2008 i contributi sociali in Italia incidevano per 6,6 euro all'ora contro i 3,8 dell'Irlanda e i 5,2 della Spagna. Ma se è vero che in Italia i contributi sociali sono alti è anche vero che non sono così più alti di quelli del resto dei paesi più avanzati dell'area euro: 6,5 in Olanda, 7,1 in Germania e 9,2 in Francia. In percentuale del salario i nostri contributi sociali sono i più alti d'Europa, ma questo si deve principalmente al fatto che i nostri salari sono bassi, non che i nostri contributi sociali sono particolarmente elevati.

Per spiegare l'elevato costo del lavoro per unità di prodotto non rimane che la produttività. Effettivamente, la produttività del lavoro in Italia è tra le più basse d'Europa: solo 30 euro di prodotto all'ora, contro i 43 della Francia, i 47 della Germania, i 58 della Finlandia, i 60 dell'Olanda e i 70 dell'Irlanda. Tra i grandi paesi europei solo la Spagna fa lievemente peggio di noi: 29,4.

Chi vuole scaricare sempre la colpa sui sindacati potrebbe argomentare che la scarsa produttività italiana è dovuta all'eccessiva protezione dei nostri lavoratori. Certamente le rigide regole non aumentano la produttività, ma guardando i dati è difficile attribuire la colpa alle organizzazioni che difendono i lavoratori. Per di più all'interno dell'Ocse l'Italia non si distingue per alti tassi di protezione: tenendo conto di un indice che va da un minimo di uno a un massimo di cinque, la protezione si colloca da noi a quota 2,58, appena sopra la media di 2,36 e sotto i 2,63 della Germania e i 3 della Francia.

MA ALLORA DI CHI E' LA COLPA? Le inefficienze dello Stato giocano sicuramente un ruolo importante e così lo scarso livello di investimenti. Ma rimane anche la qualità del management. In un'analisi comparata di come vengono gestite le risorse umane, l'Italia è agli ultimi posti, sotto la Cina e appena sopra il Portogallo. La scarsa flessibilità imposta dai sindacati gioca un ruolo importante, ma lo stesso vale per il livello dei dirigenti. Ma perché la qualità del nostro management è così scarsa? E cosa si può fare per migliorarla? Di questo parlerò nella mia prossima rubrica.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-manager-senza-qualita/2193693/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Se Tokyo sembra Atene
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2012, 04:11:31 pm
Se Tokyo sembra Atene

di Luigi ZingaleS

06 novembre 2012


C'è una battuta che gira tra i miei colleghi: «Sai qual è la differenza tra il Giappone e la Grecia?». L'agghiacciante risposta è: «Tre anni». L'ovvio riferimento è alla situazione del debito pubblico. Per quanto paradossale, l'accostamento della grande potenza industriale asiatica al piccolo e disastrato Stato ellenico non è poi così assurdo.

Con un debito pubblico sul Pil del 230% e un deficit statale del 10%, quello che dovrebbe sorprendere non è il paragone tra Giappone e Grecia, ma il numero di anni richiesti perché la similitudine si avveri. Dopo tutto la Grecia, quando nel 2010 è entrata in crisi, aveva un rapporto debito Pil di solo il 143% e un deficit del 10 per cento. Ed è ancora più sorprendente che il mercato non se ne preoccupi affatto. Con un rendimento decennale dei titoli giapponesi di solo 0,78%, il Giappone sembra lungi dalla catastrofe ellenica. Sbagliano i miei colleghi o sbaglia il mercato? Temo il mercato. Ma vale la pena di capire perché.
Nonostante il livello di indebitamento molto più elevato, il Giappone ha numerosi vantaggi rispetto alla Grecia.
Innanzitutto, ha un sistema industriale capace ancora di esportare. Poi ha un sistema fiscale funzionante, che rende credibile un forte aumento degli introiti fiscali in futuro. In terzo luogo, il Giappone prende a prestito principalmente nella sua valuta, quindi ha sempre l'opzione di monetizzare il proprio debito. Infine, i giapponesi sono sempre stati forti risparmiatori, e quindi la stragrande maggioranza del debito è detenuto internamente. È come se lo stato giapponese finanziasse il proprio debito in moneta, ma i suoi cittadini ossequiosi, invece di spendere questa moneta, la risparmiassero, mettendola sotto il materasso.

Questa partita di giro, però, non può continuare tanto più a lungo. La coorte più numerosa di giapponesi, quelli nati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, sta per andare in pensione. Tra poco invece di risparmiare affannosamente comincerà a spendere i propri risparmi. La generazione successiva è molto meno numerosa e quindi il risparmio complessivo comincerà a scendere. La coorte che entra ora nel mercato del lavoro è molto meno numerosa di quella che sta per andare in pensione. Quindi ci sarà non solo un calo del risparmio, ma anche un calo tendenziale del Pil. Presto lo stato nipponico sarà costretto a finanziarsi almeno o in parte sui mercati internazionali, che sono meno ossequenti dei cittadini giapponesi e domanderanno un rendimento più elevato. Ma con un debito pari a 230% del Pil un aumento dei costo del debito si traduce velocemente in un deficit più elevato che impaurisce i mercati internazionali e fa aumentare maggiormente i tassi di interesse. Come noi italiani abbiamo imparato a nostre spese, il vortice diventa velocemente pericoloso. Il Giappone può uscirne?

Per ridurre il debito, il Giappone può aumentare le imposte. Ma per ogni punto percentuale di aumento del costo del debito il governo nipponico dovrebbe aumentare le imposte di 2,3 punti percentuali di Pil, con effetti recessivi sul Pil e un rischio di spirale negativa tra aumento delle imposte, recessione, aumento del deficit, e necessità di un ulteriore aumento delle imposte.
Il Giappone può monetizzare il proprio debito. Ma nel momento in cui il mercato realizza che questo succederà, il costo del debito aumenterà per compensare creditori internazionali del rischio di inflazione/svalutazione. Me se la situazione è così tragica, perchè il mercato non penalizza i titoli giapponesi? La semplice risposta èche la speculazione al ribasso è timorosa. Come ho scritto molte volte, chi gioca al ribasso rischia molto: a fronte di guadagni limitati rischia perdite illimitate. Per questo i ribassisti si muovono solo quando vedono la possibilità di un guadagno immediato. Con una Banca del Giappone seriamente impegnata in massicci acquisti di titoli pubblici, il rischio di perdite per un ribassista è troppo elevato. Per questo aspettano. Il mercato è anestetizzato dalla Banca Centrale.

Ma questa anestesia non è salutare, perchè ritarda il momento dell'aggiustamento. Più tardi il Giappone si sveglierà, più tragico sarà il risveglio. È un monito a tutti coloro che vorrebbero un Banca Centrale Europea altrettanto tollerante della Banca Centrale giapponese.

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-06/tokyo-sembra-atene-063652.shtml?uuid=AbR71Q0G


Titolo: Luigi ZINGALES. - Non ha vinto Obama, ma ha perso Romney
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2012, 11:28:08 pm
Zingales: Non ha vinto Obama, ma ha perso Romney

di Luigi Zingales
08 novembre 2012


Obama ha vinto. Ma il clima (anche atmosferico) della sua vittoria è molto diverso da quello di quattro anni fa. Nel 2008 la notte della vittoria era tiepida, con una luna piena che illuminava a giorno un Grant Park dove a celebrare non c'erano solo i democratici, ma tutta l'America.

Dopotutto, in quella campagna elettorale Obama era andato ripetendo che in America non esistono Stati repubblicani e Stati democratici, ma solo gli Stati Uniti d'America. E l'America unita aveva celebrato l'alba di quella che sembrava una nuova era. Ieri a Chicago invece faceva freddo, pioveva, e le celebrazioni erano rinchiuse nella sede locale delle fiere aziendali. A partecipare c'erano solo i democratici, felici solo che non aveva vinto il loro nemico.
Ebbene sì. Ieri non ha vinto Obama, ma ha perso Romney.
Un presidente che in quattro anni ha aumentato il debito del 50%, non è riuscito a far scendere la disoccupazione al di sotto del 7,8%, e non ha presentato un piano serio per ridurre l'esplosione futura delle spese sanitarie per gli anziani (il cui fondo diventerà insolvente tra 11 anni), era facilmente battibile.

Romney non è stato in grado di farlo, nonostante gli americani abbiano rinnovato la loro fiducia ai candidati Repubblicani, che hanno mantenuto la maggioranza in Congresso. È stato sconfitto il Romney tecnocratico: competente, ma incapace di parlare al cuore degli Americani. È stato sconfitto il Romney super tattico, bravissimo (forse troppo) ad adattarsi agli umori degli elettori, ma incapace di generare fiducia. È stato sconfitto il Romney troppo succube a quell'America bigotta che crede che il concepimento a seguito dello stupro sia «un dono del Signore» (come ha detto in un dibattito il candidato repubblicano al Senato in Indiana) e che la migliore educazione sessuale sia l'insegnamento dell'astinenza.

Questa vittoria suo malgrado, rende difficile al presidente Obama gestire il suo secondo mandato, soprattutto con un Congresso a maggioranza repubblicana. Difficoltà aumentata dalla mancanza di chiarezza del suo programma. Una delle poche proposte chiare è un aumento delle imposte per chi ha un reddito familiare maggiore di 250mila dollari l'anno. Questo provvedimento è lungi dal risanare il deficit federale che viaggia al 10% e non dà segnali di ridursi. Una politica fiscale accomodante nel colmo della più grande crisi economica dal 1929 poteva andare bene, ma continuare quattro anni dopo mette a repentaglio la stabilità finanziaria degli Stati Uniti.
La piattaforma elettorale di Obama contiene anche delle proposte utili per combattere la disoccupazione, come un piano per riqualificare due milioni di disoccupati ed assumere più insegnanti di matematica e scienze. Contiene infine 75 miliardi di dollari di spese in infrastrutture. Ma siamo ad una vecchia strategia di «tassa e spendi» che ha fallito nella Spagna di Zapatero e sta fallendo nella Francia di Hollande. E siamo lungi dalle speranze di un nuovo modo di fare politica promesso quattro anni fa.

Questo nuovo modo di fare politica non si è visto neppure nella regolamentazione finanziaria. La legge Dodd-Frank ha certamente degli aspetti positivi, come la creazione di un'agenzia di protezione dei consumatori, ma non risolve il problema del «troppo grande per fallire». Ed è difficile pensare che la stessa amministrazione che l'ha approvata possa cambiarla.
L'unica speranza del secondo mandato è che, libero da preoccupazioni elettorali, Obama ritorni ad essere quello che aveva promesso di essere nella sua prima campagna elettorale: un presidente bipartisan che tratti i suoi elettori come cittadini adulti e responsabili, dicendo loro le verità (anche amare) e non vendendo illusioni. Se volesse fare questo dovrebbe nominare come ministro del Tesoro Erskine Bowles, co-presidente della commissione sulla sostenibilità fiscale, impegnandosi ad approvare le conclusioni di quella commissione. Sono proposte molto serie e coraggiose per risanare il bilancio federale, tra cui l'eliminazione dei sussidi all'agricoltura, un aumento dell'età pensionabile, ed un aumento dei contributi sociali per sostenere il peso pensionistico futuro. Sarebbe difficile per i Repubblicani opporsi a questo piano, cui hanno in parte contribuito.

Libero da necessità di raccogliere ulteriori fondi elettorali, Obama potrebbe anche dedicarsi ad una riforma dei finanziamenti elettorali. Oggi il tipico rappresentate al Congresso è costretto a fare 400 eventi di raccolta di fondi all'anno (più di uno al giorno). È un sistema infernale in cui le imprese si sentono ricattate e i parlamentari costretti a mendicare, ma da cui nessuno può deviare, pena la non rielezione. Per questo solo un presidente nel suo secondo mandato può farsi promotore di una riforma di questo tipo.
Solo se si impegnasse in queste riforme e diventasse quel presedente che aveva promesso di essere, Obama potrebbe passare alla storia per qualcosa di più che essere il primo presidente nero degli Stati Uniti.


da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-08/coraggio-agire-063558.shtml?uuid=AbXaL40G


Titolo: Luigi ZINGALES. - Doctor Fiscal e Mister Cliff
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 04:39:10 pm
Opinione

Doctor Fiscal e Mister Cliff

di Luigi Zingales

Obama vuole correggere la legge sul precipizio fiscale aumentando le tasse sui più ricchi. Il Congresso, a maggioranza repubblicana, vuole invece tagliare la spesa pubblica. Trovare un accordo sarà la prima sfida del presidente Usa

(29 novembre 2012)

Negli Stati Uniti lo chiamano precipizio fiscale (fiscal cliff). Contrariamente a quanto il nome lascerebbe intendere, però, non significa un imminente buco di bilancio. Al contrario, trattasi di una serie di regole che forzano il governo americano, tra i più spendaccioni al mondo, ad una più rigida disciplina fiscale. Se il Congresso non cambia la legge prima della fine dell'anno, il "precipizio fiscale" produce un aumento automatico delle imposte personali sul reddito pari al 19,6 per cento e ad una riduzione automatica delle spese pari allo 0,25 per cento. Il risultato sarebbe una contrazione del deficit americano dal 6,5 per cento del Pil nel 2012 al 4 per cento nel 2013 e a 1,2 per cento nel 2021. Noi in Europa lo chiameremmo "fiscal compact" o "austerità tedesca". Perché in America lo chiamano precipizio?
Innanzitutto perché in questi ultimi anni gli Stati Uniti si sono abituati a una politica fiscale molto più espansiva dell'Europa. Se lo sono potuti permettere perché il loro debito iniziale era relativamente basso. Ma anche in America deficit così elevati (tra il 6,5 e il 10 per cento del Pil), non sono sostenibili nel lungo periodo. Di questo passo il debito pubblico americano (al 69 per cento del Pil nel 2011) salirebbe al 100 per cento nel 2021.

DI QUI LA NECESSITÀ di un aggiustamento. Paragonato alle ricette che la Troika economica (Bce, Fmi e Ue) ha imposto alla Grecia, il piano implicito nel fiscal cliff è moderato. Eppure quando la ricetta viene applicata agli Stati Uniti diventa agli occhi degli americani non solo draconiana, ma addirittura terrificante. L'America teme una forte caduta del Pil. E non c'è dubbio che l'effetto immediato di una contrazione fiscale sul Pil sia negativo. Se le famiglie improvvisamente si trovano meno soldi in tasca da spendere, ridurranno (almeno in parte) i consumi. Di conseguenza la domanda interna si ridurrà e le imprese dovranno sforzarsi di trovare nuovi mercati. Per questo motivo l'effetto immediato è negativo, ma poi questo effetto negativo si attenua nel tempo. Questo non significa che l'aggiustamento non debba avvenire. Prima o poi anche lo Stato americano deve risanare i propri conti e più aspetta a farlo e più costoso questo aggiustamento sarà (come noi italiani ben conosciamo).

MA PERCHE' lo stesso Congresso che oggi è chiamato ad allargare i cordoni della borsa due anni fa ha imposto le rigide regole che producono questo precipizio? La disciplina fiscale è come una dieta. Sappiamo che ci fa bene, ma vorremmo sempre posporne l'inizio alla settimana prossima. Lo stesso ha fatto il Congresso americano. Preoccupato dei deficit persistenti, ha deciso di mettere a dieta lo Stato. Per motivi politici (gli aumenti di imposte e i tagli di spesa sono impopolari) non ha voluto farlo immediatamente. Ha preferito impegnarsi per il futuro. Così due anni fa il Congresso ha esteso la riduzione delle aliquote fiscali introdotta da Bush nel 2003 per soli due anni e ha introdotto dei tagli di spesa con decorrenza posticipata. Il fiscal cliff altro non è che il ripido sentiero che il Congresso si è autoimposto per far dimagrire il deficit. Purtroppo, come ben sappiamo, è facile sgarrare alle regole dietetiche autoimposte. Così può fare il Congresso. E tutti si aspettano che lo faccia, evitando all'ultimo momento il "precipizio."

Come per la dieta, anche per l'austerità non è bene posticipare. Se si teme che la cura sia troppo violenta, meglio cominciarla subito ma in forma più lieve. Questo è quello oggi dovrebbe fare il Congresso americano. Se effettivamente lo farà, dipende dalla relazione tra la maggioranza repubblicana e il presidente Obama, da poco rieletto. Ogni proposta che rimandi integralmente il problema avrà l'opposizione della maggioranza repubblicana. Ogni proposta che non aumenti le tasse sulla parte più ricca della popolazione non avrà il supporto del Presidente. La soluzione ottimale, come spesso accade, sta nel mezzo. Conseguirla sarà la prima sfida del secondo mandato di Obama.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/doctor-fiscal-e-mister-cliff/2195697/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Doctor Fiscal e Mister Cliff
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:58:49 pm
Opinione

Doctor Fiscal e Mister Cliff

di Luigi Zingales

Obama vuole correggere la legge sul precipizio fiscale aumentando le tasse sui più ricchi. Il Congresso, a maggioranza repubblicana, vuole invece tagliare la spesa pubblica. Trovare un accordo sarà la prima sfida del presidente Usa

(29 novembre 2012)

Negli Stati Uniti lo chiamano precipizio fiscale (fiscal cliff). Contrariamente a quanto il nome lascerebbe intendere, però, non significa un imminente buco di bilancio. Al contrario, trattasi di una serie di regole che forzano il governo americano, tra i più spendaccioni al mondo, ad una più rigida disciplina fiscale. Se il Congresso non cambia la legge prima della fine dell'anno, il "precipizio fiscale" produce un aumento automatico delle imposte personali sul reddito pari al 19,6 per cento e ad una riduzione automatica delle spese pari allo 0,25 per cento. Il risultato sarebbe una contrazione del deficit americano dal 6,5 per cento del Pil nel 2012 al 4 per cento nel 2013 e a 1,2 per cento nel 2021. Noi in Europa lo chiameremmo "fiscal compact" o "austerità tedesca". Perché in America lo chiamano precipizio?
Innanzitutto perché in questi ultimi anni gli Stati Uniti si sono abituati a una politica fiscale molto più espansiva dell'Europa. Se lo sono potuti permettere perché il loro debito iniziale era relativamente basso. Ma anche in America deficit così elevati (tra il 6,5 e il 10 per cento del Pil), non sono sostenibili nel lungo periodo. Di questo passo il debito pubblico americano (al 69 per cento del Pil nel 2011) salirebbe al 100 per cento nel 2021.

DI QUI LA NECESSITÀ di un aggiustamento. Paragonato alle ricette che la Troika economica (Bce, Fmi e Ue) ha imposto alla Grecia, il piano implicito nel fiscal cliff è moderato. Eppure quando la ricetta viene applicata agli Stati Uniti diventa agli occhi degli americani non solo draconiana, ma addirittura terrificante. L'America teme una forte caduta del Pil. E non c'è dubbio che l'effetto immediato di una contrazione fiscale sul Pil sia negativo. Se le famiglie improvvisamente si trovano meno soldi in tasca da spendere, ridurranno (almeno in parte) i consumi. Di conseguenza la domanda interna si ridurrà e le imprese dovranno sforzarsi di trovare nuovi mercati. Per questo motivo l'effetto immediato è negativo, ma poi questo effetto negativo si attenua nel tempo. Questo non significa che l'aggiustamento non debba avvenire. Prima o poi anche lo Stato americano deve risanare i propri conti e più aspetta a farlo e più costoso questo aggiustamento sarà (come noi italiani ben conosciamo).

