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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108246 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Novembre 19, 2012, 09:05:54 pm »

Editoriali
19/11/2012

Un centro e troppe anime

Luca Ricolfi


Sì, pare proprio che il centro stia tornando ad essere di moda, come lo era stato per quasi mezzo secolo, ai tempi in cui governava la Dc. Allora votare centro significava soprattutto una cosa: tenere i fascisti e i comunisti lontani dalle stanze del potere. Ma bastarono 5 anni per disfarne quasi 50. Fra il 1989 e il 1994 tutto cambiò, nel mondo e in Italia. Nel 1989 cadde il muro di Berlino, e la paura del comunismo si sciolse come neve al sole. Il resto, in Italia, lo fecero Mario Segni con i referendum sulla legge elettorale e Di Pietro con l’inchiesta Mani pulite. In un pugno di anni, fra il 1991 e il 1994, democristiani e socialisti furono affondati per sempre. Al loro posto si fecero avanti i reietti di ieri, fascisti e comunisti, che per rendersi accettabili provvidero lestamente a riverniciare le loro insegne, cambiando nome, modernizzando programmi, stabilendo alleanze con il nuovo o presunto nuovo che stava avanzando, dalla Lega alla Rete, da Forza Italia al Patto Segni.

È così che è nato il bipolarismo all’italiana, e il centro è stato emarginato dalla scena politica. 

Oggi che quel bipolarismo appare fallito, si ritorna a parlare di centro. Della necessità di ricostituire qualcosa che non sia né di destra né di sinistra. Lo fanno un po’ tutti. I centristi di sempre, alla Casini. I centristi dell’ultima ora, tipo Fini e Rutelli. I sostenitori di un Monti-bis, che ultimamente spuntano come funghi. I riformisti duri e puri, delusi dal riformismo zoppo di destra e sinistra. 

Ma che cosa è il centro oggi?

E’ questa, a mio parere, la domanda che non ha ancora ricevuto una risposta completa e chiara. Non dico che non abbia ricevuto nessuna risposta, perché alcuni valori dei centristi sono nitidamente riconoscibili: competenza, serietà, rispetto per le istituzioni, coesione sociale, volontà di ricostruire. Non è poco, ma solo perché ne abbiamo davvero tanto bisogno dopo esserne stati così tanto privati negli ultimi vent’anni, da tutti i governi della seconda Repubblica. Ma un minimo comun denominatore non fa ancora un programma politico. E anzi, il fatto che sia questo il nucleo, il nocciolo condiviso che unisce i centristi, è un segno di debolezza politica, una conferma – e non un superamento – dello stato di eccezione dell’Italia: solo in un paese in cui manca una vera offerta politica si può pensare che quel minimo comune denominatore di nobili principi sia già un programma, o che basti parlare di «agenda Monti» e di Monti-bis per persuadere gli elettori di possederne uno. 

Perché quello del centro riuscisse a diventare un vero programma politico occorrerebbe che i suoi leader completassero la risposta. Va bene il minimo comune denominatore, ma il cuore di un programma politico sono le scelte difficili, le scelte tragiche, come già trent’anni fa ebbero a chiamarle Guido Calabresi e Philip Bobbitt in un celebre libro – Tragic choices – dedicato a «i conflitti che la società deve affrontare nella allocazione di risorse tragicamente scarse». In un’era di risorse decrescenti il punto non è chi vogliamo sostenere, ma è a spese di chi vogliamo farlo. Qui quasi tutti i protagonisti della competizione al centro sono reticenti, evasivi, o dimentichi della propria storia.

Il centro che già c’è, quello dell’Udc di Casini, è stato – almeno in passato – una colonna portante del «partito della spesa pubblica», ha le sue radici elettorali soprattutto in Sicilia e nel resto del Mezzogiorno, possiede una lunga storia di clientele e guai giudiziari. Con il suo leader Pier Ferdinando Casini ha difeso fino all’ultimo un politico come Totò Cuffaro, ora in carcere con una condanna definitiva per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Prima di ascoltare ogni sorta di lodevoli intenzioni per il futuro, ci piacerebbe ascoltare dall’Udc due parole chiare sul proprio passato, e magari sentir pronunciare – oltre al consueto omaggio a Monti – quelle scuse agli elettori che Casini aveva preannunciato in caso di condanna di Cuffaro (Annozero, 31 marzo 2008).

Il centro che ancora non c’è, quello che sta prendendo forma in questi mesi sotto le insegne più varie (cattolici di Todi, Italia Futura, Fermare il declino) è una creatura strana. Per alcuni dei suoi protagonisti la stella polare è il sostegno alle famiglie, per altri sono gli sgravi ai produttori. Due obiettivi che è facile conciliare in un bel discorso, ma che si mettono immediatamente a stridere appena si tratta di decidere la destinazione di qualche miliardo di euro. Ridurre l’Irpef o ridurre l’Irap? Alleggerire le tasse alle famiglie in cui la madre non lavora (il cosiddetto quoziente familiare), o aiutare quella medesima madre a trovar lavoro, riducendo il cuneo fiscale sul lavoro femminile? Usare i soldi di tutti i contribuenti per salvare le amministrazioni in default (ormai diffuse anche al centro-nord), o costringerle a salvarsi da sé, vendendo patrimonio pubblico e tassando i propri cittadini?

Sono solo esempi, ma si potrebbero moltiplicare. Su tutte queste cose il centro tace. E quando prova a rispondere non risponde alla domanda giusta, perché è affetto da «ma-anchismo», il tic per cui prendevamo in giro Veltroni qualche anno fa, ogni volta che proclamava di volere una cosa «ma anche» un’altra, diversa e spesso contraria. Il problema è che, arrivati al punto in cui siamo, le risorse sono così scarse, e lo resteranno così a lungo, che non è più assolutamente possibile sottrarsi alle domande fondamentali. Non possono sottrarsi il Pd di Bersani e il Pdl di Alfano, ma ancor meno possono farlo i leader del centro. E questo per una ragione molto semplice: quello che destra e sinistra potrebbero fare è prevedibile sulla base del passato, e spesso è stato la medesima cosa, ovvero più deficit e più spesa pubblica politicamente redditizia. Mentre quel che potrebbero fare le forze politiche di centro non solo è meno facilmente prevedibile, ma è diversissimo a seconda di chi stiamo parlando. Se per centro intendiamo quelle formazioni che rifiutano sia il (presunto) populismo anti-politico di Grillo, sia le politiche della destra e della sinistra, non possiamo non notare che – dentro quello che oggi è il calderone del centro – convivono visioni opposte, molto più polarizzate di quanto lo siano quelle della destra e della sinistra. A un estremo il moderatismo cattolico, tradizionalmente attratto dalle politiche di sostegno del reddito delle famiglie, all’altro estremo il radicalismo riformista e liberale, che ritiene di poter far dimagrire lo Stato di molti chili (punti di Pil) e in pochi anni. Provate, per credere, a organizzare un dibattito pubblico serio, con domande scomode, fra Pier Ferdinando Casini e un qualsiasi rappresentante dell’Istituto Bruno Leoni, la cittadella dei liberali oscillante fra Italia Futura (Montezemolo) e Fermare il declino (Oscar Giannino). E vedrete che è più facile mettere d’accordo un Pier Luigi Bersani e un Angelino Alfano che un vero cattolico e un vero liberale.

da - http://lastampa.it/2012/11/19/cultura/opinioni/editoriali/un-centro-e-troppe-anime-y1mgHMikC0nFG2bjtpuuZJ/pagina.html
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« Risposta #166 inserito:: Novembre 30, 2012, 11:28:53 am »

Editoriali
30/11/2012

La vittoria del partito superstite

Luca Ricolfi


Domenica sera sapremo chi, fra Bersani e Renzi, sarà il candidato premier del centro sinistra. E forse sapremo anche chi ci governerà nei prossimi anni, visto che la coalizione guidata dal Partito democratico ha buone possibilità di vincere le elezioni, né possiamo escludere che, oltre a vincere le elezioni, riesca persino a formare un governo. Si capisce dunque il clima surriscaldato di questi giorni, un clima che si è fatto rovente soprattutto intorno a due nodi. 

Primo nodo: il centro-sinistra prenderebbe più voti con Renzi o con Bersani? Quasi tutti i protagonisti ritengono di saperlo, ma nessuno lo sa veramente. Secondo alcuni Renzi porterebbe al centro-sinistra diversi milioni di elettori disgustati dalla politica e/o delusi dal centro-destra, secondo altri provocherebbe la spaccatura del centro-sinistra e la nascita di un raggruppamento politico alla sinistra del Pd. Probabilmente succederebbero entrambe le cose, visto che Renzi è detestato da una parte dei suoi stessi compagni di partito, ma è impossibile stabilire se il saldo fra voti persi e voti conquistati sarebbe positivo o negativo.

Secondo nodo: l’accesso al ballottaggio. Vedremo come evolveranno le cose nelle prossime ore, ma quello che è evidente fin da adesso è che, limitando la partecipazione al ballottaggio di domenica prossima, l’apparato del Pd sta pagando un prezzo piuttosto alto per garantire l’affermazione del suo segretario. L’idea che per accedere al secondo turno si debba portare una «giustificazione» (come a scuola!), e che ci sia un organismo politico (il «Coordinamento Provinciale delle Primarie Italia Bene Comune», in pratica i funzionari del Pd) deputato a vagliare se la giustificazione è valida oppure no, è semplicemente grottesca, un buffo riflesso burocratico-stalinista che rischia di ritorcersi contro chi l’ha inventato. Perché è vero che chiudere l’accesso al ballottaggio avvantaggia Bersani, che ha già vinto al primo turno, ma è anche vero che, sul piano simbolico, avvantaggia Renzi, se non altro perché mostra di che pasta sono gli apparati per la cui rottamazione il sindaco di Firenze si batte. Senza contare la reazione di chi, escluso dal ballottaggio, negherà il suo voto al Pd alle elezioni vere, un sentimento e un’intenzione che ho già avvertito da più parti. 

L’attenzione del pubblico e dei media su questi due nodi, tuttavia, rischia di non farci cogliere la straordinaria trasformazione del paesaggio politico che – in questi mesi – si sta producendo sotto i nostri occhi. Non solo la nascita di protagonisti nuovi (Grillo e il Movimento cinque stelle) e l’autodistruzione di protagonisti vecchi (Berlusconi e il Pdl), ma la vera e propria mutazione che sta scuotendo il maggior partito della sinistra. La sfida di Renzi, anche se dovesse terminare domenica con una sconfitta, sta cambiando e cambierà definitivamente il Pd. Dopo quella sfida, e grazie a quella sfida, il Pd avrà per la prima volta – accanto alla componente socialdemocratica tuttora maggioritaria – una componente liberalsocialista o di «sinistra liberale» di peso politico non trascurabile. Il Pd del futuro non sarà più un partito diviso fra comunisti e cattolici, o fra massimalisti e ortodossi, ma un partito in cui la componente socialdemocratica (oggi ben rappresentata da Bersani) e quella liberaldemocratica (oggi ben rappresentata da Renzi) competeranno per la guida del partito. 

Il processo non è ancora compiuto, perché la componente liberale sta prendendo forma e coraggio solo in questi mesi, e quella socialdemocratica non è ancora pienamente tale: se lo fosse Renzi non verrebbe trattato da tanti compagni e compagne di partito come un traditore, un emissario del nemico, un corpo estraneo, o un ospite indesiderato. Ma la direzione di marcia è questa, ed è piuttosto veloce, a giudicare dai consensi che Renzi ha conquistato in pochi mesi.

Ma c’è anche un altro aspetto che merita forse di essere notato. Il mondo politico della seconda Repubblica è oggi un incredibile cimitero di rovine, su tutti i piani.
Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno occupato gli schermi televisivi negli ultimi venti anni hanno perso ogni credibilità. In giro non si sentono più idee ma solo «dichiarazioni» di nessun interesse, messaggi più o meno in codice ad uso e consumo dei soli politici. I partiti si sono dissolti, travolti dalle inchieste giudiziarie e dall’indifferenza dei cittadini.
La destra è un’armata allo sbando, senza progetti e senza senso del ridicolo. Il centro nasconde, dietro l’evocazione rituale – quasi un mantra – di Monti e della sua agenda, il suo vuoto spinto di idee e di uomini. 

In questa situazione il Partito democratico, di cui personalmente ho sempre visto e sottolineato gli immensi difetti, si staglia come l’unico «monumento» della seconda Repubblica che ha saputo sopravvivere al terremoto che il ceto politico ha provocato a sé stesso.
Ha un’organizzazione, una rete di sedi e di militanti, un dibattito interno. Con le primarie ha saputo creare l’unico evento significativo di riavvicinamento dei cittadini alla politica.
E con Renzi e Bersani ha offerto due candidati che possono piacere più o meno a ciascuno di noi, ma sono comunque fra i migliori politici in circolazione in Italia.

Insomma il Partito democratico gode oggi di un prestigio relativo altissimo. Un prestigio che è tanto più significativo, o sorprendente, se pensiamo che anch’esso è coinvolto in diverse inchieste, anch’esso è pieno di personaggi che non avrebbero reso orgoglioso Enrico Berlinguer.

