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Autore Discussione: Luigi ZINGALES. -  (Letto 50982 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 04, 2012, 05:24:09 pm »

Opinioni

Il manager senza qualità

di Luigi Zingales


Costo del lavoro e produttività: l'Italia è in coda alle classifiche. Eppure i salari sono tra i più bassi. Si cercano le cause nell'eccessiva tutela sindacale o nel cuneo fiscale. Ma non si parla mai di chi gestisce le imprese. Che invece ha le sue colpe

(25 ottobre 2012)

Capri espiatori per la crisi non mancano: le banche americane, l'euro, la cancelliera tedesca Angela Merkel, i sindacati, il costo del lavoro. A questa lunga lista di indiziati, che vengono giornalmente vilipesi sui media, ne manca uno importante: i manager. E' possibile che il problema risieda li?

Guardiamo ai dati. Un importante indicatore del livello di competitività di un paese è il costo del lavoro per unità di prodotto: ovvero quale frazione dei ricavi deve essere spesa per compensare la forza lavoro. Tanto più elevata è questa frazione, tanto più è difficile per un paese esportare i propri beni e servizi. In Irlanda solo il 33 per cento dei ricavi va a compensare la forza lavoro, in Finlandia e Olanda il 51, in Spagna il 67, in Germania e Francia rispettivamente il 71 e 72. L'Italia è in cima alla classifica con il 74. E' il paese dell'area euro con il più elevato costo del lavoro per unità di prodotto e quindi con il più basso livello di competitività.

SE IL COSTO DEL LAVORO per unità di prodotto è così elevato, sembra naturale dare la colpa ai sindacati: il costo del lavoro è troppo alto. Non lo sentiamo ripetere ogni giorno dalla Confindustria? Eppure se guardiamo ai dati non è così. L'Italia è tra i paesi dell'area euro con i salari più bassi: 22 euro all'ora nel 2008, contro i 23 dell'Irlanda, i 31 della Francia e i 33 della Germania. Ma com'è possibile che l'Italia abbia il costo del lavoro per unità di prodotto più alto e i salari più bassi?
Oltre al salario ci sono due fattori che influenzano il costo del lavoro per unità di prodotto: il cuneo fiscale e la produttività del lavoro. Se i contributi sociali sono molto elevati, un lavoratore costa a un'impresa molto più di quanto percepisca, e quindi il costo del lavoro può essere molto elevato anche se i salari sono bassi. Questo è sicuramente un fattore. Nel 2008 i contributi sociali in Italia incidevano per 6,6 euro all'ora contro i 3,8 dell'Irlanda e i 5,2 della Spagna. Ma se è vero che in Italia i contributi sociali sono alti è anche vero che non sono così più alti di quelli del resto dei paesi più avanzati dell'area euro: 6,5 in Olanda, 7,1 in Germania e 9,2 in Francia. In percentuale del salario i nostri contributi sociali sono i più alti d'Europa, ma questo si deve principalmente al fatto che i nostri salari sono bassi, non che i nostri contributi sociali sono particolarmente elevati.

Per spiegare l'elevato costo del lavoro per unità di prodotto non rimane che la produttività. Effettivamente, la produttività del lavoro in Italia è tra le più basse d'Europa: solo 30 euro di prodotto all'ora, contro i 43 della Francia, i 47 della Germania, i 58 della Finlandia, i 60 dell'Olanda e i 70 dell'Irlanda. Tra i grandi paesi europei solo la Spagna fa lievemente peggio di noi: 29,4.

Chi vuole scaricare sempre la colpa sui sindacati potrebbe argomentare che la scarsa produttività italiana è dovuta all'eccessiva protezione dei nostri lavoratori. Certamente le rigide regole non aumentano la produttività, ma guardando i dati è difficile attribuire la colpa alle organizzazioni che difendono i lavoratori. Per di più all'interno dell'Ocse l'Italia non si distingue per alti tassi di protezione: tenendo conto di un indice che va da un minimo di uno a un massimo di cinque, la protezione si colloca da noi a quota 2,58, appena sopra la media di 2,36 e sotto i 2,63 della Germania e i 3 della Francia.

MA ALLORA DI CHI E' LA COLPA? Le inefficienze dello Stato giocano sicuramente un ruolo importante e così lo scarso livello di investimenti. Ma rimane anche la qualità del management. In un'analisi comparata di come vengono gestite le risorse umane, l'Italia è agli ultimi posti, sotto la Cina e appena sopra il Portogallo. La scarsa flessibilità imposta dai sindacati gioca un ruolo importante, ma lo stesso vale per il livello dei dirigenti. Ma perché la qualità del nostro management è così scarsa? E cosa si può fare per migliorarla? Di questo parlerò nella mia prossima rubrica.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-manager-senza-qualita/2193693/18
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 07, 2012, 04:11:31 pm »

Se Tokyo sembra Atene

di Luigi ZingaleS

06 novembre 2012


C'è una battuta che gira tra i miei colleghi: «Sai qual è la differenza tra il Giappone e la Grecia?». L'agghiacciante risposta è: «Tre anni». L'ovvio riferimento è alla situazione del debito pubblico. Per quanto paradossale, l'accostamento della grande potenza industriale asiatica al piccolo e disastrato Stato ellenico non è poi così assurdo.

Con un debito pubblico sul Pil del 230% e un deficit statale del 10%, quello che dovrebbe sorprendere non è il paragone tra Giappone e Grecia, ma il numero di anni richiesti perché la similitudine si avveri. Dopo tutto la Grecia, quando nel 2010 è entrata in crisi, aveva un rapporto debito Pil di solo il 143% e un deficit del 10 per cento. Ed è ancora più sorprendente che il mercato non se ne preoccupi affatto. Con un rendimento decennale dei titoli giapponesi di solo 0,78%, il Giappone sembra lungi dalla catastrofe ellenica. Sbagliano i miei colleghi o sbaglia il mercato? Temo il mercato. Ma vale la pena di capire perché.
Nonostante il livello di indebitamento molto più elevato, il Giappone ha numerosi vantaggi rispetto alla Grecia.
Innanzitutto, ha un sistema industriale capace ancora di esportare. Poi ha un sistema fiscale funzionante, che rende credibile un forte aumento degli introiti fiscali in futuro. In terzo luogo, il Giappone prende a prestito principalmente nella sua valuta, quindi ha sempre l'opzione di monetizzare il proprio debito. Infine, i giapponesi sono sempre stati forti risparmiatori, e quindi la stragrande maggioranza del debito è detenuto internamente. È come se lo stato giapponese finanziasse il proprio debito in moneta, ma i suoi cittadini ossequiosi, invece di spendere questa moneta, la risparmiassero, mettendola sotto il materasso.

Questa partita di giro, però, non può continuare tanto più a lungo. La coorte più numerosa di giapponesi, quelli nati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, sta per andare in pensione. Tra poco invece di risparmiare affannosamente comincerà a spendere i propri risparmi. La generazione successiva è molto meno numerosa e quindi il risparmio complessivo comincerà a scendere. La coorte che entra ora nel mercato del lavoro è molto meno numerosa di quella che sta per andare in pensione. Quindi ci sarà non solo un calo del risparmio, ma anche un calo tendenziale del Pil. Presto lo stato nipponico sarà costretto a finanziarsi almeno o in parte sui mercati internazionali, che sono meno ossequenti dei cittadini giapponesi e domanderanno un rendimento più elevato. Ma con un debito pari a 230% del Pil un aumento dei costo del debito si traduce velocemente in un deficit più elevato che impaurisce i mercati internazionali e fa aumentare maggiormente i tassi di interesse. Come noi italiani abbiamo imparato a nostre spese, il vortice diventa velocemente pericoloso. Il Giappone può uscirne?

Per ridurre il debito, il Giappone può aumentare le imposte. Ma per ogni punto percentuale di aumento del costo del debito il governo nipponico dovrebbe aumentare le imposte di 2,3 punti percentuali di Pil, con effetti recessivi sul Pil e un rischio di spirale negativa tra aumento delle imposte, recessione, aumento del deficit, e necessità di un ulteriore aumento delle imposte.
Il Giappone può monetizzare il proprio debito. Ma nel momento in cui il mercato realizza che questo succederà, il costo del debito aumenterà per compensare creditori internazionali del rischio di inflazione/svalutazione. Me se la situazione è così tragica, perchè il mercato non penalizza i titoli giapponesi? La semplice risposta èche la speculazione al ribasso è timorosa. Come ho scritto molte volte, chi gioca al ribasso rischia molto: a fronte di guadagni limitati rischia perdite illimitate. Per questo i ribassisti si muovono solo quando vedono la possibilità di un guadagno immediato. Con una Banca del Giappone seriamente impegnata in massicci acquisti di titoli pubblici, il rischio di perdite per un ribassista è troppo elevato. Per questo aspettano. Il mercato è anestetizzato dalla Banca Centrale.

Ma questa anestesia non è salutare, perchè ritarda il momento dell'aggiustamento. Più tardi il Giappone si sveglierà, più tragico sarà il risveglio. È un monito a tutti coloro che vorrebbero un Banca Centrale Europea altrettanto tollerante della Banca Centrale giapponese.

