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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108265 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Aprile 30, 2012, 11:24:33 am »

30/4/2012

L'utopia della lotta agli sprechi

LUCA RICOLFI

Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce per affrontare il problema dei tagli alla spesa pubblica. Vedremo che cosa ne verrà fuori. E speriamo che il risultato non siano solo annunci, ulteriori «fasi di studio», impegni futuri, «tavoli tecnici» e approfondimenti vari. Perché una cosa va detta: di «enti inutili», «spending review», sprechi della Pubblica Amministrazione, si parla da decenni, almeno dai tempi di Ugo La Malfa, e di studi settoriali sull’efficienza della macchina amministrativa pubblica se ne contano ormai a bizzeffe.

E il quadro generale è piuttosto chiaro. La spesa pubblica totale, al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, ammonta a circa 500 miliardi di euro.

Il tasso di spreco medio è nell’ordine del 20-25%, il che significa che, se si adottassero le pratiche delle amministrazioni più efficienti (ma sarebbe più esatto dire: meno inefficienti), si potrebbero risparmiare almeno 100 miliardi l’anno. Una cifra con cui, giusto per fare un esempio, si potrebbe portare la pressione fiscale sui produttori a livelli irlandesi, attirare investimenti esteri e creare milioni di posti di lavoro.

Ma perché, se il quadro è chiaro, nulla o quasi nulla mai avviene, né con governi di sinistra, né con governi di destra, né con governi tecnici?

Le ragioni per cui nulla di importante mai avviene, a mio parere, sono almeno tre. La prima, ovvia, è che è politicamente più facile aumentare le tasse che ridurre la spesa. L’aumento delle tasse si traduce in decine di piccole vessazioni nessuna delle quali è abbastanza concentrata su una singola categoria da suscitare una rivolta dei contribuenti. I tagli alla spesa invece toccano categorie molto specifiche, e così creano una saldatura fra corporazioni, sindacati e ceto politico (specie locale), una sorta di patto nascosto o implicito che blocca qualsiasi decisione presa dal governo centrale.

La seconda ragione che blocca i tagli è che, colpevolmente, in questi anni il ceto politico non ha mai commissionato studi analitici. Di un comparto come la sanità, o come la giustizia, o come la burocrazia comunale, si sa con discreta precisione quanto spreca, a vari livelli: a livello nazionale, a livello regionale, spesso anche a livello provinciale. Ma non si sa dove esattamente gli sprechi si annidino, perché per saperlo occorrerebbe effettuare centinaia di studi locali e dettagliati – «studi analitici» appunto – che di norma richiedono un tempo (da 1 a 3 anni) che va al di là del miope orizzonte dei nostri partiti politici. Questo spiega perché, arrivati al dunque, i tagli sono sempre lineari e piccoli. Si dice a tutti: risparmia il 2% subito, mentre si dovrebbe dire: avete tempo 5 anni, ma tu – amministrazione abbastanza virtuosa – devi risparmiare il 4% in 5 anni, mentre tu – amministrazione cicala – devi risparmiare il 40%.

E qui veniamo alla vera, profonda e a mio parere insuperabile ragione per cui non si riesce e – temo – non si riuscirà mai a eliminare gli sprechi: le amministrazioni virtuose sono territorialmente concentrate in alcune, ben note, regioni del Centro-Nord, quelle viziose in alcune, ben note, regioni del CentroSud. Una politica di risparmi di spesa seria dovrebbe avere il coraggio di dire: caro Lombardo-Veneto, cara Emilia Romagna, avete già fatto molto per razionalizzare la spesa, quindi a voi chiediamo solo una ulteriore limatura del 5% (cifra indicativa, ma non lontana dalla realtà). Caro Piemonte, cara Liguria, cara Umbria, voi siete state meno brave, a voi dobbiamo chiedere di tagliare il 15%. E poi dovrebbe farsi forza e dire: care Sicilia, Calabria e Campania, voi buttate via i soldi, vi diamo 5 anni di tempo ma voi la spesa la dovete ridurre del 40%. Mentre voi, Puglia, Abruzzo, Sardegna, di soldi ne buttate via un po’ di meno, e quindi a voi chiediamo risparmi minori, diciamo del 25% in 5 anni.

Naturalmente le regioni e le cifre precedenti sono solo indicative. La graduatoria degli sprechi, all’ingrosso e a grandissime linee, è effettivamente quella che ho appena indicato ma non è la medesima in tutti i campi: un territorio può essere inefficiente nella sanità ma abbastanza efficiente nella giustizia; una regione sprecona può contenere isole di efficienza, così come una regione virtuosa può contenere sacche di inefficienza. E’ proprio per questo che, se non ci si vuole affidare ai tagli lineari, gli studi devono essere il più analitici possibile e un governo centrale può fissare solo gli obiettivi aggregati di medio periodo. Un governo che volesse fare sul serio dovrebbe fissare un orizzonte temporale ragionevole (3, 4, 5 anni), quantificare i risparmi possibili in ognuno dei grandi comparti della Pubblica amministrazione, e fissare precisi obiettivi territoriali per ogni comparto. Questo, se lo si volesse, si potrebbe fare anche subito, perché di studi ce ne sono già abbastanza, a partire da quelli della (colpevolmente) disciolta «Commissione Muraro» sulla spesa pubblica, che già anni fa aveva cominciato a delineare un quadro delle inefficienze. Fatto questo, toccherebbe poi alle varie amministrazioni pubbliche, centrali (ministeri) e locali (Regioni, Province, Comuni), ripartire il carico dei risparmi Asl per Asl, reparto per reparto, Comune per Comune, servizio per servizio. Un’operazione che richiederebbe una miriade di studi analitici, una serie di autorità esterne di controllo e valutazione, nonché un processo di contrattazione fra gli enti coinvolti.