E’ questo prestigio relativo che spiega il fatto più interessante del nuovo panorama politico che si è andato consolidando negli ultimi mesi: il dibattito programmatico, le alternative fra cui scegliere, le poche idee sulle quali vale la pena scontrarsi, sono ormai quasi tutte dentro il Partito democratico. Ai suoi militanti, o a molti di essi, tutto questo sembra divisione, lacerazione, una ferita dolorosa. A Gramsci, invece, sarebbe parsa una (strana) forma di egemonia. La società italiana è così allo sbando che l’ultimo partito rimasto, anch’esso piuttosto logoro, disastrato e pieno di acciacchi, rischia di diventare l’unico luogo in cui si gioca davvero il futuro del Paese. Ecco perché la competizione fra Renzi e Bersani non indebolisce il Partito democratico, ma semmai lo rende più capiente, più capace di intercettare gli umori della società esterna. C’è solo da sperare che questa opportunità sia colta e coltivata, piuttosto che gettata al vento: magari anche lasciando che, domenica, chi vuole votare sia libero di farlo.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/30/cultura/opinioni/editoriali/la-vittoria-del-partito-superstite-8W3rvFcpEAzW5JmlRRxEMI/pagina.html
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« Risposta #167 inserito:: Dicembre 10, 2012, 07:35:48 pm »

Editoriali
10/12/2012

Il dramma di un film già visto

Luca Ricolfi


Fine del governo Monti, «perché la situazione è peggiore che un anno fa»: con queste parole Angelino Alfano, in Parlamento, ha dato il benservito al governo dei tecnici. A questo punto ci sono almeno tre domande, ed è bene rispondere in modo chiaro a tutte e tre.

 

Prima domanda: la situazione è davvero peggiore che 13 mesi fa, quando Berlusconi fu costretto a lasciare?

 

Seconda domanda: la situazione sarebbe oggi migliore se al posto di Monti fosse rimasto Berlusconi?

 

Terza domanda: se Monti avesse governato in modo diverso, oggi staremmo meglio di come stiamo?

 

Sì-no-sì sono le mie tre risposte, e provo a spiegare perché.

 

Cominciamo dalla prima domanda: davvero sotto il governo Monti la situazione è peggiorata? Se guardiamo solo alla condizione economica obiettiva delle famiglie - posti di lavoro, redditi, patrimoni, risparmi, consumi - la risposta è sì. Nel giro di un anno le famiglie in difficoltà, quelle che non arrivano alla fine del mese, sono quasi raddoppiate: erano il 16% nel novembre del 2011, oggi sono il 30%, un livello drammatico, mai toccato in passato. 

 

Seconda domanda: la situazione sarebbe oggi migliore se al posto di Monti fosse rimasto Berlusconi?

Lo escluderei. Direi anzi che qui sta la fallacia logica della campagna elettorale che il centro-destra sta preparando: il fatto che ieri si stesse meno peggio non implica che oggi staremmo meglio se al governo fosse rimasto «lui». Provo a spiegarlo con un apologo, che farà arrabbiare qualcuno ma che secondo me è aderente alla storia degli ultimi 18 mesi. 

 

C’era una diligenza, i passeggeri avevano fame ma avevano ancora a bordo panini e coca cola. A un certo punto il conducente comincia a giochicchiare con il telefonino, la diligenza va fuori strada ma lui continua a giochicchiare. La diligenza sta per precipitare in un burrone. Allora un passeggero disarciona il conducente e prova a riportare la diligenza sulla strada. Però il viaggio è lungo, la diligenza ha subito dei danni, e non ci sono ostelli in cui fermarsi. Passa un po’ di tempo e i passeggeri cominciano ad avvertire i morsi della fame. Rievocano i bei tempi in cui avevano ancora una scorta di panini. Qualcuno rimpiange il vecchio conducente, perché «la situazione adesso è molto peggiore di una volta». A voi che cosa sembra? Richiamereste in sevizio il vecchio conducente perché i vostri panini stanno finendo?

 

Fuor di metafora. Quando, 13 mesi fa, Mario Monti fu chiamato a prendere il posto di Silvio Berlusconi, la diligenza dell’Italia stava per precipitare nel burrone del default, e le famiglie - pur stando un po’ meglio di oggi - stavano però correndo il rischio di perdere tutto: posti di lavoro, redditi, risparmi, patrimoni. Oggi, con la discesa dello spread, quel rischio si è allontanato di un po’: non del tutto e non per sempre, ma abbastanza da non farci vivere nell’angoscia. Insomma: oggi abbiamo un po’ meno panini, ma almeno non siamo finiti come la Grecia.

 

Resta la domanda più spinosa: se Monti avesse governato in modo diverso, oggi staremmo meglio di come stiamo? Potremmo non essere caduti nel burrone, e al tempo stesso avere qualche panino in più di quelli che abbiamo oggi?

 

Ebbene, qui la mia risposta è un sì convinto. Monti ha fatto molto di meno di quello che ci si sarebbe aspettati da un presunto liberale come lui. Monti ha ritenuto che il problema numero uno dell’Italia fosse ridurre il deficit dei conti dello Stato e che l’unico mezzo per farlo fosse aumentare le tasse. Ha provato a liberalizzare, ma si è fermato quasi subito e su quasi tutta la linea. Ha molto parlato di ogni genere di riforme, ma di riforme incisive e riuscite ne abbiamo viste ben poche. Se avesse osato di più, tagliando di più costi della politica e sprechi, e risparmiando i produttori di ricchezza, oggi ci sarebbero (leggermente) meno famiglie in difficoltà e (decisamente) più speranze per il futuro. 

 

Qui però bisognerebbe rispondere a una quarta domanda, forse la più importante: chi o che cosa ha ingessato Monti?

 

Alcuni pensano che l’uomo non sia un concentrato di eroismo, e che le sue ambizioni politiche (presidenza della Repubblica?) lo abbiano reso più timido del necessario nel rapporto con i partiti. Altri pensano che Monti sia subalterno alla Merkel e all’Europa, e si sia preoccupato solo di restituire all’Italia il rispetto degli altri governi (cosa che gli è riuscita ala perfezione, e solo chi non vuol vedere non vede). Altri pensano che Monti sia stato pesantemente condizionato dalla sua maggioranza, e abbia fatto il massimo che i partiti gli permettevano di fare.

 

Per quanto mi riguarda, penso una cosa molto semplice: Monti ha fatto alcuni errori, ma sia il centro-destra sia il centro-sinistra ne avrebbero fatti - e ne faranno - di più e di più gravi. Il dramma che il ritorno di Berlusconi ci riserva è che ci inchioda tutti, per diversi anni, a rivedere un film già visto: il leader del centro-destra che pensa agli affari suoi, e la sinistra che, a modo suo e suo malgrado, finisce per fare la stessa cosa. Berlusconi, riportando 100 o 200 fedelissimi in Parlamento, penserà a difendere le sue aziende dal fallimento e se stesso dal carcere. Bersani, portando in Parlamento un drappello di 300 o 400 uomini e donne a lui più o meno fedeli, sarà costretto ad occuparsi a tempo pieno degli affari interni del centro-sinistra: come tener buona la Cgil, come agganciare Casini, come non farlo litigare con Vendola, come dare a tutte le sigle che confluiranno nel carrozzone del centro sinistra onori, posti, poltrone e strapuntini. Affari economico-giudiziari da una parte, affari politico-parlamentari dall’altra.

 

Di governare no, non ci sarà il tempo, l’energia e la possibilità per nessuno, chiunque vinca. Quel che ci aspetta è l’ennesima proiezione dell’eterno immarcescibile lungometraggio della seconda Repubblica, che da vent’anni va in scena in tutte le sale con il medesimo titolo: «L’arte del non governo». Perché tutti sono bravi a criticare Monti, ma nessuno lo fa dicendo che - al posto di Monti - avrebbe fatto scelte più coraggiose. Sia la destra sia la sinistra, se fossero state al posto di Monti, avrebbero fatto meno, non più di lui. La destra ci avrebbe regalato un po’ meno tasse e più deficit pubblico. La sinistra ancora più tasse e più spesa.

 

In questo destra e sinistra sono molto simili, figlie entrambe del conservatorismo italiano, che ama la demagogia e teme le riforme radicali. Anche per questo la sinistra ha respinto con orrore la sfida di Renzi, anche per questo la destra non solo non è stata capace di sostituire Berlusconi, ma ne ha accolto con entusiasmo il ritorno. Come se il suo fosse il «ritorno di Ringo» (ricordate quel bellissimo western, con Giuliano Gemma?), o il ritorno di Ulisse a Itaca dopo vent’anni. Come se lui fosse stato via per tutto questo tempo, e nulla avesse a che fare con le rovine che trova. Come se l’uomo che, nell’ultimo decennio, ha guidato l’Italia per 8 anni su 10, non avesse alcuna responsabilità nel disastro che il governo Monti ha ereditato e provato a gestire in questi 13 lunghi mesi. 

 

Ecco perché io stesso, che del governo Monti ho criticato non poche parole, opere, e soprattutto omissioni, non posso che rendergli l’onore delle armi. Non so se Monti ha salvato l’Italia, ma sono piuttosto sicuro che - senza di lui - oggi saremmo messi ancora peggio di come siamo.


da - http://lastampa.it/2012/12/10/cultura/opinioni/editoriali/il-dramma-di-un-film-gia-visto-hCVyp3PBJjz10gf3NEte6O/pagina.html
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« Risposta #168 inserito:: Gennaio 08, 2013, 07:15:50 pm »

Editoriali
08/01/2013

Ma le tasse vanno ridotte non trattenute

Luca Ricolfi


La mossa era nell’aria da qualche giorno, e alla fine le cose sono andate come previsto. Dopo aver giurato e spergiurato «mai più con Berlusconi» la Lega è tornata all’ovile: si presenterà insieme al Pdl sia in Lombardia sia alle elezioni politiche nazionali. La base dell’accordo è chiara sul piano politico, molto meno sul piano tecnico. 

L’obiettivo politico sottoscritto da Maroni e Berlusconi è di trattenere in Lombardia il 75% delle tasse versate dai cittadini lombardi, e di arrivare entro la fine della prossima legislatura alla costituzione della macroregione del Nord, formata da Lombardia, Veneto, Piemonte ed eventualmente altre regioni. Sul piano tecnico, invece, è buio totale. 

 

Non è chiaro che cosa si intenda per tasse (tutte le imposte, tasse e tariffe? Solo le imposte locali o anche quelle nazionali?), non è chiaro in che modo si sia giunti a valutare che in Lombardia attualmente resterebbe solo la metà delle tasse riscosse. Soprattutto, nulla si dice su un punto decisivo: in che modo il nuovo progetto fiscale nordista si innesterebbe sulla realtà del federalismo in atto, quello voluto dalla Lega con la legge 42 del 5 maggio 2009, e che tra mille ritardi e pasticci sta entrando in funzione da qualche anno e dovrebbe andare a regime alla fine di questo decennio, cioè tra ben 7 anni.

 

Ho il sospetto che questa lacuna non rifletta solo la consueta superficialità dei nostri politici, abituati a confondere slogan e disegni di legge, ma sia dovuta alla cattiva coscienza della Lega e del Pdl. Se ce la raccontassero tutta, i politici che ora propongono quest’ennesima versione del federalismo dovrebbero anche ammettere alcuni notevoli fallimenti e sciatterie del passato. 

 

Ricapitoliamo. Il primo tentativo della Lega di introdurre il federalismo risale al 2005, e consiste in una legge costituzionale, la cosiddetta devolution, approvata in Parlamento senza la maggioranza dei 2/3. Questo tipo di federalismo muore in culla, sotto la scure del referendum confermativo che lo cancella nel 2006. L’anno dopo, nell’estate del 2007, la Regione Lombardia propone un disegno di legge federalista, che diventa uno di punti programmatici dell’intero centro-destra alle elezioni politiche del 2008. Una volta vinte le elezioni, tuttavia, Lega e Pdl abbandonano il progetto su cui avevano chiesto il voto degli elettori, e varano una legge molto diversa, la legge 42 del maggio 2009, che è quella attualmente in vigore. 

 

Poi, dopo l’approvazione di quella legge, introducono varie norme e decreti che modificano ancora una volta il federalismo, dilatandone i tempi di attuazione fino al 2019. E infine, ultima tappa, la trovata di ieri: un progetto la cui filosofia ricalca la vecchia proposta del 2007 della Regione Lombardia, poi rinnegata da Lega e Pdl appena approdati al governo.

 

Difficile non essere sconcertati. Ho passato anni a chiedere alla Lega perché avesse abbandonato il progetto della Regione Lombardia, discutibile nei dettagli ma, a mio parere, ragionevole nell’impostazione, e mi hanno sempre risposto che avevano bisogno del consenso della sinistra, e che per ottenerlo erano stati «costretti» ad annacquare il federalismo. Adesso, come minimo, mi piacerebbe sapere come mai ritornano a un progetto che avevano già abbandonato e che, guarda caso - proprio come nel 2008 - agitano in campagna elettorale, senza porsi il problema della sua attuabilità in Parlamento. Insomma, la mia impressione è che la Lega da molto tempo non sia più federalista, e che il 75% di tasse trattenute al Nord sia solo uno slogan per intercettare il malcontento degli italiani, ancora sotto shock per la grandinata di tasse dell’ultimo anno. E mi conferma in questa idea (un po’ maliziosa, lo ammetto), l’uso del verbo «trattenere». 

 

Trattenere significa non mandare a Roma, e fin qui tutto bene, almeno per chi crede che i produttori - lavoratori e imprese - siano ingiustamente vessati in Italia. Ma trattenere può significare anche lasciare al cosiddetto territorio e ai suoi amministratori locali, di cui Maroni - come governatore della Lombardia - si candida ad essere l’esponente più importante, al posto del tramontante o tramontato Formigoni. In breve, trattenere può voler dire lasciare sì i soldi in Lombardia, ma perché i suoi politici li spendano meglio dei politici di «Roma ladrona». Già in occasione della ventilata (e osteggiata dalla Lega) abolizione della province, la Lega ha dato ampia prova della sua mutazione in partito del governo locale, che tutela innanzitutto gli interessi dei suoi amministratori, anche loro - come quelli degli altri partiti - affamati di quattrini da trasformare in spesa pubblica. 