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-06/tokyo-sembra-atene-063652.shtml?uuid=AbR71Q0G
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« Risposta #62 inserito:: Novembre 08, 2012, 11:28:08 pm »

Zingales: Non ha vinto Obama, ma ha perso Romney

di Luigi Zingales
08 novembre 2012


Obama ha vinto. Ma il clima (anche atmosferico) della sua vittoria è molto diverso da quello di quattro anni fa. Nel 2008 la notte della vittoria era tiepida, con una luna piena che illuminava a giorno un Grant Park dove a celebrare non c'erano solo i democratici, ma tutta l'America.

Dopotutto, in quella campagna elettorale Obama era andato ripetendo che in America non esistono Stati repubblicani e Stati democratici, ma solo gli Stati Uniti d'America. E l'America unita aveva celebrato l'alba di quella che sembrava una nuova era. Ieri a Chicago invece faceva freddo, pioveva, e le celebrazioni erano rinchiuse nella sede locale delle fiere aziendali. A partecipare c'erano solo i democratici, felici solo che non aveva vinto il loro nemico.
Ebbene sì. Ieri non ha vinto Obama, ma ha perso Romney.
Un presidente che in quattro anni ha aumentato il debito del 50%, non è riuscito a far scendere la disoccupazione al di sotto del 7,8%, e non ha presentato un piano serio per ridurre l'esplosione futura delle spese sanitarie per gli anziani (il cui fondo diventerà insolvente tra 11 anni), era facilmente battibile.

Romney non è stato in grado di farlo, nonostante gli americani abbiano rinnovato la loro fiducia ai candidati Repubblicani, che hanno mantenuto la maggioranza in Congresso. È stato sconfitto il Romney tecnocratico: competente, ma incapace di parlare al cuore degli Americani. È stato sconfitto il Romney super tattico, bravissimo (forse troppo) ad adattarsi agli umori degli elettori, ma incapace di generare fiducia. È stato sconfitto il Romney troppo succube a quell'America bigotta che crede che il concepimento a seguito dello stupro sia «un dono del Signore» (come ha detto in un dibattito il candidato repubblicano al Senato in Indiana) e che la migliore educazione sessuale sia l'insegnamento dell'astinenza.

Questa vittoria suo malgrado, rende difficile al presidente Obama gestire il suo secondo mandato, soprattutto con un Congresso a maggioranza repubblicana. Difficoltà aumentata dalla mancanza di chiarezza del suo programma. Una delle poche proposte chiare è un aumento delle imposte per chi ha un reddito familiare maggiore di 250mila dollari l'anno. Questo provvedimento è lungi dal risanare il deficit federale che viaggia al 10% e non dà segnali di ridursi. Una politica fiscale accomodante nel colmo della più grande crisi economica dal 1929 poteva andare bene, ma continuare quattro anni dopo mette a repentaglio la stabilità finanziaria degli Stati Uniti.
La piattaforma elettorale di Obama contiene anche delle proposte utili per combattere la disoccupazione, come un piano per riqualificare due milioni di disoccupati ed assumere più insegnanti di matematica e scienze. Contiene infine 75 miliardi di dollari di spese in infrastrutture. Ma siamo ad una vecchia strategia di «tassa e spendi» che ha fallito nella Spagna di Zapatero e sta fallendo nella Francia di Hollande. E siamo lungi dalle speranze di un nuovo modo di fare politica promesso quattro anni fa.

Questo nuovo modo di fare politica non si è visto neppure nella regolamentazione finanziaria. La legge Dodd-Frank ha certamente degli aspetti positivi, come la creazione di un'agenzia di protezione dei consumatori, ma non risolve il problema del «troppo grande per fallire». Ed è difficile pensare che la stessa amministrazione che l'ha approvata possa cambiarla.
L'unica speranza del secondo mandato è che, libero da preoccupazioni elettorali, Obama ritorni ad essere quello che aveva promesso di essere nella sua prima campagna elettorale: un presidente bipartisan che tratti i suoi elettori come cittadini adulti e responsabili, dicendo loro le verità (anche amare) e non vendendo illusioni. Se volesse fare questo dovrebbe nominare come ministro del Tesoro Erskine Bowles, co-presidente della commissione sulla sostenibilità fiscale, impegnandosi ad approvare le conclusioni di quella commissione. Sono proposte molto serie e coraggiose per risanare il bilancio federale, tra cui l'eliminazione dei sussidi all'agricoltura, un aumento dell'età pensionabile, ed un aumento dei contributi sociali per sostenere il peso pensionistico futuro. Sarebbe difficile per i Repubblicani opporsi a questo piano, cui hanno in parte contribuito.

Libero da necessità di raccogliere ulteriori fondi elettorali, Obama potrebbe anche dedicarsi ad una riforma dei finanziamenti elettorali. Oggi il tipico rappresentate al Congresso è costretto a fare 400 eventi di raccolta di fondi all'anno (più di uno al giorno). È un sistema infernale in cui le imprese si sentono ricattate e i parlamentari costretti a mendicare, ma da cui nessuno può deviare, pena la non rielezione. Per questo solo un presidente nel suo secondo mandato può farsi promotore di una riforma di questo tipo.
Solo se si impegnasse in queste riforme e diventasse quel presedente che aveva promesso di essere, Obama potrebbe passare alla storia per qualcosa di più che essere il primo presidente nero degli Stati Uniti.


da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-08/coraggio-agire-063558.shtml?uuid=AbXaL40G
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« Risposta #63 inserito:: Dicembre 07, 2012, 04:39:10 pm »

Opinione

Doctor Fiscal e Mister Cliff

di Luigi Zingales

Obama vuole correggere la legge sul precipizio fiscale aumentando le tasse sui più ricchi. Il Congresso, a maggioranza repubblicana, vuole invece tagliare la spesa pubblica. Trovare un accordo sarà la prima sfida del presidente Usa

(29 novembre 2012)

Negli Stati Uniti lo chiamano precipizio fiscale (fiscal cliff). Contrariamente a quanto il nome lascerebbe intendere, però, non significa un imminente buco di bilancio. Al contrario, trattasi di una serie di regole che forzano il governo americano, tra i più spendaccioni al mondo, ad una più rigida disciplina fiscale. Se il Congresso non cambia la legge prima della fine dell'anno, il "precipizio fiscale" produce un aumento automatico delle imposte personali sul reddito pari al 19,6 per cento e ad una riduzione automatica delle spese pari allo 0,25 per cento. Il risultato sarebbe una contrazione del deficit americano dal 6,5 per cento del Pil nel 2012 al 4 per cento nel 2013 e a 1,2 per cento nel 2021. Noi in Europa lo chiameremmo "fiscal compact" o "austerità tedesca". Perché in America lo chiamano precipizio?
Innanzitutto perché in questi ultimi anni gli Stati Uniti si sono abituati a una politica fiscale molto più espansiva dell'Europa. Se lo sono potuti permettere perché il loro debito iniziale era relativamente basso. Ma anche in America deficit così elevati (tra il 6,5 e il 10 per cento del Pil), non sono sostenibili nel lungo periodo. Di questo passo il debito pubblico americano (al 69 per cento del Pil nel 2011) salirebbe al 100 per cento nel 2021.

DI QUI LA NECESSITÀ di un aggiustamento. Paragonato alle ricette che la Troika economica (Bce, Fmi e Ue) ha imposto alla Grecia, il piano implicito nel fiscal cliff è moderato. Eppure quando la ricetta viene applicata agli Stati Uniti diventa agli occhi degli americani non solo draconiana, ma addirittura terrificante. L'America teme una forte caduta del Pil. E non c'è dubbio che l'effetto immediato di una contrazione fiscale sul Pil sia negativo. Se le famiglie improvvisamente si trovano meno soldi in tasca da spendere, ridurranno (almeno in parte) i consumi. Di conseguenza la domanda interna si ridurrà e le imprese dovranno sforzarsi di trovare nuovi mercati. Per questo motivo l'effetto immediato è negativo, ma poi questo effetto negativo si attenua nel tempo. Questo non significa che l'aggiustamento non debba avvenire. Prima o poi anche lo Stato americano deve risanare i propri conti e più aspetta a farlo e più costoso questo aggiustamento sarà (come noi italiani ben conosciamo).

MA PERCHE' lo stesso Congresso che oggi è chiamato ad allargare i cordoni della borsa due anni fa ha imposto le rigide regole che producono questo precipizio? La disciplina fiscale è come una dieta. Sappiamo che ci fa bene, ma vorremmo sempre posporne l'inizio alla settimana prossima. Lo stesso ha fatto il Congresso americano. Preoccupato dei deficit persistenti, ha deciso di mettere a dieta lo Stato. Per motivi politici (gli aumenti di imposte e i tagli di spesa sono impopolari) non ha voluto farlo immediatamente. Ha preferito impegnarsi per il futuro. Così due anni fa il Congresso ha esteso la riduzione delle aliquote fiscali introdotta da Bush nel 2003 per soli due anni e ha introdotto dei tagli di spesa con decorrenza posticipata. Il fiscal cliff altro non è che il ripido sentiero che il Congresso si è autoimposto per far dimagrire il deficit. Purtroppo, come ben sappiamo, è facile sgarrare alle regole dietetiche autoimposte. Così può fare il Congresso. E tutti si aspettano che lo faccia, evitando all'ultimo momento il "precipizio."