Un’utopia? Sì, penso di sì. E appunto per questo, perché quel che si dovrebbe fare appare utopistico con questo ceto politico, con questa opinione pubblica, con queste forze sociali, penso che non se ne farà nulla. Di «spending review» si parlerà ancora un po’, saremo inondati di intenzioni e annunci, e alla fine la spesa verrà limata in maniera molto modesta. I risultati non saranno usati né per costruire asili nido (di cui c’è un enorme bisogno) né per ridurre le tasse a lavoratori e imprese, ma per coprire i buchi di bilancio che – puntualmente – si scopriranno all’avvicinarsi della scadenza del 2013. Il governo, quale che esso sia, si accorgerà fra qualche tempo che l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 è a rischio, e lì farà confluire i proventi di tutti i nostri sacrifici, fatti di maggiori tasse e minori servizi. So che a molti apparirò troppo pessimista, o prevenuto nei confronti di ogni governo della Repubblica presente, passato e futuro, ma questo è quello che – sulla base dell’esperienza – penso si possa realisticamente prevedere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10047
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« Risposta #151 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:14:43 pm »

9/5/2012

Sberleffo e castigo

LUCA RICOLFI

Elezioni amministrative: per quanto mi sforzi, non riesco a trovare nulla che non fosse prevedibile e previsto. Più che rivelarci lo stato d’animo dell’elettorato, questi risultati non fanno che certificare quel che si vedeva già benissimo prima, a occhio nudo. E cioè: che la Lega non è più credibile, che il Pdl senza Berlusconi stenta ad esistere, che la gente è inferocita contro i partiti, e che solo la «sinistra unita» (Bersani-Di PietroVendola) non ha perso del tutto la faccia. Gli unici elementi forse non del tutto scontati sono l’entità del successo del movimento Cinque stelle di Beppe Grillo e l’incapacità dei centristi (Casini, Fini, Rutelli) di approfittare dello sbandamento delle truppe di Berlusconi. Ma al di là di questo, non vedo nulla che non si capisse senza bisogno del riscontro elettorale.

Semmai vedo un rischio, e cioè che si prenda troppo sul serio questo risultato. Che si veda in esso una proiezione o un’anticipazione di quel che potrebbe succedere l’anno prossimo, con le elezioni vere, le politiche del 2013.

Sarebbe un errore, perché queste sono elezioni «di secondo ordine», che obbediscono a una logica diversa da quella delle elezioni politiche. Ci sono meccanismi che funzionano in un’elezione amministrativa intermedia, ma si disattivano in elezioni per l’elezione del Parlamento nazionale.

Uno di questi meccanismi è il votosberleffo, che premia liste di protesta radicale. A parità di condizioni (cioè di clima anti-partitico), le liste di protesta raccolgono molti più voti in un appuntamento elettorale marginale come quello dei giorni scorsi che in un’elezione «seria», come sempre sono considerate le consultazioni politiche. Quando la posta sale e il gioco si fa duro, gli elettori in libera uscita tornano all’ovile e votano i partiti maggiori. Questo non vuol dire che Beppe Grillo non possa replicare il suo successo, o addirittura amplificarlo, alle prossime elezioni politiche, ma che se vuole sfondare anche lì deve crescere ancora molto, o essere aiutato dai comportamenti suicidi dei partiti maggiori, che peraltro - con la loro sordità ad ogni richiesta di autoriforma della politica - appaiono più che ben disposti a soffiare vento nelle vele del movimento Cinque Stelle.

Un altro meccanismo è il ritiro temporaneo nell’astensione da parte degli elettori dei partiti maggiori, una sorta di non-voto punitivo. Le elezioni intermedie sono, per i cittadini, un’occasione d’oro per segnalare il proprio scontento ai leader dei vari partiti. È probabile che questo meccanismo sia stato alla base della débâcle del Pdl. Ma di norma il cittadino che fa l’offeso nelle elezioni minori si precipita a votare per la sua parte politica in quelle maggiori, dimenticando tutti i giuramenti che ha fatto a suo tempo. Io conosco personalmente decine di persone che, da anni, mi dicono «sono disgustato», «giuro che questi partiti non li voterò mai più», «io alle prossime elezioni non vado a votare», ma poi, quando arrivano le elezioni vere e si profila il rischio che vincano «gli altri», si turano il naso e immancabilmente corrono a votare il loro odiato partito, dimentichi delle solenni minacce di non farlo mai più.