MA PERCHE' lo stesso Congresso che oggi è chiamato ad allargare i cordoni della borsa due anni fa ha imposto le rigide regole che producono questo precipizio? La disciplina fiscale è come una dieta. Sappiamo che ci fa bene, ma vorremmo sempre posporne l'inizio alla settimana prossima. Lo stesso ha fatto il Congresso americano. Preoccupato dei deficit persistenti, ha deciso di mettere a dieta lo Stato. Per motivi politici (gli aumenti di imposte e i tagli di spesa sono impopolari) non ha voluto farlo immediatamente. Ha preferito impegnarsi per il futuro. Così due anni fa il Congresso ha esteso la riduzione delle aliquote fiscali introdotta da Bush nel 2003 per soli due anni e ha introdotto dei tagli di spesa con decorrenza posticipata. Il fiscal cliff altro non è che il ripido sentiero che il Congresso si è autoimposto per far dimagrire il deficit. Purtroppo, come ben sappiamo, è facile sgarrare alle regole dietetiche autoimposte. Così può fare il Congresso. E tutti si aspettano che lo faccia, evitando all'ultimo momento il "precipizio."

Come per la dieta, anche per l'austerità non è bene posticipare. Se si teme che la cura sia troppo violenta, meglio cominciarla subito ma in forma più lieve. Questo è quello oggi dovrebbe fare il Congresso americano. Se effettivamente lo farà, dipende dalla relazione tra la maggioranza repubblicana e il presidente Obama, da poco rieletto. Ogni proposta che rimandi integralmente il problema avrà l'opposizione della maggioranza repubblicana. Ogni proposta che non aumenti le tasse sulla parte più ricca della popolazione non avrà il supporto del Presidente. La soluzione ottimale, come spesso accade, sta nel mezzo. Conseguirla sarà la prima sfida del secondo mandato di Obama.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/doctor-fiscal-e-mister-cliff/2195697/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - 2013, l'Europa non riparte
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2012, 04:16:35 pm
Economia

2013, l'Europa non riparte

di Luigi Zingales

L'America sembra riprendersi grazie anche al nuovo petrolio.

La Cina cresce. Ma le difficoltà dell'euro non si placano.

E per l'Italia siamo all'Anno meno uno

(27 dicembre 2012)

"Passeggere . Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore . Oh illustrissimo sì, certo.
Passeggere . Come quest'anno passato?
Venditore . Più più assai.
Passeggere . Come quello di là?
Venditore . Più più, illustrissimo.
Passeggere . Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore . Signor no, non mi piacerebbe."

Non occorre condividere il pessimismo leopardiano (nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere) per predire che l'anno che sta arrivando non sarà facile, almeno per quanto riguarda l'Italia. C'e' un grande desiderio di vedere la luce alla fine del lungo tunnel della recessione. Non voglio fare l'uccello del malaugurio, ma mi tocca dire che il 2013 non sarà l'anno della ripresa. Nel migliore dei casi sarà l'anno meno uno. Meno uno come il tasso di crescita previsto per il Prodotto Interno Lordo italiano. E meno uno come l'anno prima dell'anno zero del nuovo ciclo. La ripresa arriverà, ma solo nel 2014.

Il motivo per cui questa crisi, cominciata in America nell'ormai lontano 2007, non accenna a finire è perché non è una crisi semplice, ma l'intersezione di tre crisi diverse: la crisi dei mutui subprime in America, la crisi dell'euro, e la crisi del modello di welfare occidentale. Paradossalmente la prima crisi, quella che ha innescato il cataclisma, si sta risolvendo. Le altre, invece, sono ancora agli inizi.

La storia è piena di sbornie di euforia, seguite da pesanti crisi finanziarie. La bolla immobiliare americana finanziata dai mutui subprime altro non è che uno di questi episodi. Quando i prezzi delle case in America (ma anche in Spagna) crescevano a due cifre anno dopo anno, era difficile resistere alla tentazione di comprare. Chi è saltato sul treno all'inizio della bolla, indebitandosi fino al collo per comprare una casa più grande o una seconda o terza casa, si è arricchito a dismisura. Gli altri, che hanno cercato di imitare questi fortunati, si sono trovati con il cerino in mano quando i prezzi delle case hanno prima smesso di crescere e poi sono crollati (in media del 30 per cento).

Il risveglio dopo un periodo di euforia finanziaria è simile a quello dopo una sbornia: cerchio alla testa e depressione. I consumatori, aggravati dal debito contratto durante il boom, sono timorosi. Le banche, piene di crediti inesigibili, non concedono prestiti. E le imprese, senza consumatori e senza credito, faticano ad espandersi. Non a caso, la storia economica ci insegna che dopo ogni crisi finanziaria la ripresa è molto lenta. La crisi attuale non fa eccezione. Invece di recuperare velocemente, gli Stati Uniti ci hanno messo quattro anni per raggiungere il livello di Pil pre crisi. La buona novella è che questo livello è stato raggiunto e sorpassato e gli Stati Uniti stanno consolidando la loro ripresa che sarebbe più robusta se non ci fossero le altre due crisi a complicare la vita. Purtroppo l'Italia, che non è stata investita direttamente dalla crisi del subprime, stenta più degli Stati Uniti. Il Pil è ancora più basso del livello prima della crisi (di ben sette punti percentuali) e il gap non sembra destinato a colmarsi il prossimo anno. Di questo dobbiamo ringraziare le altre due crisi.

La più acuta delle due è quella dell'euro, che fa tremare non solo gli europei, ma anche gli americani. Se il caso subprime va addebitato al mercato, la crisi dell'euro è interamente colpa dei politici. Non solo non sono riusciti ad evitarla, ma l'hanno espressamente voluta. Quando la moneta comune fu introdotta c'era piena consapevolezza tra i suoi creatori che in questi termini non sarebbe stata sostenibile. La speranza dei padri fondatori era che l'inevitabile crisi avrebbe generato una pressione politica verso una maggiore integrazione europea. Il cuore è stato gettato oltre l'ostacolo nella convinzione che al momento giusto il resto del corpo avrebbe seguito. Purtroppo l'ostacolo sembra più alto del previsto.

Perché una moneta comune funzioni, i paesi che l'adottano devono avere una forte mobilità del lavoro, meccanismi di trasferimento fiscale ed essere soggetti a shock simili. Nessuna di queste tre condizioni vale per l'Europa. Non è così semplice per i tedeschi spostarsi a lavorare in Spagna o per gli spagnoli in Germania. Ai problemi di lingua si sommano forti differenze culturali. Questa scarsa mobilità rende difficile assorbire gli shock locali. Lo scoppio della bolla Internet ha colpito la Germania molto più della Spagna, mentre l'espansione della Cina ha beneficiato l'export tedesco molto più di quello spagnolo. Difficile dunque disegnare una politica monetaria che funzioni per entrambi i paesi. La politica monetaria all'inizio del millennio andava bene per la Germania, ma era troppo inflazionistica per la Spagna. Oggi, viceversa, va bene per la Germania, ma è troppo restrittiva per la Spagna.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/2013-leuropa-non-riparte/2197208/10


Titolo: Luigi ZINGALES. - La montagna del debito resta intatta
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2013, 06:17:22 pm

La montagna del debito resta intatta

di Luigi Zingales

03 gennaio 2013


Winston Churchill amava dire che si può essere sicuri che gli americani facciano sempre la cosa giusta, ma solo dopo aver sperimentato ogni possibile alternativa. L'accordo fiscale per evitare il famigerato fiscal cliff raggiunto ieri dal Congresso Usa è stato sicuramente conseguito dopo aver esplorato ogni possibile alternativa. Ma è la cosa giusta? Se l'obiettivo era di evitare che la debole ripresa americana si arresti subito, sì. Se invece era quello di risolvere i problemi strutturali della finanza pubblica, purtroppo la risposta è no.

A dispetto del nome, il precipizio fiscale evitato non era il rischio di insolvenza per il governo americano, ma un forte aumento delle imposte accompagnato da forti tagli di spese. In Europa lo chiameremmo "fiscal compact". Era il risultato della fine dei tagli temporanei alle imposte introdotti da Bush nel 2001 e rinnovati da Obama nel 2010 e di tagli automatici delle spese, concordati dai repubblicani nell'estate del 2011 in cambio di un innalzamento del tetto sul debito. Il precipizio in cui l'America sarebbe caduta altro non era che la recessione che si accompagna ad ogni stretta fiscale (vedi Italia 2012). Visto che sia repubblicani che democratici volevano evitare questo rischio, perché tanto dramma?
Perché gli Stati Uniti non devono solo ripianare il loro deficit (che rimane al 7% del Pil), ma anche prepararsi a fronteggiare il problema strutturale che affligge tutte le democrazie occidentali: l'insostenibilità fiscale dell'attuale modello di welfare. Finora questo sistema era stato finanziato trasferendo una parte rilevante del costo sulle generazioni future. In un mondo in forte crescita economica e demografica, il peso imposto sulle generazioni future era minimo perché costoro erano più ricche e numerose.

Purtroppo la riduzione dei tassi medi di crescita e il crollo demografico non solo rendono impossibile questo trasferimento (le generazioni future sono meno numerose e non necessariamente più ricche), ma forzano la generazione presente a cominciare a pagare il debito contratto da quelle passate.

In parole povere questo significa che per far quadrare i conti bisogna cominciare a ridurre i costi di alcuni "entitlement" o, come diremmo noi impropriamente, diritti acquisiti: assistenza sanitaria agli anziani (Medicare) e pensioni. Anche prima della riforma Obama, gli ultra65enni americani godevano di assistenza statale gratuita. Con la riduzione delle nascite che aumenta l'età media della popolazione, l'allungamento della vita media, e il progredire della scienza medica in grado di fare miracoli ma a costi molto elevati, dare a tutti tutta l'assistenza medica possibile non è sostenibile. Già oggi (secondo le stime dell'Urban institute) il tipico lavoratore che guadagna 35mila dollari l'anno nel corso della sua vita riceve 210mila dollari più di quello che contribuisce a Medicare. Se poi è sposato e la moglie non lavora il beneficio netto raddoppia. Lo stesso vale per le pensioni. Nel corso della sua vita il tipico lavoratore riceve benefici pensionistici 200mila dollari in più di quello che paga. Chiaramente non è possibile risolvere questa situazione solo tassando di più i ricchi: anche negli Stati Uniti non ce ne sono abbastanza. Bisogna ridurre i benefici promessi.

Ma politicamente qualsiasi riduzione degli entitlement è molto costosa. In Italia lo abbiamo fatto sotto minaccia dello spread. In America, che non ha problemi di spread, il sistema politico ha cercato di creare artificialmente una crisi (il fiscal cliff) per forzare entrambi i partiti a delle scelte politicamente costose. Purtroppo, invece di sedersi intorno a un tavolo e cercare un accordo sostanziale, democratici e repubblicani hanno preferito continuare con la loro retorica elettorale. I democratici chiedendo che a pagare il conto siano solo i ricchi. I repubblicani opponendosi a qualsiasi aumento di imposte. Alla fine sul fronte imposte hanno raggiunto un compromesso ragionevole: aumenteranno le tasse solo per quelli che guadagnano più di 400mila dollari individualmente o 450mila come famiglia (negli Stati Uniti esiste il cumulo dei redditi tra marito e moglie), ovvero meno dell'1% della popolazione.

Non altrettanto è stato fatto per i tagli di spesa. Alcuni deputati repubblicani hanno cercato di far passare alla Camera una proposta che includesse anche dei tagli, ma non sono riusciti a trovare un accordo neppure tra di loro. Per questo il problema dei tagli automatici di spesa è stato rimandato a un dibattito a fine mese. Come è stata rimandata la discussione sull'innalzamento del tetto di debito, che creerà tra poco un nuovo fiscal cliff, questa volta più pericoloso perché se non si innalza il tetto del debito, il governo americano diventa insolvente. In altri termini, nonostante l'euforia delle Borse non c'è nulla da celebrare. Il fiscal cliff non ha funzionato nel costringere i partiti a decisioni politicamente difficili. Hanno fatto quello che riescono a fare meglio: rimandare la decisione. Lo avevano fatto a luglio 2011 e lo rifaranno a fine mese quando il fiscal cliff si riproporrà. Più gli Stati Uniti tardano a intervenire su questi entitlement, più costoso sarà farlo. Lentamente, ma inesorabilmente, l'America sta sprofondando nel precipizio vero, da cui non si riesce ad emergere con un semplice accordo la notte di Capodanno. Noi ne sappiamo qualcosa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-03/montagna-debito-resta-intatta-063608.shtml?uuid=Ab84awGH


Titolo: Luigi ZINGALES. - Mps, ecco chi sono i complici
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 03:55:14 pm
Opinione

Mps, ecco chi sono i complici

di Luigi Zingales

Mussari sarà un mariuolo, però a reggergli il gioco sono stati in tanti.

Il Pd di Bersani, certo, ma anche Draghi, Tremonti, Berlusconi e lo stesso Mario Monti

(01 febbraio 2013)

"Una storia italiana dal 1472". Così recita il motto del Monte dei Paschi di Siena (Mps). Ed è vero. La storia torbida di Mps e il suo drammatico declino rappresentano la storia italiana, lo specchio di quello che sta succedendo al nostro Paese.
Come all'epoca di Mani pulite, l'intero sistema cerca di scaricare la responsabilità su di un singolo "mariuolo" , in questo caso Giuseppe Mussari. Ma a differenza di Mario Chiesa, questo mariuolo non era un signore qualsiasi, era il presidente della Associazione bancaria italiana. «Qui assiste au crime assiste le crime» (chi assiste passivamente a un crimine, ne diventa complice), diceva Victor Hugo. In questo senso morale, anche se non necessariamente in quello giuridico, l'intera classe dirigente italiana è complice di questo disastro.

E' moralmente complice innanzitutto il Pd di Bersani, che tramite il controllo di Regione, Provincia e Comune nomina 14 dei 16 consiglieri della Fondazione Mps. «Noi Mussari l'abbiamo cambiato un anno fa», si vanta Massimo D'Alema, non capendo che così si assume la responsabilità di aver nominato il mariuolo presidente della banca e di averlo tenuto lì per sei anni, durante i quali il valore della banca si è ridotto di 15 miliardi.

E' moralmente complice la Banca d'Italia, che quell'istituto doveva vigilare. Se basta, come ha sostenuto il governatore Visco, un mariuolo per ingannare la Vigilanza, a cosa serve la Vigilanza?

E' moralmente complice anche Mario Draghi, che in veste di governatore ha autorizzato il folle acquisto di Antonveneta da parte di Mps nel 2007, un acquisto fatto in fretta, violando i più basilari principi di buona corporate governance, senza una "due diligence", a un valore di 4 miliardi superiore al prezzo pagato dal Santander solo tre mesi prima. E' moralmente complice anche di non aver agito - a quanto risulta dai bollettini di vigilanza - dopo che i suoi ispettori nel 2010 avevano trovato «profili di rischio non adeguatamente controllati» in Mps, come evidenzia il rapporto interno Bankitalia rivelato da Linkiesta.
E' moralmente complice Giulio Tremonti che come ministro del Tesoro avrebbe dovuto vigilare sulla solidità delle fondazioni e invece ha permesso alla Fondazione Montepaschi di indebitarsi per mantenere il controllo della banca.

E' moralmente complice anche Berlusconi che da premier ha avallato le scelte di Tremonti, rifiutandosi di criticare «un'istituzione a cui vuole bene» perché grazie a essa potè costruire Milano 2 e Milano 3.

E' moralmente complice Mario Monti che ha concesso 3,9 miliardi di aiuti senza chiedere prima una pulizia radicale della banca. Come è responsabile di aver accettato in lista Alfredo Monaci, consigliere di amministrazione di Mps durante la gestione Mussari e oppositore dell'operazione di pulizia promossa (molto tardivamente) dal sindaco di Siena. E' questa la società civile che Monti porta in politica?

E' moralmente complice l'intero sistema bancario italiano. Mussari non solo è stato eletto presidente dell'Abi, ma è stato rieletto all'unanimità dopo che erano già trapelate le notizie di indagini sul suo conto. E Mussari non è stato un presidente qualsiasi: è stato la punta di sfondamento della lobby bancaria che ha chiesto a gran voce una causa legale contro il povero direttore della European banking association Andrea Enria, "colpevole" di voler imporre in maniera rigorosa gli standard europei di capitalizzazioni delle banche. E che ha tuonato lungamente per imporre una patrimoniale a difesa dei titoli di Stato, su cui il suo Montepaschi stava speculando per ripianare i buchi di bilancio.

Se tutti sono complici, come possiamo evitare di diventare complici anche noi? Richiedendo come condizione del nostro voto che il partito di nostra fiducia si impegni a sostenere una commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da una persona al di sopra di ogni sospetto, che indaghi a 360 gradi sull'affare Monte Paschi e le colpe in vigilando di tutti gli organi istituzionali. E se il nostro partito non lo fa, votiamone un altro. Il potere di cambiare è nostro, riprendiamocelo!

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/mps-ecco-chi-sono-i-complici/2199581/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Per prima cosa Obama ristabilisca la solidità fiscale degli...
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2013, 05:32:10 pm
Esteri
13/02/2013 - intervista

“Per prima cosa Obama ristabilisca la solidità fiscale degli Stati Uniti”


Zingales: «Il Medicare e il Social Security aumenteranno di costo, evitare la direzione presa dall’Italia»

Francesco Semprini

«Riformare il Medicare e il Social Security, e ristabilire la solidità fiscale nel lungo periodo sono gli obiettivi primari che deve perseguire Barack Obama in questo secondo mandato». Luigi Zingales, professore di finanza alla University of Chicago Booth School of Business, ed uno degli ispiratori del movimento «Fare, per fermare il declino», analizza, alla luce del discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama, opportunità e rischi che attendono il presidente americano nei prossimi quattro anni.

 

Qual è la priorità di Barack Obama? 

«Risolvere la situazione fiscale nel lungo periodo, ovvero mettere gli Stati Uniti su solide basi finanziarie per molti anni a venire. Questo è quello che tranquillizzerebbe di più dal punto di vista economico, perché al di là di un deficit che rimane oggi molto forte, il problema è che sia il Medicare che il Social Security, ovvero i programmi previdenziali pubblici, aumenteranno notevolmente di costo e non c’è incremento fiscale che possa contenere questa esplosione. Quindi o si va a incidere direttamente su queste aspettative acquisite, o gli Stati Uniti andranno inesorabilmente nella direzione dell’Italia. Non c’è presidente migliore di uno al secondo mandato per affrontare queste problematiche, visto che non è in gioco una sua rielezione. Ancor di più perché tutte queste previsioni sono anteriori all’entrata in vigore dell’Obamacare, la riforma sanitaria voluta dall’inquilino della Casa Bianca, che andrà sicuramente a gonfiare il deficit visto che ex ante i costi sono sempre sottostimati». 

 

Nel primo mandato si è imputato ad Obama di aver perseguito a tutti i costi la riforma sanitaria tralasciando aspetti economici che avrebbero dovuto avere la precedenza. Non ritiene che possa accadere lo stesso oggi con la riforma dell’immigrazione? 

 

«Non ne sono convinto. Innanzi tutto non ci troviamo in una situazione drammatica come quella del 2009, se il Paese non si fosse trovato in emergenza nazionale quattro anni fa l’approvazione dell’Obamacare sarebbe stata anche appropriata come tempistica. Inoltre una riforma dell’immigrazione è essenziale sia perché legalizza una parte importante della popolazione e secondo rafforza ulteriormente l’integrazione della componente ispanica che è una componente importantissima e crescente. Gli Stati Uniti sono sempre vissuti con una politica dell’immigrazione complessivamente aperta e questo ha avuto un significato importante non solo dal punto di vista politico ma economico, nel senso che ha attirato imprenditori, scienziati e professionisti. E’ importante rilanciare questa visione, uno dei grandi limiti del partito repubblicano è che si è schierato su posizioni molto più protezionistiche. Adesso Rubio cerca di rincorrere la popolazione ispanica perché il Gop ha capito che non vincono le elezioni senza di quella però non c’è una visione organica in questo senso». 