Come per la dieta, anche per l'austerità non è bene posticipare. Se si teme che la cura sia troppo violenta, meglio cominciarla subito ma in forma più lieve. Questo è quello oggi dovrebbe fare il Congresso americano. Se effettivamente lo farà, dipende dalla relazione tra la maggioranza repubblicana e il presidente Obama, da poco rieletto. Ogni proposta che rimandi integralmente il problema avrà l'opposizione della maggioranza repubblicana. Ogni proposta che non aumenti le tasse sulla parte più ricca della popolazione non avrà il supporto del Presidente. La soluzione ottimale, come spesso accade, sta nel mezzo. Conseguirla sarà la prima sfida del secondo mandato di Obama.

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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:58:49 pm »

Opinione

Doctor Fiscal e Mister Cliff

di Luigi Zingales

Obama vuole correggere la legge sul precipizio fiscale aumentando le tasse sui più ricchi. Il Congresso, a maggioranza repubblicana, vuole invece tagliare la spesa pubblica. Trovare un accordo sarà la prima sfida del presidente Usa

(29 novembre 2012)

Negli Stati Uniti lo chiamano precipizio fiscale (fiscal cliff). Contrariamente a quanto il nome lascerebbe intendere, però, non significa un imminente buco di bilancio. Al contrario, trattasi di una serie di regole che forzano il governo americano, tra i più spendaccioni al mondo, ad una più rigida disciplina fiscale. Se il Congresso non cambia la legge prima della fine dell'anno, il "precipizio fiscale" produce un aumento automatico delle imposte personali sul reddito pari al 19,6 per cento e ad una riduzione automatica delle spese pari allo 0,25 per cento. Il risultato sarebbe una contrazione del deficit americano dal 6,5 per cento del Pil nel 2012 al 4 per cento nel 2013 e a 1,2 per cento nel 2021. Noi in Europa lo chiameremmo "fiscal compact" o "austerità tedesca". Perché in America lo chiamano precipizio?
Innanzitutto perché in questi ultimi anni gli Stati Uniti si sono abituati a una politica fiscale molto più espansiva dell'Europa. Se lo sono potuti permettere perché il loro debito iniziale era relativamente basso. Ma anche in America deficit così elevati (tra il 6,5 e il 10 per cento del Pil), non sono sostenibili nel lungo periodo. Di questo passo il debito pubblico americano (al 69 per cento del Pil nel 2011) salirebbe al 100 per cento nel 2021.

DI QUI LA NECESSITÀ di un aggiustamento. Paragonato alle ricette che la Troika economica (Bce, Fmi e Ue) ha imposto alla Grecia, il piano implicito nel fiscal cliff è moderato. Eppure quando la ricetta viene applicata agli Stati Uniti diventa agli occhi degli americani non solo draconiana, ma addirittura terrificante. L'America teme una forte caduta del Pil. E non c'è dubbio che l'effetto immediato di una contrazione fiscale sul Pil sia negativo. Se le famiglie improvvisamente si trovano meno soldi in tasca da spendere, ridurranno (almeno in parte) i consumi. Di conseguenza la domanda interna si ridurrà e le imprese dovranno sforzarsi di trovare nuovi mercati. Per questo motivo l'effetto immediato è negativo, ma poi questo effetto negativo si attenua nel tempo. Questo non significa che l'aggiustamento non debba avvenire. Prima o poi anche lo Stato americano deve risanare i propri conti e più aspetta a farlo e più costoso questo aggiustamento sarà (come noi italiani ben conosciamo).

MA PERCHE' lo stesso Congresso che oggi è chiamato ad allargare i cordoni della borsa due anni fa ha imposto le rigide regole che producono questo precipizio? La disciplina fiscale è come una dieta. Sappiamo che ci fa bene, ma vorremmo sempre posporne l'inizio alla settimana prossima. Lo stesso ha fatto il Congresso americano. Preoccupato dei deficit persistenti, ha deciso di mettere a dieta lo Stato. Per motivi politici (gli aumenti di imposte e i tagli di spesa sono impopolari) non ha voluto farlo immediatamente. Ha preferito impegnarsi per il futuro. Così due anni fa il Congresso ha esteso la riduzione delle aliquote fiscali introdotta da Bush nel 2003 per soli due anni e ha introdotto dei tagli di spesa con decorrenza posticipata. Il fiscal cliff altro non è che il ripido sentiero che il Congresso si è autoimposto per far dimagrire il deficit. Purtroppo, come ben sappiamo, è facile sgarrare alle regole dietetiche autoimposte. Così può fare il Congresso. E tutti si aspettano che lo faccia, evitando all'ultimo momento il "precipizio."

Come per la dieta, anche per l'austerità non è bene posticipare. Se si teme che la cura sia troppo violenta, meglio cominciarla subito ma in forma più lieve. Questo è quello oggi dovrebbe fare il Congresso americano. Se effettivamente lo farà, dipende dalla relazione tra la maggioranza repubblicana e il presidente Obama, da poco rieletto. Ogni proposta che rimandi integralmente il problema avrà l'opposizione della maggioranza repubblicana. Ogni proposta che non aumenti le tasse sulla parte più ricca della popolazione non avrà il supporto del Presidente. La soluzione ottimale, come spesso accade, sta nel mezzo. Conseguirla sarà la prima sfida del secondo mandato di Obama.

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« Risposta #65 inserito:: Dicembre 28, 2012, 04:16:35 pm »

Economia

2013, l'Europa non riparte

di Luigi Zingales

L'America sembra riprendersi grazie anche al nuovo petrolio.

La Cina cresce. Ma le difficoltà dell'euro non si placano.

E per l'Italia siamo all'Anno meno uno

(27 dicembre 2012)

"Passeggere . Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore . Oh illustrissimo sì, certo.
Passeggere . Come quest'anno passato?
Venditore . Più più assai.
Passeggere . Come quello di là?
Venditore . Più più, illustrissimo.
Passeggere . Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore . Signor no, non mi piacerebbe."

Non occorre condividere il pessimismo leopardiano (nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere) per predire che l'anno che sta arrivando non sarà facile, almeno per quanto riguarda l'Italia. C'e' un grande desiderio di vedere la luce alla fine del lungo tunnel della recessione. Non voglio fare l'uccello del malaugurio, ma mi tocca dire che il 2013 non sarà l'anno della ripresa. Nel migliore dei casi sarà l'anno meno uno. Meno uno come il tasso di crescita previsto per il Prodotto Interno Lordo italiano. E meno uno come l'anno prima dell'anno zero del nuovo ciclo. La ripresa arriverà, ma solo nel 2014.

Il motivo per cui questa crisi, cominciata in America nell'ormai lontano 2007, non accenna a finire è perché non è una crisi semplice, ma l'intersezione di tre crisi diverse: la crisi dei mutui subprime in America, la crisi dell'euro, e la crisi del modello di welfare occidentale. Paradossalmente la prima crisi, quella che ha innescato il cataclisma, si sta risolvendo. Le altre, invece, sono ancora agli inizi.

La storia è piena di sbornie di euforia, seguite da pesanti crisi finanziarie. La bolla immobiliare americana finanziata dai mutui subprime altro non è che uno di questi episodi. Quando i prezzi delle case in America (ma anche in Spagna) crescevano a due cifre anno dopo anno, era difficile resistere alla tentazione di comprare. Chi è saltato sul treno all'inizio della bolla, indebitandosi fino al collo per comprare una casa più grande o una seconda o terza casa, si è arricchito a dismisura. Gli altri, che hanno cercato di imitare questi fortunati, si sono trovati con il cerino in mano quando i prezzi delle case hanno prima smesso di crescere e poi sono crollati (in media del 30 per cento).

Il risveglio dopo un periodo di euforia finanziaria è simile a quello dopo una sbornia: cerchio alla testa e depressione. I consumatori, aggravati dal debito contratto durante il boom, sono timorosi. Le banche, piene di crediti inesigibili, non concedono prestiti. E le imprese, senza consumatori e senza credito, faticano ad espandersi. Non a caso, la storia economica ci insegna che dopo ogni crisi finanziaria la ripresa è molto lenta. La crisi attuale non fa eccezione. Invece di recuperare velocemente, gli Stati Uniti ci hanno messo quattro anni per raggiungere il livello di Pil pre crisi. La buona novella è che questo livello è stato raggiunto e sorpassato e gli Stati Uniti stanno consolidando la loro ripresa che sarebbe più robusta se non ci fossero le altre due crisi a complicare la vita. Purtroppo l'Italia, che non è stata investita direttamente dalla crisi del subprime, stenta più degli Stati Uniti. Il Pil è ancora più basso del livello prima della crisi (di ben sette punti percentuali) e il gap non sembra destinato a colmarsi il prossimo anno. Di questo dobbiamo ringraziare le altre due crisi.