In breve, voglio dire che alle prossime elezioni politiche potrà anche esserci un terremoto, ma se ci sarà difficilmente sarà la mera continuazione delle scosse di questi giorni. Se bisogna a tutti i costi proclamare un vincitore, o un «minor perdente» di queste elezioni amministrative, non v’è dubbio che il vincitore è Beppe Grillo, e il minor perdente è l’alleanza di sinistra. Ma è verosimile che dietro questo esito ci siano i due meccanismi di cui ho parlato: il voto-sberleffo, che ha portato alle urne gli arrabbiati e ha contenuto il calo della partecipazione elettorale, l’astensione-castigo, che ha tenuto a casa gli elettori del Pdl delusi. Visto da questa angolatura, il risultato elettorale delle comunali è più pericoloso per il Pd che per il Pdl: il partito di Berlusconi non può non accorgersi di essere fuori strada, mentre quello di Bersani potrebbe anche coltivare l'illusione di essere su quella giusta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10079
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« Risposta #152 inserito:: Maggio 27, 2012, 04:51:20 pm »

27/5/2012

L'incapacità di ricambio di leader

LUCA RICOLFI

C’ è un pensiero, o meglio una domanda, che ultimamente mi perseguita quando penso alla politica italiana. Con tutto quel che è venuto fuori su Bossi, sua moglie, i suoi figli, compresa la laurea falsa del «trota» comprata in Albania, come è possibile che Bossi resti al comando? Come è possibile che anche quanti si ripromettono di ripulire e rifondare la Lega prendano seriamente in considerazione l’ipotesi di un partito con un segretario diverso (Maroni) ma con Bossi presidente della «nuova Lega»? Che cosa deve succedere perché un capo-partito venga non dico cacciato, espulso, punito, ma semplicemente archiviato? Che cosa fa sì che non si possa mai assistere a una battaglia politica che porti alla sostituzione di un vecchio gruppo dirigente con uno nuovo e diverso?

Questo genere di domande me le ero già fatte molte volte a proposito di Berlusconi e del suo partito, ma lì avevo una risposta: Berlusconi ha i cordoni della borsa, e ha sempre fatto attenzione a non dare spazio a persone troppo capaci o indipendenti da lui.

Che il Pdl senza Berlusconi rischiasse di implodere (come ora sta succedendo) è sempre stata per me una risposta soddisfacente alla mia istintiva e un po’ moralistica domanda: visto che ne combina di tutti i colori, perché i suoi non se ne liberano?

Ma con la Lega è diverso. Bossi non ha risorse economiche proprie (tanto è vero che usa quelle della Lega a beneficio dei suoi familiari), e inoltre non è circondato da figure chiaramente minori rispetto a lui stesso. Se volessero, i suoi potrebbero benissimo dirgli: caro Umberto, hai abusato della tua posizione, hai 70 anni suonati, ora fatti da parte che la Lega la prediamo in mano noi.

Mentre mi chiedevo perché non succede, ha cominciato però a ronzarmi un pensiero più radicale, una sorta di sospetto più generale. Mi sono venute inmente decinee decinedi situazioni,non solo nella politica, ma anche al di fuori di essa in cui succede la stessa cosa. La resistenza dei vecchi capi al cambiamento, e soprattuttola rinuncia dei giovani a dare battaglia, va molto al di là del recinto del centrodestra. Anche nelle imprese, nelle università, nelle fondazionibancarie, l’età mediadei capiè prossima ai 60 anni, ma soprattutto - questo è il fatto interessante - i quarantenni non danno battaglia. Aspettano. Attendono fatalisticamente che venga la loro ora. Una sorta di «sindrome di Carlo d’Inghilterra», che ormai 65enne non sa ancora se mai ascenderà al trono. Con la differenza che una posizione dirigente nella politica, nell’economia, o nella società non si eredita come un trono, ma si dovrebbe conquistarein base ai meriti guadagnatisul campo.

Ecco, i meriti. Forse questo è il punto. Forse la ragione per cui nessuno dà battaglia, anche quando avrebbe tutte le carte in regola per farlo, è che in Italia i capi beneficiano di un sovrappiù - di un anomalo e perversosovrappiù - di deferenza, di rispetto, di gratitudine. Una sorta di intangibilità, che fa apparire tradimento quella che altrove sarebbe giudicata una normale e fisiologica competizione fra gruppi e generazioni. Ma da dove deriva tale sovrappiù? Come siamo arrivati, un po’ tutti, ad esitare di fronte all’eventualitàdi intraprenderecerte battaglie?

La risposta è che in Italia si va avanti per cooptazione.Anchechi va avanti con pieno merito, ingenere può farlo solo perché qualcun altro - il «capo» - a un certo punto ha dato disco verde. Ha chiamato. Ha promosso. Ha coinvolto. Ha incluso. Ha ammesso nel clan, nel gruppo, nella rete, nel «cerchio magico». A quel punto è naturale per il cooptato maturare un senso di riconoscenza, di fedeltà, di lealtà, che gli fa percepire ogni possibile battaglia futura come un tradimento,una manifestazionedi ingratitudine. Questo meccanismo è così diffuso, così endemico, quasi scolpito nel nostro modo di sentire, che finisce per coinvolgere anche chi - in realtà - avrebbe tutti i numeri per dare battaglia, per promuovereil ricambio, per liberarci di personaggiche, con il passare degli anni, diventano un peso, se non altro perché non possono più dare il meglio di sé. Una singolareincapacità di «uccidere il padre», nel senso freudiano di diventare grandi e maturi, inquina e intorbida la vita del nostro Paese. Il padre non viene ucciso semplicemente perché gli dobbiamo troppo, se non tutto; e chi ha grandi debiti non puòessere libero,non soloineconomia.

Più che i padri che non lasciano il comando, colpisce il fenomeno dei figli che nulla fanno per prenderlo. Come se ereditare fosse l’unica modalità di successione che conoscono. E non si pensi che, in politica, il problema riguardi solo la destra. C’è una controprova clamorosa che non è così. Tu apri Radio Radicale e immancabilmente, quotidianamente, incappi in una esternazione di Marco Pannella. Un fiume di parole disordinato e sostanzialmente incomprensibile,almeno per personenormali.