 

Ecco, non vorrei che andasse a finire così. Non credo che sarà facile costruire la macroregione o euroregione del Nord, ma se mai ci si riuscisse sarebbe davvero triste che vent’anni di battaglie federaliste finissero in maggiori risorse a beneficio del ceto politico del Nord. Perciò - per favore - cambiate quel verbo. Per far ripartire la locomotiva del Nord le tasse non vanno «trattenute», bensì «restituite». Il che, in italiano, si dice in modo ancora più semplice: le tasse vanno abbassate. Così è più chiaro.

da - http://www.lastampa.it/2013/01/08/cultura/opinioni/editoriali/ma-le-tasse-vanno-ridotte-non-trattenute-aNvU3s5f9bmCnejailbcDO/pagina.html
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« Risposta #169 inserito:: Gennaio 20, 2013, 10:50:03 pm »

Editoriali
20/01/2013

E se vincesse ancora Berlusconi?

Luca Ricolfi

Lo so, all’estero sarebbero increduli. E anche fra noi italiani, che ci conosciamo abbastanza bene, serpeggerebbero sorpresa e costernazione. Però, arrivati a questo punto, l’ipotesi non può essere scartata completamente: Berlusconi potrebbe vincere le elezioni. Improbabile, a tutt’oggi. Ma non impossibile. Vediamo perché. 

I sondaggi, per cominciare. Non tutti se lo ricordano, ma è esistito un tempo in cui i sondaggisti accorti «correggevano» i sondaggi. Se nelle interviste la Dc raccoglieva il 35% dei consensi, il sondaggista esperto diceva al committente: qui bisogna aggiungere qualche punto, perché molta gente preferisce nascondere che vota Dc; certo, la voterà, al momento buono, ma non ama dirlo, nemmeno a uno sconosciuto intervistatore. 

 

Se nelle interviste i Verdi prendevano il 4%, il sondaggista esperto dimezzava la percentuale, perché sapeva che la dichiarazione di voto ai Verdi era la tipica risposta-rifugio. 

Quella risposta-rifugio che non ti fa fare brutta figura (che male c’è a votare verde?) ma intanto ti permette di non dichiarare la tua vera preferenza. Meno diffusa era un altro tipo di correzione, che comincerà a essere presa in considerazione soprattutto nella seconda Repubblica: se tutti credono che le elezioni le vincerà un certo partito, conviene potare un po’ i consensi del vincitore annunciato. Si sarebbe dovuto fare fin dal 1976, quando ci si aspettava il trionfo del Pci (che poi non ci fu), ma sarebbe stato bene farlo soprattutto nel 1994 e nel 2006, quando un po’ tutti erano sicuri di una schiacciante vittoria della sinistra, che di nuovo non ci fu. Quest’ultimo, negli studi elettorali, si chiama effetto winner: saltare sul carro del vincitore al momento del sondaggio, per poi scegliere quel che si vuole quando si va a votare davvero.

 

Che c’entra tutto questo con Berlusconi ?

C’entra, perché anche oggi, verosimilmente, operano le distorsioni di sempre. C’è un vincitore annunciato (il Pd di Bersani), ci sono liste momentaneamente imbarazzanti (tutto ciò che sa di Lega e Berlusconi), ci sono liste rifugio, con cui sei abbastanza tranquillo di non fare brutta figura (lista Monti). Il sondaggista esperto, se vuole indovinare il voto o dare informazioni attendibili al suo committente, dovrebbe aggiungere un po’ di voti a Pdl e Lega, toglierne un po’ a Bersani e Monti. Insomma dovrebbe «aggiustare» i sondaggi. Non sappiamo se qualche istituto lo fa effettivamente o se, più correttamente, i numeri che vengono pubblicati ogni giorno sono quelli veri, quelli che risultano ai sondaggisti prima di ogni correzione o ritocco. Se, come dobbiamo augurarci, i dati resi pubblici non sono ritoccati, dovremmo concludere che il distacco effettivo del centro-destra è sensibilmente minore di quello che viene indicato dai sondaggi. Diciamo, giusto per dare un’idea, che dovremmo aggiungere un paio di punti al centro-destra e toglierne altrettanti al Pd e alla lista Monti.

C’è poi un altro fattore che gioca a favore di Berlusconi. Nella seconda Repubblica il cosiddetto incumbent, ossia l’ultimo che ha governato, non ha mai vinto le elezioni. Gli italiani hanno sempre bocciato chi aveva governato, e hanno sempre scommesso su chi stava all’opposizione.

 

Da questo punto di vista far cadere Berlusconi senza andare al voto è stato un grosso assist a Berlusconi stesso: ha concesso agli italiani il tempo di dimenticare la loro delusione per il duo Tremonti-Berlusconi e di convogliare tutta la loro rabbia sul governo Monti. Un anno fa Berlusconi era il governo uscente e Bersani era l’opposizione che si candidava a prendere la guida del Paese, oggi il governo uscente è quello di Monti, e l’opposizione è Berlusconi, non certo Bersani che con Monti e il suo governo è stato assai leale. Insomma lo svantaggio di essere l’ultimo ad aver governato ricade su Monti, e il vantaggio di essere l’opposizione – dopo lo strappo con Monti – è tutto di Berlusconi.

 

D’accordo, direte voi, ma sui programmi Berlusconi non è credibile. Qui occorre intendersi. Sui programmi nessuno è credibile, forse nemmeno Monti, la cui famigerata agenda ha già subito fin troppe giravolte (ad esempio su Imu e pressione fiscale). E naturalmente Berlusconi non fa eccezione, racconta di aver rispettato il «Contratto con gli italiani», ma non dice la verità, come sa chiunque abbia studiato seriamente le cifre (che fine hanno fatto le due aliquote Irpef al 23 e 33%?). Però un conto è fare promesse credibili, un conto è apparire credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Distinzione sottile, ma riflettiamoci su: fra Bersani, Monti e Berlusconi chi fa proposte che più facilmente possono essere credute?

 

Secondo me è Berlusconi che ha più probabilità di intercettare gli umori della gente. E spiego perché. Da almeno due anni, dunque da prima dell’avvento di Monti, i sondaggi segnalano che il problema delle tasse è diventato assolutamente prioritario, come non lo era mai stato prima. Di fronte a questo problema chi è più credibile? La sinistra, che le tasse e la spesa pubblica le ha nel suo Dna? Il governo Monti, che i mali dell’Italia li ha curati innanzitutto con maggiori tasse? O Berlusconi che promette di eliminare l’Imu sulla prima casa e l’ha già fatto con l’Ici?

E sul lavoro, l’altro grande problema degli italiani, chi è più credibile?

La sinistra, verrebbe da dire. Però guardiamo anche al linguaggio, alle parole che si usano per farsi capire dagli italiani. «Mettere il lavoro al centro», slogan ripetuto fino alla noia dai dirigenti della sinistra, non evoca nulla di preciso, di concreto. Dire che chi vuol assumere un giovane a tempo pieno potrà farlo senza pagare un euro di tasse e contributi («come fosse in nero», ha detto Berlusconi in tv), uno dei cavalli di battaglia del centro-destra, è una proposta che chiunque capisce, e chi ha un’attività apprezza.

 

Naturalmente ognuno può pensare che nulla di quel che dice Berlusconi sarà realizzato, o all’opposto che tutto sarà realizzato e proprio questo ci porterà al disastro. Ma resta il fatto che quel che vuol fare Berlusconi si capisce subito, mentre quel che vogliono Bersani e Monti si capisce meno, o appare lontano, astratto, difficilmente traducibile in misure concrete. Per dirla con Adriano Celentano, Berlusconi è rock, Monti è lento, come si vede bene in tv. Non sono categorie politiche, ma nella comunicazione sono cose che contano. E la politica è anche questo, comunicazione, energia, saper arrivare agli elettori. Tutte cose che in un mondo ben ordinato dovrebbero contare poco ma che, quando nessuno è veramente credibile, finiscono per contare molto.

Insomma, se fossi Bersani dormirei ancora sonni tranquilli. Non tranquillissimi, però.

da - http://lastampa.it/2013/01/20/cultura/opinioni/editoriali/e-se-vincesse-ancora-berlusconi-Djq855GSJ0YzkO6nxkD00J/pagina.html
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« Risposta #170 inserito:: Gennaio 27, 2013, 05:57:30 pm »

Editoriali
27/01/2013

Il requisito minimo della credibilità

Luca Ricolfi

Ieri su “La Stampa” abbiamo pubblicato i dati sul grado di rinnovamento dei partiti: quanti giovani, quante donne, quanti nuovi parlamentari. Oggi ci occupiamo invece di pulizia delle liste. 

Prima di presentare i dati, però, devo dire qualcosa sul concetto di «pulizia». 


Personalmente sono dell’idea che, salvo casi eccezionali (qualcuno ricorda il caso Tortora?) un partito non dovrebbe presentare nemmeno un candidato che abbia o abbia avuto problemi con la giustizia, a meno che la sua vicenda si sia risolta con un’archiviazione o un’assoluzione senza ombre. E’ quel che succede in qualsiasi Paese di cultura occidentale, dove basta poco per costringere i politici al passo indietro. E’ una questione di opportunità, di cautela e di decenza. 

 

A questa mia posizione ultra-severa, tuttavia, si può obiettare che talora gli indagati di oggi non vengono condannati domani, e in qualche caso non vengono nemmeno rinviati a giudizio. Inoltre, nulla assicura che la magistratura italiana eserciti lo stesso livello di attenzione e vigilanza verso tutti i partiti. Ad esempio è possibile che i partiti al governo siano monitorati con più attenzione di quelli all’opposizione, o che alcuni pubblici ministeri siano guidati anche dalle loro preferenze politiche. Se si accetta questa obiezione, mettere nello stesso calderone tutti – indagati, imputati, condannati a qualsiasi livello – può essere discutibile, nel senso che rischia di restituirci una immagine distorta del grado di pulizia delle liste. 

 

Morale. Resto dell’idea che un partito serio non dovrebbe candidare nessuno su cui esistano anche solo dei dubbi, e in questo senso trovo giusto che ogni vicenda giudiziaria dei politici sia raccontata dai media fin dall’inizio. Ma nello stesso tempo penso che, per avere un’idea del grado di pulizia delle liste, sia più corretto considerare solo i casi più seri. Dove per «seri» intendo i casi in cui il politico abbia raggiunto almeno lo stadio di imputato o rinviato a giudizio. In breve: per entrare nel nostro conteggio dei politici «birichini» (o impresentabili, se preferite) non basta essere indagati; e per starne fuori non basta che il proprio procedimento si sia fermato per prescrizione, per patteggiamento, o perché è scattata qualche immunità, o perché è intervenuto un vizio di forma. Insomma, per noi sono seri tutti i casi in cui è iniziata l’azione penale e non è subentrato un proscioglimento o un’assoluzione piena.

 

Ed ecco i risultati (i dettagli a pagina 2-3), che forniamo come un primo contributo di conoscenza, correggibile e ampliabile, vista l’impossibilità di un libero accesso al casellario giudiziario, che contiene la maggior parte delle informazioni sulle vicende penali dei cittadini (su questo vedi l’articolo di Paolo Festuccia a pagina 2). Su 1098 candidati che hanno elevate probabilità di essere eletti, i birichini risultano 18 (ma salirebbero a quasi 100 se, come nelle inchieste del «Fatto Quotidiano», venissero inclusi anche i semplici indagati e i politici che hanno basse probabilità di essere eletti). Le liste da noi considerate sono le nove più importanti, vista la difficoltà di prevedere gli eletti delle liste minori. Su nove liste, quelle che risultano perfettamente pulite sono cinque:
Movimento Cinque Stelle (Grillo), Scelta civica (Monti), Sel (Vendola), Rivoluzione civile (Ingroia), Fratelli d’Italia (Meloni e Crosetto), Fli (Fini). Quelle che risultano più o meno inquinate sono quattro: Pd (4 casi, pari allo 0,8% di eleggibili), Lega (3 casi, pari al 4,8%), Pdl (9 casi, pari al 5%), Udc (2 casi, pari al 7,7%).

 

Che dire?
Innanzitutto, possiamo notare che le liste sono migliori, o meno indecenti, di come si prospettavano anche solo una decina di giorni fa. La pressione dell’opinione pubblica e dei media per escludere gli impresentabili e rinnovare il ceto politico qualche effetto l’ha ottenuto. E tuttavia restano ancora diverse ombre, e non mancano le sorprese. 
Sul versante del rinnovamento, colpisce il fatto che – dopo aver minacciato di non ricandidare quasi nessuno – il Pdl abbia il massimo di vecchie glorie (80% di parlamentari ricandidati), e un numero irrisorio di giovani (8%, contro il 72% del movimento di Grillo). 

 

Ma colpisce, anche, la composizione delle liste di Ingroia e di Monti. Per quanto riguarda Ingroia, la sua Rivoluzione civile presenta il minimo di giovani (3,4%), e una sfilata di vecchi politici che senza la zattera offerta dalla nuova lista mai sarebbero rientrati in Parlamento: tra essi i segretari dei due partiti comunisti, (Ferrero e Diliberto), il leader della moribonda Italia dei Valori (Di Pietro), il leader degli ormai dimenticati Verdi (Bonelli). Non stupisce che, vista la compagnia, alcuni fra i promotori più autorevoli della lista Ingroia abbiano deciso di fare un passo indietro. 