La più acuta delle due è quella dell'euro, che fa tremare non solo gli europei, ma anche gli americani. Se il caso subprime va addebitato al mercato, la crisi dell'euro è interamente colpa dei politici. Non solo non sono riusciti ad evitarla, ma l'hanno espressamente voluta. Quando la moneta comune fu introdotta c'era piena consapevolezza tra i suoi creatori che in questi termini non sarebbe stata sostenibile. La speranza dei padri fondatori era che l'inevitabile crisi avrebbe generato una pressione politica verso una maggiore integrazione europea. Il cuore è stato gettato oltre l'ostacolo nella convinzione che al momento giusto il resto del corpo avrebbe seguito. Purtroppo l'ostacolo sembra più alto del previsto.

Perché una moneta comune funzioni, i paesi che l'adottano devono avere una forte mobilità del lavoro, meccanismi di trasferimento fiscale ed essere soggetti a shock simili. Nessuna di queste tre condizioni vale per l'Europa. Non è così semplice per i tedeschi spostarsi a lavorare in Spagna o per gli spagnoli in Germania. Ai problemi di lingua si sommano forti differenze culturali. Questa scarsa mobilità rende difficile assorbire gli shock locali. Lo scoppio della bolla Internet ha colpito la Germania molto più della Spagna, mentre l'espansione della Cina ha beneficiato l'export tedesco molto più di quello spagnolo. Difficile dunque disegnare una politica monetaria che funzioni per entrambi i paesi. La politica monetaria all'inizio del millennio andava bene per la Germania, ma era troppo inflazionistica per la Spagna. Oggi, viceversa, va bene per la Germania, ma è troppo restrittiva per la Spagna.

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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 03, 2013, 06:17:22 pm »


La montagna del debito resta intatta

di Luigi Zingales

03 gennaio 2013


Winston Churchill amava dire che si può essere sicuri che gli americani facciano sempre la cosa giusta, ma solo dopo aver sperimentato ogni possibile alternativa. L'accordo fiscale per evitare il famigerato fiscal cliff raggiunto ieri dal Congresso Usa è stato sicuramente conseguito dopo aver esplorato ogni possibile alternativa. Ma è la cosa giusta? Se l'obiettivo era di evitare che la debole ripresa americana si arresti subito, sì. Se invece era quello di risolvere i problemi strutturali della finanza pubblica, purtroppo la risposta è no.

A dispetto del nome, il precipizio fiscale evitato non era il rischio di insolvenza per il governo americano, ma un forte aumento delle imposte accompagnato da forti tagli di spese. In Europa lo chiameremmo "fiscal compact". Era il risultato della fine dei tagli temporanei alle imposte introdotti da Bush nel 2001 e rinnovati da Obama nel 2010 e di tagli automatici delle spese, concordati dai repubblicani nell'estate del 2011 in cambio di un innalzamento del tetto sul debito. Il precipizio in cui l'America sarebbe caduta altro non era che la recessione che si accompagna ad ogni stretta fiscale (vedi Italia 2012). Visto che sia repubblicani che democratici volevano evitare questo rischio, perché tanto dramma?
Perché gli Stati Uniti non devono solo ripianare il loro deficit (che rimane al 7% del Pil), ma anche prepararsi a fronteggiare il problema strutturale che affligge tutte le democrazie occidentali: l'insostenibilità fiscale dell'attuale modello di welfare. Finora questo sistema era stato finanziato trasferendo una parte rilevante del costo sulle generazioni future. In un mondo in forte crescita economica e demografica, il peso imposto sulle generazioni future era minimo perché costoro erano più ricche e numerose.

Purtroppo la riduzione dei tassi medi di crescita e il crollo demografico non solo rendono impossibile questo trasferimento (le generazioni future sono meno numerose e non necessariamente più ricche), ma forzano la generazione presente a cominciare a pagare il debito contratto da quelle passate.

In parole povere questo significa che per far quadrare i conti bisogna cominciare a ridurre i costi di alcuni "entitlement" o, come diremmo noi impropriamente, diritti acquisiti: assistenza sanitaria agli anziani (Medicare) e pensioni. Anche prima della riforma Obama, gli ultra65enni americani godevano di assistenza statale gratuita. Con la riduzione delle nascite che aumenta l'età media della popolazione, l'allungamento della vita media, e il progredire della scienza medica in grado di fare miracoli ma a costi molto elevati, dare a tutti tutta l'assistenza medica possibile non è sostenibile. Già oggi (secondo le stime dell'Urban institute) il tipico lavoratore che guadagna 35mila dollari l'anno nel corso della sua vita riceve 210mila dollari più di quello che contribuisce a Medicare. Se poi è sposato e la moglie non lavora il beneficio netto raddoppia. Lo stesso vale per le pensioni. Nel corso della sua vita il tipico lavoratore riceve benefici pensionistici 200mila dollari in più di quello che paga. Chiaramente non è possibile risolvere questa situazione solo tassando di più i ricchi: anche negli Stati Uniti non ce ne sono abbastanza. Bisogna ridurre i benefici promessi.

Ma politicamente qualsiasi riduzione degli entitlement è molto costosa. In Italia lo abbiamo fatto sotto minaccia dello spread. In America, che non ha problemi di spread, il sistema politico ha cercato di creare artificialmente una crisi (il fiscal cliff) per forzare entrambi i partiti a delle scelte politicamente costose. Purtroppo, invece di sedersi intorno a un tavolo e cercare un accordo sostanziale, democratici e repubblicani hanno preferito continuare con la loro retorica elettorale. I democratici chiedendo che a pagare il conto siano solo i ricchi. I repubblicani opponendosi a qualsiasi aumento di imposte. Alla fine sul fronte imposte hanno raggiunto un compromesso ragionevole: aumenteranno le tasse solo per quelli che guadagnano più di 400mila dollari individualmente o 450mila come famiglia (negli Stati Uniti esiste il cumulo dei redditi tra marito e moglie), ovvero meno dell'1% della popolazione.

Non altrettanto è stato fatto per i tagli di spesa. Alcuni deputati repubblicani hanno cercato di far passare alla Camera una proposta che includesse anche dei tagli, ma non sono riusciti a trovare un accordo neppure tra di loro. Per questo il problema dei tagli automatici di spesa è stato rimandato a un dibattito a fine mese. Come è stata rimandata la discussione sull'innalzamento del tetto di debito, che creerà tra poco un nuovo fiscal cliff, questa volta più pericoloso perché se non si innalza il tetto del debito, il governo americano diventa insolvente. In altri termini, nonostante l'euforia delle Borse non c'è nulla da celebrare. Il fiscal cliff non ha funzionato nel costringere i partiti a decisioni politicamente difficili. Hanno fatto quello che riescono a fare meglio: rimandare la decisione. Lo avevano fatto a luglio 2011 e lo rifaranno a fine mese quando il fiscal cliff si riproporrà. Più gli Stati Uniti tardano a intervenire su questi entitlement, più costoso sarà farlo. Lentamente, ma inesorabilmente, l'America sta sprofondando nel precipizio vero, da cui non si riesce ad emergere con un semplice accordo la notte di Capodanno. Noi ne sappiamo qualcosa.

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« Risposta #67 inserito:: Febbraio 09, 2013, 03:55:14 pm »

Opinione

Mps, ecco chi sono i complici

di Luigi Zingales

Mussari sarà un mariuolo, però a reggergli il gioco sono stati in tanti.

Il Pd di Bersani, certo, ma anche Draghi, Tremonti, Berlusconi e lo stesso Mario Monti

(01 febbraio 2013)

"Una storia italiana dal 1472". Così recita il motto del Monte dei Paschi di Siena (Mps). Ed è vero. La storia torbida di Mps e il suo drammatico declino rappresentano la storia italiana, lo specchio di quello che sta succedendo al nostro Paese.
Come all'epoca di Mani pulite, l'intero sistema cerca di scaricare la responsabilità su di un singolo "mariuolo" , in questo caso Giuseppe Mussari. Ma a differenza di Mario Chiesa, questo mariuolo non era un signore qualsiasi, era il presidente della Associazione bancaria italiana. «Qui assiste au crime assiste le crime» (chi assiste passivamente a un crimine, ne diventa complice), diceva Victor Hugo. In questo senso morale, anche se non necessariamente in quello giuridico, l'intera classe dirigente italiana è complice di questo disastro.

E' moralmente complice innanzitutto il Pd di Bersani, che tramite il controllo di Regione, Provincia e Comune nomina 14 dei 16 consiglieri della Fondazione Mps. «Noi Mussari l'abbiamo cambiato un anno fa», si vanta Massimo D'Alema, non capendo che così si assume la responsabilità di aver nominato il mariuolo presidente della banca e di averlo tenuto lì per sei anni, durante i quali il valore della banca si è ridotto di 15 miliardi.

E' moralmente complice la Banca d'Italia, che quell'istituto doveva vigilare. Se basta, come ha sostenuto il governatore Visco, un mariuolo per ingannare la Vigilanza, a cosa serve la Vigilanza?

E' moralmente complice anche Mario Draghi, che in veste di governatore ha autorizzato il folle acquisto di Antonveneta da parte di Mps nel 2007, un acquisto fatto in fretta, violando i più basilari principi di buona corporate governance, senza una "due diligence", a un valore di 4 miliardi superiore al prezzo pagato dal Santander solo tre mesi prima. E' moralmente complice anche di non aver agito - a quanto risulta dai bollettini di vigilanza - dopo che i suoi ispettori nel 2010 avevano trovato «profili di rischio non adeguatamente controllati» in Mps, come evidenzia il rapporto interno Bankitalia rivelato da Linkiesta.
E' moralmente complice Giulio Tremonti che come ministro del Tesoro avrebbe dovuto vigilare sulla solidità delle fondazioni e invece ha permesso alla Fondazione Montepaschi di indebitarsi per mantenere il controllo della banca.