Perché? Perché nessun politico radicale ha mai seriamente conteso la leadership all’ultra-ottantenne Pannella?

Qui non c’entrano i soldi, non credo che Pannella finanzi il suo movimento politico. Non credo che i radicali abbiano fatto particolare attenzione a escludere persone capaci. Non credo che, ad esempio, a Emma Bonino manchino le qualità per assumere la piena leadership dei radicali. Eppure non è mai successo. Non succede. Non succederà. La deferenza verso i capi, la sottomissione all’autorità dei cooptanti, è così profonda, in Italia, da coinvolgere persino i radicali, ovvero il più anti-autoritario, il più libertario, il più laico fra i gruppi politici italiani. Per non parlare del Pd, dove un gruppo di colonnelli 60enni controlla il partito da un quarto di secolo, i futuri premier vengono decisi a tavolino (ricordate le primarie finte per Prodi?), e i rarissimi casi anomali - come quello di Matteo Renzi, che ha sfidato apertamente il partito - sono visti con un misto di irritazione, insofferenza, fastidio. Né, forse, è solo un caso che le uniche novità importanti e relativamente giovani del panorama politico italiano - il movimento Cinque Stelle e Italia Futura - abbiano avuto bisogno, per venire al mondo, di due levatrici non precisamente giovanissime,ovvero il 64enne Beppe Grillo e il 65enne Luca Cordero di Montezemolo.

Che cosa dobbiamoattenderci,dunque? Forse esattamente quel che potrebbe succedere in Inghilterra,dove ormai è più probabile che il trono della vecchissima regina Elisabetta (86 anni) passi al giovanissimo principe William (30) che non al vecchio Carlo (65), «principe del Galles». La generazione dei Fini, Casini, Maroni,Bonino ha atteso troppo a condurre le proprie battaglie. Quando ricambio ci sarà, è più facile che a imporlo sianoi 30-40ennidi oggi. Specie quelli che hanno meriti e capacità proprie, e non debbono ai vecchi le posizioni che occupano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10150
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« Risposta #153 inserito:: Giugno 17, 2012, 09:58:04 am »

17/6/2012

Il nocchiero e i pirati

LUCA RICOLFI

Su Monti e il suo governo le opinioni ma anche i sentimenti - divergono. C’è chi vede il professore come colui che ci ha finalmente liberato dal teatrino della politica (e da Berlusconi), e chi lo vede come il tecnocrate che sta imponendo un’inutile austerità a un Paese già stremato.
C’è chi lo vorrebbe più socialdemocratico e chi lo vorrebbe più liberale. C’è chi plaude ad ogni atto del suo governo, e chi trova da ridire su quasi tutto.

Personalmente sono passato da un sostegno colmo di speranza (primi mesi), a un dissenso colmo di delusione (ultimi mesi). Ma qui vorrei lasciar perdere quel che rende diverso l’atteggiamento di ognuno di noi, cittadini, studiosi, osservatori, e vorrei concentrarmi sui sentimenti e i pensieri più condivisi, quelli che vanno al di là degli schieramenti e delle manie personali. C’è qualcosa che in molti, forse la maggioranza, pensiamo del governo Monti?

Sì, credo di sì, ci sono parecchie cose che pensiamo e parecchie cose che vorremmo. Una prima cosa è che al momento - non ci sono alternative migliori, più credibili, più affidabili. Specie a livello europeo, Monti è la persona che più autorevolmente può difendere, ed effettivamente difende, gli interessi dell’Italia.

Certo questo non lo pensano tutti, ma credo sia piuttosto difficile per chiunque immaginare che uno qualsiasi dei leader o degli aspiranti leader politici di questo Paese possa fare meglio e di più di Monti nel complesso negoziato in corso fra i maggiori paesi europei.

Ma oltre alle cose che in molti pensiamo, ci sono le cose che in molti vorremmo, al di là delle differenze di opinione sulla politica economica del governo. E queste sono cose per lo più critiche verso il governo, ma di un tipo di critica che va al di là delle differenze fra schieramenti e fra concezioni generali del bene pubblico. Che cosa non ci è piaciuto di questo governo? Che cosa non vorremmo più vedere nei prossimi mesi? Credo che queste cose si possano sintetizzare in due punti fondamentali.

Primo punto. Meno annunci, meno approssimazioni, meno personalismi dei ministri, meno marce indietro, in una parola: più fatti, meno parole.
Fa una gran brutta impressione la promessa di fare una riforma incisiva entro pochi mesi, e poi il solito temporeggiare, indietreggiare, rimodulare, demandare, delegare. Certe riforme si possono anche non fare, ma se dici di farle entro 3 mesi poi le devi fare, devi stare nei tempi, e devi farle sul serio. Se non sei in grado, meglio non fare niente. Dice nulla il fatto che lo spread sia migliorato nei primi mesi dell’anno, quando l’immagine riformatrice del governo era ancora intatta, e sia sistematicamente peggiorato quando si è capito - l’abbiamo capito tutti, e quindi anche i mercati che il governo, come avrebbe detto il buon Berlinguer, aveva perso la sua «spinta propulsiva»?