 

Qual è lo scenario in materia di «fiscal cliff» con l’avvicinarsi della scadenza di metà febbraio? 

 

«Innanzi tutto vorrei dire che l’accordo raggiunto all’inizio dell’anno è stato presentato come una vittoria di Obama, ma secondo me nel lungo periodo si rivelerà una vittoria dei repubblicani. Il grosso dibattito su cui Obama aveva carta bianca era l’aumento delle tasse ai ricchi e su questo lui ha vinto le elezioni incassando l’appoggio della maggioranza dei cittadini. Il punto è capire cosa si intenda per ricchi: oggettivamente 250 mila dollari all’anno per nucleo familiare, tenendo conto della cumulabilità degli stipendi, considerando che si tratta di una somma al lordo di contributi e tasse, e alla luce del costo della vita specie in alcune realtà americane, non si può certo considerare un reddito da ricchi. I repubblicani, che volevano fissare la soglia del milione di dollari, evidentemente esagerata, hanno raggiunto un compromesso ragionevole tirando la linea a 450 mila dollari. La cosa importante da sottolineare è che con questa manovra sono aumentate le imposte in termini di gettito fiscale di 60-70 miliardi di dollari l’anno contro un aumento del deficit di mille miliardi, quindi non si è fatto nulla. Di fatto non ci sono ricchi a sufficienza da tassare per risolvere il problema fiscale, bisogna adottare un altro approccio, ovvero procedere a tagli massicci di spesa». 

 

Cosa ne pensa dell’intesa sull’innalzamento del tetto di debito? 

 

«Spostando la scadenza non hanno risolto il problema del tetto di debito, lo hanno solo rimandato. Su questo devo dire, tuttavia, che innalzare il tetto di debito è una cosa intelligente perché è un meccanismo che crea delle crisi endogene che servono a riportare l’attenzione sul problema. In sostanza alzare il tetto può essere utile nel breve periodo, il fatto è che abbiamo tassato i ricchi più di quanto abbia fatto Clinton, a questo punto o torniamo al sistema di imposte pre-reaganiano, oppure dobbiamo agire sulle spese». 

 

Una delle certezze dell’Obama 2.0 è il rafforzamento dell’asse con Bernanke, ma quanto possono andare avanti ancora le operazioni di alleggerimento? 

 

«Parlando con alcuni membri del Board della Banca centrale Usa è emerso chiaramente che si continuerà in questa direzione ancor a lungo visto che non si può fare altrimenti anche perché le aspettative future sull’inflazione rimangono basse mentre quelle sulla disoccupazione sono ancora elevate». 

 

Per alcuni questo è l’anno della grande rotazione sui mercati, dall’obbligazionario all’azionario. Nel post-crisi le Borse sono le prime a reagire, ma in questo caso sono indicatrici di una ripresa solida? 

 

«Sicuramente gli indici di Borsa sono influenzati molto anche dalla politica monetaria quindi il fatto che i mercati vadano a gonfie vele è anche dovuto al Quantitative easing. Tuttavia sono convinto che, salvo sorprese di varia natura, gli Stati Uniti stiano imboccando la via di una ripresa abbastanza solida. Sono due gli elementi positivi, il mercato immobiliare residenziale sembra aver girato in meglio e quindi dovrebbe iniziare a produrre occupazione invece che a toglierla. L’altro è questa grande vivacità nel settore energetico con le tecnologie del fracking destinati ad agevolare l’indipendenza degli Stati Uniti dal punto di vista energetico. Al di là dell’indipendenza, il fatto che ci sia un boom petrolifero fa bene all’occupazione così come il boom del gas che non è un bene facilmente trasportabile e questo fa si che i suoi prezzi negli Stati Uniti siano particolarmente bassi. Il risultato è una riduzione della bolletta energetica che rappresenta un elemento competitivo». 

 

Quanto dovremmo aspettare per avere un mercato del lavoro in salute 

 

«Dovremmo avere un paio di anni di espansione almeno del 2-2,5%, perché purtroppo la dinamica della popolazione è tale che se l’economia cresce a quella velocità a stento assorbiamo la nuova forza lavoro. In sostanza abbiamo bisogno di alcuni anni di crescita forte, questa è la sfida». 

 

L’Europa è ancora un potenziale rischio per Obama? 

 

«Sicuramente è vista meglio di quanto lo era un anno fa e da un punto di vista finanziario, nel lungo periodo tuttavia i problemi del Vecchio continente non sono risolti e quindi c’è sempre un certo scetticismo riguardo l’euro e la sua sopravvivenza». 

 

Cosa si aspetta il presidente dalle urne alla fine di febbraio? 

 

«Intanto è importante capire che l’Italia di oggi nella visione del presidente americano non è l’Italia degli anni Settanta, ovvero non è così fondamentale o almeno non tra le sue prime preoccupazioni se non fosse che potrebbe far saltare l’Europa. Il risultato del voto di fine febbraio in se conta poco, quello che interessa ad Obama è che l’Italia non diventi instabile ovvero che sia in grado di formare un governo e di non rinnegare tutto quello che è stato fatto sino ad ora iniziando a spendere e spandere». 

da - http://www.lastampa.it/2013/02/13/esteri/per-prima-cosa-obama-ristabilisca-la-solidita-fiscale-degli-stati-uniti-RMCiMyuPOSyefXjSnGeckM/pagina.html


Titolo: Luigi ZINGALES. - Perché il Giappone non ci insegna niente
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2013, 04:41:16 pm
Perché il Giappone non ci insegna niente

di Luigi Zingales

Tokyo stampa moneta per battere la deflazione. Lo yen si svaluta e questo favorisce l'export.

Una lezione per l'Italia? No, perché per aiutare la crescita contano di più le riforme

(18 aprile 2013)

Nell'immaginario collettivo i banchieri centrali sono noiosi uomini in grigio, senza passioni o colpi di testa. Ma il nuovo governatore della banca centrale giapponese, Haruhiko Kuroda, sembra un'eccezione. Non per l'aspetto fisico, ma per le decisioni che ha preso. All'inizio di aprile ha sorpreso i mercati finanziari annunciando che nei prossimi due anni immetterà sul mercato più di mille miliardi di euro di liquidità, comprando titoli di stato giapponesi ma anche altre attività finanziarie. E' quello che gli americani chiamano "quantitative easing," un termine sofisticato per dire una cosa molto semplice: stampare moneta. Non solo. A differenza di tutti gli altri banchieri centrali, Kuroda dice chiaramente che vuole aumentare permanentemente l'inflazione. Perché?

Il primo motivo è che Tokyo è da più di un decennio in deflazione: ovvero in una continua (anche se modesta) riduzione dei prezzi. Dal 1999 l'indice dei prezzi è sceso in media dello 0,3 per cento l'anno, cosicché quello che nel 1998 costava 100 yen oggi ne costa solo 95. Ma il motivo principale è che il Giappone ha smesso di crescere. Se negli Anni 80 il prodotto interno lordo giapponese cresceva del 4,6 per cento all'anno, negli anni 90 dell'1,2 per cento, negli ultimi dieci anni è cresciuto solo dello 0,75 per cento. Tra i grandi paesi sviluppati solo l'Italia ha fatto peggio.

Inizialmente il governo ha cercato di contrastare questi problemi con una politica fiscale espansiva: costruzioni pubbliche, sgravi fiscali. Il debito pubblico è salito dal 67 per cento del Pil nel 1990 al 210 per cento di oggi. Ma non è bastato. Ora il Giappone cerca di risolvere la sua crisi con una politica monetaria super espansiva. L'unico effetto certo di questa politica è una svalutazione dello yen, con beneficio delle imprese esportatrici, che hanno brindato in Borsa. Ma questa è sempre stata la parte sana del Giappone, che non ha bisogno di ulteriori stimoli. La parte malata è tutto il resto. Le banche, ancore afflitte dalle sofferenze sui prestiti e da un'allocazione del credito clientelare. Il settore dei servizi, costoso, inefficiente e non competitivo. La macchina statale, sempre più gestita per il consenso. Un forte invecchiamento della popolazione che non solo crea problemi al sistema pensionistico, ma favorisce anche una gerontocrazia conservatrice che soffoca l'innovazione e ogni cambiamento.

La speranza di Kuroda è che l'immissione di liquidità riduca non solo il costo nominale del denaro, ma soprattutto il costo reale. Abbassando i tassi nominali e aumentando l'inflazione i tassi reali (ovvero la differenza tra tassi nominali e inflazione) scende, stimolando gli investimenti e quindi l'economia. Ma con dei tassi nominali sotto l'1 percento e un obiettivo di inflazione del 2 per cento, lo stimolo all'economia di una manovra monetaria è molto limitato. Mentre lo stimolo alla speculazione è molto forte. Con un costo reale del denaro negativo e uno yen che si svaluta i giapponesi si metteranno a comprare materie prime, titoli esteri ad alto rendimento, perfino case in Cina, destabilizzando i mercati internazionali. L'altro effetto certo della politica monetaria aggressiva di Kuroda è quello di distrarre l'opinione pubblica giapponese dalla necessità di riforme vere, che vadano a toccare i privilegi di una gerontocrazia inadatta a gestire il Paese nel XXI secolo.

L'unico vero vantaggio della politica di Kuroda è quello di dimostrare all'Italia e al mondo che non esistono scorciatoie. La via delle riforme è difficile. Pensare che si possa risolvere tutto con un po' di moneta in più non è solo illusorio, ma anche pericoloso, perché distrae dall'impegno per le riforme vere. Speriamo che l'Italia impari.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-il-giappone-non-ci-insegna-niente/2205157/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - La via americana al reddito minimo
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2013, 11:22:44 pm
La via americana al reddito minimo

di Luigi Zingales

Grillo lo propone di cittadinanza, Letta lo vuole garantito. Ma il primo è troppo caro e il secondo si presta a frodi. L'alternativa è il credito di imposta per chi lavora: fu scelto da Clinton, ma ispirato dal liberista Friedman

(15 maggio 2013)

Occorre «un cambiamento radicale, ha detto il nuovo presidente del Consiglio Enrico Letta: un welfare più universalistico e meno corporativo, che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi... Si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto per famiglie bisognose con figli».

Dopo aver ceduto al Pdl sull'Imu («stop ai pagamenti di giugno»), con queste parole Letta cerca consenso a sinistra, avanzando l'ipotesi di un reddito minimo garantito (Rmg). Il Rmg differisce dal reddito di cittadinanza (Rdc) proposto da Grillo in una dimensione importante: il Rdc è dato a tutti, ricchi e poveri, indipendentemente dallo stato di bisogno. Il Rmg, invece, è mirato alle famiglie meno abbienti: proprio per questo è molto meno costoso del Rdc. Per fornire un reddito di 500 euro al mese a tutti i cittadini italiani al di sopra dei 18 anni ci vorrebbero 300 miliardi di euro all'anno (circa il 20 per cento del Pil). Essendo mirato alle sole famiglie meno abbienti, il costo del Rmg può essere di molto inferiore. Se si vogliono aiutare un milione di famiglie, il costo sarebbe di 6 miliardi, pari a quello richiesto dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa e dalla rinuncia ad aumentare l'Iva.

Il RMG, però, soffre di due problemi strutturali. Il primo è la frode. Se la condizione per ottenerlo è apparire indigenti, molte famiglie, che indigenti non sono, cercheranno di apparire tali agli occhi dello Stato. Il Rmg diventa quindi un sussidio per i disonesti. Il secondo problema è il disincentivo a lavorare creato dal Rmg. Visto che tanti lavori generano un reddito al di sopra dei 500 euro, molti preferiranno non lavorare e percepire un Rmg di 500 euro piuttosto che lavorare e guadagnare 600-700 euro, ovvero solo cento o duecento euro in più. In altri termini, il Rmg agisce come una tassa su chi lavora, o, peggio, un sussidio all'ozio. Invece di aiutare a risolvere il problema della disoccupazione, il Rmg lo rende cronico, perché paga la gente per rimanere disoccupata.

Non si tratta solo di un'obiezione teorica. In uno dei primi esperimenti condotti in economia, all'inizio degli anni Settanta gli Stati Uniti hanno implementato una forma di reddito minimo garantito in un gruppo di famiglie in varie città. Comparando le famiglie con Rg a famiglie simili senza, si è visto che il Rmg riduce il totale delle ore lavorate in un anno del 7 per cento per gli uomini e del 17 per le donne. Questa riduzione non è dovuta a una contrazione delle ore lavorate settimanalmente, ma a un aumento della durata dei periodi di disoccupazione.

La soluzione adottata in America si chiama "credito di imposta per chi lavora" (earned income tax credit ). L'idea è molto semplice. Se pagare la gente per non lavorare aumenta la disoccupazione, pagarla per lavorare contribuirà a ridurre la disoccupazione. La disoccupazione altro non è che una differenza tra il salario a cui un datore di lavoro vuole assumere e quello a cui il lavoratore è disposto a lavorare. Riducendo questa differenza si riduce la disoccupazione. Ma come? Aiutando con un credito di imposta i bisognosi che lavorano. Una famiglia con due figli a carico che guadagna meno di 12.500 dollari riceve dallo stato un sussidio di 40 centesimi per ogni dollaro in più che guadagna. Sembra contro intuitivo pagare di più chi guadagna di più, ma è il modo migliore per indurre la gente a lavorare e lavorare legalmente. E soddisfa il principio enunciato da Letta di aiutare i bisognosi a «rialzarsi e a riattivarsi». Per evitare di sussidiare i ricchi, a 12.500 dollari di reddito familiare il sussidio si blocca a 5 mila e, dopo i 16.450 dollari di reddito, comincia a scendere, ma in modo sufficientemente lento da non togliere gli incentivi a guadagnare di più.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta del premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta dal premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una Sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-via-americana-al-reddito-minimo/2206928/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - La via americana al reddito minimo
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2013, 11:13:15 am
La via americana al reddito minimo

di Luigi Zingales

Grillo lo propone di cittadinanza, Letta lo vuole garantito. Ma il primo è troppo caro e il secondo si presta a frodi. L'alternativa è il credito di imposta per chi lavora: fu scelto da Clinton, ma ispirato dal liberista Friedman

(15 maggio 2013)

Milton Friedman Milton FriedmanOccorre «un cambiamento radicale, ha detto il nuovo presidente del Consiglio Enrico Letta: un welfare più universalistico e meno corporativo, che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi... Si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto per famiglie bisognose con figli».

Dopo aver ceduto al Pdl sull'Imu («stop ai pagamenti di giugno»), con queste parole Letta cerca consenso a sinistra, avanzando l'ipotesi di un reddito minimo garantito (Rmg). Il Rmg differisce dal reddito di cittadinanza (Rdc) proposto da Grillo in una dimensione importante: il Rdc è dato a tutti, ricchi e poveri, indipendentemente dallo stato di bisogno. Il Rmg, invece, è mirato alle famiglie meno abbienti: proprio per questo è molto meno costoso del Rdc. Per fornire un reddito di 500 euro al mese a tutti i cittadini italiani al di sopra dei 18 anni ci vorrebbero 300 miliardi di euro all'anno (circa il 20 per cento del Pil). Essendo mirato alle sole famiglie meno abbienti, il costo del Rmg può essere di molto inferiore. Se si vogliono aiutare un milione di famiglie, il costo sarebbe di 6 miliardi, pari a quello richiesto dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa e dalla rinuncia ad aumentare l'Iva.

Il RMG, però, soffre di due problemi strutturali. Il primo è la frode. Se la condizione per ottenerlo è apparire indigenti, molte famiglie, che indigenti non sono, cercheranno di apparire tali agli occhi dello Stato. Il Rmg diventa quindi un sussidio per i disonesti. Il secondo problema è il disincentivo a lavorare creato dal Rmg. Visto che tanti lavori generano un reddito al di sopra dei 500 euro, molti preferiranno non lavorare e percepire un Rmg di 500 euro piuttosto che lavorare e guadagnare 600-700 euro, ovvero solo cento o duecento euro in più. In altri termini, il Rmg agisce come una tassa su chi lavora, o, peggio, un sussidio all'ozio. Invece di aiutare a risolvere il problema della disoccupazione, il Rmg lo rende cronico, perché paga la gente per rimanere disoccupata.

Non si tratta solo di un'obiezione teorica. In uno dei primi esperimenti condotti in economia, all'inizio degli anni Settanta gli Stati Uniti hanno implementato una forma di reddito minimo garantito in un gruppo di famiglie in varie città. Comparando le famiglie con Rg a famiglie simili senza, si è visto che il Rmg riduce il totale delle ore lavorate in un anno del 7 per cento per gli uomini e del 17 per le donne. Questa riduzione non è dovuta a una contrazione delle ore lavorate settimanalmente, ma a un aumento della durata dei periodi di disoccupazione.

La soluzione adottata in America si chiama "credito di imposta per chi lavora" (earned income tax credit ). L'idea è molto semplice. Se pagare la gente per non lavorare aumenta la disoccupazione, pagarla per lavorare contribuirà a ridurre la disoccupazione. La disoccupazione altro non è che una differenza tra il salario a cui un datore di lavoro vuole assumere e quello a cui il lavoratore è disposto a lavorare. Riducendo questa differenza si riduce la disoccupazione. Ma come? Aiutando con un credito di imposta i bisognosi che lavorano. Una famiglia con due figli a carico che guadagna meno di 12.500 dollari riceve dallo stato un sussidio di 40 centesimi per ogni dollaro in più che guadagna. Sembra contro intuitivo pagare di più chi guadagna di più, ma è il modo migliore per indurre la gente a lavorare e lavorare legalmente. E soddisfa il principio enunciato da Letta di aiutare i bisognosi a «rialzarsi e a riattivarsi». Per evitare di sussidiare i ricchi, a 12.500 dollari di reddito familiare il sussidio si blocca a 5 mila e, dopo i 16.450 dollari di reddito, comincia a scendere, ma in modo sufficientemente lento da non togliere gli incentivi a guadagnare di più.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta del premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta dal premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una Sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.

 
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-via-americana-al-reddito-minimo/2206928/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Krugman fa come i tifosi di Totti
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 11:03:01 am
Krugman fa come i tifosi di Totti

di Luigi Zingales

Il famoso sputo al calciatore danese fu giudicato un gesto irresponsabile o una ragazzata a seconda della "fede" da stadio. Con lo stesso tifo il premio Nobel attacca oggi chi sostiene che in Italia, per crescere, bisogna tagliare la spesa pubblica

(30 maggio 2013)

Romanista o laziale? Non è questione di logica, ma di "fede", una fede che trova le radici nella prima maglia indossata, nel campione che ha acceso la nostra fantasia di bimbi, negli amici del patronato. Questa fede ci porta a giudicare in modo diverso episodi simili. Lo sputo di Francesco Totti a un giocatore danese o il saluto fascista di Paolo Di Canio diventano gesti irresponsabili o innocue "ragazzate" a secondo della nostra "fede". Questo tifo è l'opposto dello spirito sportivo di de Coubertin, ma viene incoraggiato dalle squadre e dai giornali, perché aiuta a vendere biglietti e copie.

Purtroppo questo tifo da stadio si è esteso anche al dibattito di politica economica. I responsabili non sono solo giornalisti e politici, ma nientepopodimeno che il premio Nobel per l'economia Paul Krugman. Quando scriveva nelle riviste accademiche era un economista sopraffino. Da editorialista del New York Times si è trasformato in un ultra manicheo. Per lui ci sono i buoni (coloro che vogliono aumentare la spesa pubblica sempre e comunque) e i cattivi (che vogliono ridurla). Nessun colpo è troppo basso contro i cattivi. Le prime vittime sono stati gli economisti di Harvard, Reinhart e Rogoff. In uno dei loro articoli più famosi avevano sostenuto che un elevato debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo riduceva la crescita economica, una tesi che trova d'accordo lo stesso Krugman. Ma la loro colpa è di aver individuato al 90 per cento il livello a cui questo effetto negativo diventa importante, un valore vicino a quello degli Stati Uniti in questo momento e quindi un risultato usato dai "nemici" per limitare la spesa pubblica americana. Da analisi successive è emerso che questa soglia non era poi così chiara e che dipendeva in parte da un imbarazzante errore in excel, errore che è stato individuato perché gli autori stessi avevano consegnato dati e programmi ad altri ricercatori. Ma questo a Krugman non è bastato: li ha accusati di disonestà intellettuale e quando, prove alla mano, hanno dimostrato di aver distribuito i loro dati ben tre anni fa non si è neppure scusato.