E' moralmente complice anche Berlusconi che da premier ha avallato le scelte di Tremonti, rifiutandosi di criticare «un'istituzione a cui vuole bene» perché grazie a essa potè costruire Milano 2 e Milano 3.

E' moralmente complice Mario Monti che ha concesso 3,9 miliardi di aiuti senza chiedere prima una pulizia radicale della banca. Come è responsabile di aver accettato in lista Alfredo Monaci, consigliere di amministrazione di Mps durante la gestione Mussari e oppositore dell'operazione di pulizia promossa (molto tardivamente) dal sindaco di Siena. E' questa la società civile che Monti porta in politica?

E' moralmente complice l'intero sistema bancario italiano. Mussari non solo è stato eletto presidente dell'Abi, ma è stato rieletto all'unanimità dopo che erano già trapelate le notizie di indagini sul suo conto. E Mussari non è stato un presidente qualsiasi: è stato la punta di sfondamento della lobby bancaria che ha chiesto a gran voce una causa legale contro il povero direttore della European banking association Andrea Enria, "colpevole" di voler imporre in maniera rigorosa gli standard europei di capitalizzazioni delle banche. E che ha tuonato lungamente per imporre una patrimoniale a difesa dei titoli di Stato, su cui il suo Montepaschi stava speculando per ripianare i buchi di bilancio.

Se tutti sono complici, come possiamo evitare di diventare complici anche noi? Richiedendo come condizione del nostro voto che il partito di nostra fiducia si impegni a sostenere una commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da una persona al di sopra di ogni sospetto, che indaghi a 360 gradi sull'affare Monte Paschi e le colpe in vigilando di tutti gli organi istituzionali. E se il nostro partito non lo fa, votiamone un altro. Il potere di cambiare è nostro, riprendiamocelo!

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/mps-ecco-chi-sono-i-complici/2199581/18
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« Risposta #68 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:32:10 pm »

Esteri
13/02/2013 - intervista

“Per prima cosa Obama ristabilisca la solidità fiscale degli Stati Uniti”


Zingales: «Il Medicare e il Social Security aumenteranno di costo, evitare la direzione presa dall’Italia»

Francesco Semprini

«Riformare il Medicare e il Social Security, e ristabilire la solidità fiscale nel lungo periodo sono gli obiettivi primari che deve perseguire Barack Obama in questo secondo mandato». Luigi Zingales, professore di finanza alla University of Chicago Booth School of Business, ed uno degli ispiratori del movimento «Fare, per fermare il declino», analizza, alla luce del discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama, opportunità e rischi che attendono il presidente americano nei prossimi quattro anni.

 

Qual è la priorità di Barack Obama? 

«Risolvere la situazione fiscale nel lungo periodo, ovvero mettere gli Stati Uniti su solide basi finanziarie per molti anni a venire. Questo è quello che tranquillizzerebbe di più dal punto di vista economico, perché al di là di un deficit che rimane oggi molto forte, il problema è che sia il Medicare che il Social Security, ovvero i programmi previdenziali pubblici, aumenteranno notevolmente di costo e non c’è incremento fiscale che possa contenere questa esplosione. Quindi o si va a incidere direttamente su queste aspettative acquisite, o gli Stati Uniti andranno inesorabilmente nella direzione dell’Italia. Non c’è presidente migliore di uno al secondo mandato per affrontare queste problematiche, visto che non è in gioco una sua rielezione. Ancor di più perché tutte queste previsioni sono anteriori all’entrata in vigore dell’Obamacare, la riforma sanitaria voluta dall’inquilino della Casa Bianca, che andrà sicuramente a gonfiare il deficit visto che ex ante i costi sono sempre sottostimati». 

 

Nel primo mandato si è imputato ad Obama di aver perseguito a tutti i costi la riforma sanitaria tralasciando aspetti economici che avrebbero dovuto avere la precedenza. Non ritiene che possa accadere lo stesso oggi con la riforma dell’immigrazione? 

 

«Non ne sono convinto. Innanzi tutto non ci troviamo in una situazione drammatica come quella del 2009, se il Paese non si fosse trovato in emergenza nazionale quattro anni fa l’approvazione dell’Obamacare sarebbe stata anche appropriata come tempistica. Inoltre una riforma dell’immigrazione è essenziale sia perché legalizza una parte importante della popolazione e secondo rafforza ulteriormente l’integrazione della componente ispanica che è una componente importantissima e crescente. Gli Stati Uniti sono sempre vissuti con una politica dell’immigrazione complessivamente aperta e questo ha avuto un significato importante non solo dal punto di vista politico ma economico, nel senso che ha attirato imprenditori, scienziati e professionisti. E’ importante rilanciare questa visione, uno dei grandi limiti del partito repubblicano è che si è schierato su posizioni molto più protezionistiche. Adesso Rubio cerca di rincorrere la popolazione ispanica perché il Gop ha capito che non vincono le elezioni senza di quella però non c’è una visione organica in questo senso». 

 

Qual è lo scenario in materia di «fiscal cliff» con l’avvicinarsi della scadenza di metà febbraio? 

 

«Innanzi tutto vorrei dire che l’accordo raggiunto all’inizio dell’anno è stato presentato come una vittoria di Obama, ma secondo me nel lungo periodo si rivelerà una vittoria dei repubblicani. Il grosso dibattito su cui Obama aveva carta bianca era l’aumento delle tasse ai ricchi e su questo lui ha vinto le elezioni incassando l’appoggio della maggioranza dei cittadini. Il punto è capire cosa si intenda per ricchi: oggettivamente 250 mila dollari all’anno per nucleo familiare, tenendo conto della cumulabilità degli stipendi, considerando che si tratta di una somma al lordo di contributi e tasse, e alla luce del costo della vita specie in alcune realtà americane, non si può certo considerare un reddito da ricchi. I repubblicani, che volevano fissare la soglia del milione di dollari, evidentemente esagerata, hanno raggiunto un compromesso ragionevole tirando la linea a 450 mila dollari. La cosa importante da sottolineare è che con questa manovra sono aumentate le imposte in termini di gettito fiscale di 60-70 miliardi di dollari l’anno contro un aumento del deficit di mille miliardi, quindi non si è fatto nulla. Di fatto non ci sono ricchi a sufficienza da tassare per risolvere il problema fiscale, bisogna adottare un altro approccio, ovvero procedere a tagli massicci di spesa». 

 

Cosa ne pensa dell’intesa sull’innalzamento del tetto di debito? 

 

«Spostando la scadenza non hanno risolto il problema del tetto di debito, lo hanno solo rimandato. Su questo devo dire, tuttavia, che innalzare il tetto di debito è una cosa intelligente perché è un meccanismo che crea delle crisi endogene che servono a riportare l’attenzione sul problema. In sostanza alzare il tetto può essere utile nel breve periodo, il fatto è che abbiamo tassato i ricchi più di quanto abbia fatto Clinton, a questo punto o torniamo al sistema di imposte pre-reaganiano, oppure dobbiamo agire sulle spese». 

 

Una delle certezze dell’Obama 2.0 è il rafforzamento dell’asse con Bernanke, ma quanto possono andare avanti ancora le operazioni di alleggerimento? 

 

«Parlando con alcuni membri del Board della Banca centrale Usa è emerso chiaramente che si continuerà in questa direzione ancor a lungo visto che non si può fare altrimenti anche perché le aspettative future sull’inflazione rimangono basse mentre quelle sulla disoccupazione sono ancora elevate». 

 

Per alcuni questo è l’anno della grande rotazione sui mercati, dall’obbligazionario all’azionario. Nel post-crisi le Borse sono le prime a reagire, ma in questo caso sono indicatrici di una ripresa solida? 

 

«Sicuramente gli indici di Borsa sono influenzati molto anche dalla politica monetaria quindi il fatto che i mercati vadano a gonfie vele è anche dovuto al Quantitative easing. Tuttavia sono convinto che, salvo sorprese di varia natura, gli Stati Uniti stiano imboccando la via di una ripresa abbastanza solida. Sono due gli elementi positivi, il mercato immobiliare residenziale sembra aver girato in meglio e quindi dovrebbe iniziare a produrre occupazione invece che a toglierla. L’altro è questa grande vivacità nel settore energetico con le tecnologie del fracking destinati ad agevolare l’indipendenza degli Stati Uniti dal punto di vista energetico. Al di là dell’indipendenza, il fatto che ci sia un boom petrolifero fa bene all’occupazione così come il boom del gas che non è un bene facilmente trasportabile e questo fa si che i suoi prezzi negli Stati Uniti siano particolarmente bassi. Il risultato è una riduzione della bolletta energetica che rappresenta un elemento competitivo». 

 

Quanto dovremmo aspettare per avere un mercato del lavoro in salute 

 

«Dovremmo avere un paio di anni di espansione almeno del 2-2,5%, perché purtroppo la dinamica della popolazione è tale che se l’economia cresce a quella velocità a stento assorbiamo la nuova forza lavoro. In sostanza abbiamo bisogno di alcuni anni di crescita forte, questa è la sfida». 