Secondo punto. Più autonomia dai partiti che lo sostengono. Sulle nomine, sul disegno di legge anti-corruzione, sui costi della politica, sulla riforma della pubblica amministrazione, il governo ha subito costantemente il condizionamento dei partiti. Come cittadino, io mi sento profondamente offeso e preso in giro da un governo che, presumibilmente per volere del ceto politico, non trova il coraggio di varare una norma che proibisce ai condannati definitivi di candidarsi alle elezioni del 2013. E come studioso di cose elettorali mi stupisco che i sondaggi assegnino a Beppe Grillo solo il 21% dei consensi. Siamo davvero un popolo paziente se alla politica consentiamo tutto, forse distratti dal campionato europeo di calcio.

Ma personalmente non credo che Grillo sia la soluzione. Grillo è un termometro, che ancora imperfettamente ma inesorabilmente registra l’aumento della febbre anti-partitica dell’elettorato. Per questo trovo incredibile che i partiti non se ne accorgano, e continuino a regalargli consensi che difficilmente saranno in grado di risolvere i problemi dell’Italia. E ancora più incredibile trovo il fatto che questo governo, che non è composto da politici in carriera (salvo qualche ministro che ci sta facendo un pensierino), non separi chiaramente le sue responsabilità da quelle dei partiti. Non solo sulle nomine, sui costi della politica, sui privilegi della casta, ma sulle cose che davvero possono cambiare la vita degli italiani, ossia su quelle riforme radicali di cui da vent’anni si parla e di cui lo stesso Monti era un convinto sostenitore finché parlava dalle colonne del "Corriere della Sera".

Ci dica, signor presidente del Consiglio, che cosa farebbe lei, e in quali tempi lo farebbe, se i partiti che la sostengono le dessero il permesso di farlo. Separi le sue responsabilità da quelle dei partiti, se non altro per un dovere di chiarezza e di trasparenza nei confronti dei cittadini. Usi la sua forza - la forza di essere difficile da sostituire con un’alternativa migliore - per fare quel che ritiene debba essere fatto per il bene dell’Italia. Come elettori, vogliamo sapere se quel che non si fa è perché lei non lo ritiene utile al Paese, o perché il ceto politico le lega le mani, o perché a remarle contro sono la burocrazia, le banche, la Confindustria, i sindacati.

Anziché lamentarsi più o meno cripticamente dei poteri forti che l’avrebbero abbandonata, ci dica che cosa lei farebbe e chi glielo impedisce.
A partire dal problema della eleggibilità dei condannati definitivi ma anche su tutto il resto (le riforme strutturali), che conta di meno sul piano morale ma conta di più sul piano pratico. Perché siamo in un periodo di grande confusione, di grande disorientamento, e proprio per questo abbiamo bisogno di sapere, di capire. La stampa può essere più o meno tenera con lei. Dentro il medesimo giornale lei troverà osservatori che la difendono ed osservatori che la criticano. Ma credo che tutti, senza distinzione, almeno un desiderio in comune ce l’abbiamo: più chiarezza. Chiarezza sulla rotta del nocchiero, notizie sui pirati che ne minacciano la navigazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10235
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« Risposta #154 inserito:: Luglio 08, 2012, 10:24:43 am »

8/7/2012

Molto rumore, ma restano gli sprechi

LUCA RICOLFI

Sproporzionate, a mio parere, sono le reazioni al decreto del governo per la “revisione” della spesa pubblica.
Certo, sul piano politico tutto va secondo copione. I sindacati denunciano l’attacco alla spesa sociale, il Pd e gli enti locali sono preoccupati per la probabile riduzione dei servizi, il Pdl è relativamente soddisfatto perché finalmente si preferisce tagliare la spesa piuttosto che aumentare le tasse. Qualche mese fa succedeva l’opposto: quando si aumentavano le tasse e non si toccava la spesa pubblica era il Pd ad essere relativamente soddisfatto, mentre il Pdl era freddino.

Ma se si va alla sostanza delle misure adottate, se si guarda al loro impatto complessivo, alla loro composizione, e soprattutto alla loro distribuzione nel tempo, le cose appaiono in una luce diversa, e molto più tenue.
Consideriamo, per cominciare, l’entità dei tagli, detti anche risparmi o razionalizzazioni. Il loro ammontare si aggira sui 10 miliardi l’anno. Non è pochissimo, e comunque è molto meglio del niente cui siamo abituati. E tuttavia rendiamoci conto che la loro incidenza sulla spesa pubblica complessiva, anche al netto della spesa pensionistica, è davvero modesta.
Una limatura del 2%, a fronte di un tasso di spreco che è almeno del 20%. Un tasso di spreco del 20% significa che, se la Pubblica amministrazione funzionasse ovunque come funziona nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni meglio organizzati, il risparmio che si otterrebbe sarebbe di 100 miliardi l’anno, ossia 10 volte superiore a quello che il marziano Bondi ha pianificato di qui al 2014. Chi critica l’entità della manovra sembra non rendersi conto che, se dovesse avere pieno successo, inciderebbe solo sul 10% degli sprechi, lasciando intoccato il restante 90%.

C’è poi il capitolo della composizione. Qui è inutile che ci si scagli contro i “tagli lineari”. I tagli del governo non sono affatto lineari (cioè proporzionali o uniformi per tutte le amministrazioni), tanto è vero che ci sono enti che vengono soppressi ed enti che vengono salvati, ci sono criteri che determineranno chiusure di strutture in determinati posti e non in altri, ci sono ministeri che dovranno tagliare di più e ministeri che dovranno tagliare di meno. I dubbi, semmai, riguardano la razionalità dei criteri adottati, e la capacità di metterli in atto. E’ presto per valutare un dispositivo molto complesso e in parte ancora aperto a correzioni e messe a punto, però mi sembra che alla spending review come si è configurata fin qui manchino due requisiti fondamentali.