 

Per quanto riguarda Monti e le liste a lui collegate (Udc e Fli) può forse non stupire la relativa assenza di giovani (9,3%) e di donne (15,7%: solo la Lega ne ha di meno), vista la composizione del suo governo, ricco di anziani e povero di donne. Non si può non notare, però, che ad Enrico Bondi - il terribile tagliatore di sprechi e di candidati - era stato affidato il compito di garantire la qualità delle candidature di tutta la coalizione del premier, compresa l’Udc. E invece che cosa scopriamo? Che il rigorosissimo filtro di Bondi ha lasciato tranquillamente passare due birichini, ovvero Giovanni Pistorio e Lorenzo Cesa, il primo condannato (dalla Corte dei Conti) per danno erariale, il secondo condannato per corruzione aggravata (e salvato solo da un vizio di forma e successiva prescrizione). Casini, che non perde occasione per proclamare sé stesso e il suo partito alfieri della «buona politica», qualche sera fa, intervistato da Lucia Annunziata, ha giustificato la scelta di candidare Cesa dicendo che «chi lo conosce lo apprezza» e che «sul territorio ciascuno di noi è quotato sui voti che prende» (dunque Cosentino è un ottimo candidato? e male ha fatto Berlusconi ad escluderlo?). Una difesa non molto diversa da quella che a suo tempo lo stesso Casini fece di Totò Cuffaro, poi finito in carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Allora aveva anche annunciato pubbliche scuse in caso di condanna di Cuffaro, ma le stiamo ancora aspettando.

 

Non sono fra quanti pensano che avere liste pulite, rinnovate, piene di giovani e di donne, sia di per sé una garanzia di buona politica (conosco parecchie ragazze incensurate che, come parlamentari, sarebbero un disastro). Anzi penso che sarebbe ora che l’opinione pubblica cominciasse a preoccuparsi soprattutto della qualità dei programmi e della competenza dei candidati, e non solo di inseguire vaghe aspirazioni di palingenesi della politica. E tuttavia mi pare che quello di non avere vicende penali alle spalle sia davvero un requisito minimo, giusto, ovvio, che nessuno dovrebbe mettere in discussione. E molto mi colpisce che l’unica lista che non ricandida vecchi politici, è piena di giovani, ha quasi il 50% di donne, e non ha nemmeno un inquisito fra le sue fila sia quella di Beppe Grillo, ossia precisamente la lista i cui programmi meno mi convincono. Come se rinnovamento della politica e credibilità dei programmi fossero due pianeti distinti e lontani, fra cui è giocoforza fare una scelta secca. Un altro indizio, ai miei occhi, del fatto che il rebus italiano – il sogno di una politica credibile nei programmi e rinnovata nelle persone – non ha ancora alcuna soluzione.

da - http://lastampa.it/2013/01/27/cultura/opinioni/editoriali/il-requisito-minimo-della-credibilita-y8aUMjeFKbvTC4TBOgLCNL/pagina.html
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« Risposta #171 inserito:: Febbraio 04, 2013, 05:02:29 pm »

Editoriali
04/02/2013

Promesse da marinaio

Luca Ricolfi

D’accordo, l’informazione ha le sue leggi e tutti oggi parleremo di «proposte shock» di Berlusconi. Ed è pure vero che l’idea di una letterina del ministro dell’Economia (Berlusconi stesso) che ti dice di andare in banca o all’ufficio postale a riprenderti i soldi che hai appena versato per l’Imu sulla prima casa è nuova e stuzzicante. Però non si può non osservare che i propositi che Berlusconi ha annunciato ieri in conferenza stampa a Milano non sono affatto nuovi, e in realtà non fanno che riprendere le cose che da un paio di settimane sta ripetendo il suo consigliere economico più ascoltato, l’ex ministro Renato Brunetta.

 

Vediamo dunque di che cosa si tratta, prima di scioccarci troppo. Ridotto all’osso, il ragionamento economico del centro-destra (ma anche, in parte, della lista Giannino) è il seguente.

 

Primo. La pressione fiscale, oggi vicina al 45% del Pil, va ridotta di 5 punti in 5 anni, per portarla al 40% nel 2018. Questa operazione costa alle casse pubbliche 16 miliardi il primo anno, 32 miliardi il secondo, 48 miliardi il terzo, 64 miliardi il quarto, 80 miliardi il quinto, quando finalmente l’obiettivo di una pressione al 40% del Pil sarà stato raggiunto e il sistema potrà andare a regime.

 

Secondo. Dove trovare gli 80 miliardi? Nella riduzione della spesa pubblica, che dagli attuali 800 miliardi dovrà ridursi del 10% in 10 anni, ossia scendere di 16 miliardi il primo anno, di 32 il secondo, di 48 il terzo, di 64 il quarto, e finalmente (?) di 80 l’ultimo.

 

Terzo. I beneficiari dell’alleggerimento della tasse dovrebbero essere per metà i produttori e per metà le famiglie. Come? Eliminazione dell’Irap, detassazione degli utili di impresa, eliminazione dell’Imu sulla prima casa, aliquote Irpef più basse, in particolare sulle famiglie numerose (il cosiddetto quoziente familiare).

Quarto. Lo stock del debito pubblico va abbattuto con massicce dismissioni del patrimonio dello Stato e degli Enti locali, tassando i capitali illegalmente detenuti in Svizzera, e mediante emissione di obbligazioni garantite dallo Stato.

 

Il presunto «annuncio shock» di ieri sta tutto dentro questo disegno di politica economica, rispetto a cui è solo la classica punta dell’iceberg. E’ quel che il venditore accorto mostra al popolo, mentre il vero programma del centro-destra, il programma completo, pur essendo perfettamente pubblico (i dettagli sono usciti da tempo sui quotidiani) resta in secondo piano. Vediamo dunque l’intero iceberg che avanza.

 

E’ sensato il programma del centro-destra?

 

Per provare a capirlo, conviene partire dalle obiezioni che riceve. La prima è che si tratta di un programma iper-liberista, vagamente thatcheriano. L’obiezione è più che giusta, ma potrebbe anche deporre a favore del programma: dopotutto Margaret Thatcher e Ronald Reagan fecero ripartire due economie che si erano completamente sedute. Molto si può e si deve discutere dei costi sociali dei programmi liberisti, ma è difficile non riconoscere che - se non ci si accontenta di ridistribuire la ricchezza ma si vuole anche che torni a crescere - quella di ridare ossigeno a chi produce ricchezza è una delle poche idee sensate in circolazione.

 

La seconda obiezione è che gli italiani hanno buona memoria, e che non si faranno ingannare dalle sciocchezze che Berlusconi ricicla per l’ennesima volta. Temo che chi prova ad autotranquillizzarsi con questa osservazione non conosca bene né Berlusconi né gli italiani. Berlusconi ha una capacità di apparire concreto che agli altri leader difetta completamente, e gli italiani hanno buona memoria per tutto, non solo per Berlusconi. Gli elettori, ad esempio, ricordano perfettamente l’immobilismo di Tremonti, gli impegni non mantenuti di Berlusconi, ma ricordano altrettanto bene la stangata fiscale del governo dei tecnici, o la litigiosità dell’ultimo governo Prodi. Se l’esito delle elezioni non è ancora deciso, e Berlusconi può permettersi il lusso di ripropinarci le solite cose, è perché la nostra delusione coinvolge tutti, non solo una parte politica.

 

Resta l’obiezione più importante: il programma del centro-destra non è attuabile, Berlusconi non potrà mantenere le promesse che fa.

 

Questa mi pare l’obiezione più seria. Il programma che abbiamo riassunto all’inizio è del tutto irrealistico in alcune coperture, ad esempio nell’entità delle dismissioni del patrimonio pubblico, o nelle stime dei proventi dell’accordo con la Svizzera sui capitali illegalmente esportati. Ma è irrealistico soprattutto sul piano politico. E il bello è che è stato Berlusconi stesso, pochi giorni fa in tv, a spiegarci perché il suo piano era inattuabile (e aggiungo io, perché inattuabili sono anche i piani più ambiziosi dei suoi avversari). Al giornalista che, di fronte al solito elenco di impegni futuri, giustamente gli chiedeva «ma come mai le cose che promettete oggi non le avete già fatte ieri, quando eravate al governo?», Berlusconi rispondeva candidamente: ma è ovvio, con il bicameralismo perfetto, con gli attuali regolamenti parlamentari, con i poteri limitatissimi che l’attuale Costituzione gli concede, nessun presidente del Consiglio può attuare i suoi propositi. Lui lo ha detto per giustificare il passato, ma così ha automaticamente sottratto credibilità al futuro che ci prospetta.

Di questa possibile obiezione (più che sensata, e a mio parere decisiva) non v’è traccia nel programma di centro-destra, che l’intrepido Brunetta pensa di attuare fin dal 2013.

 

E pensare che, proprio perché quel programma è estremamente incisivo e una sua logica la possiede, quella obiezione di Berlusconi dovrebbe essere al centro del dibattito politico. Chi pensa che l’Italia, come un paziente grave, abbia bisogno di interventi radicali e dolorosi, siano essi quelli proposti dai liberisti o quelli più ermeticamente suggeriti dai loro avversari, dovrebbe porsi seriamente il problema del consenso necessario per avviarli. In questi lunghi anni c’è stato un solo momento, una sola finestra di opportunità, in cui il paziente sarebbe stato disposto a sottoporsi al doloroso intervento di cui aveva bisogno. Quel momento è stato il primo semestre del governo Monti, in cui la gente aveva capito la gravità della situazione, e i partiti non osavano fiatare, ipnotizzati dall’autorità del Professore. 

 

Ma quel momento, purtroppo (e per me inspiegabilmente), è stato sciupato, o meglio è stato colto solo per somministrarci la solita, la più facile ed antica delle medicine: il salasso fiscale. Ora il tempo è passato, quella consapevolezza non c’è più, e chiunque voglia davvero cambiare l’Italia dovrà prima di tutto ricostituire quella consapevolezza. Un’operazione difficile, perché - su questo la penso come il «conservatore» Nichi Vendola - per cambiare le cose, per portare la gente a sperare e a credere di nuovo nel futuro, non bastano le promesse da marinaio degli imbonitori di destra, di sinistra e di centro, né le tabelle dei loro uffici studi, ma ci vuole un racconto, una meta comune verso cui tendere, un sogno che valga la pena di essere sognato, o forse un ricordo che alimenti quel sogno. Anziché insegnarci a odiare l’avversario, i nostri politici dovrebbero forse riflettere su quel che scriveva Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo Principe: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e profondo».

da - http://lastampa.it/2013/02/04/cultura/opinioni/editoriali/promesse-da-marinaio-gTVXlNCxDKtVxMXLoTc7sO/pagina.html
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« Risposta #172 inserito:: Febbraio 10, 2013, 04:57:36 pm »

Editoriali
10/02/2013

La rivoluzione tradita del cavaliere

Luca Ricolfi

Forse Berlusconi e le sue bugie ce le meritiamo. Non come cittadini, magari, visto che il cittadino è largamente impotente. Ma come mass media, e soprattutto come servizio pubblico televisivo, direi proprio di sì.

Breve spiegazione. E’ da almeno tre settimane che, ogni volta che accendo il televisore e mi becco Berlusconi, immancabilmente gli sento dire che lui, in realtà, le promesse le ha sempre mantenute. Le ha mantenute tutte. Legge le clausole del «Contratto con gli italiani» del 2001, e sciorina una raffica di «fatto». Legge il programma elettorale del 2008, e di nuovo si auto-loda per averli rispettati, gli impegni che ha preso. 

 

La cosa non mi stupisce, perché siamo abituati all’uomo. Ma i conduttori delle trasmissioni televisive, dove stanno con la testa quando gli sentono fare affermazioni del genere? Davvero sono convinti che siamo di fronte alla libera espressione di opinioni e valutazioni? Non hanno mai visto un dibattito o un talk show di una tv estera? Non sanno che in un normale Paese europeo, come la Germania, il Regno Unito o la Francia, mai e poi mai un politico potrebbe mentire spudoratamente sui dati di fatto, perché il conduttore tv lo incalzerebbe senza pietà, e la stampa del giorno dopo ne farebbe a pezzi l’immagine?

 

Sia ben chiaro, qui non mi riferisco a impegni secondari, o alle promesse più vaghe e generiche dei politici, tipo riformeremo questo, cambieremo quello, metteremo al centro la tal cosa, tuteleremo la tale categoria. No, qui mi riferisco a cose precise e importanti, a impegni che Berlusconi ha preso ripetutamente e solennemente, e che sono il nucleo – il piatto forte – del programma politico del centro-destra: abolire l’Irap, far scendere al 33% l’aliquota Irpef massima. Era ed è fondamentale per ridare ossigeno alle imprese e alle famiglie, è stato promesso decine di volte, non è stato fatto. Possibile che nessuno di quelli che lo intervista, quando gli sente dire che ha mantenuto tutte le promesse, non scoppi in una fragorosa risata? Possibile che non senta il dovere di ricordargli (almeno) questi due dati di fatto, assolutamente incontrovertibili? Come si fa ad andare avanti con le domande se l’intervistato può negare l’evidenza? Ma soprattutto: come non vedere che passato e futuro sono intimamente connessi, che non si può essere credibili su quel che verrà se non si ammette la verità su quel che è stato? I grandi leader politici che chiedono all’elettorato di essere confermati, spesso ottengono la conferma proprio perché ammettono i limiti di quel che hanno fatto, proprio perché sanno trasmettere l’idea di un’opera largamente incompiuta. E’ quel che ha saputo fare Barack Obama l’anno scorso, è quel che a suo tempo fece Tony Blair per ottenere il secondo mandato. 

 

Fine dello sfogo. Che, vorrei fosse chiaro, non riguarda il merito delle proposte del centro-destra, alcune delle quali anzi io trovo sensate ed apprezzabili (ad esempio l’idea di azzerare per 3-5 anni tutte le tasse sui giovani neoassunti). La mia stanchezza per le chiacchiere berlusconiane, la mia insofferenza per la rassegnazione dei media di fronte ad esse, derivano anzi proprio dalla convinzione che la «rivoluzione liberale» più volte promessa e mai realizzata dal centro-destra sia tuttora una delle poche idee buone in circolazione ma che, sfortunatamente, non vi sia oggi alcuna grande forza politica che la incarni credibilmente. Insomma, secondo me la vera critica che si deve fare a Berlusconi non è quella di avere determinate idee, ma di averle tradite, o meglio ancora di avere tradito il nucleo migliore del proprio programma. 