 

L’Europa è ancora un potenziale rischio per Obama? 

 

«Sicuramente è vista meglio di quanto lo era un anno fa e da un punto di vista finanziario, nel lungo periodo tuttavia i problemi del Vecchio continente non sono risolti e quindi c’è sempre un certo scetticismo riguardo l’euro e la sua sopravvivenza». 

 

Cosa si aspetta il presidente dalle urne alla fine di febbraio? 

 

«Intanto è importante capire che l’Italia di oggi nella visione del presidente americano non è l’Italia degli anni Settanta, ovvero non è così fondamentale o almeno non tra le sue prime preoccupazioni se non fosse che potrebbe far saltare l’Europa. Il risultato del voto di fine febbraio in se conta poco, quello che interessa ad Obama è che l’Italia non diventi instabile ovvero che sia in grado di formare un governo e di non rinnegare tutto quello che è stato fatto sino ad ora iniziando a spendere e spandere». 

da - http://www.lastampa.it/2013/02/13/esteri/per-prima-cosa-obama-ristabilisca-la-solidita-fiscale-degli-stati-uniti-RMCiMyuPOSyefXjSnGeckM/pagina.html
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« Risposta #69 inserito:: Maggio 05, 2013, 04:41:16 pm »

Perché il Giappone non ci insegna niente

di Luigi Zingales

Tokyo stampa moneta per battere la deflazione. Lo yen si svaluta e questo favorisce l'export.

Una lezione per l'Italia? No, perché per aiutare la crescita contano di più le riforme

(18 aprile 2013)

Nell'immaginario collettivo i banchieri centrali sono noiosi uomini in grigio, senza passioni o colpi di testa. Ma il nuovo governatore della banca centrale giapponese, Haruhiko Kuroda, sembra un'eccezione. Non per l'aspetto fisico, ma per le decisioni che ha preso. All'inizio di aprile ha sorpreso i mercati finanziari annunciando che nei prossimi due anni immetterà sul mercato più di mille miliardi di euro di liquidità, comprando titoli di stato giapponesi ma anche altre attività finanziarie. E' quello che gli americani chiamano "quantitative easing," un termine sofisticato per dire una cosa molto semplice: stampare moneta. Non solo. A differenza di tutti gli altri banchieri centrali, Kuroda dice chiaramente che vuole aumentare permanentemente l'inflazione. Perché?

Il primo motivo è che Tokyo è da più di un decennio in deflazione: ovvero in una continua (anche se modesta) riduzione dei prezzi. Dal 1999 l'indice dei prezzi è sceso in media dello 0,3 per cento l'anno, cosicché quello che nel 1998 costava 100 yen oggi ne costa solo 95. Ma il motivo principale è che il Giappone ha smesso di crescere. Se negli Anni 80 il prodotto interno lordo giapponese cresceva del 4,6 per cento all'anno, negli anni 90 dell'1,2 per cento, negli ultimi dieci anni è cresciuto solo dello 0,75 per cento. Tra i grandi paesi sviluppati solo l'Italia ha fatto peggio.

Inizialmente il governo ha cercato di contrastare questi problemi con una politica fiscale espansiva: costruzioni pubbliche, sgravi fiscali. Il debito pubblico è salito dal 67 per cento del Pil nel 1990 al 210 per cento di oggi. Ma non è bastato. Ora il Giappone cerca di risolvere la sua crisi con una politica monetaria super espansiva. L'unico effetto certo di questa politica è una svalutazione dello yen, con beneficio delle imprese esportatrici, che hanno brindato in Borsa. Ma questa è sempre stata la parte sana del Giappone, che non ha bisogno di ulteriori stimoli. La parte malata è tutto il resto. Le banche, ancore afflitte dalle sofferenze sui prestiti e da un'allocazione del credito clientelare. Il settore dei servizi, costoso, inefficiente e non competitivo. La macchina statale, sempre più gestita per il consenso. Un forte invecchiamento della popolazione che non solo crea problemi al sistema pensionistico, ma favorisce anche una gerontocrazia conservatrice che soffoca l'innovazione e ogni cambiamento.

La speranza di Kuroda è che l'immissione di liquidità riduca non solo il costo nominale del denaro, ma soprattutto il costo reale. Abbassando i tassi nominali e aumentando l'inflazione i tassi reali (ovvero la differenza tra tassi nominali e inflazione) scende, stimolando gli investimenti e quindi l'economia. Ma con dei tassi nominali sotto l'1 percento e un obiettivo di inflazione del 2 per cento, lo stimolo all'economia di una manovra monetaria è molto limitato. Mentre lo stimolo alla speculazione è molto forte. Con un costo reale del denaro negativo e uno yen che si svaluta i giapponesi si metteranno a comprare materie prime, titoli esteri ad alto rendimento, perfino case in Cina, destabilizzando i mercati internazionali. L'altro effetto certo della politica monetaria aggressiva di Kuroda è quello di distrarre l'opinione pubblica giapponese dalla necessità di riforme vere, che vadano a toccare i privilegi di una gerontocrazia inadatta a gestire il Paese nel XXI secolo.

L'unico vero vantaggio della politica di Kuroda è quello di dimostrare all'Italia e al mondo che non esistono scorciatoie. La via delle riforme è difficile. Pensare che si possa risolvere tutto con un po' di moneta in più non è solo illusorio, ma anche pericoloso, perché distrae dall'impegno per le riforme vere. Speriamo che l'Italia impari.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-il-giappone-non-ci-insegna-niente/2205157/18
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« Risposta #70 inserito:: Maggio 16, 2013, 11:22:44 pm »

La via americana al reddito minimo

di Luigi Zingales

Grillo lo propone di cittadinanza, Letta lo vuole garantito. Ma il primo è troppo caro e il secondo si presta a frodi. L'alternativa è il credito di imposta per chi lavora: fu scelto da Clinton, ma ispirato dal liberista Friedman

(15 maggio 2013)

Occorre «un cambiamento radicale, ha detto il nuovo presidente del Consiglio Enrico Letta: un welfare più universalistico e meno corporativo, che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi... Si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto per famiglie bisognose con figli».

Dopo aver ceduto al Pdl sull'Imu («stop ai pagamenti di giugno»), con queste parole Letta cerca consenso a sinistra, avanzando l'ipotesi di un reddito minimo garantito (Rmg). Il Rmg differisce dal reddito di cittadinanza (Rdc) proposto da Grillo in una dimensione importante: il Rdc è dato a tutti, ricchi e poveri, indipendentemente dallo stato di bisogno. Il Rmg, invece, è mirato alle famiglie meno abbienti: proprio per questo è molto meno costoso del Rdc. Per fornire un reddito di 500 euro al mese a tutti i cittadini italiani al di sopra dei 18 anni ci vorrebbero 300 miliardi di euro all'anno (circa il 20 per cento del Pil). Essendo mirato alle sole famiglie meno abbienti, il costo del Rmg può essere di molto inferiore. Se si vogliono aiutare un milione di famiglie, il costo sarebbe di 6 miliardi, pari a quello richiesto dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa e dalla rinuncia ad aumentare l'Iva.

Il RMG, però, soffre di due problemi strutturali. Il primo è la frode. Se la condizione per ottenerlo è apparire indigenti, molte famiglie, che indigenti non sono, cercheranno di apparire tali agli occhi dello Stato. Il Rmg diventa quindi un sussidio per i disonesti. Il secondo problema è il disincentivo a lavorare creato dal Rmg. Visto che tanti lavori generano un reddito al di sopra dei 500 euro, molti preferiranno non lavorare e percepire un Rmg di 500 euro piuttosto che lavorare e guadagnare 600-700 euro, ovvero solo cento o duecento euro in più. In altri termini, il Rmg agisce come una tassa su chi lavora, o, peggio, un sussidio all'ozio. Invece di aiutare a risolvere il problema della disoccupazione, il Rmg lo rende cronico, perché paga la gente per rimanere disoccupata.

Non si tratta solo di un'obiezione teorica. In uno dei primi esperimenti condotti in economia, all'inizio degli anni Settanta gli Stati Uniti hanno implementato una forma di reddito minimo garantito in un gruppo di famiglie in varie città. Comparando le famiglie con Rg a famiglie simili senza, si è visto che il Rmg riduce il totale delle ore lavorate in un anno del 7 per cento per gli uomini e del 17 per le donne. Questa riduzione non è dovuta a una contrazione delle ore lavorate settimanalmente, ma a un aumento della durata dei periodi di disoccupazione.