 
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/krugman-fa-come-i-tifosi-di-totti/2208134/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - La lezione di Leopardi sulle regole e la morale
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:51:40 am
La lezione di Leopardi sulle regole e la morale

Luigi Zingales

18 luglio 2013


Non è bello godere delle disgrazie altrui e anche i Ligresti, arrestati ieri insieme ai loro ex manager con l'accusa di manipolazione di mercato e falso in bilancio, hanno diritto al rispetto umano e alla presunzione di innocenza. Ma per un italiano come me, che spera in una rinascita civile e morale del nostro Paese, l'azione della magistratura è un positivo segnale di cambiamento.

La crisi che stiamo vivendo non è solo una crisi di finanza pubblica, ma anche una crisi del nostro sistema economico: un capitalismo relazionale che negli anni si è trasformato in capitalismo clientelare e corrotto. Un sistema che uccide la meritocrazia, soffoca l'innovazione e il ricambio generazionale, e favorisce la corruzione. Un sistema che spinge i migliori talenti a emigrare e spreca o corrompe quelli che per amore rimangono in Italia. Un sistema che lentamente sta uccidendo il nostro Paese.
Lungi da essere gli unici, i Ligresti hanno rappresentato il simbolo di questo sistema. Spetta ai giudici valutare quali reati abbiano commesso. Dal punto di vista del buon funzionamento di un sistema di mercato, però, i Ligresti hanno violato ogni regola. Ho scritto molte volte sul cancro delle operazioni con parti correlate. I Ligresti le avevano elevate a modello di business. Le perdite dei business dei figli venivano trasferite sui bilanci Fonsai e quindi sui poveri azionisti. Le società controllate venivano affidate ai figli e amici, indipendentemente dalle loro qualificazioni, come i satrapi orientali assegnavano le loro province. E i finanziamenti venivano ottenuti con una rete di relazioni che vedeva membri della famiglia nei consigli di amministrazione e nei patti di sindacato dei principali istituti finanziatori.

Le società controllate venivano affidate ai figli e amici, indipendentemente dalle loro qualificazioni, come i satrapi orientali assegnavano le loro province. E i finanziamenti venivano ottenuti con una rete di relazioni che vedeva membri della famiglia nei consigli di amministrazione e nei patti di sindacato dei principali istituti finanziatori. Anche se non costituissero reato, queste pratiche clientelari ingenerano enormi perdite per gli azionisti di minoranza e impediscono lo sviluppo di imprese sane.

Ci lamentiamo che le nostre imprese migliori finiscono in mani straniere. L'ironia è che finiscono in mani straniere anche grazie ai soldi degli italiani, che preferiscono investire in Borse estere, dove si sentono maggiormente tutelati, dando a imprese straniere le risorse per comprare quelle nostrane. Se vogliamo far ripartire la nostra economia e le nostre imprese dobbiamo innanzitutto proteggere i nostri risparmiatori. L'inchiesta del Tribunale di Torino, volta a proteggere i 12mila risparmiatori Fonsai che avrebbero perso circa 300 milioni per le manipolazioni contabili effettuate dai Ligresti, è un buon inizio. Ma non basta.

Se i Ligresti hanno potuto prosperare per più di quarant'anni è perché il sistema vive della mancanza di trasparenza e di accountability, ovvero di responsabilità individuale delle azioni compiute. Se Ligresti è quello che è lo si deve molto ad Enrico Cuccia, che nel 1986 quotò la Premafin in Borsa e nel 2002 gli trasferì a prezzi di favore La Fondiaria Assicurazione, già appartenente al gruppo Ferruzzi. Lo si deve alle autorità di vigilanza dell'epoca, che non richiesero l'Opa totalitaria al trasferimento del controllo di Fondiaria. E che fino a poco fa sono sembrate "distratte" sui bilanci Fonsai. Lo si deve ai molti amministratori e sindaci delle società del gruppo che hanno chiuso occhi e orecchi per non vedere tutte le transazioni dubbie, accuratamente descritte nell'esposto presentato dal fondo Amber.

I Ligresti sono figli di un sistema che deve cambiare. Il loro arresto, a seguito di un'indagine iniziata per un esposto della Consob e della Isvap (oggi Ivass), è un ottimo segnale. Se si aggiunge la decisione del Tribunale di Parma sul caso Lactalis-Parmalat, si ha l'impressione dell'inizio di una svolta. Affinché questa svolta diventi realtà, però, non basta la magistratura, occorre un cambiamento di mentalità.
Nel «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani» Giacomo Leopardi scriveva nel 1824: «Tutti sanno con Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e d'altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni». Il mio augurio è che questi eventi segnalino, ma anche favoriscano, un cambiamento di opinioni. Reato o non reato, chi volutamente danneggia gli azionisti non è degno di gestire un'impresa quotata. Chi lo vota, lo finanzia e lo sostiene (o non lo controlla) ne diventa complice e quindi anche lui indegno di gestire un'impresa quotata. Solo così potremmo estirpare il sistema Ligresti.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-18/lezione-leopardi-regole-morale-063656.shtml?uuid=AbuvgDFI


Titolo: Luigi ZINGALES. - Le grandi cicale sono tedesche
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2013, 08:42:22 am
Le grandi cicale sono tedesche

di Luigi Zingales

21 luglio 2013


Per superare il malessere economico dell'Ue serve una maggiore integrazione, a partire da un'unione bancaria supervisionata dalla Bce. Per realizzare un'unione bancaria servono regole uniformi per la risoluzione delle istituzioni finanziarie insolventi e qui si sono bloccate le trattative.
La Germania si oppone al nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie proposto dalla Commissione, raccogliendo consenso morale e politico in patria grazie alla raffigurazione di questa posizione come uno sforzo per proteggere i suoi contribuenti: perché le formiche tedesche dovrebbero pagare per le cicale del Sud Europa?

In realtà l'atteggiamento tedesco è un espediente dietro cui si cela un comportamento ostile alla concorrenza, perché il governo di Berlino sovvenziona le banche e le industrie nazionali a spese di tutti gli altri, compresi gli stessi contribuenti tedeschi.

Il mercato comune è il più grande successo della politica economica europea del dopoguerra: ha rafforzato la crescita economica e incoraggiato l'interscambio culturale. Ma un mercato comune esige regole uguali per tutti e la Commissione si è impegnata a fondo, nel corso degli anni, per garantire condizioni di questo tipo in molti settori.

Finora l'eccezione più importante è stato il settore bancario. L'unione bancaria che sta emergendo non è solo il primo passo verso un'unione di bilancio, è anche il passo finale verso il completamento del mercato comune. Senza un unico meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie che garantisca regole del gioco uguali per tutti, il mercato comune resterà incompiuto.

In teoria, le regole bancarie nell'Ue sono le stesse per tutti gli Stati membri. In pratica, la loro implementazione fino a poco tempo fa era lasciata alle autorità di regolamentazione nazionali, che applicavano criteri diversi. Soprattutto, mentre in altri settori gli aiuti di Stato sono proibiti, nel settore bancario sono accettati: non solo quelli espliciti, come il salvataggio di numerose Landesbanken operato dal governo tedesco dopo la crisi dei mutui subprime in America, ma anche quelli impliciti. Certi banchieri francesi si vantano di avere il sostegno del governo di Parigi, che non consentirà mai il fallimento del loro istituto.

Purtroppo non è un problema che riguarda solo Francia o Germania. Tutti gli operatori di mercato sanno che i governi dell'Ue non lasceranno mai che le loro grandi banche dichiarino bancarotta. Questo sussidio implicito non solo costa miliardi di euro ai contribuenti di ogni Paese, ma distorce anche la concorrenza, perché non tutti i sussidi impliciti sono creati uguali. Indipendentemente dai suoi fondamentali, una banca tedesca sarà considerata più sicura di una banca italiana perché la garanzia implicita del governo tedesco vale molto di più di quella del governo italiano. Il risultato è che per le banche tedesche il costo della provvista è molto più basso e la redditività - a parità di altri fattori - molto più alta. Nella misura in cui questo minor costo si traduce in sconti per i clienti, anche le aziende tedesche godranno di un costo del capitale inferiore, ottenendo un vantaggio iniquo rispetto ai loro concorrenti europei. Un modo per evitare questa distorsione sarebbe creare un meccanismo per salvare tutte le banche con soldi europei. Ma un approccio di questo tipo, oltre a pesare soprattutto sui contribuenti tedeschi, creerebbe anche incentivi perversi nell'intero sistema bancario europeo, ingigantendo l'instabilità.

L'alternativa preferita è creare un meccanismo di risoluzione unico, che si applicherebbe a tutta l'Europa. Un meccanismo di questo tipo farebbe venir meno la necessità di un intervento dello Stato. La proposta avanzata da Michel Barnier, commissario europeo per il Mercato interno e i servizi, è uno sforzo per implementare questa soluzione. Prevede un unico meccanismo di risoluzione per tutte le banche europee, che impone che a farsi carico delle perdite, prima di ricorrere ai soldi pubblici, siano gli azionisti, gli obbligazionisti e i grandi depositanti. Per garantire finanziamento a breve termine a una banca durante una ristrutturazione, il piano della Commissione prevede la creazione di un fondo europeo, in modo da mettere tutti gli istituti su un piede di parità. La proposta della Commissione è tutt'altro che perfetta: dopo aver spazzato via gli azionisti e imposto ai creditori una sforbiciata dell'8 per cento, il fondo europeo si trasforma in un fondo di salvataggio, giustificando in parte i timori della Germania. Inoltre, non c'è alcun divieto esplicito di salvataggi da parte dei governi. Resta comunque un passo nella direzione giusta: le critiche della Germania dovrebbero puntare a migliorare la proposta, non ad affossarla. I contribuenti tedeschi hanno pagato a caro prezzo gli errori delle loro banche. Nel 2008, quando si scoprì che le Landesbanken erano imbottite di mutui subprime americani, il governo di Berlino intervenne a salvarle con uno stanziamento di 500 miliardi di euro a spese dei contribuenti. Nel 2010, quando le banche tedesche erano molto esposte - per qualcosa come 535 miliardi di euro - verso i titoli di Stato di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna, i contribuenti europei e la Bce diedero una mano a riportare a casa buona parte di quel denaro. La minaccia più seria per i contribuenti tedeschi non è la dissipatezza del sud Europa, ma le banche teutoniche.

Da questo punto di vista l'unione bancaria non è un complotto per caricare sulle spalle dei tedeschi le perdite delle banche del Sud Europa che dichiarano bancarotta, ma un meccanismo per costringere tutte le banche (comprese quelle teutoniche) a farsi carico dei propri errori, riducendo l'onere per i contribuenti di ogni Paese.

È tempo che gli elettori tedeschi capiscano che le cicale più grandi stanno nel centro delle loro città.


©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-07-21/grandi-cicale-sono-tedesche-152945.shtml?uuid=AbHIPBGI


Titolo: Luigi ZINGALES. - Quasi generoso il giudizio di S&P
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:41:42 am
Opinioni

Quasi generoso il giudizio di S&P

di Luigi Zingales

L'agenzia Usa ha abbassato il rating del nostro debito ad appena due gradini sopra il livello "spazzatura". Saccomanni ha risposto: dati vecchi.
Ma senza le auspicate riforme strutturali c'è il rischio di una ulteriore bocciatura

(18 luglio 2013)

Mentre l'Italia politica è assorbita dalle sorti giudiziarie di Berlusconi, la famosa società di rating americana Standard & Poor's (S&P) declassa il debito del nostro governo a BBB, appena due gradini sopra il livello cosiddetto "junk", ovvero spazzatura. Il ministro dell'economia Saccomanni ha risposto per le rime, accusando S&P di basare le sue valutazioni su informazioni datate, che non tengono conto delle recenti misure pro crescita del governo. Lo spread si è alzato, ma non di molto. Sbaglia allora Standard & Poor's? Oppure l'Italia rischia veramente di finire tra la spazzatura?
E se così fosse, quali sarebbero le conseguenze?

La decisione di declassare - scrive S&P - nasce «da un peggioramento delle prospettive economiche italiane, dopo un decennio in cui la crescita reale è stata -0,04 per cento». L'Italia, quindi, non soffre di un problema di bilancio, ma di crescita. E' la mancanza di crescita che mette a rischio la solvibilità del nostro debito. Il motivo è semplice. Una condizione necessaria per la solvibilità è che il rapporto debito-Prodotto interno lordo (Pil) non cresca all'infinito. Per prevenire questo rischio è necessario che il denominatore (Pil) cresca almeno tanto velocemente quanto il numeratore (debito). Se il Pil, invece di salire, scende, per mantenere costante il rapporto è necessario ridurre il debito attraverso un avanzo di bilancio.
Ma quanto è plausibile un significativo avanzo quando siamo riusciti faticosamente a contenere il deficit al 3 per cento?

Ovviamente un'analisi di solvibilità non si può basare su semplici dati puntuali: occorre guardare alle prospettive di lungo periodo.
Salvo drastici cambiamenti, però, le prospettive future saranno simili a quelle passate: crescita zero. Se l'Italia continua a questo ritmo, per mantenere il rapporto debito-Pil costante è necessario che il numeratore non cresca, ovvero che il bilancio pubblico sia in pareggio. Questo obiettivo è tanto più difficile, quanto più elevata è la spesa per interessi. Con un costo del nostro debito pari a 300 punti al di sopra dell'inflazione, per mantenere un bilancio in pareggio dovremmo avere un avanzo primario (ovvero al netto delle spese degli interessi) pari al 3,8 per cento del Pil.
Se poi volessimo ricondurre in 20 anni il rapporto debito-Pil al livello degli accordi di Maastricht (60 per cento), dovremmo avere un avanzo del 5,5 per cento l'anno. Negli anni dello sforzo per entrare nell'euro l'Italia raggiunse picchi di avanzi primari superiori al 6 per cento. Ma si trattò di due anni. Poi scesero rapidamente, fino ad arrivare allo zero. Per impedire che il debito esploda dovremmo mantenere un 3,8 per cento in media. Questo significa che se in un anno di recessione l'avanzo primario è pari a zero, quello successivo deve essere pari a 7,6 per cento del Pil!

Questi semplici calcoli dimostrano che senza un po' di crescita, il nostro debito è difficilmente sostenibile. Ma da dove viene la crescita?
Cosa è cambiato in Italia per farci sperare che dopo dieci anni di crescita zero il paese si risvegli?

Per far ripartire la crescita Standard & Poor's suggerisce una riforma fiscale, ma esattamente nella direzione opposta da quella presa dal governo.
La società di rating si auspica un aumento delle imposte su proprietà (Imu) e consumo (Iva), ed una riduzione di quelle sul capitale (Irap) e sul lavoro (Irpef). Contemporaneamente vorrebbe una riduzione delle spese correnti a favore di quelle di investimento.

Data la differenza tra auspici di S&P e proposte del governo, non stupisce che l'agenzia pronostichi una probabilità superiore al 33 per cento di un ulteriore declassamento dell'Italia. Questo declassamento potrebbe far alzare i tassi, innescando per l'Italia una spirale negativa: alti tassi-alto deficit, alto deficit-alti tassi. E' questa possibilità che giustamente teme il ministro Saccomanni. Per esorcizzarla, però, non basta attaccare S&P: occorre seguirne i consigli, con una riforma sia dell'imposizione fiscale che della spesa, con vendite di patrimonio pubblico, e riforme strutturali del mercato del lavoro e dei servizi. Ma quanto sono probabili queste riforme? Viene da dire che S&P è stata quasi generosa.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quasi-generoso-il-giudizio-di-sampp/2211902/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Ecco che torna la finanza creativa
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2013, 04:24:31 pm
Ecco che torna la finanza creativa

di Luigi Zingales


La moda è americana: invece di dare sussidi alle banche, si dà una garanzia pubblica a chi presta loro dei soldi. Oppure, come si pensa di fare oggi in Italia, di garantire il buon esito dei prestiti. È una strada rischiosa per il contribuente

(09 agosto 2013)

Una delle novità di politica economica introdotte dal governo americano durante la crisi finanziaria del 2008 fu l'uso massiccio di garanzie statali. Invece di aiutare le banche direttamente con dei sussidi, il governo scelse di farlo indirettamente, garantendo a chi prestava alle banche di riottenere i propri soldi, indipendentemente dalla sorte della banca a cui avevano prestato. Iniziato sotto Bush, l'uso delle garanzie statali come strumento di politica economica continuò con l'amministrazione Obama.

Come tutte le mode americane (buone o cattive che siano) anche questa è arrivata in Italia. Uno dei primi provvedimenti del governo Monti fu la garanzia statale per le obbligazioni bancarie contenuto nel decreto Salva Italia. Anche il governo Letta nel suo primo decreto ha aumentato di 200 milioni la dotazione del Fondo centrale di garanzia per le piccole-medie imprese. Ma è poca cosa rispetto a quello che Letta sta preparando: 50 miliardi di garanzie ai prestiti che le banche faranno alle piccole e medie imprese.

E' facile capire perché le garanzie siano diventate uno strumento di politica economica così popolare: non comportano alcun esborso di cassa immediato. In un momento in cui i soldi non ci sono, basterebbe questo motivo per spiegare il loro successo. Ma non è l'unico motivo. Proprio perché sembrano non costare nulla, le garanzie permettono di fornire forti sussidi a gruppi politicamente influenti senza suscitare violente reazioni popolari. Cosa avrebbe tuonato Grillo se il governo Monti avesse regalato alle principali banche italiane 3,5 miliardi l'anno per i prossimi cinque anni? Eppure il valore di mercato delle garanzie offerte dal decreto Salva Italia alle nostre banche è più o meno questa cifra: almeno 4 punti percentuali di sconto rispetto al prezzo di mercato delle garanzie su un ammontare di debiti pari a 86 miliardi. Se la reazione di indignazione è stata contenuta, è perché il costo era invisibile.

Anche se il costo è invisibile, poi spesso il conto bisogna pagarlo. Per anni il Tesoro americano si è cullato nell'illusione che la garanzia offerta ai due giganti dei mutui (Fannie Mae e Freddie Mac) fosse senza costo. Perfino il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz aveva dichiarato che la probabilità di default di uno dei due giganti «è nettamente inferiore a una su 500 mila, e potrebbe essere meno di una su 3 milioni." Ma nel 2008 sia Fannie Mae sia Freddie Mac fallirono e il governo americano dovette sborsare quasi 200 miliardi di dollari per ripianare le perdite.

Le garanzie che il governo Letta si appresta a fornire alle banche sembrano ancora più pericolose. Invece di subentrare solo se le perdite sono superiori a un certo livello, il governo si assumerebbe metà del rischio su ogni nuovo prestito emesso. Dato un tasso di perdite intorno al 9 per cento, garantire al 50 per cento 100 miliardi di prestiti costerebbe al governo "solo" 4-5 miliardi (pari all'incirca all'Imu sulla prima casa). Purtroppo il rischio è che le banche scelgano di estendere questi prestiti ai loro clienti peggiori, quelli che hanno già in carico e da cui non si aspettano di essere ripagati. Rinnovando i prestiti con la garanzia statale, le banche sarebbero in grado di scaricare metà delle perdite già subite sui conti pubblici, con effetti devastanti sul bilancio pubblico. E invece di stimolare prestiti alle nuove imprese, queste garanzie avrebbero l'effetto di tenere artificialmente in vita imprese zombie, con effetti deleteri sull'economia.