Primo requisito: poiché gli sprechi sono concentrati in alcuni territori (non tutti al Sud ma prevalentemente al Sud), e poiché gli enti territoriali virtuosi (non tutti nel Nord ma prevalentemente nel Nord) sono piuttosto vicini alla “frontiera di efficienza”, ossia ai modelli organizzativi che consentono i maggiori risparmi, qualsiasi intervento di razionalizzazione deve concentrare i risparmi là dove esistono le condizioni per attuarli, ossia nei territori e negli enti più lontani dalla frontiera di efficienza. Se tale concentrazione non si verifica, vuol dire che l’intervento è guidato da criteri politici, non da criteri di razionalità economica.

Un criterio molto prudente di valutazione suggerisce che, poiché il tasso di spreco del Mezzogiorno è mediamente (ossia con le dovute eccezioni) almeno il triplo di quello del Centro-Nord, i sacrifici richiesti al Centro-Nord dovrebbero essere non più di un terzo di quelli richiesti alle regioni del Sud. Altrimenti l’intervento è iniquo, perché colpisce chi ha già dato. Attendo i dati definitivi per capire se la spending review rispetti questo requisito minimo (necessario, anche se non sufficiente) di giustizia e razionalità o sia, invece, guidata da criteri politico-contabili come tutte le manovre sulla spesa che l’hanno preceduta.
Secondo requisito: la revisione della spesa deve essere attuabile. Per attuabile non intendo solo capace di dare i risparmi previsti, ma capace di non ridurre i servizi erogati ai cittadini. Su questo le preoccupazioni del Pd e dei sindacati mi paiono giustificate. Però, attenzione. Se si accetta il principio che esistono degli sprechi, che sono ingenti, e che andrebbero eliminati, allora ci si deve porre il problema che si poneva Giulio Tremonti in uno dei suoi fortunati libri: il “comando” nella Pubblica amministrazione.

Comando significa che, quando una struttura non funziona perché inefficiente, ci deve essere un responsabile con poteri analoghi a quelli dell’imprenditore nel settore privato: potere di riorganizzare, spostare personale, licenziare quando è necessario. Oggi, per com’è la legge, per come sono i sindacati, per com’è la mentalità del pubblico impiego, per come funziona la magistratura, tutto questo è impossibile. Anche un semplice trasloco dei mobili da un ufficio a un altro situato a 200 metri, anche la riparazione di un termosifone che non funziona, anche l’attivazione di un servizio come internet, comporta una rete di mediazioni, colloqui e negoziazioni estenuante, come sa chiunque lavori in un’amministrazione pubblica. E qualsiasi atto di autorità, anche piccolo, è disincentivato dal costo delle reazioni di chi lo subisce, reazioni che vanno dalla mera non-collaborazione, all’azione sindacale, al ricorso ai tribunali amministrativi. I dirigenti della Pubblica amministrazione spesso non sono soggetti ammirevoli per dedizione e capacità, ma fondamentalmente sono figure erose da una ininterrotta esperienza di impotenza, o meglio di potere negativo: possono bloccare quasi tutto, ma non sono in condizione di riorganizzare quasi niente.

Ci sarebbe, per finire, da dire qualcosa sui tempi della manovra, anche per rassicurare i sindacati. Se si guardano attentamente le cifre, non sembra che – almeno per quest’anno – la spesa pubblica sia destinata a diminuire sensibilmente come conseguenza della spending review: i tagli sono inferiori ai 4 miliardi (3.7 secondo i calcoli del Sole – 24 ore). Quanto al 2013, accanto a tagli per 10.5 miliardi, sono previsti quasi altrettanti miliardi per una miriade di nuove spese: gratuità libri di testo, università private, diritto allo studio, 5 per mille, emergenza Nordafrica, strade sicure, missioni di pace, autotrasporto, esodati, terremotati. Alla fine, la riduzione della spesa pubblica per l’intero 2013 potrebbe essere ancora minore di quella, già modesta, prevista per i 6 mesi scarsi che mancano alla fine del 2012. Del 2014 è inutile parlare: tutte le manovre tagliano poco subito, e promettono che i tagli li faranno in futuro, ma di fatto nessun governo ha mai mantenuto tutti gli impegni di riduzione della spesa che aveva messo a bilancio per tre anni dopo. Il governo attuale non farà eccezione, se non altro perché nel 2014 ci sarà un altro governo.

Insomma, tranquillizziamoci un po’. La realtà è che, ogni anno, per un’infinità di motivi (compresi i terremoti e gli errori di calcolo dei ministri), nascono nuove spese. La “revisione della spesa” serve, innanzitutto, a trovare i soldi per finanziare le nuove spese. Quanto alla riduzione delle tasse sui produttori, agli stimoli all’economia, e a tutta la retorica del “rilancio della crescita”, non facciamoci illusioni: i governi fanno quello che possono (cioè quasi niente) perché se facessero quello che devono, ossia aggredire gli sprechi e la disorganizzazione dei servizi pubblici, non resisterebbero un giorno di più, travolti dalle reazioni delle lobby, dei partiti, dei sindacati, degli enti locali, dei cittadini più o meno organizzati e più o meno indignati.