La soluzione adottata in America si chiama "credito di imposta per chi lavora" (earned income tax credit ). L'idea è molto semplice. Se pagare la gente per non lavorare aumenta la disoccupazione, pagarla per lavorare contribuirà a ridurre la disoccupazione. La disoccupazione altro non è che una differenza tra il salario a cui un datore di lavoro vuole assumere e quello a cui il lavoratore è disposto a lavorare. Riducendo questa differenza si riduce la disoccupazione. Ma come? Aiutando con un credito di imposta i bisognosi che lavorano. Una famiglia con due figli a carico che guadagna meno di 12.500 dollari riceve dallo stato un sussidio di 40 centesimi per ogni dollaro in più che guadagna. Sembra contro intuitivo pagare di più chi guadagna di più, ma è il modo migliore per indurre la gente a lavorare e lavorare legalmente. E soddisfa il principio enunciato da Letta di aiutare i bisognosi a «rialzarsi e a riattivarsi». Per evitare di sussidiare i ricchi, a 12.500 dollari di reddito familiare il sussidio si blocca a 5 mila e, dopo i 16.450 dollari di reddito, comincia a scendere, ma in modo sufficientemente lento da non togliere gli incentivi a guadagnare di più.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta del premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta dal premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una Sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.


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« Risposta #71 inserito:: Maggio 24, 2013, 11:13:15 am »

La via americana al reddito minimo

di Luigi Zingales

Grillo lo propone di cittadinanza, Letta lo vuole garantito. Ma il primo è troppo caro e il secondo si presta a frodi. L'alternativa è il credito di imposta per chi lavora: fu scelto da Clinton, ma ispirato dal liberista Friedman

(15 maggio 2013)

Milton Friedman Milton FriedmanOccorre «un cambiamento radicale, ha detto il nuovo presidente del Consiglio Enrico Letta: un welfare più universalistico e meno corporativo, che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi... Si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto per famiglie bisognose con figli».

Dopo aver ceduto al Pdl sull'Imu («stop ai pagamenti di giugno»), con queste parole Letta cerca consenso a sinistra, avanzando l'ipotesi di un reddito minimo garantito (Rmg). Il Rmg differisce dal reddito di cittadinanza (Rdc) proposto da Grillo in una dimensione importante: il Rdc è dato a tutti, ricchi e poveri, indipendentemente dallo stato di bisogno. Il Rmg, invece, è mirato alle famiglie meno abbienti: proprio per questo è molto meno costoso del Rdc. Per fornire un reddito di 500 euro al mese a tutti i cittadini italiani al di sopra dei 18 anni ci vorrebbero 300 miliardi di euro all'anno (circa il 20 per cento del Pil). Essendo mirato alle sole famiglie meno abbienti, il costo del Rmg può essere di molto inferiore. Se si vogliono aiutare un milione di famiglie, il costo sarebbe di 6 miliardi, pari a quello richiesto dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa e dalla rinuncia ad aumentare l'Iva.

Il RMG, però, soffre di due problemi strutturali. Il primo è la frode. Se la condizione per ottenerlo è apparire indigenti, molte famiglie, che indigenti non sono, cercheranno di apparire tali agli occhi dello Stato. Il Rmg diventa quindi un sussidio per i disonesti. Il secondo problema è il disincentivo a lavorare creato dal Rmg. Visto che tanti lavori generano un reddito al di sopra dei 500 euro, molti preferiranno non lavorare e percepire un Rmg di 500 euro piuttosto che lavorare e guadagnare 600-700 euro, ovvero solo cento o duecento euro in più. In altri termini, il Rmg agisce come una tassa su chi lavora, o, peggio, un sussidio all'ozio. Invece di aiutare a risolvere il problema della disoccupazione, il Rmg lo rende cronico, perché paga la gente per rimanere disoccupata.

Non si tratta solo di un'obiezione teorica. In uno dei primi esperimenti condotti in economia, all'inizio degli anni Settanta gli Stati Uniti hanno implementato una forma di reddito minimo garantito in un gruppo di famiglie in varie città. Comparando le famiglie con Rg a famiglie simili senza, si è visto che il Rmg riduce il totale delle ore lavorate in un anno del 7 per cento per gli uomini e del 17 per le donne. Questa riduzione non è dovuta a una contrazione delle ore lavorate settimanalmente, ma a un aumento della durata dei periodi di disoccupazione.

La soluzione adottata in America si chiama "credito di imposta per chi lavora" (earned income tax credit ). L'idea è molto semplice. Se pagare la gente per non lavorare aumenta la disoccupazione, pagarla per lavorare contribuirà a ridurre la disoccupazione. La disoccupazione altro non è che una differenza tra il salario a cui un datore di lavoro vuole assumere e quello a cui il lavoratore è disposto a lavorare. Riducendo questa differenza si riduce la disoccupazione. Ma come? Aiutando con un credito di imposta i bisognosi che lavorano. Una famiglia con due figli a carico che guadagna meno di 12.500 dollari riceve dallo stato un sussidio di 40 centesimi per ogni dollaro in più che guadagna. Sembra contro intuitivo pagare di più chi guadagna di più, ma è il modo migliore per indurre la gente a lavorare e lavorare legalmente. E soddisfa il principio enunciato da Letta di aiutare i bisognosi a «rialzarsi e a riattivarsi». Per evitare di sussidiare i ricchi, a 12.500 dollari di reddito familiare il sussidio si blocca a 5 mila e, dopo i 16.450 dollari di reddito, comincia a scendere, ma in modo sufficientemente lento da non togliere gli incentivi a guadagnare di più.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta del premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.

Il principale sponsor politico di questo programma fu il presidente democratico Bill Clinton. Ma l'ispirazione viene da una proposta dal premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Meglio non dirlo. Altrimenti c'è il rischio che non trovi consensi in una Sinistra più interessata alle battaglie ideologiche che alla sostanza.

 
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:03:01 am »

Krugman fa come i tifosi di Totti

di Luigi Zingales

Il famoso sputo al calciatore danese fu giudicato un gesto irresponsabile o una ragazzata a seconda della "fede" da stadio. Con lo stesso tifo il premio Nobel attacca oggi chi sostiene che in Italia, per crescere, bisogna tagliare la spesa pubblica

(30 maggio 2013)

Romanista o laziale? Non è questione di logica, ma di "fede", una fede che trova le radici nella prima maglia indossata, nel campione che ha acceso la nostra fantasia di bimbi, negli amici del patronato. Questa fede ci porta a giudicare in modo diverso episodi simili. Lo sputo di Francesco Totti a un giocatore danese o il saluto fascista di Paolo Di Canio diventano gesti irresponsabili o innocue "ragazzate" a secondo della nostra "fede". Questo tifo è l'opposto dello spirito sportivo di de Coubertin, ma viene incoraggiato dalle squadre e dai giornali, perché aiuta a vendere biglietti e copie.

Purtroppo questo tifo da stadio si è esteso anche al dibattito di politica economica. I responsabili non sono solo giornalisti e politici, ma nientepopodimeno che il premio Nobel per l'economia Paul Krugman. Quando scriveva nelle riviste accademiche era un economista sopraffino. Da editorialista del New York Times si è trasformato in un ultra manicheo. Per lui ci sono i buoni (coloro che vogliono aumentare la spesa pubblica sempre e comunque) e i cattivi (che vogliono ridurla). Nessun colpo è troppo basso contro i cattivi. Le prime vittime sono stati gli economisti di Harvard, Reinhart e Rogoff. In uno dei loro articoli più famosi avevano sostenuto che un elevato debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo riduceva la crescita economica, una tesi che trova d'accordo lo stesso Krugman. Ma la loro colpa è di aver individuato al 90 per cento il livello a cui questo effetto negativo diventa importante, un valore vicino a quello degli Stati Uniti in questo momento e quindi un risultato usato dai "nemici" per limitare la spesa pubblica americana. Da analisi successive è emerso che questa soglia non era poi così chiara e che dipendeva in parte da un imbarazzante errore in excel, errore che è stato individuato perché gli autori stessi avevano consegnato dati e programmi ad altri ricercatori. Ma questo a Krugman non è bastato: li ha accusati di disonestà intellettuale e quando, prove alla mano, hanno dimostrato di aver distribuito i loro dati ben tre anni fa non si è neppure scusato.

 
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« Risposta #73 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:51:40 am »

La lezione di Leopardi sulle regole e la morale

Luigi Zingales

18 luglio 2013


Non è bello godere delle disgrazie altrui e anche i Ligresti, arrestati ieri insieme ai loro ex manager con l'accusa di manipolazione di mercato e falso in bilancio, hanno diritto al rispetto umano e alla presunzione di innocenza. Ma per un italiano come me, che spera in una rinascita civile e morale del nostro Paese, l'azione della magistratura è un positivo segnale di cambiamento.

La crisi che stiamo vivendo non è solo una crisi di finanza pubblica, ma anche una crisi del nostro sistema economico: un capitalismo relazionale che negli anni si è trasformato in capitalismo clientelare e corrotto. Un sistema che uccide la meritocrazia, soffoca l'innovazione e il ricambio generazionale, e favorisce la corruzione. Un sistema che spinge i migliori talenti a emigrare e spreca o corrompe quelli che per amore rimangono in Italia. Un sistema che lentamente sta uccidendo il nostro Paese.
Lungi da essere gli unici, i Ligresti hanno rappresentato il simbolo di questo sistema. Spetta ai giudici valutare quali reati abbiano commesso. Dal punto di vista del buon funzionamento di un sistema di mercato, però, i Ligresti hanno violato ogni regola. Ho scritto molte volte sul cancro delle operazioni con parti correlate. I Ligresti le avevano elevate a modello di business. Le perdite dei business dei figli venivano trasferite sui bilanci Fonsai e quindi sui poveri azionisti. Le società controllate venivano affidate ai figli e amici, indipendentemente dalle loro qualificazioni, come i satrapi orientali assegnavano le loro province. E i finanziamenti venivano ottenuti con una rete di relazioni che vedeva membri della famiglia nei consigli di amministrazione e nei patti di sindacato dei principali istituti finanziatori.