Come se non bastasse queste garanzie, vendute come un aiuto alle piccole e medie imprese, rischiano di trasformarsi in un aiuto alle sole banche. In un mercato perfettamente competitivo, non importa chi riceve il sussidio, questo finirà sempre per favorire il consumatore (in questo caso le imprese). Ma il nostro mercato bancario è lungi dall'essere perfettamente competitivo. Quindi una parte notevole del sussidio rischia di finire nelle mani della banche, le quali sono possedute a loro volta da fondazioni di nomina politica. Così, alla fine, è sempre la politica che finanzia se stessa, a spese dei contribuenti.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ecco-che-torna-la-finanza-creativa/2212812


Titolo: Luigi ZINGALES. - Un'idea per la tanto odiata Imu
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2013, 07:42:23 pm
Opinione

Un'idea per la tanto odiata Imu

di Luigi Zingales

Se aumentano le tasse sulle sigarette o sulla benzina se ne può ridurre il consumo. Con la casa non si può fare. Lo Stato offra agli anziani di rinviare il pagamento al momento della vendita o del passaggio di eredità dell'immobile

(30 agosto 2013)

"Cancelleremo l'Imu sulla prima casa." Con questo slogan Berlusconi per un soffio non ha vinto le elezioni. In un Paese tartassato dalla imposte non è difficile capire perché questa promessa suoni come musica alle orecchie di molti elettori. Il programma del Pdl, però, non colpiva tutte le imposte alla stessa stregua. Per l'Irap era prevista solo una riduzione nel giro di cinque anni, per l'Iva si escludeva solo un aumento, mentre per l'Irpef le proposte erano ancora più vaghe, forse per far dimenticare le promesse non mantenute. Non si trattava neppure di una riduzione del carico fiscale complessivo: per il Pdl l'Imu doveva essere sostituita da imposte sui giochi ed i tabacchi. Perché allora tanta enfasi sull'eliminazione dell'Imu? Perché Berlusconi aveva capito che l'Imu è oggi l'imposta più odiata dagli italiani. Ma perché è così odiata?

Da un punto di vista economico, un'imposta sulla proprietà della casa ha molte ragioni d'essere. Innanzitutto, è un modo per diversificare il peso fiscale. Ogni imposta ha un effetto distorsivo tanto maggiore quanto più è elevata. Per questo è meglio diversificare il prelievo attraverso tipi di imposte diverse. In secondo luogo, perché la distorsione provocata da un'imposta è tanto peggiore quanto più è mobile il soggetto tassato. Se si tassano le imprese, queste possono spostarsi all'estero, se si tassano le persone, queste possono emigrare, ma se si tassano le case, queste non possono sfuggire. Al peggio verranno ridotti gli investimenti in nuove abitazioni, un problema relativamente limitato in un Paese in cui l'82 per cento delle famiglie possiede una casa. Per finire, un'imposta locale sulla casa facilita il collegamento tra imposizione e servizi resi. Negli Stati Uniti il modulo per il pagamento dell'imposta annuale sulla casa contiene una dettagliata descrizione dell'uso che il comune fa dei proventi. Questo responsabilizza le amministrazioni locali di fronte ai propri elettori.

Se un'imposizione sulla casa ha tutti questi benefici, perché è così odiata? In parte è la modalità del prelievo. Per la maggior parte delle persone, il prelievo dell'Irpef avviene alla fonte e l'Iva viene incorporata nel prezzo di acquisto. Il peso di queste imposte, quindi, è meno visibile di quello dell'Imu. La diffusione della proprietà della casa, contribuisce all'impopolarità dell'Imu.

Ma quello che la rende così impopolare è la difficoltà che i cittadini incontrano quando aumentano le tasse sulla casa. Di fronte ad una nuova imposta sui tabacchi, un cittadino può limitare il proprio carico fiscale riducendo il numero di sigarette fumate. Di fronte a un aumento dell'imposta della benzina, può fare altrettanto acquistando una macchina con un consumo più contenuto. Per la casa, però, questo aggiustamento parziale è molto più complicato. Non è facile ridurre di una stanza la propria abitazione ed è estremamente costoso vendere la propria casa per traslocare in una più piccola. Nel lungo periodo, la gente si abitua comprando meno case o case più piccole, ma nel breve periodo questo aggiustamento è costosissimo. Le persone anziane, per esempio, che vivono in case acquistate decenni orsono si trovano spesso a possedere una casa di un valore spropositato rispetto al proprio reddito e non possono facilmente vendere un pezzo di casa per pagare l'imposta. Se non è giusto accollare sui giovani lavoratori il peso fiscale dei servizi per le ricche magioni dei pensionati, è ancora più crudele costringere dei vecchietti alla scelta tra vendere casa e non mangiare.

Per rendere l'Imu meno impopolare si sarebbe dovuto offrire ai proprietari a basso reddito l'opzione di posticipare il pagamento dell'imposta al momento della vendita o del passaggio di eredità dell'immobile. In altri termini, trasformare per loro l'imposta in un mutuo nei confronti dello Stato, un mutuo i cui gli interessi vengono pagati tutti alla vendita. In questo modo si sarebbero aiutati gli anziani, senza sovraccaricare i giovani lavoratori. Per assicurare il gettito immediato allo Stato, la Cassa Depositi e Prestiti avrebbe potuto scontare questi mutui a tassi agevolati. Se Monti avesse disegnata l'Imu in questo modo, forse oggi non avremmo il Pdl al governo ed avremmo più spazio per ridurre altre imposte.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/unidea-per-la-tanto-odiata-imu/2214000/18


Titolo: Luigi Zingales. - Libero mercato Obama delude pure in economia
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:29:11 pm

Commenta

Libero mercato

Obama delude pure in economia

di Luigi Zingales

Alla maldestra gestione del caso Siria si affianca un calo di popolarità per le politiche anti-crisi. Pil e Wall Street salgono, ma il Presidente ha deluso la classe media che da lui si aspettava molto. E che invece sta peggio di prima

(20 settembre 2013)

Il sostegno alla politica estera del presidente Barack Obama è crollato dopo la maldestra gestione della crisi siriana. Secondo un sondaggio di Pew Research/USA Today solo il 33 per cento degli americani approva il suo operato in questo campo. Ma i sondaggi sulla sua politica economica non sono molto meglio: Gallup riporta una percentuale di consenso di solo il 35 per cento, contro un 62 di contrari. Questi sondaggi sono più difficili da capire visto lo stato dell'economia. Il Prodotto interno lordo (Pil) Usa entra nel suo quinto anno di crescita, con un + 2,5 per cento. La disoccupazione, che nei primi mesi del suo mandato aveva raggiunto il 10 per cento, è scesa al 7,3. Il mercato azionario ha raggiunto nuovi massimi, superando il livello pre crisi. Qualsiasi leader europeo darebbe la mano destra per avere indicatori economici a questi livelli, perché ad Obama questo non basta?

In parte si soffre per l'eccesso di aspettative. Nel 2008 la campagna elettorale di Obama aveva aspetti messianici: «Io sono quello che tutti noi stiamo aspettando», diceva uno dei suoi slogan. Partendo da questi livelli è difficile non deludere. Gli strascichi della situazione economica che ha ereditato (la peggiore del dopoguerra) contribuiscono a creare scontento. Un disoccupazione del 7,3 per cento può sembrare bassa ad un italiano, ma per un americano, abituato al 5 per cento, è causa di scontento. Come nel caso della Siria, però, l'impopolarità di Obama è anche frutto dei suoi errori e della sua inesperienza.

Il principale errore di Obama (e dei suoi advisor) è di non aver capito la natura della crisi. Recessioni prodotte da crisi finanziarie sono profondamente diverse dalle tipiche recessioni prodotte da una contrazione monetaria. Tagli fiscali e una politica monetaria espansiva bastano a curare le seconde. Per le prime occorrono interventi per favorire la rinegoziazione del debito e la ricapitalizzazione del settore finanziario. Obama è stato timido o inesistente su entrambi i fronti. Ha preferito giocare tutto il suo potere sulla riforma sanitaria. Su questo fronte ha ottenuto un risultato eccezionale ed irreversibile: l'assistenza medica per tutti. Il modo come questo risultato è stato raggiunto, però, ha avuto forti conseguenze negative sull'economia. L'aumento dei costi per le imprese ha ridotto gli incentivi ad assumere. E il probabile buco di bilancio creato dalla riforma contribuisce ad aumentare i timori per l'esplosione del livello debito, che sotto il suo mandato è quasi raddoppiato.

In campagna elettorale Obama aveva promesso di andare al di là delle divisioni partitiche. In pratica si è dimostrato incapace di mediare tra i repubblicani, che controllano la Camera, e i democratici. Una grossa fetta di colpa va ai repubblicani, che sembrano giocare la strategia del tanto peggio tanto meglio. Ma un buon presidente è in grado di esercitare moral suasion e di scendere a compromessi, come fece Clinton quando si trovò di fronte una maggioranza repubblicana al Congresso. Obama non è stato in grado di farlo.

Ma il fallimento più grande che gli americani rimproverano ad Obama è di non aver mantenuto la promessa di difendere la classe media. Nonostante il Pil sia il 4 per cento sopra al livello pre-crisi, almeno la metà delle famiglie americane sta peggio oggi di cinque anni fa. Neppure George W Bush aveva fatto così male. Dobbiamo concludere che la sua politica economica è stato un fallimento? No. L'assistenza medica per tutti è stato un grosso risultato. La politica nei confronti di Gm e Chrysler ha funzionato meglio di ogni più rosea previsione, creando 341mila posti di lavoro nel settore automobilistico. E il pacchetto di stimolo fiscale approvato appena eletto, pur sbilanciato nei suoi contenuti, ha contribuito ad evitare il peggio durante la crisi.

La colpa principale di Obama è di aver deluso le attese. Nel 2008, all'inizio delle primarie americane, lamentavo su "l'Espresso" la mancanza di esperienza gestionale dei principali candidati. Purtroppo, la storia mi ha dato ragione. La presidenza Obama conferma che saper far bene campagna elettorale non equivale a saper governare bene. E' una lezione che anche noi italiani dobbiamo tenere bene a mente.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/obama-delude-pure-in-economia/2215360/18


Titolo: Luigi ZINGALES. - Libero mercato Opa, peggio la toppa del buco
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:12:09 pm
Luigi Zingales

Libero mercato Opa, peggio la toppa del buco

Va bene difendere i piccoli azionisti. Ma le norme sulle Offerte pubbliche di acquisto non sono la soluzione giusta. Perché creano incertezza, cristallizzano il controllo delle società e danno troppo potere alla Consob


Da giornalista, Massimo Mucchetti ha sempre difeso l’italianità delle imprese. Da senatore, invece, Mucchetti si è riscoperto difensore dei piccoli azionisti, tanto da farsi promotore, col deputato Pdl Altero Matteoli, di una modifica della normativa sulle offerte pubbliche di acquisto (Opa). Oggi chi compra un pacchetto di azioni di una società quotata ha l’obbligo di estendere l’offerta, allo stesso prezzo, a tutti gli azionisti solo se questo pacchetto supera il 30 per cento dei voti. Sotto questa soglia l’obbligo non sussiste anche quando il pacchetto garantisce il controllo di fatto. Non sorprendentemente la maggior parte dei trasferimenti di controllo avvengono al di sotto della soglia, senza compensare il mercato. La proposta di Mucchetti-Matteoli è molto semplice: estendiamo l’Opa obbligatoria anche al controllo di fatto. Come rappresentante delle minoranze di Telecom nonché suo piccolissimo azionista, questa norma mi protegge. Ma in genere è la soluzione giusta?

PURTROPPO il problema non è così semplice. Il vantaggio di una soglia predeterminata è nella sua oggettività. Se dobbiamo basarci su un concetto ambiguo, come quello del controllo di fatto, chi e come dovrebbe verificarlo? La proposta Mucchetti-Matteoli definisce per controllo di fatto «il potere di nomina, con voto determinante in almeno due assemblee ordinarie, di amministratori che abbiano poteri tali da esercitare un’influenza dominante sulla gestione sociale». Il compito di stabilire l’«influenza dominante sulla gestione sociale» spetterebbe alla Consob. Ma, siccome in Italia i consigli durano un triennio, potrà farlo solo dopo due tornate elettorali, ovvero in media dopo quattro anni e mezzo dalla transazione!

Oltre a creare un’enorme incertezza, la normativa proposta cristallizzerebbe il mercato del controllo societario. Pur di evitare il rischio di condividere il premio di controllo, i proprietari attuali farebbero come i Ligresti: porterebbero la società al collasso anziché vendere. Col risultato che per gli azionisti di minoranza il premio di controllo diventerebbe una chimera, mentre il fallimento una realtà.

LA NORMATIVA proposta fornirebbe anche un’enorme opportunità per discriminare gli acquirenti stranieri, come dimostrato dal recente passato. La normativa vigente permette alla Consob di esentare dall’obbligo di Opa gli acquirenti di società in crisi. Quando il gruppo assicurativo francese Groupama tentò di comprare Fonsai, la Consob non concesse l’esenzione, che fu invece concessa a Unipol. Ovviamente non mancano le differenze tra i due casi: ma proprio qui è il punto. La tendenza nostrana al cavillo permetterebbe una gestione politica del mercato del controllo societario. È questo il vero obiettivo della norma?

Nonostante i suoi possibili fini, la difesa dei piccoli azionisti sostenuta da Mucchetti è sacrosanta e merita maggiore attenzione. La vera ingiustizia, però, non è tanto la mancata condivisione del premio di controllo nel (raro) caso di trasferimento del medesimo, ma l’esistenza stessa di un elevato premio di controllo. Se un blocco del 20 per cento vale due volte la somma di 20 blocchi dell’1 per cento è perché chi ha il controllo sottrae valore ai piccoli azionisti a proprio vantaggio. Qui si deve intervenire. Ma come?

Come ci insegna il caso Ligresti, il tallone d’Achille sono le operazioni con parti correlate (Opc). È con queste operazioni che i controllori sottraggono risorse agli azionisti. L’introduzione nel 2010 del Regolamento sulle Opc ha già messo in crisi il capitalismo di relazione, che di queste operazioni viveva. Ma non basta: non tutte le società applicano la normativa in modo rigoroso, i consiglieri sono spesso troppo proni al volere di chi li ha nominati e i sindaci chiudono entrambi gli occhi. Per questo è necessario rafforzare i poteri e la rappresentanza delle minoranze azionarie. Ma il problema maggiore è che la Consob non interviene a punire chi sbaglia. Proprio per questo sarebbe ironico che, per rimediare a una grave deficienza della Consob in un campo, le si dessero maggiori poteri in un altro.

05 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2013/10/30/news/opa-peggio-la-toppa-del-buco-1.139522


Titolo: Luigi ZINGALES. - Dal capitalismo al familismo
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2013, 05:30:46 pm
Luigi Zingales
Libero mercato

Dal capitalismo al familismo

Ha ragione Vegas, presidente della Consob, quando dice che la crisi ha reso più complicata la finanza di relazione. Ma in Italia il vero problema è che le imprese, invece di competere, si scambiano favori. E anche i regolatori...

Le notizie sulla mia morte sono state grandemente esagerate... Viene spontaneo ricordare questa battuta di Mark Twain di fronte alle dichiarazioni del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, sulla fine del capitalismo di relazione in Italia.

Vegas ha ragione quando dice che la crisi economica ha reso troppo costosa la ragnatela di partecipazioni incrociate volte a proteggere i manager dalla disciplina del mercato. Vegas ha ragione anche quando dice che il regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate ha giustamente ridotto i benefici di questa ragnatela. Ma più ancora che sulle partecipazioni incrociate e le operazioni in conflitto il capitalismo di relazione in Italia si regge sul familismo amorale della nostra classe dirigente. Senza cambiare quello, non c’è un vero miglioramento.

Per apprezzare il problema è importante capire le differenze tra il capitalismo di mercato e quello di relazione. In un sistema di mercato ogni transazione viene effettuata sulla base della convenienza economica della transazione stessa. In un sistema di mercato quando la Fiat (per fare un esempio ipotetico) compra pneumatici guarda solo al miglior rapporto qualità prezzo. In un capitalismo di relazione, invece, le transazioni vengono analizzate nel complesso delle relazioni esistenti. In questo caso la Fiat potrebbe scegliere pneumatici Pirelli, anche se più costosi, in cambio di un sostegno della Pirelli alla scalata della Rcs da parte di John Elkann, presidente della Fiat.

A prima vista può sembrare una forma più cooperativa di capitalismo: invece di competere su tutti i fronti le imprese si scambiano favori. In realtà, questo sistema ha grossi problemi. Innanzitutto, è un sistema che difende l’establishment a danno dei consumatori e dei nuovi entranti. Se, per ipotesi, la Bridgestone offrisse pneumatici migliori, non vincerebbe comunque la commessa perché non è in grado di offrire favori su altri fronti. Solo chi partecipa alla rete di relazioni può competere con successo.

In secondo luogo, è un sistema inefficiente. È facile per la Fiat decidere quale sia lo pneumatico con il miglior rapporto qualità prezzo. È molto più difficile stabilire se l’ipotetico vantaggio ricevuto in Rcs compensi l’ulteriore costo sostenuto nell’acquisto degli pneumatici. Grossi errori sono inevitabili anche quando il capitalismo di relazione è gestito con la migliore buona fede.

Ma queste inefficienze diventano enormi quando la buona fede viene a mancare, perché l’opacità del sistema facilita scambi che, se non illegali, sono certamente immorali. Prendiamo ad esempio le ricche consulenze date da Fonsai al figlio dell’allora presidente dalla Consob, Lamberto Cardia. Furono date perché era il miglior avvocato in giro o come captatio benevolentiae nei confronti del padre che doveva supervisionare Fonsai? Nel secondo caso gli azionisti di Fonsai sarebbero cornuti e pure mazziati: non solo spendono soldi per un avvocato di cui la stessa Lionella Ligresti, all’epoca presidente di Fonsai, dice «non mi sembra un luminare», ma li spendono per assicurarsi che le autorità di vigilanza chiudano un occhio per i benefici privati che i Ligresti godevano a danno della società, benefici che - secondo la testimonianza di un ex dirigente Fonsai - erano pari a 100 milioni di euro all’anno.

Purtroppo, anche grazie al familismo amorale della nostra classe dirigente, questo è il tipo di capitalismo di relazione che prevale in Italia. Le relazioni tra controllori e controllati diventano incestuose e gli arbitri diventano di parte. Secondo alcune testimonianze è quello che sarebbe avvenuto nella fusione Unipol-Fonsai, dove Mediobanca interloquiva con l’Isvap (il regolatore delle assicurazioni) e con la Consob, come fossero partner attivi dell’operazione. Con queste relazioni, nessun concorrente ha una possibilità di riuscita.
Se vuole contribuire a seppellire il capitalismo di relazione, Vegas cominci a cambiare i suoi rapporti con i regolati. Si impegni a non comunicare direttamente con loro, se non in incontri ufficiali (verbalizzati) in presenza degli uffici legali della Consob. Sarebbe veramente un segnale di novità.

 
02 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2013/11/28/news/dal-capitalismo-al-familismo-1.143214


Titolo: Luigi ZINGALES. - Prendere esempio da Oltretevere
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 05:49:35 pm
Luigi Zingales
Libero mercato

Prendere esempio da Oltretevere
Bergoglio ha dato ai pm carte sullo Ior (suggerimento per il sindaco di Siena?). Ha tagliato le proprie spese (suggerimento per Napolitano?). Ha decapitato la curia (suggerimento per Letta?). Speriamo che ora non finisca come Pio IX...
   