 

Ecco perché, con l’approssimarsi del voto, sono sempre più perplesso, per non dire depresso. Sono fra quanti pensano sia giunto il momento di archiviare Berlusconi e il berlusconiano, se non altro perché la sensazione di essere presi continuamente in giro è estremamente sgradevole, e poi perché la mera presenza di Berlusconi sulla scena politica basta ad avvelenare il clima, rendendo la sinistra stessa più irragionevole di quel che sarebbe altrimenti. Nel medesimo momento, tuttavia, penso che l’uscita di scena di Berlusconi, ammesso che si realizzi, stia avvenendo sulla base di una serie di false credenze. La credenza, ad esempio, che rimosso il «tappo» del Cavaliere, l’Italia rimuova con ciò stesso molti dei suoi problemi, una credenza che un anno di governo dei tecnici avrebbe già dovuto spazzar via da un pezzo. Ma soprattutto mi preoccupa la credenza che i mali dell’Italia vengano tutti dalla medesima parte politica, e che l’enorme espansione della spesa pubblica e del debito non siano anche il prodotto delle politiche progressiste. Una credenza cui se ne lega un’altra, e cioè che il ritorno della sinistra al potere potrà risolvere i nostri problemi. No, non credo che andrà così, e non andrà così proprio perché – con Berlusconi – esce di scena anche l’idea migliore che, sia pure timidamente, la cultura di destra aveva fatto propria in questi anni, quella di una rivoluzione liberale che riducesse l’invadenza dello Stato e trasformasse gli italiani, finalmente, da sudditi a cittadini. 

 

C’è stato un momento, negli ultimi tempi, in cui è sembrato che quella idea potesse avere qualche chance, e che la crisi dei partiti potesse preludere alla nascita, se non di un partito liberaldemocratico, almeno di una cultura politica con quella ispirazione. Le forze e le persone c’erano, ma è mancato il cemento. Sul filo di lana ognuno è andato per la sua strada. Così oggi la cultura liberale sopravvive minoritaria come i cristiani nelle catacombe e, a parte la generosa scommessa della lista Giannino, non ha alcuna chance di rappresentanza in Parlamento. C’è solo da augurarsi che abbiano torto quanti, come me, pensano che di quelle idee non si possa assolutamente far a meno se si vuole ridare una speranza a un Paese che non spera più.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/10/cultura/opinioni/editoriali/la-rivoluzione-tradita-del-cavaliere-hKt9v6CDtHjMs8KnmI94CJ/pagina.html
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« Risposta #173 inserito:: Febbraio 19, 2013, 11:21:07 pm »

Economia
19/02/2013

Ricolfi: “Attenti, per la crisi la tregua è solo temporanea”

Luca Ricolfi


L’editorialista de La Stampa analizza lo scenario economico in un’ampia intervista Tv in onda stasera su Rete4. Ecco un’anticipazione

Luca Ricolfi ha le idee chiare sulla sofferenza delle famiglie e delle imprese, anche se è scettico sulle possibilità di un vero cambiamento del nostro sistema, incluso il cambiamento che può arrivare dalle prossime elezioni. L’editorialista de La Stampa ne ha parlato in un’ampia intervista televisiva realizzata da Alessandro Banfi nell’ambito dell’inchiesta “La Grande Speculazione”, in onda stasera alle 21 su Rete4. Ecco alcuni brani del colloquio: 

 

Professore, ormai è passato un po’ di tempo da quella che è stata chiamata la “tempesta perfetta” dello spread. Adesso che la situazione sembra calmata e non sembra essere più la prima emergenza che bilancio vogliamo trarre da quello che è avvenuto? 

Il primo bilancio da trarre è che si tratta di una tregua temporanea. Cioè nulla ci assicura che le cose, come rapidamente sono precipitate, altrettanto rapidamente sono poi tornate a posto e altrettanto rapidamente potrebbe precipitare nuovamente da un momento all’altro. Non sono tranquillo perché lo spread è legato innanzitutto ai fondamentali. E i fondamentali non sono a posto da nessuna parte. Poi c’è questo fenomeno parallelo di rivalutazione dell’Euro e di guerra delle monete che adesso forse ci fa vedere le cose in modo troppo ottimistico. Paradossalmente noi, grazie alla svalutazione delle altre monete abbiamo un Euro forte, i problemi dello spread si sono un po’ attenuati, ma non mi aspetto che la situazione sia definitivamente sotto controllo.

 

Ecco lei spesso è intervenuto ammonendo: attenzione che la spiegazione della calma apparente e della decrescita, fortunatamente avvenuta, dello spread, non può essere così semplicistica. Il governo Monti ha dato credibilità ma lo spread è andato giù… 

Penso addirittura che il governo Monti l’abbia fatto crescere lo spread. Non in assoluto. Mi spiego meglio. Lo spread ha avuto un andamento molto variabile da quando c’è Monti, anche dai tre, quattro mesi precedenti. Su questo andamento hanno influito poco a mio parere i fattori politici, hanno influito molto gli interventi della Banca Centrale Europea. 

Cioè l’errore che noi facciamo, a mio parere, quando commentiamo lo spread, quando ad esempio parliamo di “quota Monti” e cose di questo genere è di guardare il valore assoluto dello spread. Il valore assoluto dello spread è sempre la somma di due componenti: come vanno gli altri Paesi dell’Euro, e come va l’Italia rispetto agli altri Paesi dell’Euro. Infatti noi come La Stampa per esempio calcoliamo tutti i giorni, una cosa che pubblichiamo solo ogni tanto e cioè lo “spread dello spread”. 

 

Lei ha inventato questo indice: “lo spread dello spread”… 

Sì cioè, com’è lo spread dell’Italia rispetto a quello di Paesi abbastanza normali, cioè noi abbiamo messo un paniere di tre Paesi: uno che sta decisamente peggio, che è la Spagna, uno che sta decisamente meglio, che è la Francia e uno che sta un po’ meglio, ma che ha dei problemi analoghi all’Italia, che è il Belgio (ha problemi di debito da sempre). Abbiamo tenuto fuori sia i “Paesi della virtù” (Finlandia, Olanda e Germania) sia i “Paesi del vizio” (Grecia, Portogallo e Irlanda). 

Ora se uno guarda l’andamento dello “spread dello spread” è molto più stabile dello spread generale perché riflette solo la posizione dell’Italia. Tra l’altro adesso siamo tornati a una situazione abbastanza simile a quella che c’era nell’estate della prima crisi (di un anno e mezzo fa). 

Allora, tornando alla dinamica dello spread, dicevo che ci sono tutte queste componenti differenti: la politica conta poco, conta parecchio la Banca Centrale, conta parecchio il clima generale che c’è in Europa nei paesi dell’Euro, e quindi l’andamento dello spread di Belgio, Francia e Spagna. 

Poi c’è una componente che siamo noi. Ora se uno analizza l’andamento dello spread dell’Italia e lo compara con quello degli altri Paesi e si focalizza sullo “spread dello spread”, io ho trovato che c’è una causa che viene spesso dimenticata e che è molto più importante di quella su cui il governo Monti ha focalizzato la sua attenzione. Il governo Monti, come sapete, si è focalizzato sul deficit. In sostanza ha detto: noi non possiamo permetterci un deficit, dobbiamo avere il bilancio in pareggio nel 2013 e ha alzato le tasse per questo motivo. Ma se si fa un’analisi econometrica delle differenze di spread fra Paesi dell’Euro (sto solo parlando dell’Euro) c’è un’altra causa fondamentale, che conta molto più delle previsioni di deficit: le aspettative di crescita. 

 

Lei dice: bisogna ridurre le tasse all’impresa. Ai produttori. 

Sì io ho questa idea, ma perché ci ho studiato. Cioè ho tentato in tutti i modi, facendo del lavoro econometrico, di vedere se la pressione fiscale bassa favorisca la crescita. Ho provato a vedere se il famigerato cuneo fiscale favorisca la crescita. E i risultati sono estremamente deludenti. Capisco che politicamente sono cose da fare, ma da un punto di vista economico se lei vuole alzare il tasso di crescita a breve c’è una sola misura: la riduzione dell’imposta societaria e più in generale delle imposte che gravano sui produttori: Ires, Irap e dintorni. Per esempio il numero di adempimenti burocratici è una cosa che ha un costo economico ingente. Così la crescita la si può stimolare in dodici mesi. Tutto il resto di cui molto si parla è importante, ma ha effetti, se va bene, tra 5 e se va male tra 20anni. Allora, noi possiamo attendere da 5 a 20 anni per tornare a crescere o nel frattempo saremo precipitati in un disastro? Io tendo a pensare che non possiamo aspettare tutto questo tempo e quindi non mi consola il fatto che nessuno abbia delle politiche convincenti. 

 

Di riduzione della pressione fiscale parlano tutti. Credibilmente, forse leggermente più credibile il centrodestra. Ma nel momento in cui pensano alle famiglie, perché pensano ai voti questo non cambierà il tasso di crescita dell’Italia. Darà un po’ di ossigeno temporaneo ai bilanci familiari, questa cosa è importantissima, ma la domanda che dobbiamo farci è: vogliamo darci un po’ di ossigeno o genericamente a queste famiglie che sono in una situazione drammatica o vogliamo che la torta torni a crescere?

Se lei ha 10 miliardi a disposizione, che è una bella cifra, e li mette sulle tasse che pagano i produttori questo sicuramente ha un effetto sul tasso di crescita. Difficile dire di che entità, ma diciamo che un punto potrebbe esserci, ma se lei lo spalma su 50 milioni di persone non cambia nulla. Assolutamente nulla. Mentre se la locomotiva ricomincia a macinare chilometri nel giro di uno, due, tre anni, tutti ne hanno, o quasi tutti, ne hanno un beneficio apprezzabile. Cioè io sono perplesso sulle politiche di riduzione della pressione fiscale sulle famiglie perché sono troppo distribuite. 

 

Un conto se mi dice: io penso che ci sono i poveri, triplichiamo la social card. Quella è una cosa che capisco, se tu i 10 miliardi li metti in quella cosa lì va bene. Poi mi dici dove li prendi però va bene. Ma se lei i 10 miliardi li mette a pioggia, come stava per fare il governo Monti quando ha parlato di riduzione delle tasse, che in realtà aumentavano perché le riduzioni erano irrisorie, compensate dall’aumento dell’Iva… A che serve davvero? 

da - http://lastampa.it/2013/02/19/economia/ricolfi-attenti-per-la-crisi-la-tregua-e-solo-temporanea-rRWosUlJlwplDAWXdHpZuJ/pagina.html
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« Risposta #174 inserito:: Febbraio 22, 2013, 06:59:06 pm »

EDITORIALI
22/02/2013

Il dilemma dell’asino di Buridano

LUCA RICOLFI

Quasi nessuno crede alle promesse dei politici. Quindi andremo a votare al buio, consapevoli che - chiunque vinca - non farà quello che si è impegnato a fare. Il fatto che sia irrazionale, irragionevole o quantomeno ingenuo credere a quello che i politici ci raccontano in campagna elettorale, non impedisce però di fare delle previsioni sul loro comportamento futuro. L’elettore, infatti, ha almeno un vantaggio sui politici: ormai li conosce. E, conoscendoli, sa che cosa aspettarsi da ciascuno di essi. Può usare il loro passato per indovinare il futuro che ci potranno riservare. E’ questo l’esercizio di traduzione che vorrei proporre oggi, un esercizio personale ovviamente, ma che ognuno può ripetere in proprio prima di mettere la crocetta sul simbolo sbagliato. 
 
Per capire che cosa ci aspetta davvero, la prima domanda da farsi è la seguente: qual è la stella polare di Bersani, Berlusconi e Monti? (di Grillo non parlo, perché la sua stella polare è chiara: «mandarli a casa tutti»).
Bene, secondo me la stella polare di Bersani è, come sempre per la sinistra, la spesa pubblica. Si tratta di trovare il modo di farla crescere, allentando il patto di stabilità interna (tradotto: lasciando che i Comuni che hanno soldi li spendano). 
 
E rinegoziando i vincoli europei (tradotto: lasciateci fare un po’ più di deficit), nella speranza che l’economia riparta. La diagnosi è chiara: abbiamo avuto troppo rigore, è giunta l’ora di varare qualche stimolo all’economia. Il che, nella mentalità della cultura di sinistra, significa sempre «trovare» le risorse, piuttosto che liberarle, nell’illusione che il Pil cresca perché lo Stato spende di più, e non perché lascia più soldi nelle tasche dei produttori. Quanto alle tasse, una patrimoniale sui ceti medio-alti non è esclusa (specie se ci fosse necessità di una manovra aggiuntiva), mentre è esclusa una significativa riduzione della pressione fiscale. 
 
Si potrebbe pensare che la mia sia una lettura maliziosa del programma del Pd, ma in realtà è la conseguenza aritmetica di una cosa che a sinistra è stata ripetuta fino alla noia: le tasse diminuiranno nella misura in cui riusciremo a farle pagare agli evasori. E’ strano che nessuno lo faccia notare, ma diminuire le aliquote prendendo i soldi dagli evasori significa una cosa soltanto: che la pressione fiscale resta costante, e quel che cambia è solo la sua ripartizione fra economia sommersa ed economia emersa. Un fatto senz’altro positivo, ma che si fonda sull’idea (secondo me erronea) che l’Italia possa tornare a crescere con una pressione fiscale elevata come quella attuale.
 