Le società controllate venivano affidate ai figli e amici, indipendentemente dalle loro qualificazioni, come i satrapi orientali assegnavano le loro province. E i finanziamenti venivano ottenuti con una rete di relazioni che vedeva membri della famiglia nei consigli di amministrazione e nei patti di sindacato dei principali istituti finanziatori. Anche se non costituissero reato, queste pratiche clientelari ingenerano enormi perdite per gli azionisti di minoranza e impediscono lo sviluppo di imprese sane.

Ci lamentiamo che le nostre imprese migliori finiscono in mani straniere. L'ironia è che finiscono in mani straniere anche grazie ai soldi degli italiani, che preferiscono investire in Borse estere, dove si sentono maggiormente tutelati, dando a imprese straniere le risorse per comprare quelle nostrane. Se vogliamo far ripartire la nostra economia e le nostre imprese dobbiamo innanzitutto proteggere i nostri risparmiatori. L'inchiesta del Tribunale di Torino, volta a proteggere i 12mila risparmiatori Fonsai che avrebbero perso circa 300 milioni per le manipolazioni contabili effettuate dai Ligresti, è un buon inizio. Ma non basta.

Se i Ligresti hanno potuto prosperare per più di quarant'anni è perché il sistema vive della mancanza di trasparenza e di accountability, ovvero di responsabilità individuale delle azioni compiute. Se Ligresti è quello che è lo si deve molto ad Enrico Cuccia, che nel 1986 quotò la Premafin in Borsa e nel 2002 gli trasferì a prezzi di favore La Fondiaria Assicurazione, già appartenente al gruppo Ferruzzi. Lo si deve alle autorità di vigilanza dell'epoca, che non richiesero l'Opa totalitaria al trasferimento del controllo di Fondiaria. E che fino a poco fa sono sembrate "distratte" sui bilanci Fonsai. Lo si deve ai molti amministratori e sindaci delle società del gruppo che hanno chiuso occhi e orecchi per non vedere tutte le transazioni dubbie, accuratamente descritte nell'esposto presentato dal fondo Amber.

I Ligresti sono figli di un sistema che deve cambiare. Il loro arresto, a seguito di un'indagine iniziata per un esposto della Consob e della Isvap (oggi Ivass), è un ottimo segnale. Se si aggiunge la decisione del Tribunale di Parma sul caso Lactalis-Parmalat, si ha l'impressione dell'inizio di una svolta. Affinché questa svolta diventi realtà, però, non basta la magistratura, occorre un cambiamento di mentalità.
Nel «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani» Giacomo Leopardi scriveva nel 1824: «Tutti sanno con Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e d'altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni». Il mio augurio è che questi eventi segnalino, ma anche favoriscano, un cambiamento di opinioni. Reato o non reato, chi volutamente danneggia gli azionisti non è degno di gestire un'impresa quotata. Chi lo vota, lo finanzia e lo sostiene (o non lo controlla) ne diventa complice e quindi anche lui indegno di gestire un'impresa quotata. Solo così potremmo estirpare il sistema Ligresti.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-18/lezione-leopardi-regole-morale-063656.shtml?uuid=AbuvgDFI
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« Risposta #74 inserito:: Luglio 22, 2013, 08:42:22 am »

Le grandi cicale sono tedesche

di Luigi Zingales

21 luglio 2013


Per superare il malessere economico dell'Ue serve una maggiore integrazione, a partire da un'unione bancaria supervisionata dalla Bce. Per realizzare un'unione bancaria servono regole uniformi per la risoluzione delle istituzioni finanziarie insolventi e qui si sono bloccate le trattative.
La Germania si oppone al nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie proposto dalla Commissione, raccogliendo consenso morale e politico in patria grazie alla raffigurazione di questa posizione come uno sforzo per proteggere i suoi contribuenti: perché le formiche tedesche dovrebbero pagare per le cicale del Sud Europa?

In realtà l'atteggiamento tedesco è un espediente dietro cui si cela un comportamento ostile alla concorrenza, perché il governo di Berlino sovvenziona le banche e le industrie nazionali a spese di tutti gli altri, compresi gli stessi contribuenti tedeschi.

Il mercato comune è il più grande successo della politica economica europea del dopoguerra: ha rafforzato la crescita economica e incoraggiato l'interscambio culturale. Ma un mercato comune esige regole uguali per tutti e la Commissione si è impegnata a fondo, nel corso degli anni, per garantire condizioni di questo tipo in molti settori.

Finora l'eccezione più importante è stato il settore bancario. L'unione bancaria che sta emergendo non è solo il primo passo verso un'unione di bilancio, è anche il passo finale verso il completamento del mercato comune. Senza un unico meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie che garantisca regole del gioco uguali per tutti, il mercato comune resterà incompiuto.

In teoria, le regole bancarie nell'Ue sono le stesse per tutti gli Stati membri. In pratica, la loro implementazione fino a poco tempo fa era lasciata alle autorità di regolamentazione nazionali, che applicavano criteri diversi. Soprattutto, mentre in altri settori gli aiuti di Stato sono proibiti, nel settore bancario sono accettati: non solo quelli espliciti, come il salvataggio di numerose Landesbanken operato dal governo tedesco dopo la crisi dei mutui subprime in America, ma anche quelli impliciti. Certi banchieri francesi si vantano di avere il sostegno del governo di Parigi, che non consentirà mai il fallimento del loro istituto.

Purtroppo non è un problema che riguarda solo Francia o Germania. Tutti gli operatori di mercato sanno che i governi dell'Ue non lasceranno mai che le loro grandi banche dichiarino bancarotta. Questo sussidio implicito non solo costa miliardi di euro ai contribuenti di ogni Paese, ma distorce anche la concorrenza, perché non tutti i sussidi impliciti sono creati uguali. Indipendentemente dai suoi fondamentali, una banca tedesca sarà considerata più sicura di una banca italiana perché la garanzia implicita del governo tedesco vale molto di più di quella del governo italiano. Il risultato è che per le banche tedesche il costo della provvista è molto più basso e la redditività - a parità di altri fattori - molto più alta. Nella misura in cui questo minor costo si traduce in sconti per i clienti, anche le aziende tedesche godranno di un costo del capitale inferiore, ottenendo un vantaggio iniquo rispetto ai loro concorrenti europei. Un modo per evitare questa distorsione sarebbe creare un meccanismo per salvare tutte le banche con soldi europei. Ma un approccio di questo tipo, oltre a pesare soprattutto sui contribuenti tedeschi, creerebbe anche incentivi perversi nell'intero sistema bancario europeo, ingigantendo l'instabilità.

L'alternativa preferita è creare un meccanismo di risoluzione unico, che si applicherebbe a tutta l'Europa. Un meccanismo di questo tipo farebbe venir meno la necessità di un intervento dello Stato. La proposta avanzata da Michel Barnier, commissario europeo per il Mercato interno e i servizi, è uno sforzo per implementare questa soluzione. Prevede un unico meccanismo di risoluzione per tutte le banche europee, che impone che a farsi carico delle perdite, prima di ricorrere ai soldi pubblici, siano gli azionisti, gli obbligazionisti e i grandi depositanti. Per garantire finanziamento a breve termine a una banca durante una ristrutturazione, il piano della Commissione prevede la creazione di un fondo europeo, in modo da mettere tutti gli istituti su un piede di parità. La proposta della Commissione è tutt'altro che perfetta: dopo aver spazzato via gli azionisti e imposto ai creditori una sforbiciata dell'8 per cento, il fondo europeo si trasforma in un fondo di salvataggio, giustificando in parte i timori della Germania. Inoltre, non c'è alcun divieto esplicito di salvataggi da parte dei governi. Resta comunque un passo nella direzione giusta: le critiche della Germania dovrebbero puntare a migliorare la proposta, non ad affossarla. I contribuenti tedeschi hanno pagato a caro prezzo gli errori delle loro banche. Nel 2008, quando si scoprì che le Landesbanken erano imbottite di mutui subprime americani, il governo di Berlino intervenne a salvarle con uno stanziamento di 500 miliardi di euro a spese dei contribuenti. Nel 2010, quando le banche tedesche erano molto esposte - per qualcosa come 535 miliardi di euro - verso i titoli di Stato di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna, i contribuenti europei e la Bce diedero una mano a riportare a casa buona parte di quel denaro. La minaccia più seria per i contribuenti tedeschi non è la dissipatezza del sud Europa, ma le banche teutoniche.

Da questo punto di vista l'unione bancaria non è un complotto per caricare sulle spalle dei tedeschi le perdite delle banche del Sud Europa che dichiarano bancarotta, ma un meccanismo per costringere tutte le banche (comprese quelle teutoniche) a farsi carico dei propri errori, riducendo l'onere per i contribuenti di ogni Paese.

È tempo che gli elettori tedeschi capiscano che le cicale più grandi stanno nel centro delle loro città.


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