In risposta alle mie critiche sulla scarsa trasparenza delle finanze vaticane, un cardinale americano rispose: «Il problema del Vaticano è che è in Italia». Rimasi folgorato. Da buon laico aveva sempre ritenuto che la presenza del Vaticano fosse uno dei problemi del nostro Paese. Ma se fosse vero il contrario? L’elezione di Papa Francesco rappresenta un test interessante di queste teorie alternative. Riuscirà il cambiamento della Chiesa a cambiare l’Italia o sarà l’Italia a cambiare Bergoglio?

Come la risposta del porporato lascia intendere, l’elezione di Papa Francesco è il risultato di una rivolta dei cardinali americani contro la curia romana. Ad alimentare questa rivolta è stato il comportamento della chiesa di Roma di fronte agli scandali dei preti pedofili esplosi negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni. La chiesa americana si è trovata sola nel difendere errori spesso commessi altrove e si è trovata sola a pagare i pesanti risarcimenti alle vittime. Mentre a Roma l’Istituto opere religiose (Ior) sperperava i propri soldi in investimenti per lo meno dubbi, i vescovi americani rischiavano la bancarotta. Tuttavia gli scandali non sono stati solo un problema finanziario, ma soprattutto un enorme problema di immagine, i cui costi sono stati sostenuti principalmente dalla chiesa cattolica americana. Non tanto perché i maggiori scandali sono emersi lì, ma perché in Italia i media hanno usato il guanto di velluto nei confronti della Chiesa, non così negli Stati Uniti (basta vedere il film «Mea Maxima Culpa»). Queste motivazioni spiegano il forte desiderio di cambiamento tra i cattolici del nuovo continente, che ormai rappresenta la maggioranza nel mondo. I due precedenti papi, anche se non italiani, si erano dimostrati troppo succubi alla curia romana. Ci voleva un papa manager, che portasse trasparenza in Vaticano e riportasse credibilità alla Chiesa Cattolica. Ci voleva un papa al di fuori delle beghe interne alla curia romana. Per questo la scelta cadde su Bergoglio, un papa in grado di coagulare il consenso del Nord e del Sud America.

Nonostante i punti oscuri sul suo passato durante il regime militare argentino, difficilmente si può immaginare una scelta migliore. Bergoglio rappresenta tutto quello di cui la Chiesa (ma anche l’Italia) ha bisogno in questo momento. Senza timore delle conseguenze di immagine, Bergoglio ha trasmesso tutti i documenti compromettenti dello Ior alla magistratura, affinché facesse pulizia (un suggerimento per il sindaco di Siena?). Senza nominare zar incaricati della spending review, ha tagliato i costi subito, a cominciare dalle proprie spese (un suggerimento per Napolitano?). Senza indugio, ha decapitato i vertici della curia romana, portando trasparenza e accountability nelle istituzioni vaticane (un suggerimento per Letta?).

Con coraggio ha rifiutato 300 milioni di depositi di correntisti Ior di dubbia provenienza, dimostrando che è disposto a pagare di persona per difendere i suoi principi. Il tutto condito da un’empatia che non è solo di facciata. Dieci anni prima di essere eletto Papa, Bergoglio lavava i piedi ai malati di Aids, rischiando lui stesso il contagio. È un meraviglioso esempio di leader al servizio della gente, invece che di leader che usa la gente al suo servizio. Il legittimo entusiasmo che il nuovo Papa ha sollevato nasce proprio da un disperato bisogno di leadership tra gli italiani.

Nel 1846, spinto da una coalizione di cardinali favorevoli a una modernizzazione della Chiesa, fu eletto papa Giovanni Maria Mastai Ferretti. La sua elezione generò speranze di cambiamento in tutta Italia. Purtroppo molte di queste speranze andarono deluse. Ciononostante il seme della libertà, alimentato dalla sua elezione, sopravvisse e portò i suoi frutti. L’augurio per il nuovo anno è che la rivoluzione rappresentata dall’elezione di Bergoglio travalichi il Tevere e contagi non solo i Palazzi del potere romano, ma l’Italia intera. E per Papa Francesco l’augurio che non finisca ... come Pio IX. Altrimenti mi tocca dare ragione al cardinale americano.

13 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/01/08/news/prendere-esempio-da-oltretevere-1.148109


Titolo: Luigi ZINGALES. - Manager stranieri per le imprese di Stato
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2014, 05:25:50 pm
Luigi Zingales
Libero mercato

Manager stranieri per le imprese di Stato
Il rinnovamento generazionale c’è in politica.
Non nelle aziende, soprattutto pubbliche. Dove la vera svolta sarebbe nominare amministratori delegati di altri paesi: una garanzia di scelte basate sul merito. È chiedere troppo a Letta?

   
L’élite politica italiana si sta rinnovando (almeno dal punto di vista generazionale) e diversificando (almeno in termine di genere). Movimento 5 Stelle a parte, i principali partiti sono guidati da trenta o quarantenni. Un terzo dei ministri del governo Letta sono donne. Abbiamo anche un ministro di colore. Di contro, l’élite economica sembra sempre la stessa: vecchia e di sesso maschile. L’età media degli amministratori delegati delle dieci più grandi società non finanziarie italiane sfiora i sessant’anni e nessuno di loro è di sesso femminile.

Il mancato rinnovamento produce anche una forte omogeneità culturale della nostra élite economica, come si può vedere da raffronti internazionali. Il 60 per cento degli amministratori delegati (Ad) delle dieci principali società non finanziarie inglesi è di origine straniera. In Italia nessuno degli Ad è straniero, solo due hanno un titolo di studio estero, e la metà non ha mai fatto una esperienza di lavoro all’estero in tutta la carriera.

Questi ultimi aspetti, ancora più dell’età, stupiscono. Nel calcio siamo stati in grado di attrarre numerosi allenatori stranieri, perché non siamo in grado di fare altrettanto in campo economico? Gli inglesi riescono ad attirare i manager da tutto il mondo (compreso il nostro Vittorio Colao), perché noi non siamo in grado di fare altrettanto? In un mondo globalizzato, come si fa a gestire una società senza avere avuto esperienza diretta in mercati esteri?

Si potrebbe obiettare che la composizione della nostra business élite è determinata dalle forze di mercato: se è fatta di uomini vecchi e rigidamente italioti vorrà dire che è quello di cui le nostre imprese hanno bisogno. Per quanto attraente questo ragionamento è sbagliato. Molte delle principali società italiane (da Eni a Enel, da Finmeccanica a Poste) sono controllate dallo Stato. I vertici di queste imprese riflettono il clientelismo politico più che l’efficienza economica. Anche per le imprese private, l’interazione con lo Stato rappresenta un importante aspetto strategico. Una scarsa capacità dell’Ad a gestire i rapporti con la politica penalizza un’azienda. Basta guardare le difficoltà di Marchionne, amministratore delegato della Fiat. Ma le colpe non sono solo dello Stato. Il modo di fare business in Italia è diverso, come mi viene costantemente ricordato quando sono in Italia. Le regole non vengono sempre seguite, la tolleranza per l’illegalità è diffusa, e proprio per questo si preferisce un manager fidato a quello bravo. Queste differenze non solo scoraggiano gli stranieri a venire nel nostro Paese: fanno anche emigrare quei nostri compatrioti con una mentalità più internazionale (come è stato il caso di Colao, fuggito all’estero dopo degli scontri con gli azionisti di Rcs).

Se nel breve periodo un Ad autarchico sembra beneficiare un’impresa, nel lungo periodo la trascina nella tomba. Privo di una visione ed esperienza internazionale, è inadatto a fronteggiare la competizione estera. Per di più un Ad autarchico contribuisce a perpetuare il nostro provincialismo: minacciato dai colleghi stranieri si sentirà in dovere di giocare la carta dell’italianità a protezione della categoria.

Per rompere questo stallo è necessaria una terapia shock. Interventi graduali non servono, perché pochi manager diversi verrebbero immediatamente rigettati dal sistema. Per questo ritengo che in occasione dei rinnovi dei vertici delle società a partecipazione statale dovrebbero venir nominati solo manager stranieri. Non perché siano necessariamente più bravi degli italiani, ma perché sarebbero un segnale fortissimo di cambiamento. Cambiamento nel modo di fare politica: sarebbero garanzia di scelte basate sul merito e non sul clientelismo politico. Cambiamento nel modo di gestire le partecipazioni statali: difficilmente uno straniero si presta a quei do ut des tipici dei boiardi di Stato. Cambiamento anche del modo di fare business in Italia. Una massa critica di persone con mentalità diversa permetterebbe al Paese di fare quel salto culturale di cui ha bisogno. È chiedere troppo a Letta?

05 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/01/29/news/manager-stranieri-per-le-imprese-di-stato-1.150422


Titolo: Zingales: così il merito può guidare le nomine pubbliche
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2014, 07:44:47 pm
Zingales: così il merito può guidare le nomine pubbliche

di Luigi Zingales

Il governo Renzi è alla prova del fuoco. Deve dimostrare che le speranze nel giovane primo ministro sono ben riposte. Deve dare un segnale di cambiamento che ridia fiducia al Paese. Deve fare qualche cosa per rilanciare subito l'economia. Ma cosa?

Il vincolo di bilancio imposto dall'Europa rende difficile una manovra fiscale espansiva. La maggioranza disomogenea rallenta qualsiasi riforma, tantomeno la possibilità di una riforma al mese. E anche se le riforme venissero approvate a ritmo battente, la lentezza della macchina burocratica non ne renderebbe percepibili gli effetti per molti mesi (se non anni). Stiamo ancora aspettando i decreti attuativi di molte delle riforme approvate dal governo Monti. Ma allora che fare? Uno dei pochi campi in cui il potere del governo è assoluto e immediato è quello delle nomine. Nei prossimi mesi ci sono più di 400 nomine da effettuare: dall'amministratore delegato dell'Eni al commissario Consob scaduto già a dicembre.

Tradizionalmente queste nomine sono viste come un'opportunità per distribuire prebende ed ingraziarsi persone, non come una decisione di politica economica. E fintantoché rimangono un puro esercizio di potere, non potranno avere alcun effetto benefico sull'economia. Eppure un cambiamento radicale non solo nelle persone, ma nel metodo, un'affermazione del principio della meritocrazia - sconosciuto in Italia - potrebbe avere un enorme effetto positivo non solo sul morale degli italiani, ma anche sulla nostra economia.

Gestite da persone competenti, le imprese pubbliche comincerebbero a funzionare meglio e le agenzie governative a essere più efficienti. Ancora più importante sarebbe il fatto che i nominati per merito sarebbero liberi di operare nell'interesse dell'azienda, non limitati nelle loro azioni dalla necessità di restituire il favore a chi li ha nominati. Dal vertice delle imprese e delle agenzie governative, il principio della meritocrazia comincerebbe a diffondersi a cascata all'interno delle varie organizzazioni, motivando i dipendenti capaci e isolando faccendieri e intriganti. Quante ore-uomo vengono sprecate ogni giorno nelle nostre imprese in office politics? Se un nuovo metodo di nomina riducesse solo di un terzo questo spreco, il beneficio in termini di efficienza sarebbe enorme.

Non basta. Una rivoluzione meritocratica spingerebbe i giovani a studiare (che serve lo studio se la nomina avviene per conoscenze) e a non emigrare. Una rivoluzione meritocratica ridarebbe speranza a una gioventù che l'ha persa.

Ma come dare inizio a questa rivoluzione meritocratica? Il grande rischio che corre Renzi è quello di pensare di essere in grado di fare meglio di chi lo ha preceduto semplicemente perché lui è diverso (più bravo, più onesto, più giovane, più...). È l'illusione in cui cadono tutti: che sia principalmente un problema che affligge gli altri, non un problema di metodo, che affligge tutti fintantoché il metodo non cambia. In realtà, anche il politico più onesto e ben intenzionato cade vittima di pressioni e raccomandazioni (la fila dei questuanti è pressoché infinita). Tanto più un politico inesperto come Renzi. Lui dovrà inevitabilmente appoggiarsi a consigli di amici e sostenitori. Al vecchio sottobosco se ne sostituirà uno nuovo, forse più giovane, ma non necessariamente migliore.

Non basta neppure la foglia di fico della società di head hunting, usata dal governo Letta. Queste società adempiono un mandato. Se il mandato (esplicito o implicito) è quello di trovare il meno peggio (o il più ammanicato) tra gli amici di chi sta al potere, la maggior parte delle società di revisione si adegua (anche se per fortuna ci sono delle nobili eccezioni).

Per funzionare il metodo di selezione deve essere trasparente e deve ridurre al minimo la discrezionalità del governo nella scelta della persona, pur lasciando al governo stesso la scelta degli obiettivi che questa persona dovrebbe raggiungere. A questo scopo propongo il seguente metodo. Innanzitutto, il governo annuncia dei criteri oggettivi di performance e numero di mandati sulla base dei quali decide se confermare la persona esistente al suo poso. Se la persona va sostituita il governo dichiara pubblicamente le caratteristiche della persona che vorrebbe in quella posizione e gli obiettivi che questa persona dovrebbe conseguire. Sulla base di questa indicazione si chiede alle prime cinque società di cacciatori di teste sul territorio nazionale di presentare un nome ciascuna. Dalla rosa di cinque nomi il governo elimina i due che considera meno adatti e poi sorteggia (in modo pubblico) il nominato tra i tre rimanenti. Le due società di head hunting che hanno proposto il candidato scartato non vengono pagate, le altre tre si dividono la parcella equamente. Alla fine del mandato, se il candidato non ha raggiunto gli obiettivi stabiliti, la società di head hunting che ha proposto il nome del candidato scadente sarà esclusa dalle cinque che presentano un candidato e un'altra verrà inserita nella lista. In questo modo si premia la qualità della scelta e si riduce il rischio che i cacciatori di teste presentino un candidato indicato in modo informale dal governo.

Liberi da debiti di riconoscenza (il governo non nomina, elimina solo) e con precisi obiettivi da conseguire, i nominati potranno finalmente gestire le imprese in modo efficiente e non clientelare. Sarebbe una vera rivoluzione. Una rivoluzione che Renzi può e deve fare. Altrimenti la colpa è solo sua.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-03-01/cosi-merito-puo-guidare-nomine-pubbliche-104007.shtml?uuid=ABWUS3z


Titolo: Luigi ZINGALES. - L’Italicum porterà cattivi politici
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2014, 11:29:42 pm
Luigi Zingales
Libero mercato

L’Italicum porterà cattivi politici
Per come sta nascendo, la nuova legge elettorale non cancella il peccato originale del Porcellum perché non elimina le candidature multiple. E i capi sceglieranno la classe dirigente in base alla fedeltà e non al merito

La crisi di governo ha temporaneamente messo in secondo piano la riforma elettorale, ma il problema si riproporrà presto. Altri, più qualificati di me, hanno già discusso come la nuova legge può alterare le future alleanze elettorali e il vincitore delle prossime elezioni. Io voglio analizzare la riforma da un altro punto di vista: come meccanismo di selezione della classe dirigente politica. Nel lungo periodo la qualità di un sistema è determinata dalla qualità delle persone che vi partecipano. In che misura il nuovo sistema proposto (Italicum) migliora i meccanismi di selezione rispetto al sistema oggi in vigore (Porcellum)?

La combinazione di liste bloccate e candidature in multipli collegi rende il Porcellum il peggiore possibile. La lista bloccata toglie libertà di scelta all’elettore. Purtuttavia, se gli elettori conoscessero al momento dell’elezione l’identità del candidato che il loro voto andrà ad eleggere, ci sarebbe almeno un piccolo incentivo per i partiti a scegliere candidati decenti: il partito che presenta dei capilista mediocri, rischia di perdere voti e quindi seggi. Purtroppo, questo non è vero nel Porcellum, per la possibilità concessa di presentarsi contemporaneamente in molti collegi. Grazie a questa possibilità un elettore, quando vota, non sa chi verrà eletto. Il gioco è lasciato in mano ai capipartito che dopo le elezioni decidono per quale collegio optare e quindi chi tra i non eletti andrà in Parlamento. In questo modo i candidati dipendono dai capipartito in due modi: per la scelta di posizione nella lista e per il recupero come primi dei non eletti. Questo potere ha effetti devastanti sulla qualità e il comportamento degli eletti.

Sapendo che la qualità dei candidati è poco visibile agli elettori, di fronte alla scelta tra un candidato competente ed uno fedele i capi di partito sceglieranno sempre quello fedele. Ma non c’è persona più fedele del buono a nulla. Proprio perché buono a nulla non ha alternative e quindi non abbandonerà mai il suo capo, cui deve tutto. Non solo i candidati scelti non saranno tra le persone migliori, non saranno neppure i mediocri. I meccanismi di questo sistema inducono la scelta dei peggiori: una delle cause della peggiocrazia italiana è proprio da ricercarsi in questo sistema elettorale. Se anche dovesse capitare che qualche persona capace venisse eletta, questo sistema assicura il totale asservimento ai capipartito: da qui deriva molto del potere di Berlusconi, Grillo, e ora Renzi.

Le “parlamentarie” organizzate dal Pd e dal Movimento 5 Stelle attenuano, ma non eliminano, il problema. Innanzitutto sono state effettuate tra un numero limitato di fedeli, e non tra tutti gli elettori. In secondo luogo, le preferenze espresse alle primarie possono venire facilmente stravolte dalle candidature multiple. Fino a quando il candidato non sarà sufficientemente visibile da influenzare il voto, i partiti non avranno incentivi a presentare candidati di talento.

Pur mantenendo l’obbrobrio delle liste bloccate, l’Italicum fa dei piccoli passi avanti nei meccanismi di selezione. La riduzione della dimensione dei collegi aumenta la visibilità dei candidati e quindi la probabilità che un elettore selezioni il partito anche sulla base della persona candidata. Ma il passo avanti più importante sarebbe la proibizione di candidature multiple, che occultano all’elettore la vera identità dell’eletto. Purtroppo sembra che in fase di negoziazione con i partiti minori, questa caratteristica sia stata eliminata, con grande gioia dei capi partito, che vedono riconfermato il loro potere.

Ma esiste un sistema elettorale che favorisce la meritocrazia? Sì, l’uninominale secca. Con l’uninominale secca la qualità del candidato non solo è fortemente visibile, ma può fare la differenza tra ottenere un seggio o perderlo. In questo caso, anche un capo partito padrone tra un candidato fedele che rischia di perdere ed uno bravo con maggior possibilità di vittoria, sceglierà quello bravo. Ma candidati bravi selezionati in questo modo non si comporteranno come dipendenti fedeli e questo non è tollerabile per i partiti-azienda.

26 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/02/19/news/l-italicum-portera-cattivi-politici-1.153945


Titolo: Luigi ZINGALES. - Come fermare la fuga dei laureati
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2014, 11:31:03 pm
Luigi Zingales
Libero mercato

Come fermare la fuga dei laureati
È ora di rimettere in discussione i diritti acquisiti degli anziani. Perché, a forza di tutelarli, abbiamo lasciato senza speranza i giovani. Che vanno in massa all’estero. Come ha documentato l’inchiesta de “l’Espresso”
   
Venticinque anni fa a lasciare l’Italia, spinti dal desiderio di continuare a studiare oltre ai limiti di quello che l’università italiana poteva offrirci, eravamo in pochi. Pianificavamo tutti di tornare, anche se poi per molti le cose sono andate in altro modo. Oggi ad emigrare sono in tanti (vedi l’inchiesta di qualche giorno fa). Non solo per ricerca, ma per lavoro, per ottenere quelle prospettive di carriera che sono negate loro nel nostro Paese. È una fuga che si preannuncia senza ritorno. Perché quella che era una goccia si è trasformata in un fiume in piena?