Passiamo al centro-destra. Qui le stelle polari sono due. C’è la stella polare personale di Berlusconi, che è salvare sé stesso dai processi e le sue aziende dalle possibili conseguenze di leggi «contra personam» minacciate dalla sinistra, ad esempio in materia di conflitto di interessi e concessioni pubbliche. E poi c’è la stella polare dei governi guidati da Berlusconi, che è sempre stata la riduzione delle tasse, senza però ridurre la spesa, e dunque creando deficit pubblico. Con l’aggravante che oggi i mercati ci punirebbero senza pietà, mettendo a rischio la stabilità finanziaria dell’Italia e quindi i nostri risparmi. Naturalmente so benissimo che esiste anche il «vasto programma» di Brunetta: tagliare in cinque anni 80 miliardi di spesa pubblica e restituirli ai cittadini sotto forma di minori tasse. Ma non lo prendo in considerazione perché la sua attuazione richiederebbe un vero governo di unità nazionale, tipo quello con cui Merkel e Schröder salvarono la Germania dal declino cui fino a pochissimi anni fa sembrava avviata (molti si sono scordati che, fino al 2007, era la Germania «the sick man of Europe», ovvero l’economia europea più in difficoltà). 
 
Resterebbe Monti, di cui per fortuna abbiamo un ricordo sufficientemente fresco da spegnere ogni illusione. Monti è stato l’unico leader che la possibilità di fare quel che ora promette - un governo che tagli le ali estreme e faccia le riforme - l’ha avuta sul serio. Quando venne chiamato a «salvare l’Italia» avrebbe potuto fare cose impensabili per i suoi predecessori e, temo, anche per i suoi successori. Ha sciupato quasi del tutto quell’opportunità, muovendosi con una prudenza eccessiva, un rimprovero questo che in questi mesi gli è stato ripetutamente rivolto dai suoi stessi allievi bocconiani. Nemmeno sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, tipico cavallo di battaglia della cultura liberale, il suo governo ha avuto il coraggio di prendere una posizione, preferendo nascondersi dietro una consultazione pubblica destinata a finire nel nulla. Ora ci racconta che quel che di buono ha fatto è stato nonostante i partiti, e quel che non è riuscito a fare è a causa delle loro resistenze. Può darsi (anzi sicuramente è), ma come può pensare che la forza che i partiti non gli hanno dato ieri, quando erano terrorizzati e intimiditi, gliela possano dare oggi, che sono tornati ringalluzziti e protervi più che mai? 
 
Che cosa potremmo dunque aspettarci, realisticamente, da un governo Monti, o da un governo molto condizionato da Monti?
 
La stella polare di Monti è il rigore, ossia l’equilibrio dei conti pubblici imposto dall’Europa. I comportamenti passati del suo governo fanno pensare che Monti sia convinto che la via maestra per fermare la crescita del rapporto debito-pil sia azzerare il deficit, o meglio azzerare il deficit «corretto per il ciclo», il che in buona sostanza significa chiedere all’Europa di poter sforare un po’. Questa visione e la linea di condotta che ne deriva hanno alcune conseguenze positive e altre negative. La conseguenza positiva più importante è che, con il rigore sui conti pubblici, diventa meno probabile un collasso finanziario immediato, che finirebbe per provocare una forte riduzione della ricchezza delle famiglie. Quel rischio è invece molto forte in caso di ritorno al governo di Berlusconi, e non è assente nel caso Bersani si trovasse a ripetere la triste commedia dell’ultimo governo Prodi, paralizzato - come l’asino di Buridano - dalle «diverse sensibilità» dei suoi ministri (per inciso: un governo Bersani-Monti-Vendola ci regalerebbe l’asino di Buridano perfetto).
 
Ma non mancano, purtroppo, anche le conseguenze negative. L’ossessione del deficit fa indubbiamente i conti con l’Europa (o meglio con la visione economica della signora Merkel) ma non fa i conti né con i mercati né con gli interessi di lungo periodo dell’Italia. Non fa i conti con i mercati perché sottovaluta due elementi cruciali. Primo, lo spread dipende più dal deficit nominale che da quello «corretto per il ciclo»: ai creditori dello Stato italiano interessa il deficit pubblico effettivo, non «quello che sarebbe stato se non fossimo in recessione» (è questo, in buona sostanza, il senso della «correzione per il ciclo»). Secondo, lo spread è fortemente influenzato dalle attese di crescita del Pil, come si è visto la primavera scorsa, in pieno «governo dei tecnici», quando le previsioni di crescita dell’Italia sono state drammaticamente riviste al ribasso e lo spread è ricominciato a salire pericolosamente.
 
Ma l’ossessione per il deficit non fa i conti, soprattutto, con gli interessi futuri dell’Italia. I quali sono di aumentare stabilmente la torta da ridistribuire, più che accontentarsi di suddividere «in modo più equo» una torta che continua a restringersi di anno in anno. Un obiettivo, quello di far ripartire il Pil, che realisticamente si può raggiungere solo con riforme coraggiose, e tenendo i conti in ordine dal lato della spesa, anziché dal lato delle tasse come Monti e Bersani hanno mostrato finora di preferire.
 
Ed eccoci al paradosso finale. A mio parere la politica economica che meglio tutela gli interessi futuri dell’Italia è una versione più realistica, o meno talebana, della rivoluzione liberale annunciata da Renato Brunetta o da Oscar Giannino (la cui lista e le cui idee restano in campo, a dispetto delle dimissioni del fondatore). Ad essi mi sento di fare un solo vero appunto, quello di dimenticare che il nostro Stato sociale, oltre che inefficiente e sprecone, è anche largamente incompleto, visto che mancano asili nido, ammortizzatori sociali universali, politiche per gli anziani e le persone non autosufficienti: ridurre la spesa pubblica si può e si deve, ma non nella misura in cui i liberisti puri pretenderebbero. 
 
Purtroppo, però, non vi è alcuna possibilità che una seria e realistica rivoluzione liberale venga attuata da un governo di centro-destra, perché quel genere di politica richiederebbe due ingredienti che ad esso mancano del tutto: la credibilità davanti all’Europa e ai mercati (cha ha solo Monti) e la credibilità davanti alle forze sociali (che ha solo Bersani). Sembra un ossimoro, ma quello di cui a mio avviso l’Italia avrebbe oggi bisogno è una politica di destra fatta dalla sinistra. O, per essere più precisi, di una politica liberale, e perciò automaticamente e superficialmente bollata come «di destra», attuata e garantita dall’assai meno screditato personale politico di centro-sinistra. Una politica che ridia un po’ di ossigeno a chi produce ricchezza e al tempo stesso sia capace di incidere profondamente sulla spesa pubblica, non già per smantellare lo Stato sociale bensì per completarlo, perché di un welfare che funziona c’è oggi più bisogno che mai.
 
Quel che invece avremo, verosimilmente, sarà un governo che dirà di battersi per «un paese più giusto», ma finirà per restituirci un paese forse anche più giusto, ma sicuramente più povero. Come direbbe Bartleby lo scrivano, «avrei preferenza di no».
 
da - http://www.lastampa.it/2013/02/22/cultura/opinioni/editoriali/il-dilemma-dell-asino-di-buridano-SKutJ5ZV4db9hU9CBeRnaM/pagina.html
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« Risposta #175 inserito:: Febbraio 27, 2013, 05:36:12 pm »

Editoriali
27/02/2013

La Sinistra che non impara dai suoi errori

Luca Ricolfi

Le domande sono tante, ma ognuno se ne fa una diversa. C’è chi non si capacita che quello di Grillo sia diventato il primo partito italiano.
C’è chi non si capacita che le ambizioni «terzo-poliste» di Monti e Casini siano state così severamente punite dagli elettori. C’è chi non si capacita che cattolici e comunisti siano praticamente scomparsi dal panorama politico italiano. 

 

C’è chi non si capacita che Bersani sia riuscito a dissipare un vantaggio che sembrava incolmabile. E c’è chi non si capacita del ritorno di Berlusconi, una specie di gatto dalle sette vite. 

 

Personalmente, trovo tutti questi stupori ben poco ragionevoli, e non lo dico con il senno di poi. Che tutti questi eventi fossero perfettamente possibili, infatti, mi è capitato di scriverlo ripetutamente dalle colonne di questo giornale, per lo più suscitando la costernazione dei miei amici: non volevano credere che il premio di maggioranza potesse vincerlo persino Grillo, non riuscivano a concepire che le elezioni potesse vincerle anche Berlusconi, non vedevano che cosa ci fosse di autolesionistico nell’alleanza fra Monti e il mondo cattolico. Ecco perché, a me, nulla di quel che è accaduto pare davvero stupefacente.

 

Questo non vuol dire, però, che non sia stupito anch’io. Solo che è un’altra la cosa che mi stupisce. Non il fatto che Bersani, pur vincendo (il premio di maggioranza), sia il grande perdente di questa tornata elettorale: questo non era scontato, ma era nell’ordine delle cose prevedibili. Quello che, ancora oggi, continua a suscitare il mio stupore è invece il fatto che la sinistra, questa sinistra un tempo egemonizzata dal Pci e ora tenuta insieme dagli ex comunisti, sia assolutamente incapace di imparare dai propri errori. E quindi sia, per così dire, rigidamente programmata per ripeterli, cocciutamente e senza alcuna speranza di imparare alcunché dal proprio passato.

 

E dire che, per capire quali fossero gli errori da evitare, non ci voleva una mente molto raffinata. Il più grave, spiace dover sottolineare una simile ovvietà, è quello di non ascoltare la gente. Bersani ha offerto affidabilità, credibilità, rassicurazione (il famoso «usato sicuro») a un elettorato che, semplicemente, voleva prima di tutto un’altra cosa: un rinnovamento radicale della politica. Eppure quella richiesta di cambiamento era chiarissima e antica, visto che aveva già preso forma più di dieci anni fa (era il 2002), con la famosa invettiva-profezia di Nanni Moretti in piazza Navona: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».

 

Perché non hanno saputo o voluto ascoltare questo sentimento, che pure attraversa il popolo di sinistra da così tanti anni? Perché la classe dirigente della sinistra non impara mai dai propri errori? Perché non ascolta il suo elettorato?

 

Me lo sono chiesto tante volte, perché anch’io - se molte cose cambiassero - potrei esserne parte. E la conclusione cui sono arrivato è che la ragione vera, la ragione profonda, per cui la sinistra non sa ascoltare è una soltanto: è la fortuna. La sinistra può permettersi - o meglio: si è potuta permettere finora - di ignorare completamente il suo popolo per la sfacciata fortuna che la accompagna. La sinistra è come Gastone Paperone: almeno nella seconda Repubblica è stata così fortunata da potersi sottrarre a ogni controllo di realtà. 

 

In che cosa è consistita la fortuna della sinistra?

 

La prima fortuna è di essere riuscita a vincere ben tre elezioni, quelle del 1996, quelle del 2006 e quelle attuali, nonostante la maggioranza degli italiani non l’avesse scelta. Vincere per il rotto della cuffia significa essere fortunati, ma è una fortuna che si paga, perché ti fa credere di aver fatto tutto giusto anche se non è vero. La sinistra ha da sempre il problema di allargare i propri consensi al di fuori della cerchia dei propri sostenitori tradizionali, ma non lo affronta mai perché una maledetta fortuna la accompagna in ogni tornata elettorale. Ciò vale, in particolare, per la tornata del 2006 e per quella attuale. In entrambe il candidato più capace di allargare il consenso, il candidato che avrebbe attirato voti anche dal campo avverso, il candidato che avrebbe assicurato un’ampia maggioranza in Parlamento, era una persona diversa da quella che poi effettivamente venne scelta. Nel 2006 il consenso di Veltroni era notoriamente molto più ampio di quello di Prodi. Oggi il consenso di Renzi è notoriamente molto superiore a quello di Bersani. Eppure l’apparato del partito non se ne cale: come in un tipico concorso universitario, promuove il candidato interno, o quello che ha le simpatie dei baroni, e dice agli outsider che devono avere pazienza, il loro turno verrà. Peccato che, quando il loro turno arriva, il giocattolo è rotto: a Veltroni venne consegnato un Pd lacerato dalle lotte interne e dai due anni di non-governo di Prodi, a Renzi verrà (forse) consegnato un partito militarizzato da Bersani e ancora un po’ ostile al ragazzino. Se avesse avuto meno fortuna, se non fosse riuscita a nascondere con vittorie tecniche sconfitte politiche, la sinistra avrebbe iniziato ben prima quel processo di rinnovamento che da tanto tempo attendiamo.

 

C’è poi una seconda fortuna, che nessuno nota mai. Negli ultimi venti anni l’economia, in Italia, è andata sistematicamente peggio che nel resto d’Europa ma, curiosamente, la destra ha governato sempre in anni di congiuntura negativa (2001-2005 e 2008-2011), la sinistra sempre in anni di congiuntura positiva (1996-2000 e 2006-2007). Il nesso è del tutto casuale, perché la congiuntura dipende essenzialmente dal resto dell’Europa, ma mi sono divertito a calcolare le probabilità che - in un quindicennio - la «dea bendata» distribuisca i suoi favori in modo così squilibrato: sono così basse che verrebbe da pensare che la dea non sia bendata come si dice. Anche questo ha contribuito a ritardare una diagnosi spietata su se stessa e sulle proprie politiche. 