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« Risposta #155 inserito:: Luglio 31, 2012, 04:39:37 pm »

23/7/2012 - IL DOPO-MONTI

L'irresistibile inadeguatezza della politica

LUCA RICOLFI

Credo che la maggior parte dei cittadini non abbia ancora capito. Per non parlare dei politici, dei sindacalisti, dei rappresentanti di associazioni e gruppi. A giudicare dalla spensieratezza con cui si va in vacanza, si segue il calcio mercato, si discetta di sistemi elettorali, ci si infervora sui matrimoni gay e sulle dimissioni della Minetti, si direbbe che siano davvero pochi gli italiani che si rendono conto di quanto è drammatico questo momento.

E allora proviamo a riassumere. Nessuno sa quanto è probabile che l’euro crolli, o che lo Stato italiano fallisca e ci trascini tutti nel baratro. Però questa eventualità, che era decisamente remota fino a qualche tempo fa, ora non è più trascurabile. Può succedere. Speriamo di no, ma può succedere. Questa settimana, o fra un mese, o fra un anno.

Non è inutile ricordare che cosa l’eventualità di un default si porterebbe dietro. Primo: una considerevole erosione dei propri risparmi, per chi ne ha; un crollo del valore degli immobili; l’impossibilità – in caso di necessità – di venderli a un prezzo decente.

Secondo: un taglio dell’importo delle pensioni, per chi non lavora più; difficoltà di conservare il posto di lavoro, per operai e impiegati; difficoltà di tenere aperte attività economiche, per imprenditori, commercianti, artigiani.

Terzo: riduzione della quantità e della qualità delle cure, per i malati; per tutti, problemi di approvvigionamento energetico, perché benzina, riscaldamento, luce elettrica scarseggerebbero e costerebbero di più.

Qui mi fermo, perché non è il caso di infierire. Ma il menù è questo. Le dosi possono variare, le portate – ovvero i guai – possono essere abbondanti o striminzite, ma questo è il genere di eventi che accompagnano un default.

Ebbene, di fronte a tutto questo – che fortunatamente non è né certo né probabile, e tuttavia sta diventando sempre più possibile – le forze politiche paiono avere completamente smarrito il senso della misura, delle proporzioni, o meglio ancora delle priorità. Ogni giorno ci riserva la sua piccola bega, fra partiti ed entro i partiti, e pochissimi paiono rendersi conto che ci siamo di nuovo pericolosamente avvicinati al baratro.

Da qualche giorno si riparla della possibilità di votare subito, ad ottobre, e non sappiamo ancora nulla. Non sappiamo se dovremo rivotare con le liste bloccate del “porcellum” oppure ci sarà una nuova legge elettorale. Non sappiamo se chi ha condanne definitive potrà essere eletto in Parlamento. Non sappiamo quali saranno le forze politiche in campo. Non sappiamo che alleanze faranno i partiti. Non sappiamo chi saranno i candidati premier. Ma soprattutto non abbiamo ancora ascoltato alcuna proposta precisa in materia di politica economica, salvo quella dei cosiddetti montiani, che propongono di andare avanti così, completando le riforme dell’agenda Monti.

Eppure, come elettori, avremmo diritto di sapere come le principali forze politiche del paese intendono evitare il default e, se possibile, riavviare un minimo di crescita economica. Ma attenzione, quando dico che avremmo il diritto di sapere, non mi riferisco ai soliti elenchi di impegni generici, velleitari, o privi di copertura finanziaria. Oggi meno che mai, come elettori, possiamo accontentarci del consueto minestrone elettorale: crescita, coesione sociale, equità, sgravi fiscali, lotta all’evasione fiscale, riduzione degli sprechi, federalismo, rilancio del mezzogiorno. I progetti delle forze politiche che si candidano a governare il paese dovrebbero essere dettagliati e finanziariamente sostenibili, e soprattutto chiari nel loro rapporto con quel che Monti ha fatto fin qui. Non sono fra quanti pensano che Monti abbia fatto il massimo possibile, e anzi ritengo che abbia commesso qualche notevole sbaglio. Ma mi spaventa di più la completa mancanza di analisi credibili da parte delle forze che lo criticano, o lo sostengono fra mille distinguo e prese di distanza. Né Bersani, né Alfano, né Grillo – leader delle tre principali forze in campo – sono stati finora capaci di offrire una alternativa convincente, ossia chiara ed articolata, alla linea del professore. Quel che si intuisce è soltanto che Grillo non esclude il ritorno alla lira, ad Alfano non sono piaciuti gli aumenti delle tasse, a Bersani non sono piaciute le riduzioni di spesa. Quanto al partito di Montezemolo, l’unica lista che potrebbe competere con le tre forze maggiori, non si sa neppure se sarà presente alle prossime elezioni.

Forse è anche per questo – perché capiamo che i suoi critici farebbe meno e peggio – che sempre più insistentemente si sente parlare di una lista Monti, o di una continuazione del montismo con altri mezzi. E forse è per lo stesso motivo che, talora, Monti si lascia andare ad atteggiamenti da salvatore della patria, da uomo di stato che – diversamente dai politici politicanti – non pensa alle prossime elezioni ma alle prossime generazioni (vedi dichiarazioni di ieri nella sua visita in Russia).

Il dramma delle prossime elezioni, siano quest’autunno o siano questa primavera, è proprio questo. L’Italia avrebbe bisogno di un governo politico, dotato di visione, di coraggio e di legittimazione elettorale, che la portasse fuori dalla palude in cui si è cacciata. Ma il ceto politico vecchio e nuovo appare così debole, così incosciente, così inconcludente e cialtrone, che in molti cominciamo a pensare che, tutto sommato, un nuovo governo Monti sarebbe meglio che riconsegnarci a forze politiche che non saprebbero dove portarci. Con una piccola complicazione, però: che i governi li fa il parlamento, e tutto fa pensare che il nuovo parlamento non sarà molto migliore di quello che ci lasceremo alle spalle.