Paradossalmente, uno dei motivi è l’integrazione europea. La libertà di movimento e di lavoro all’interno dell’Unione europea facilitano la migrazione. Ma è la stessa integrazione monetaria a rendere la migrazione necessaria. Prima della moneta unica, quando solo alcuni dei Paesi dell’eurozona erano colpiti dalla recessione, la differenza tra domanda ed offerta di lavoro in questi Paesi veniva risolta con un aggiustamento dei tassi di cambio o con una politica monetaria differenziata, che stimolasse la domanda di lavoro nei Paesi in recessione e la raffreddasse nei Paesi in boom. Oggi che c’è una moneta e una politica monetaria comune per l’eurozona l’unica forma di aggiustamento possibile di fronte a shock asimmetrici è la migrazione.

Da questo punto di vista la migrazione è un bene perché riduce la caduta dei salari necessaria per riassorbire la disoccupazione in Italia e riduce l’inflazione che la domanda di lavoro in Germania potrebbe produrre. Ma questa migrazione sembra avvenire in una direzione sola. Quando era il sud d’Europa in fase di boom, non molti tedeschi migravano a sud. Ora che è la Germania in fase di boom (almeno in termini relativi) sono tantissimi gli spagnoli, i greci, e gli italiani ad emigrare lì.

Questa migrazione non è neppure equamente distribuita a diversi livelli di abilità. Migra la crema dei laureati, che sa le lingue ed ha una cultura che rende più facile l’adattamento in un Paese straniero. E migrano i muratori ed i gelatai che possono facilmente lavorare all’estero anche senza la piena conoscenza della lingua. Nel mezzo della distribuzione dei talenti, dove risiede la maggior parte della popolazione, la migrazione è difficile e permane la disoccupazione.

La migrazione è anche il prodotto del nostro sistema pensionistico, che concede generose pensioni ai vecchi, finanziate con il prelievo sui giovani. A fronte dei loro contributi questi stessi giovani non riceveranno pensioni altrettanto generose. Si tratta a tutti gli effetti di un’imposta sui giovani. Quando si tassano le sigarette, il consumo di sigarette scende. Quando tassiamo i giovani lavoratori in Italia, dobbiamo forse stupirci se il numero di giovani lavoratori nel nostro Paese scende?

Ma la fuga dei giovani è dovuta soprattutto alla mancanza di prospettive che il nostro Paese offre alle nuove generazioni. Mia nipote, neolaureata in Farmacia a Milano, è andata in visita all’University of Illinois. È rimasta stupita non solo del livello di preparazione dei farmacisti clinici, ma soprattutto della diversa attitudine che gli anziani mostravano per i giovani. Quando c’è da prescrivere dei medicinali al paziente, il chirurgo chiede consiglio al farmacista, anche se ha metà dei suoi anni. I professori consigliano ed indirizzano i neolaureati, invece di rifuggirli quasi fossero delle pesti. I giovani di talento fanno carriera rapidamente e non solo per anzianità. Lei vorrebbe poter vivere e lavorare in Italia. Ma vorrebbe anche poter avere un lavoro retribuito e delle prospettive di carriera. È troppo chiedere entrambe le cose?

In questo momento in Italia sembrerebbe di sì. A suon di proteggere tutti i diritti “acquisiti”, abbiamo finito per lasciare i nostri giovani senza speranza. È giunta l’ora di ridiscutere tali diritti, non per sostituirli con un giovanilismo disperato, ma per rimpiazzare all’anzianità il merito. Speriamo che il più giovane presidente del Consiglio della nostra storia sia in grado di effettuare questa trasformazione. Non solo per il bene della sua generazione, ma per quello di tutto il Paese.

10 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/03/05/news/come-fermarela-fuga-dei-laureati-1.155962


Titolo: Luigi ZINGALES. - Siamo tutti sessisti, lo prova un test
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:31:03 pm
Luigi Zingales
Libero mercato

Siamo tutti sessisti, lo prova un test
I pregiudizi antifemminili nel mondo del lavoro sono condivisi dalle stesse donne. Lo dimostrano diversi esperimenti scientifici. Che offrono però anche qualche soluzione al problema. Più efficace delle quote rosa

Gli indizi di discriminazione contro le donne non mancano: il loro scarso numero a capo di imprese o ai vertici del mondo politico, la sotto rappresentazione nelle università, soprattutto scientifiche. Ma dimostrare in modo inconfutabile che la discriminazione esiste e individuarne le cause è sorprendentemente difficile. È sempre possibile argomentare che se le donne non sono in posizioni apicali è perché preferiscono uno stile di vita diverso, che mal si concilia con quegli impegni. E se sono sotto rappresentate nel mondo scientifico c’è chi sostiene, come Larry Summers ex presidente di Harvard, che è perché i talenti matematici non sono distribuiti in modo eguale. Per finire, può contare la discriminazione passata. Negli Stati Uniti le donne non venivano ammesse ai dottorati in matematica fino agli anni Sessanta. Dovrebbe forse sorprendere se oggi sono più riluttanti nell’intraprendere quella carriera?

Identificare la causa della discriminazione è importante per capire se e come agire. Se le donne non salgono ai vertici aziendali per scelta, perché mai dovremmo preoccuparci? Se le donne soffrono solo dei residui del passato, possiamo almeno consolarci, il problema è in via di soluzione. Se invece la discriminazione è tutt’ora presente, allora è una questione della massima urgenza, non solo per sanare un’ingiustizia, ma anche per il bene dell’intera società. Lo spreco di talenti danneggia tutti. Quante Madame Curie, quante Rita Levi Montalcini abbiamo perso per colpa della discriminazione?

Per identificare in modo convincente la discriminazione, psicologi ed economisti ricorrono agli esperimenti di laboratorio. Lo svantaggio di queste prove è che avvengono in situazioni molto astratte. Il vantaggio è che possono escludere qualsiasi teoria alternativa e identificare con precisione una causa. Con questo obiettivo due colleghi e io abbiamo condotto un esperimento per identificare in che misura gli stereotipi sulle donne e la matematica giocano nel caso di un’assunzione. Abbiamo chiesto a degli studenti di Northwestern di assumere un candidato per svolgere un compito vagamente matematico: sommare il più velocemente possibile una serie di quattro numeri a due cifre. Chi sceglieva il candidato migliore riceveva un premio in denaro. Nonostante non ci fosse alcuna differenza nelle performance, i “datori di lavoro” assumevano uomini con una frequenza doppia.

L'aspetto più interessante è che la probabilità di scegliere un uomo è positivamente correlata con una misura di stereotipi impliciti del datore di lavoro, chiamato Implicit Association Test (Iat). Questo test consiste nell’associare velocemente immagini di competenza scientifico-matematica a immagini di uomini e donne. È stato dimostrato che in media tutti, maschi e femmine, associano più velocemente il concetto di matematica ad un uomo che a una donna, uno stereotipo radicato nel nostro subconscio. Il nostro esperimento dimostra che tanto più forte è questo stereotipo, tanto maggiore è la preferenza nell’assumere uomini. Quando forniamo ai datori di lavoro le informazioni sulla performance effettiva dei candidati, la discriminazione si riduce, ma non si elimina

L’esperimento dimostra che la discriminazione esiste ancora oggi in America, anche tra le nuove generazioni. Non solo, fornisce pure uno strumento per combatterla. Basta richiedere a tutti i potenziali capi del personale di effettuare un test Iat. Coloro che risultano coltivare stereotipi troppo forti non dovrebbero neppure essere assunti in quella posizione. Gli altri dovrebbero essere sensibilizzati sulle conseguenze pratiche dei loro pregiudizi: e cioè quanto sia ingiusta la loro preferenza ad assumere gli uomini a svantaggio delle donne. Certo, la soluzione è lungi dall’essere perfetta e richiede tempo. Può essere però un primo passo per affrontare un problema molto serio negli Stati Uniti. In Italia è, invece, semplicemente gigantesco.
04 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/03/26/news/siamo-tutti-sessisti-lo-prova-un-test-1.158575


Titolo: Luigi Zingales Libero mercato Oggi in Grecia domani in Italia
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2014, 07:00:54 pm
Luigi Zingales

Libero mercato
Oggi in Grecia domani in Italia

Il governo di Atene ha fatto (con enormi sacrifici) grandi progressi sul fronte dei conti pubblici. Ora la sfida passa sul terreno della produttività e dell’innovazione. Le ricette possibili, molto simili a quelle utili per il nostro Paese

Dopo una depressione durata sei anni, anche la Grecia sembra avviata al suo primo anno di modesta crescita (+0,6%). A segnare la svolta c’è anche l’emissione di 3 miliardi di titoli quinquennali del governo ellenico (la prima da quattro anni) ad un tasso del 4,75%, ben lontano dal 30% di solo 18 mesi fa. Siamo all’atto finale della tragedia greca?

Sicuramente la Grecia ha fatto enormi progressi sul fronte fiscale. Nel 2009, quando l’allora primo ministro Papandreu rivelò i trucchi contabili del suo predecessore, il deficit pubblico era al 15,4% del Prodotto interno lordo (Pil). L’anno scorso si era ridotto a poco sopra il 4%, portando il bilancio al netto degli interessi addirittura in surplus. Quest’aggiustamento, però, è stato ottenuto a costi elevatissimi: il Pil si è ridotto del 25% e la disoccupazione ha raggiunto un massimo del 26,7%. Come se non bastasse, la strada per evitare un altro default è ancora lunga e tortuosa. Se l’economia si riprende, il rapporto tra debito e Pil (oggi al 176%) si ridurrà al 118% solo nel 2021. Nel 2030 sarà ancora al 86,5%, ovvero superiore ai parametri di Maastricht.

Ma i conti pubblici rappresentano solo metà del problema greco. Tra il 1999 e il 2008 la Grecia ha anche importato molti più beni di quelli che ha esportato, ovvero ha generato ogni anno un disavanzo della bilancia commerciale pari a circa il 9% del Pil. Questo disavanzo commerciale si è ora ridotto a zero, ma l’aggiustamento è avvenuto interamente attraverso una contrazione delle importazioni. Non solo le esportazioni non sono aumentate, sono addirittura diminuite.

Dopo i tagli fiscali e le riduzioni dei salari nominali, le esportazioni sono l’unica fonte di un aumento della domanda che possa trainare la crescita. D’altro lato, se l’economia si riprende, anche le importazioni saliranno, rendendo necessario un aumento delle esportazioni per evitare ulteriori squilibri commerciali. La soluzione della crisi greca, quindi, deve passare attraverso una ripresa delle esportazioni. Ma come?

Se la Grecia avesse una moneta nazionale, una svalutazione sarebbe sufficiente per risolvere il problema. Ma la Grecia (come l’Italia) ha rinunciato a questa opzione aderendo all’euro. Le rimane quindi solo una possibilità: una riduzione dei prezzi. Troppo spesso pensiamo alla riduzione dei prezzi solo in termini di riduzione dei salari. Ma, i salari sono solo una delle determinanti e quella che oggi andrebbe meno toccata: una riduzione dei salari, porterebbe ad una riduzione del potere di acquisto dei lavoratori, che ridurrebbe ulteriormente la domanda aggregata.

Bisogna agire quindi sul fronte della produttività. Una delle fonti di aumenti di produttività è il progresso tecnico incorporato nei nuovi investimenti. Ma dopo una riduzione del 25% del Pil, c’è molto eccesso di capacità produttiva, quindi le imprese tendono a ritardare i nuovi investimenti, rallentando gli aumenti di produttività. Un’altra fonte di aumento di produttività è l’entrata nella forza lavoro di giovani, meglio preparati dei loro padri a usare le nuove tecnologie. Ma con una disoccupazione giovanile di quasi il 60%, la Grecia non può sperare molto in questa possibilità.

Alla Grecia non rimane che spingere su di un aumento della competizione. Riducendo i margini di profitto, la competizione riesce a ridurre i prezzi senza necessariamente ridurre i salari. Il Fondo Monetario ha stimato che la mancanza di competizione nel solo settore della benzina costa ai consumatori più di un miliardo di dollari l’anno.

Favorire la competizione significa anche favorire l’entrata di nuove imprese, in grado di rivoluzionare i processi produttivi, con elevati guadagni di produttività. Ma questa battaglia si preannuncia più difficile di quella fiscale. Aumentare la competizione significa toccare le posizioni di rendita e privilegio dell’élite greca, spezzare gli oligopoli dominati dai notabili locali. Il messaggio non vale solo per la Grecia. In questo caso si può proprio dire: italiani e greci, una faccia, una razza.

21 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/04/16/news/oggi-in-grecia-domani-in-italia-1.161354


Titolo: Luigi Zingales Oggi in Grecia domani in Italia
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 11:00:05 am
Luigi Zingales
Libero mercato

Oggi in Grecia domani in Italia
Il governo di Atene ha fatto (con enormi sacrifici) grandi progressi sul fronte dei conti pubblici.
Ora la sfida passa sul terreno della produttività e dell’innovazione.
Le ricette possibili, molto simili a quelle utili per il nostro Paese

   
Dopo una depressione durata sei anni, anche la Grecia sembra avviata al suo primo anno di modesta crescita (+0,6%). A segnare la svolta c’è anche l’emissione di 3 miliardi di titoli quinquennali del governo ellenico (la prima da quattro anni) ad un tasso del 4,75%, ben lontano dal 30% di solo 18 mesi fa. Siamo all’atto finale della tragedia greca?

Sicuramente la Grecia ha fatto enormi progressi sul fronte fiscale. Nel 2009, quando l’allora primo ministro Papandreu rivelò i trucchi contabili del suo predecessore, il deficit pubblico era al 15,4% del Prodotto interno lordo (Pil). L’anno scorso si era ridotto a poco sopra il 4%, portando il bilancio al netto degli interessi addirittura in surplus. Quest’aggiustamento, però, è stato ottenuto a costi elevatissimi: il Pil si è ridotto del 25% e la disoccupazione ha raggiunto un massimo del 26,7%. Come se non bastasse, la strada per evitare un altro default è ancora lunga e tortuosa. Se l’economia si riprende, il rapporto tra debito e Pil (oggi al 176%) si ridurrà al 118% solo nel 2021. Nel 2030 sarà ancora al 86,5%, ovvero superiore ai parametri di Maastricht.

Ma i conti pubblici rappresentano solo metà del problema greco. Tra il 1999 e il 2008 la Grecia ha anche importato molti più beni di quelli che ha esportato, ovvero ha generato ogni anno un disavanzo della bilancia commerciale pari a circa il 9% del Pil. Questo disavanzo commerciale si è ora ridotto a zero, ma l’aggiustamento è avvenuto interamente attraverso una contrazione delle importazioni. Non solo le esportazioni non sono aumentate, sono addirittura diminuite.

Dopo i tagli fiscali e le riduzioni dei salari nominali, le esportazioni sono l’unica fonte di un aumento della domanda che possa trainare la crescita. D’altro lato, se l’economia si riprende, anche le importazioni saliranno, rendendo necessario un aumento delle esportazioni per evitare ulteriori squilibri commerciali. La soluzione della crisi greca, quindi, deve passare attraverso una ripresa delle esportazioni. Ma come?

Se la Grecia avesse una moneta nazionale, una svalutazione sarebbe sufficiente per risolvere il problema. Ma la Grecia (come l’Italia) ha rinunciato a questa opzione aderendo all’euro. Le rimane quindi solo una possibilità: una riduzione dei prezzi. Troppo spesso pensiamo alla riduzione dei prezzi solo in termini di riduzione dei salari. Ma, i salari sono solo una delle determinanti e quella che oggi andrebbe meno toccata: una riduzione dei salari, porterebbe ad una riduzione del potere di acquisto dei lavoratori, che ridurrebbe ulteriormente la domanda aggregata.

Bisogna agire quindi sul fronte della produttività. Una delle fonti di aumenti di produttività è il progresso tecnico incorporato nei nuovi investimenti. Ma dopo una riduzione del 25% del Pil, c’è molto eccesso di capacità produttiva, quindi le imprese tendono a ritardare i nuovi investimenti, rallentando gli aumenti di produttività. Un’altra fonte di aumento di produttività è l’entrata nella forza lavoro di giovani, meglio preparati dei loro padri a usare le nuove tecnologie. Ma con una disoccupazione giovanile di quasi il 60%, la Grecia non può sperare molto in questa possibilità.

Alla Grecia non rimane che spingere su di un aumento della competizione. Riducendo i margini di profitto, la competizione riesce a ridurre i prezzi senza necessariamente ridurre i salari. Il Fondo Monetario ha stimato che la mancanza di competizione nel solo settore della benzina costa ai consumatori più di un miliardo di dollari l’anno.

Favorire la competizione significa anche favorire l’entrata di nuove imprese, in grado di rivoluzionare i processi produttivi, con elevati guadagni di produttività. Ma questa battaglia si preannuncia più difficile di quella fiscale. Aumentare la competizione significa toccare le posizioni di rendita e privilegio dell’élite greca, spezzare gli oligopoli dominati dai notabili locali. Il messaggio non vale solo per la Grecia. In questo caso si può proprio dire: italiani e greci, una faccia, una razza.

21 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/libero-mercato/2014/04/16/news/oggi-in-Grecia-domani-in-italia-1.161354


Titolo: Zingales: “Atene quasi forzata ad uscire dall’euro per creare un precedente”
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:52:02 pm
Grecia, Zingales: “Atene quasi forzata ad uscire dall’euro per creare un precedente”
Lobby
L'economista della Chicago Booth School of Business punta il dito contro la Banca Centrale Europea: "I principali istituti greci hanno passato un test di solvibilità condotto dall'Ue. Perché allora la Bce non fornisce loro liquidità illimitata? Perché la fornitura di liquidità di emergenza è stata centellinata di giorno in giorno e poi bloccata? In sostanza, Francoforte tiene la Grecia appesa a un filo". Così Atene, che "non vuole uscire dall'euro, viene quasi forzata a farlo"

Di Marco Pasciuti | 3 luglio 2015

Luigi Zingales, economista presso la Chicago Booth School of Business. L’Ue ha fatto tutto quanto era in suo potere per salvare la Grecia?
“No, nel gestire la crisi si è anche tenuto conto del precedente che si andava creando”.

Un monito per gli altri Paesi che si trovano in una situazione di rischio. Un monito anche per l’Italia, quindi.
“La preoccupazione per l’Italia non riguarda l’arco temporale di un anno. I problemi nasceranno dopo, quando finirà il Quantitative Easing (piano di acquisto di titoli di Stato da parte della Bce con l’obiettivo di far ripartire la crescita dell’Eurozona, ndr), i tassi cominceranno a salire e la situazione si farà più difficile “.

Perché invece di puntare a riavere indietro una parte dei prestiti ma a riaverla con certezza, i creditori continuano a chiedere indietro tutta la somma, sapendo che non riusciranno mai a ottenerla?
“L’errore fondamentale è stato commesso nel 2010, quando si fece finta che la Grecia fosse solvente, in grado di ripagare tutto il debito, quando era già chiaro che non era così”.

Tsipras ha deciso di interpellare il popolo greco: decisione giusta o populismo?
“Il referendum è sostanzialmente sbagliato, sembra la scelta più democratica che si possa fare, ma non è così. Indire una consultazione di questo genere, interpellare il popolo durante una fase così delicata del negoziato, su una proposta che non è neanche più sul tavolo è velleitario. Per di più Tsipras sembra non aver capito che non sarebbe riuscito a fare il referendum con le banche aperte, per la corsa agli sportelli. Per il governo greco potrebbe rivelarsi un gigantesco autogol“.

Juncker, presidente della Commissione Ue, è intervenuto in tv per dire ai greci di votare sì al referendum. Dov’è finita la sovranità nazionale?