 

Ma forse la fortuna-sfortuna più importante della sinistra è il suo elettorato. Delle tre opzioni di cui, secondo la celebre analisi di Albert Hirshman, l’elettore-consumatore può servirsi, l’elettore di sinistra ne trascura sempre una: la defezione (exit). All’elettore progressista piacciono solo le altre due: la protesta (voice) quando le elezioni sono ancora lontane, la lealtà (loyalty) al momento del voto. L’elettore di sinistra, secondo tutte le indagini, è il più fedele, il più leale, o il più gregario, se preferite. Può mugugnare, indignarsi, criticare, parlare male del Pd per anni e anni ma poi, arrivato al dunque, immancabilmente mette la crocetta nella casella giusta. Con ciò, verosimilmente, raggiunge lo scopo che si prefigge (togliere voti all’odiato Cavaliere), ma ottiene anche un effetto che forse non desidera: quello di permettere alla classe dirigente del Pd di rimandare, ancora una volta, il momento di cambiare. Rinunciando a inviare ai politici l’unico segnale che essi (talora) mostrano di comprendere, l’elettorato di sinistra è destinato a tenersi i dirigenti che ha. Non per sempre, perché nessuno è eterno, ma più del necessario, questo sì.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/27/cultura/opinioni/editoriali/la-sinistra-che-non-impara-dai-suoi-errori-uss3TIeEJByFFzktfmRLFO/pagina.html
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« Risposta #176 inserito:: Marzo 09, 2013, 12:14:43 am »

Editoriali
08/03/2013

Gli otto punti incomunicabili del Pd

Luca Ricolfi


Mi è capitato, nei giorni scorsi, di prender parte a un dibattito televisivo sulle elezioni e di ascoltare una puntata di un talk show politico, sempre con esponenti del Pd. Poi, ieri, ho letto attentamente gli 8 punti programmatici con cui Bersani pensa di candidarsi a guidare un governo appoggiato da Grillo. Ebbene, lo dico subito, io sono sconcertato.

 

Sono sconcertato perché, più li leggi e li ascolti, più ti accorgi che nei dirigenti del Pd nulla, ma proprio nulla è cambiato dopo il voto.
Non sono cambiati gli slogan, non sono cambiati i programmi, non sono cambiati gli atteggiamenti. Non sono cambiati i rituali, non sono cambiati i ragionamenti, non è cambiato il linguaggio. Non c’è nessuna idea veramente nuova. Solo tanta supponenza, e una completa incapacità di capire come si viene percepiti dagli altri. Questi dirigenti dimostrano, con il loro modo di parlare e di atteggiarsi, di non avere la minima idea di come la gente li vede. Se potessero entrare anche solo per qualche minuto nei nostri cervelli avrebbero uno shock: scoprirebbero che non solo non li apprezziamo, non solo li troviamo irritanti, ma siamo semplicemente increduli. 

 

Ma come? Nemmeno dopo lo schiaffo, lo sberleffo, l’umiliazione del trionfo di Grillo, nemmeno dopo tutto questo riuscite a mettere insieme una reazione, un ripensamento, un dubbio vero?

 

E’ terribile, quel che sta succedendo. Il vincitore morale delle elezioni è Grillo, che ha sfondato per l’elementare ragione che noi sfortunati elettori di questo paese non avevamo alcun altro mezzo per dare un segnale forte ai partiti tradizionali. Ma questa vittoria si sta rivelando inutile, se non dannosa. Il vincitore tecnico delle elezioni, il Pd di Bersani, si sta infatti mostrando del tutto incapace di recepire quel segnale. E il programma in 8 punti varato l’altro ieri nella direzione del Pd ne è purtroppo l’amara testimonianza scritta.

Io consiglio caldamente a tutti di andarselo a leggere, questo programma che dovrebbe “cambiare l’Italia” (www.partitodemocratico.it).
Di studiarlo parola per parola. Di provare a capirne la logica. Perché è una cartina di tornasole perfetta dell’incapacità di cambiare o, se preferite, dell’incapacità di concepire il cambiamento al di fuori delle furbizie della politica.

 

Che cosa vi troviamo, infatti? Fondamentalmente due cose.

Primo, un umiliante strizzare l’occhio a Grillo, con la ripresa di temi cari al Movimento Cinque Stelle (misure anti-casta, “banda larga”, “ottimizzazione ciclo dei rifiuti”, “recupero aree dismesse”, etc.), ma silenzio assoluto sulla sua proposta chiave (condivisa anche da Matteo Renzi), e cioè l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Su questo il punto 3 di Bersani si limita a dire: “Legge sui partiti con riferimento alla democrazia interna, ai codici etici, all’accesso alle candidature e al finanziamento”. Formulazione farraginosa e vuota, da cui si può dedurre solo che il finanziamento resta in piedi e si tratta unicamente di fissarne l’entità, in totale spregio del risultato del referendum che lo aveva abolito giusto vent’anni fa.

 

Secondo, una riproposizione, in molti punti e sotto-punti del programma di governo, del medesimo linguaggio usato in campagna elettorale, un linguaggio che, se (forse) ricompatta la base dei militanti, è invece del tutto controproducente quando si cerca di arrivare all’elettore normale, che non solo ignora il codice della politica ma lo detesta.

 

Che cosa è il “codice” della politica? L’essenza del codice della politica è la preferenza per le formule astratte, generiche, involute, vuote o meramente intenzionali. Espressioni che si limitano a comunicare l’attenzione per un tema o per un problema, senza indicare una soluzione praticabile (dove trovo i soldi?) ma soprattutto comprensibile. Esempio: se dico “metto 100 euro al mese in più nella social card e i soldi per farlo li trovo aumentando la benzina di tot centesimi al litro”, il cittadino può gradire oppure no, ma capisce perfettamente di che cosa stiamo parlando. Ma che cosa può capire se gli prometto “l’avvio della universalizzazione delle indennità di disoccupazione”? O se gli garantisco “avvio della spending review con il sistema delle autonomie e definizione di piani di riorganizzazione di ogni Pubblica Amministrazione” ?
O se gli prometto un “programma pubblico-privato per la riqualificazione del costruito” ? O se mi limito a dire che farò una legge, o introdurrò nuove norme, su un problema, un ambito, un tema?

 

Gli “8 punti” di Bersani grondano di leggi, norme, misure, piani, revisioni e rivisitazioni su tutto e su tutti: “misure per la tracciabilità”, “rivisitazione delle procedure di Equitalia”, “revisione degli emolumenti”, “legge sui partiti”, “legge sulla corruzione”, “norme efficaci sul voto di scambio” “norme sui conflitti di interesse”, “norme contro il consumo del suolo”, “norme sulle unioni civili”, “norme sull’acquisto della cittadinanza”, “contrasto all’abbandono scolastico”, “piano bonifiche per lo sviluppo delle smart grid”. Ma a chi parlate? E che cosa credete di comunicare, se non la vostra pretesa di occuparvi un po’ di tutto, e quindi la nostra certezza che finirete per combinare ben poco?

 

Di questa farraginosità degli 8 punti del programma di Bersani si è accorto persino il sindaco Pd di Padova, che in direzione ha detto senza tanti giri di parole (cito testualmente dalla trascrizione del suo intervento): “I punti proposti da Pierluigi, però, non sono 8, ma 50.
Come li comunichiamo? Faccio un esempio: la campagna elettorale di Berlusconi si è basata fondamentalmente sulla restituzione dell’Imu e
sull’eliminazione delle tasse per chi assume i giovani. (…). Gli 8 punti (di Bersani), ognuno dei quali si articola in 5 o 6 proposte, sono secondo me incomunicabili. Ha ragione il sindaco di Bari quando dice che oggi la proposta politica e la sua capacità di essere comunicata coincidono, hanno la stessa importanza”.

 

Da un programma di governo, tanto più se si tratta di un governo che difficilmente governerà a lungo, non ci aspettiamo che sia zeppo di buone intenzioni, di dichiarazioni di sensibilità e di interesse, tanto più che la maggior parte di tali intenzioni e dichiarazioni le abbiamo già sentite innumerevoli volte e ogni volta, arrivati al dunque, cioè al governo del Paese, le abbiamo viste sciogliersi come neve al sole. E questo sempre, a sinistra, come a destra, come al centro. No, quel che chiediamo a un programma di governo è di indicare poche cose, ma che siano chiare, ben definite, fattibili, e davvero utili al Paese. Alcune di queste cose, a mio parere, sono presenti nel programma elettorale del Pd, altre in quello del Pdl, altre in quello del Movimento Cinque Stelle. Altre ancora non stanno in alcun programma, perché sono impopolari. 

 

Quel che manca non sono le idee, ma un gruppo dirigente capace di scegliere le cose da fare e quelle da non fare. Un leader e una squadra che non fabbrichino i programmi politici al servizio delle alleanze che intendono costruire, ma che costruiscano le alleanze al servizio del programma che intendono realizzare. 

 

Un sogno?

A Giorgio Napolitano l’ardua sentenza.

da - http://lastampa.it/2013/03/08/cultura/opinioni/editoriali/gli-otto-punti-incomunicabili-del-pd-lFQFxeguPAyelQetJhDzVL/pagina.html
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« Risposta #177 inserito:: Marzo 21, 2013, 05:58:00 pm »

Editoriali
21/03/2013 - i costi della politica

La pagliuzza e la trave

Luca Ricolfi


L’altro ieri, collegati con il programma Ballarò, i nuovi presidenti di Camera e Senato (Piero Grasso e Laura Boldrini) hanno fatto la loro prima mossa politico-mediatica. Felici e sorridenti, come due scolaretti al loro primo giorno di scuola, hanno dichiarato a milioni di telespettatori-elettori che, loro due, lo stipendio se lo autoridurranno (del 30%). Inoltre cercheranno di raddoppiare la produttività dei parlamentari, facendoli lavorare anche il lunedì e il venerdì. E infine proporranno un abbassamento degli stipendi non solo dei deputati e dei senatori, ma anche del personale di Camera e Senato, le cui retribuzioni sono «molto alte». E qui, pudicamente, hanno aggiunto che quest’ultima riduzione, coinvolgendo dei lavoratori, andrà negoziata con i sindacati. 

 

È scontato che una mossa del genere non può che aumentare la già notevole popolarità dei due neo-eletti presidenti, di cui un po’ tutti hanno sottolineato le qualità, ma soprattutto la non appartenenza al ceto politico professionale. Saremmo tutti felici che la medesima mancanza di attaccamento ai privilegi della casta fosse manifestata un po’ da tutto il ceto politico, e non solo da chi è appena entrato a farvi parte. E tuttavia, a mio parere, la campagna per l’autoriduzione degli stipendi dei politici ha anche qualche aspetto problematico.

 

Non mi riferisco tanto ai contenuti delle proposte, su cui peraltro ci sarebbe da discutere (in un Paese inflazionato dalle leggi, l’idea di un Parlamento che legifera anche il lunedì e il venerdì più che un sogno è un incubo). Quel che mi lascia perplesso è la penosa gara a chi è più puro, più immacolato, meno politico, che si sta scatenando fra i politici stessi. Era già abbastanza ridicolo vedere Bersani e i suoi inseguire i grillini sul loro terreno, con la tesi secondo cui l’autoriduzione dei parlamentari del Pd a favore del partito sarebbe uguale o superiore a quella dei parlamentari grillini a favore del Movimento Cinque Stelle. Ma ho trovato semplicemente umiliante (per le istituzioni) il ping pong fra il duo Boldrini-Grasso e Grillo, con i primi che non perdono occasione per sottolineare che loro non sono casta, «come il 99% degli italiani», e il secondo che li invita a ridursi lo stipendio ancora di più (il 30% non basta, la riduzione deve essere almeno del 50%). Una conferma, se ve ne fosse bisogno, che a fare i puri si trova sempre qualcuno che si crede più puro di te.

 

Non mi sembra un grande inizio. Il problema dei costi della politica esiste, ma forse sarebbe meglio sottrarlo alla propaganda. Un manipolo di parlamentari che pensa di attrarre voti, suscitare consensi, o guadagnare in popolarità perché trasferisce una parte dello stipendio al suo gruppo, perché pranza al sacco, o arriva in Parlamento in bicicletta, va bene per dare un po’ di lavoro ai giornalisti e ai fotografi ma non serve a cambiare le cose. Per essere veramente utile, una riduzione dei costi della politica dovrebbe essere drastica nei redditi individuali percepiti, ma soprattutto ampia nella platea dei destinatari. Drastica negli emolumenti perché solo così si terrebbero lontani dalla politica quanti abbracciano tale carriera solo per i redditi che offre. Ampia nel numero di soggetti toccati perché solo così le risorse che si potrebbero risparmiare avrebbero un impatto macroeconomico non trascurabile (diversi miliardi di euro). Da questo punto di vista le (poche) autoriduzioni volontarie di alcuni politici in vista servono a ben poco, mentre molto servirebbero leggi che agissero anche sull’immenso arcipelago di politici locali, consulenti, faccendieri, fornitori, ditte appaltatrici, personale di servizio, ex politici in pensione. Giusto per dare un ordine di grandezza, l’apparato complessivo della politica ci costa almeno 20 volte l’ammontare totale degli stipendi dei parlamentari. I cittadini paiono vedere assai bene la pagliuzza dei costi del Parlamento, ma sembrano ben poco attenti alla trave dell’apparato politico considerato nel suo insieme. 

 

Da questo punto di vista hanno fatto assai bene i nuovi presidenti della Camere, dopo la boutade un po’ piaciona dell’autoriduzione, ad attirare l’attenzione sui costi e sui privilegi del personale che ha la fortuna di lavorare al servizio della politica anziché di una normale impresa privata. Vedremo se i sindacati sapranno raccogliere la sfida, o ripeteranno anche questa volta il solito copione, secondo cui sono solo i dirigenti e gli alti funzionari a doversi fare carico dei problemi della Pubblica Amministrazione. Ma vedremo, soprattutto, se la politica – oltre a trovare il coraggio di ridurre i propri costi – troverà la chiarezza per indicare su quale obiettivo intende convogliare le risorse così liberate. Sapere che, come oggi accade, le (rare) rinunce dei singoli finiscono nelle casse di un partito, di un movimento o di un gruppo parlamentare ci conforta ben poco. Molto più ci conforterebbe sapere che i risparmi sono regolati da una legge, sono ingenti, e permettono all’Italia di risolvere almeno uno dei suoi innumerevoli problemi.

da - http://lastampa.it/2013/03/21/cultura/opinioni/editoriali/i-costi-della-politica-trave-e-pagliuzza-n88crrLHcJ2xMmYt9Kl1RP/pagina.html
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« Risposta #178 inserito:: Marzo 24, 2013, 05:11:52 pm »

Editoriali
24/03/2013

Non basta una legge elettorale

Luca Ricolfi

La politica è in crisi, sentiamo ripetere. E certo lo è, a giudicare dai risultati degli ultimi vent’anni: il Paese è allo sbando, molti politici sono corrotti, non si riesce a formare un governo. Quello che forse è meno evidente è che anche i rimedi che si stanno sperimentando non sono la soluzione, ma sono parte integrante della malattia.

La politica si sta comportando come una squadra di calcio in crisi che, per superare la crisi, cercasse di vincere le partite a tavolino, o condizionare gli arbitri, o accusare gli avversari di doping, anziché allenarsi di più e meglio, impegnarsi a fondo in partita, o cambiare qualche giocatore (e magari anche l’allenatore). È paradossale, ma la politica non sembra rendersi conto che i problemi che deve affrontare sono innanzitutto di natura politica, non di altro genere. E come tali andrebbero risolti sul campo, non invocando demiurghi e agenti esterni.

E invece è proprio questo che sta succedendo. La politica non sa risolvere i propri problemi politicamente, e allora ricorre continuamente a supplenti e surrogati. C’è un problema di privilegi e di costi della politica? 

Ed ecco che scatta la gara a chi si riduce di più lo stipendio: l’etica viene chiamata a sostituire la politica.

C’è un uomo politico che avvelena la competizione fra destra e sinistra ma prende un sacco di voti? Ed ecco che scattano tutte le armi improprie disponibili: leggi nuove di zecca per impedire la ricandidatura, pressioni sulla magistratura perché reinterpreti una legge esistente, che «se ben interpretata» potrebbe mettere fuori gioco il politico che non si riesce a sconfiggere sul campo (una delle due manifestazioni di ieri a Roma aveva precisamente questo scopo, mentre l’altra – in modo specularmente aberrante – aveva lo scopo di difenderlo dalla magistratura). La legge, che dovrebbe semplicemente essere rispettata da tutti, viene chiamata a risolvere un problema politico che non si è stati capaci di risolvere con armi proprie, ossia con la sola forza della politica, pur avendone tutta la possibilità: se il Pd avesse candidato Renzi il politico della discordia sarebbe fuori giuoco, e noi non staremmo ancora qui a sfogliare la margherita delle alleanze (m’ama? non m’ama? Bersani non l’ha ancora capito che Grillo non lo ama?). 

Ma il caso più interessante è quello della legge elettorale. Qui non solo nella testa dei politici, ma anche in quella degli elettori, si è installata una curiosa credenza. Dato che nessuno riesce a vincere le elezioni, dato che a un mese dal voto non si sa ancora chi sarà il premier, dato che in Parlamento non esiste alcuna maggioranza in grado di sorreggere un governo, allora si è portati a credere che la colpa sia della legge elettorale. Ma è una grandiosa bestialità. Le leggi elettorali possono essere più o meno buone, più o meno adatte a un Paese, più o meno scandalose, ma da sole non possono risolvere i problemi la cui natura è essenzialmente politica. 

Se per quasi mezzo secolo in Italia non c’è stata alternanza fra destra e sinistra non è dipeso dalla legge elettorale proporzionale ma da due fattori genuinamente politici: la divisione del mondo in due blocchi, la mancata evoluzione del Partito comunista. Tanto è vero che i socialdemocratici tedeschi, che le loro scelte riformiste le avevano fatte già nel 1959 a Bad Godesberg (32 anni prima del Pci), non hanno dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per andare al governo, e lo hanno fatto con una legge di impianto prevalentemente proporzionale. L’alternanza al governo fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è un frutto della politica, non della legge elettorale.

Così oggi in Italia è del tutto fuorviante pensare che possa essere una nuova legge elettorale a tirarci fuori dalle secche in cui la politica si è andata a cacciare. Se le elezioni non riescono a esprimere una maggioranza e il Parlamento non riesce ad esprimere un governo è per due precise ragioni, entrambe di natura politica. La prima è che il nostro sistema politico è improvvisamente divenuto tripolare, come nel 1992-1993 (subito prima della discesa in campo di Berlusconi), quando l’Italia per una breve stagione assunse un assetto tripolare, con la Lega egemone al Nord, il Pci al centro e la Dc al Sud. E i sistemi tripolari non sono immuni al «paradosso di Condorcet»: può succedere che una maggioranza preferisca A a B, un’altra B a C, ma che vi sia anche una maggioranza che preferisce C ad A. Mettete, nell’ordine in cui volete, Bersani, Berlusconi e Grillo al posto di A, B, C, e vedrete in che bel pasticcio potremmo esserci cacciati. La seconda ragione è che Bersani e Grillo, ossia i due semi-vincitori delle elezioni, pensano solo a conquistare (o riconquistare) voti, il primo puntando sull’antiberlusconismo (un’idea veramente nuova e originale, come si addice a un «governo del cambiamento»), il secondo scommettendo sulla nascita di un governo Pd-Pdl così abominevole da consegnare il 51% (pardon: il 100%) dei consensi al Movimento Cinque Stelle.

Pensare che da un simile ginepraio possa tirarci fuori una legge elettorale è molto ingenuo. Certo, l’orrido Porcellum va cambiato, e alla svelta (io avrei anche una proposta: chiediamo a Giovanni Sartori, il nostro studioso di sistemi elettorali più illustre, di scrivere lui una legge sensata). Ma nessuna legge elettorale può produrre, di per sé, quel che solo la politica può darci, ossia un governo che abbia il consenso necessario per governare. Se tornassimo al proporzionale, cadrebbe la finzione attuale del vincitore (chi ottiene il premio di maggioranza), ma comunque dovremmo assistere ai medesimi estenuanti negoziati di oggi. Se sopprimessimo il Senato e mantenessimo l’attuale premio di maggioranza alla Camera, assisteremmo alla nascita di governi che hanno il 54% dei seggi in Parlamento e il 25% dei consensi nel Paese (tenuto conto del non voto, è questo il consenso reale di cui godono oggi Bersani-Berlusconi-Grillo). Se adottassimo il doppio turno alla francese, che tanto piace al Pd, dovremmo prepararci ad assistere al paradosso dei sistemi tripolari: il vincitore del primo turno perde al ballottaggio, perché il terzo arrivato si allea con il secondo. Spieghiamolo con due esempi: nelle regioni rosse vanno al ballottaggio Pd e Grillo, ma il Pdl escluso si vendica votando Grillo. Nelle regioni bianche vanno al ballottaggio Pdl e Grillo, ma il Pd escluso si vendica votando Grillo. Insomma, vince sempre Grillo, anche se Pd e Pdl hanno il doppio dei suoi voti.

Per questo, pur convinto che le regole del gioco vadano rinnovate, e vadano rinnovate nel senso di una maggiore efficienza – una sola Camera, meno deputati, più potere al premier, regolamenti parlamentari snelli – vedo con qualche perplessità l’attuale tentativo di Bersani di ottenere la benevolenza del Pdl con una mera intesa sulle regole. Di regole istituzionali meno paralizzanti c’è sicuramente bisogno. Di una nuova legge elettorale pure. Ma le regole servono per governare, e governare significa affrontare tutti gli altri problemi, ossia lavoro, tasse, stato sociale. Di un accordo sulle regole che lasci tutto il resto come prima, con una sinistra e una destra che si odiano, e odiandosi paralizzano qualsiasi governo, non si sente proprio il bisogno. 

da - http://lastampa.it/2013/03/24/cultura/opinioni/editoriali/non-basta-una-legge-elettorale-jVTaivRZsaION8gzyYzMaM/pagina.html
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« Risposta #179 inserito:: Aprile 05, 2013, 06:09:37 pm »

Editoriali
05/04/2013

La sfida sull’onore del Pd

Luca Ricolfi


E’ da un po’ di tempo che me lo chiedo: la scissione del Pd avverrà a destra o a sinistra? 

 

Sì, perché fino a ieri davo abbastanza per scontato che una scissione ci sarebbe stata. Vista la disastrosa conduzione di Bersani, vista la cocciutaggine del gruppo dirigente. 

 

E vista la determinazione dei renziani a dare battaglia, riuscivo a immaginare solo due scenari. 

Scenario 1 (scissione «a sinistra»): il Pd volta pagina, Renzi conquista il partito, gli irriducibili fondano un partito a sinistra del Pd (Rifondazione democratica?), magari con Vendola e gli avanzi della lista Ingroia.

 

Scenario 2 (scissione «a destra»): il Pd si compatta intorno a Bersani, non concede le primarie a Renzi, e induce il sindaco di Firenze a fare una lista propria.

 

Non tutti se ne ricordano, ma due scissioni del genere sono già avvenute negli anni scorsi, con esiti disastrosi per gli scissionisti. Nel 2008, erano stati gli irriducibili dei Ds (autodefiniti SD, ovvero Sinistra Democratica) a tentare l’avventura con la lista Arcobaleno, nel 2009 era stato Rutelli a fare l’irriducibile, con la mai decollata Alleanza per l’Italia. Molti indizi, a partire dai sondaggi, fanno ritenere che oggi le cose andrebbero diversamente: il Pd è così diviso che c’è spazio sia per una robusta scissione a sinistra, sia per una robusta scissione a destra.

 

Da ieri, tuttavia, sono meno convinto che il Pd finirà per spaccarsi a metà come una mela. Ieri infatti è successo un fatto nuovo: Renzi ha rotto il silenzio che si era imposto e, in una intervista al Corriere della Sera, ha detto tutto (o quasi tutto) quello che pensa. Molte delle cose che Renzi ha detto non sono nuove. Ce n’è una, però, che – per il suo contenuto e per la forza con cui è stata detta – potrebbe produrre effetti importanti. Mi riferisco ai passaggi nei quali Renzi denuncia l’arroganza dei parlamentari grillini («un’arroganza che non si vedeva dai tempi della prima Repubblica») e solidarizza con Bersani, raccontando il proprio sconcerto di fronte all’incontro Pd-Movimento Cinque Stelle trasmesso in diretta streaming qualche giorno fa: «mi veniva da dire: Pierluigi, sei il leader del Pd, non farti umiliare così».

 

Anch’io, che non sono certo un fan di Bersani, avevo provato una sensazione simile a quella di Renzi: un misto di sconcerto, di pena, di rabbia. Ho un’età che mi permette di ricordare molto bene che cos’erano i militanti del Pci negli anni ’70, cos’erano i dirigenti, cos’era il segretario del più grande partito comunista dell’Occidente. Il Pci aveva mille limiti (che la sinistra paga ancora oggi), ma di una cosa tutti noi nati prima del 1960 siamo assolutamente certi: Enrico Berlinguer non si sarebbe fatto umiliare così. Quel partito e il suo gruppo dirigente avevano una dignità, un orgoglio, una compostezza mi verrebbe da dire, che mai e poi mai avrebbero reso possibile quel che oggi accade. Non tanto il fatto che un comico e i suoi discepoli deridano, insultino, svillaneggino quotidianamente i rappresentanti del più grande partito della sinistra (questo non lo si può impedire), ma che quei medesimi dirigenti derisi e svillaneggiati porgano l’altra guancia, corteggino, lusinghino chi li disprezza così profondamente. 

 

No, questo con Berlinguer non sarebbe mai potuto succedere. Ed è curioso che a restituire l’onore al Pd, o quantomeno a provarci, non siano i pasdaran di Bersani, che sulle «radici» e sull’identità del partito avevano puntato tutte le loro carte, ma sia questo ragazzino bizzoso e un po’ strafottente, che però della politica pare avere un’idea alta. Un’idea secondo cui la parola data si mantiene, quel che si pensa lo si dice, gli avversari si battono in campo aperto, gli elettori – tutti gli elettori – meritano rispetto. Come la politica, appunto, che non può e non deve rinunciare alla propria dignità.

 

Ecco perché dicevo che, dopo l’intervista di ieri, non escludo più che il Pd riesca a restare relativamente unito, e ci riesca proprio grazie a Renzi. Fino a ieri il sindaco di Firenze rappresentava solo la componente liberale e dialogante del Pd. Da oggi, Renzi sembra candidarsi alla guida del partito anche come colui che ne difende la dignità e le buone ragioni. E, a pensarci bene, è del tutto naturale che questa difesa venga proprio da lui, e non dalla vecchia guardia. Non solo perché la «fortezza Renzi» è così poco compromessa con il passato da risultare inespugnabile dal grillismo, ma perché Renzi è l’unico dirigente del Pd che ha capito fino in fondo quanto sia sbagliato, nonché autolesionistico, il disprezzo per l’avversario. Il trattamento che i grillini stanno riservando al Pd, fatto di derisione e disistima, è il medesimo che il Pd ha sempre riservato all’avversario di destra. E’ possibile che molti dirigenti del Pd non se ne siano ancora resi conto, o non se ne facciano una ragione, ma la realtà è che Grillo sta al Pd come il Pd sta al Pdl. Fuor di metafora matematica: per i grillini la classe dirigente del Pd è impresentabile, esattamente come per il Pd lo è quella del Pdl. L’umiliazione del Pd, accusato dal Movimento Cinque Stelle di ogni nefandezza, è una sorta di contrappasso per vent’anni di disprezzo verso gli avversari politici.

 

Non è detto che Matteo Renzi riesca nell’impresa di restituire al Pd l’onore perduto, se non altro perché il passato prossimo di quel partito non è particolarmente onorevole. E tuttavia già sarebbe un grande risultato che il tentativo di Renzi sortisse almeno un effetto: quello di far comprendere a tutti, e innanzitutto al suo partito, che il disprezzo dell’avversario, la sua derisione e la sua umiliazione, sono solo il vecchio della politica, le scorie di un passato che speriamo non ritorni mai.

da - http://lastampa.it/2013/04/05/cultura/opinioni/editoriali/la-sfida-sull-onore-del-pd-XWA4yscG422fZ5hOgXFKkM/pagina.html
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