“Non è la cosa peggiore che abbia fatto Juncker. Negli Stati Uniti, se c’è un referendum a livello locale, il presidente può prendere posizione. Quello che trovo più pericoloso è che la Banca Centrale Europea controlli la sopravvivenza delle banche, forzando la mano in una direzione o nell’altra al governo. Questo fatto è molto più lesivo della sovranità popolare del fatto che Juncker dica la propria opinione. Tra l’altro, ogni volta che il presidente della Commissione parla fa campagna per il no”.

Draghi però in questo momento sta tenendo in vita il sistema.
“Lo sta tenendo in vita, ma non lo sta tenendo aperto e funzionante. Le principali banche greche hanno passato un test di solvibilità condotto dall’Ue, quindi ora la Bce dovrebbe essere il garante della loro solvibilità. Se Francoforte si è presa un impegno, ha fatto un’analisi e ha detto che le banche sono solventi, ora dovrebbe in tutti i modi aiutarle a sopravvivere, altrimenti che unità europea è? Di che unità monetaria parliamo? Se la sopravvivenza delle banche è decisa dalla Bce non è più solo un’unione monetaria, ma una egemonia della Bce”.

Egemonia?
“Quella di dare liquidità alle banche è una decisione che prende qualsiasi banca centrale nel momento in cui stabilisce che le banche sono solventi ma illiquide. Questo perché la funzione principale di una banca centrale è quella di essere disponibile a fare prestiti in situazioni di tensioni di mercato alle banche che sono solventi. Ora, nel caso della Grecia, abbiamo la certificazione fornita dalla stessa Bce qualche mese fa, che le sue banche sono solventi. Perché allora la Bce non fornisce loro liquidità illimitata? Perché la ELA (fornitura di liquidità di emergenza, ndr) è stata centellinata di giorno in giorno e poi bloccata (il 1° luglio La Bce ha fissato a 89 miliardi il livello massimo stabilito per l’erogazione di Ela alle banche greche, ndr)? In sostanza, la Bce tiene la Grecia appesa a un filo“.

Un precedente che sia anche un memento mori per tutti gli altri.
“Se crediamo veramente che questa unità monetaria sia irreversibile e che, come ha promesso, Draghi farà “whatever it takes” per tenerla in piedi (“Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”, affermava il 26 luglio 2012 il governatore della Bce, promettendo cioè che avrebbe “fatto di tutto per salvare l’euro”, ndr), concludiamo che si può fare di più per la Grecia”.

Come diceva lei, nel 2012 e nel 2014 Mario Draghi ha affermato che l’euro è “irrevocabile” e “irreversibile”: Ribaltando il concetto, vuol dire che se la Grecia esce, l’euro diventa reversibile e crolla l’intero impianto.

“Sono abituato a pensare che di irreversibile esista solo la morte. Certo è che nel momento in cui un Paese viene sostanzialmente escluso dall’unione monetaria, tutto diventa possibile. La Grecia non vuole uscire dall’euro, si trova in una situazione diversa da quella del Regno Unito: Londra non è nell’euro, ma ipotizza la possibilità di uscire dall’Unione Europea. Atene, invece, non vuole uscire dall’euro eppure viene praticamente messa nelle condizioni di farlo, viene quasi forzata a farlo”.

Tutto ciò come potrà influire sull’Italia? Una volta stabilito che dall’euro si può uscire, i paesi fortemente indebitati possono essere oggetto di attacchi speculativi. Il pericolo per l’Italia è reale?
“Il pericolo è reale, ma non immediato. Quello che oggi ci protegge dagli attacchi speculativi è il Quantitative Easing in corso. Per cui chiunque provi a fare un attacco speculativo si troverebbe contro la Bce dall’altra parte che compra titoli di Stato, calmierando il mercato. C’è però un costo nel lungo periodo, perché il QE non sarà infinito e alla prossima crisi, che potrà arrivare tra una anno o tra dieci, cui troveremmo con lo stesso problema”.

Come finirà?
“Non finirà. Qualunque soluzione verrà presa, sarà temporanea. La crisi greca sarà con noi ancora a lungo”.

Di Marco Pasciuti | 3 luglio 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/03/grecia-zingales-atene-quasi-forzata-ad-uscire-dalleuro-per-creare-un-precedente/1836120/


Titolo: Zingales: “Far pagare tanti soldi a tutti: amministratori, revisori, sindaci,...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2015, 07:28:10 pm
Banche e salvataggi, Zingales: “Far pagare tanti soldi a tutti: amministratori, revisori, sindaci, dirigenti e controllori”

L'economista della University of Chicago Booth School of Business commenta a ilfattoquotidiano.it la versione italiana del nuovo bail-in: "Finché a pagare è il contribuente, non ci sono incentivi per far causa alle attività di vigilanza. Con il nuovo meccanismo ci saranno più incentivi a promuovere delle class action anche nei confronti di Banca d’Italia e Consob"


Di Paolo Fior | 28 novembre 2015

Cresce la preoccupazione in vista dell’introduzione del bail-in anche in virtù del recente salvataggio di Banca delle Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti che ha determinato il completo azzeramento del capitale degli azionisti e dei possessori di obbligazioni subordinate. Oltre 1,2 miliardi di euro andati in fumo e migliaia di correntisti furibondi perché i loro risparmi sono stati cancellati da un giorno con l’altro con un semplice tratto di penna. Con l’introduzione del bail-in ai risparmiatori non verranno date più tutele, anzi: le raccomandazioni sulla trasparenza delle procedure e sulle garanzie di equo trattamento non sono state recepite dall’Italia. Come conseguenza, cresce la sfiducia nei confronti delle banche e aumenta il rischio di una corsa agli sportelli, mentre i costi della raccolta per le banche minori potrebbero salire vertiginosamente. Per capire quali problemi solleva il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie e quali correttivi sarebbe opportuno introdurre abbiamo interpellato Luigi Zingales, Robert C. McCormack professor of Entrepreneurship and Finance alla University of Chicago Booth School of Business.

Professore, con il bail-in si vuole evitare che a pagare le crisi bancarie siano i contribuenti, ma i problemi che si aprono rischiano di essere ben maggiori…
L’idea di non trasferire sulla collettività i costi dei salvataggi è sacrosanta. Con il bail-in si trasferisce il rischio delle insolvenze agli investitori e ai correntisti e si incentiva dunque il regolatore a essere severo: basta guardare l’attivismo della Banca d’Italia in questi ultimi sei mesi, su spinta anche della Bce. Sotto questo profilo si potrebbe quindi dire che a livello complessivo il rischio non solo si trasferisce, ma tende anche a ridursi grazie alla maggior efficienza del sistema. Tuttavia c’è anche un altro aspetto, ed è l’aumento del rischio sistemico di corse agli sportelli quando i soldi dei depositanti sono a rischio. Negli Stati Uniti dopo la crisi di Lehman Brothers si è verificata una corsa agli sportelli nel settore del mercato monetario, fermata solo da una garanzia statale.

A suo giudizio l’effetto netto che si avrà con l’introduzione del bail-in tenderà a essere più positivo o negativo?
Difficile a dirsi. Il problema sistemico si risolve con l’intervento della banca centrale che in caso di crisi di liquidità deve garantire interventi massicci a sostegno delle banche. E questo dovrebbe essere pacifico in caso di crisi generale. Ma in una crisi su base regionale, localizzata ad esempio in Italia, la Bce interverrebbe in modo deciso? La scorsa estate con la crisi di liquidità in Grecia abbiamo assistito a interventi a singhiozzo. Dunque, questa sicurezza manca.

Una fonte di preoccupazione è che il meccanismo del bail-in possa determinare una spinta al consolidamento del settore bancario, facendo sparire le realtà più vicine al territorio e alle piccole imprese, aggravando in questo modo il problema del finanziamento delle attività produttive…
E’ vero che le banche popolari e cooperative hanno una funzione importante per le piccole imprese e per il territorio, ma è anche vero che si sono spesso creati circoli viziosi che non promuovono innovazione e imprenditorialità. I finanziamenti vanno sempre alle stesse imprese e la difesa del territorio, che in sé sarebbe giusta, viene sempre più spesso utilizzata per proteggere interessi corporativi, politici e talvolta anche per coprire i manigoldi. Un consolidamento del settore sarà probabilmente inevitabile, ma occorre una politica antitrust seria, volta a ridurre i rischi per il credito derivanti da eccessive concentrazioni e molta, molta prudenza nel promuovere le fusioni bancarie. Le fusioni piacciono molto alle banche centrali, ma non sempre sono positive.

Con il bail-in però i risparmiatori si ritrovano in portafoglio titoli che hanno improvvisamente assunto un altro livello di rischio. Non sarebbe stato meglio prevedere un maggiore gradualismo?
Il gradualismo comporta grossi problemi e distorsioni per il mercato. Applicare il bail-in ai soli titoli emessi a partire da gennaio 2016 avrebbe comportato una concentrazione delle emissioni in quest’ultima parte dell’anno, creando non solo distorsioni ma anche problemi di equità tra possessori di identiche categorie di titoli. Un’obbligazione bancaria emessa negli anni scorsi aveva ed ha lo stesso profilo di rischio dell’obbligazione bancaria che rientra nel meccanismo del bail-in, nel senso che non era e non è un’obbligazione garantita. Questi strumenti sono stati invece collocati come “sicuri”, come se avessero una garanzia implicita, e il rischio non è stato prezzato. Il problema qui è quello di chi li ha collocati in quel modo e, soprattutto, di chi glielo ha fatto fare impunemente. Mi riferisco ovviamente alle autorità di vigilanza.

Una crisi bancaria che si trascina per anni fino ad arrivare alle estreme conseguenze è in realtà un fallimento dell’attività di vigilanza. Perché è così difficile chiedere risarcimenti alle autorità di vigilanza quando sbagliano?
L’attività di vigilanza ha dimostrato molte carenze, basti vedere i nodi che sono venuti al pettine quando la vigilanza delle maggiori banche è stata trasferita alla Bce. Finché a pagare è il contribuente, non ci sono incentivi per far causa alle attività di vigilanza. Con il nuovo meccanismo di bail-in ci saranno, molto più che in passato, gli incentivi a promuovere delle class action anche nei confronti della Banca d’Italia e della Consob. E questa possibilità costringerà le autorità a essere più severe e più attente.

Ancora una volta però i risparmiatori si ritrovano a pagare, mentre chi ha violato le regole e commesso reati resta impunito. Non sarebbe il caso di aumentare le sanzioni per i reati finanziari e accorciare anche i tempi della giustizia
Sono d’accordo, soprattutto sul fatto di inasprire sanzioni e risarcimenti più che le pene. Far pagare tanti soldi, soldi veri, a tutti: amministratori, revisori, sindaci, dirigenti, controllori. Solo così si può migliorare il sistema e mantenere la fiducia dei risparmiatori. Sono convinto che se c’è la volontà politica si può fare in tempi brevi.

di Paolo Fior | 28 novembre 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/28/banche-e-salvataggi-zingales-far-pagare-tanti-soldi-a-tutti-amministratori-revisori-sindaci-dirigenti-e-controllori/2260219/


Titolo: Luigi ZINGALES. - «Uber Act»: come liberare il Paese dalle piccole caste
Inserito da: Arlecchino - Aprile 25, 2016, 09:33:46 am
«Uber Act»: come liberare il Paese dalle piccole caste

Di Luigi Zingales24 aprile 2016

La battaglia per la liberalizzazione del mercato dei taxi non mi aveva mai entusiasmato. Non perché questa liberalizzazione non fosse sacrosanta, ma perché non l'avevo mai ritenuta una priorità. Con tutti gli oligopoli presenti nel nostro Paese, quello dei taxisti non mi sembrava il più dannoso. Tanto più che Stati Uniti e Gran Bretagna, economie molto più dinamiche della nostra, soffrivano dello stesso problema.

L'arrivo sul mercato di Uber, la società che connette tramite smartphone la domanda e l'offerta di servizi di trasporto, non aveva cambiato radicalmente la mia opinione. Da consumatore ne ero entusiasta. Vivendo in un quartiere periferico di Chicago, faticavo a trovare taxi e li pagavo cari. Adesso in 5 minuti al massimo un Uber è sotto casa, con un'auto più pulita, dei guidatori più gentili, e una tariffa il 40% più bassa. Ciononostante continuavo a vederlo come un gioco a somma zero: io risparmiavo a spese dei taxisti, non esattamente il tipo di redistribuzione che viene considerata socialmente desiderabile.

Dopo aver ascoltato David Plouffe, un tempo consulente politico di Obama e oggi evangelizzatore del messaggio di Uber, ho dovuto ricredermi. L'uso che della tecnologia fa Uber non solo espande il mercato dei trasporti (a vantaggio di tutti), ma trasforma il modo stesso di lavorare. Mi sono reso conto che anch' io ero involontariamente caduto vittima della propaganda dei difensori dell'esistente, a spese del progresso.

L'entrata di servizi come Uber (oggi ce ne sono molti) non è un gioco a somma zero. Riducendo il costo, Uber aumenta enormemente la dimensione del mercato dei trasporti a pagamento. E non lo fa necessariamente riducendo il compenso del guidatore, ma riducendo i tempi morti. L'inefficienza è data dal tempo che un taxista passa inattivo aspettando chiamate. Più questo tempo viene ridotto dalla tecnologia, più ci guadagnano sia il guidatore che il passeggero.

Questa espansione del mercato aumenta l'occupazione (nella sola Chicago ci sono 30mila guidatori Uber), a vantaggio di chi più stenta a trovare lavoro: i neri e le donne. Un terzo dei guidatori di Uber sono donne: una guidatrice si sente più protetta perché fa salire solo clienti che sono preventivamente identificati (devono registrare una carta di credito).

Ma questo è solo uno dei vantaggi. Negli Stati Uniti Uber sta già promuovendo Uber Pool, un servizio in cui i passaggi sono condivisi con altri clienti. Costa il 40% in meno di un normale Uber (e quindi poco più di un terzo di un normale taxi) e allunga di poco il tempo di percorrenza, grazie ad un algoritmo di ottimizzazione dei percorsi disegnato da Uber. Oltre al risparmio per i consumatori, rappresenta anche un risparmio per l'ambiente. Se ogni auto che entra a Milano o Roma avesse altri due passeggeri, ridurremmo di due terzi il traffico e l'inquinamento. Per non parlare degli spazi dedicati ai parcheggi. A Chicago, per la prima volta nella storia, il numero di parcheggi richiesti per un nuovo edificio è sceso, grazie alla riduzione del numero di automobili richieste dagli inquilini. Il fenomeno è così importante da impattare il mercato delle automobili.

In altri termini, la tecnologia permette non solo di produrre meglio ciò che veniva già prodotto (il servizio taxi), ma apre nuovi mercati e crea nuovi modi di produrre, impensabili prima. Dalla consegna di pasti a quella della spesa, sono nati moltissimi servizi ausiliari a Uber.

Tutto questo in Italia è bloccato. Uber è presente nel mercato delle limousine, ma non può operare in quello dei normali trasporti urbani, per proteggere il valore della licenza di pochi taxisti. È una metafora del sistema Italia. Per proteggere le rendite di pochi, si blocca l'innovazione e il progresso, non solo a danno dei più, ma anche a danno dei più deboli. Negli Stati Uniti Uber è considerato il miglior programma di welfare, il metodo più sicuro per emergere dalla povertà.

Il problema non riguarda solo il mercato dei taxi, ma anche quello degli alberghi (dove è entrata Airbnb), e quello del credito, dove stanno cercando di entrare i cosiddetti peer-to-peer lender, ovvero delle piattaforme che fanno incontrare la domanda e l'offerta di credito. Purtroppo quella stessa regolamentazione che è stata incapace di evitarci disastri come quello della Banca Popolare di Vicenza, è molto efficace a ostacolare ogni nuova iniziativa in questo senso. Il potere politico delle lobby sta bloccando la modernizzazione del Paese. Nel 21° secolo, rischiamo di confinare l'Italia alle tecnologie del Novecento.

Rivoluzionare questo status quo, dovrebbe essere la nuova priorità del governo Renzi. Per farlo non deve procedere a spizzichi e bocconi: richiederebbe troppo tempo e verrebbe logorato in battaglie con ogni singola lobby. Dovrebbe fare come fece Obama all'inizio della sua amministrazione: nominare un esperto di regolamentazione (come Cass Sunstein) e con un unico atto eliminare tutte le regole inutili e tutte quelle il cui unico scopo è proteggere una piccola casta. Visto che al nostro premier piacciono nomi immaginifici, gliene suggeriamo uno: Uber Act. Sicuramente piacerà anche alla cancelliera Merkel.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-04-24/liberare-paese-piccole-caste-140432.shtml?uuid=AClvHgED


Titolo: Luigi ZINGALES - Salvare il capitalismo dai capitalisti. Manifesto capitalista
Inserito da: Arlecchino - Aprile 26, 2016, 09:09:01 am
Salvare il capitalismo dai capitalisti
Manifesto capitalista


Nel 2012 esce in Italia "Manifesto Capitalista. Una rivoluzione liberale contro un'economia corrotta", saggio all'interno del quale Zingales affronta la crisi economica sotto la prospettiva della collettività, ponendo dunque l'accento su questioni come meritocrazia, clientelismo e degenerazione del libero mercato. Egli afferma sostanzialmente che chi aveva creduto che libertà e uguaglianza fossero raggiungibili grazie al libero mercato si sia ritrovato deluso e ancor più truffato da un capitalismo che ha causato un incubo di ingiustizia e povertà, dovuto in primis dalla mancanza di un sistema anti-trust adeguato e di un clientelismo diffuso. La soluzione non sta nella ricerca di un populismo che rifiuti i meccanismi economici perché altrimenti si rischierebbe di perdere ciò che rimane di quello che viene definito da Zingales come "il migliore dei sistemi possibili, che, pur con tutti i suoi difetti, offre sempre il maggior numero di opportunità al maggior numero di persone". La soluzione sta proprio nella difesa del libero mercato, purché sia ripulito dalle lobby, dai monopoli e dalla corruzione che ne hanno causato la sua degenerazione; bisogna premiare il merito, favorire la concorrenza, eliminare i privilegi e sostenere l'istruzione. In conclusione, dunque, il "Manifesto Capitalista" non si pone altro fine se non quello di proporre un attento programma per rifondare il capitalismo, per renderlo più giusto, più umano ed efficiente, tutti elementi che fanno ovviamente capo al libero mercato.
Europa o no

Luigi Zingales in un saggio dal titolo Europa o no uscito in aprile 2014 per l'editore Rizzoli, criticando fortemente l'attuale conduzione della Zona euro, ha auspicato che nel mondo politico e intellettuale italiano si consideri più seriamente l'opportunità o meno dell'adesione all'euro, affermando, tra l'altro, che l'Eurozona deve riformarsi nel volgere di 18-24 mesi, altrimenti, a suo giudizio, i costi di rimanere cominceranno a eccedere i benefici e l'uscita diventerà il male minore.[8]

Ciò non toglie che il professor Zingales rimane ancora ancorato all'idea che uscire dall'euro potrebbe portare a gravi conseguenze per l'Italia, quali il default, tant'è che egli stesso scrive nel suo libro: "Il messaggio più importante che vorrei trasmettere, però, è che [...] la nostra crisi attuale, in cui siamo da quasi vent'anni, non è colpa dell'euro né può essere risolta uscendo da esso. Anzi, la nostra crisi strutturale rischia di essere peggiorata da una nostra uscita dall'euro [...]. Il vero problema è che sono vent'anni che la produttività nel nostro paese non cresce. E se la nostra produttività non riprende a crescere, non possiamo competere in Europa e nel mondo, con o senza euro. Se la nostra produttività non riprende a crescere, non siamo in grado di sostenere il nostro debito pubblico né dentro né fuori dall'euro."

Riconoscimenti

Nel 2012 è stato inserito nella lista, redatta dalla rivista Foreign Policy, dei 100 pensatori più influenti al mondo, unico italiano presente oltre al Presidente della BCE Mario Draghi[9].

da - Wikipedia