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« Risposta #156 inserito:: Agosto 16, 2012, 06:56:32 pm »

15/8/2012

Diversamente Montiani

LUCA RICOLFI

E’ ormai chiaro a tutti che, alle prossime elezioni politiche, il discrimine principale sarà il giudizio sull’operato del governo Monti.
Le forze politiche che criticano Monti «senza se e senza ma» sono almeno quattro: Lega Nord (Maroni), Italia dei valori (Di Pietro), Movimento Cinque Stelle (Beppe Grillo), Sinistra Ecologia Libertà (Vendola). Insieme, secondo i sondaggi degli ultimi mesi, sono in grado di attrarre oltre il 40% dei voti. Se aggiungiamo i nostalgici del fascismo e del comunismo, il fronte delle liste anti-governo (e spesso anche: anti-euro, anti-Europa, anti-austerità) arriva al 45%.

E dall’altra parte?
Dall’altra parte, sul fronte dei non-ostili a Monti, per ora troviamo i tre partiti che appoggiano il governo (Pdl, Pd, Udc), che attirano sì e no il 50% dei voti, più un certo numero di piccole formazioni politiche, più o meno visibili e più o meno ben rappresentate in Parlamento.

In teoria le forze non-ostili al governo prevalgono ancora su quelle ostili, però il problema è che il loro giudizio sul governo Monti è estremamente articolato, per usare un eufemismo. E anche ove allargassimo il quadro, immaginando che scendano in campo nuovi soggetti e nuove liste (Montezemolo, Marcegaglia, Giannino…), lo spettro dei giudizi sul governo resterebbe molto ampio, probabilmente ancora più ampio di come si presenta attualmente. Insomma, il fronte dei non-ostili può anche arrivare al 55% dei consensi, ma è profondamente diviso al suo interno.

Ma da che cosa dipende tale divisione?
In parte da ragioni ovvie. Dentro il fronte dei non-ostili ci sono il principale partito di destra (Pdl), il principale partito di sinistra (Pd), il principale partito di centro (Udc). E’ come dire che la spettacolare crescita del fronte anti-Monti (e segnatamente del movimento di Beppe Grillo) ha compresso e confinato la naturale dialettica destra-sinistra entro una piccola porzione dello spazio politico: il 55% dei voti validi, corrispondenti al 40% del corpo elettorale, tenuto conto di astensioni, schede bianche e schede nulle. Ciascuno di questi partiti, in campagna elettorale, non potrà che presentarsi secondo la formula «montiano sì, ma a modo mio», se non altro perché altrimenti non saprebbe come chiedere per sé stesso anziché per uno degli altri due partiti (attualmente) alleati.

C’è tuttavia anche una ragione non strettamente politica, più seria e più profonda, per cui il fronte montiano è diviso. E questa ragione è che le forze che sostengono, o comunque apprezzano almeno in parte, l’azione del governo Monti non condividono la medesima diagnosi sui mali dell’Italia e – non condividendo la diagnosi – tendono a divergere anche nella terapia. Ne è una testimonianza l’aspra battaglia che, giusto in questi giorni, infuria fra economisti sul modo migliore di ridurre il debito pubblico. E se anche stiamo al solo dibattito sulla politica economica, non è affatto chiaro che cosa «essere montiani» possa significare oggi, e tantomeno domani in campagna elettorale. Perché se togliamo alcuni punti fissi importanti ma davvero minimali – il non ritorno alla lira, l’ancoramento alle istituzioni europee, un minimo di disciplina fiscale, una certa sobrietà nello stile di governo –, sulla maggior parte del resto non esiste una «Agenda Monti», ma ne esistono più di una. Certo, fra le molte agende Monti possibili, ce n’è una che è la più ovvia perché la più conforme all’originale: andare avanti così. Ma nessuno, forse nemmeno l’Udc, la sottoscriverebbe senza riserve: perché l’azione del governo Monti è sì fatta di scelte coraggiose, ma è anche costellata di errori, marce indietro, timidezze, promesse non mantenute (che ne è dei pagamenti della Pubblica amministrazione alle imprese?).

Con questo non voglio dire che ci siano tante agende Monti quanti sono gli economisti di questo Paese, però – anche solo a leggere la stampa specializzata – di punti controversi, su cui bisognerà pronunciarsi per costruire un’agenda coerente, ve ne sono parecchi, che ridurrei ad almeno tre.

Il primo, forse il più importante, è come ritornare alla crescita. C’è chi pensa che senza una drastica riduzione delle tasse sui produttori (Irap e Ires innanzitutto), proseguirà lo smantellamento dell’apparato produttivo dell’Italia, e che per permettere tale riduzione non si possa che tagliare la spesa pubblica di alcuni punti di Pil. E c’è chi pensa, tutto all’opposto, che i nostri problemi siano essenzialmente problemi di domanda: per tornare a crescere occorre ridurre le tasse sulle famiglie, sostenere i consumi interni, varare progetti infrastrutturali (anche a livello europeo), limitare i tagli alla Pubblica amministrazione. Su questo va in scena il classico duello fra liberali e keynesiani.

Il secondo punto controverso, in parte connesso al precedente, è come agire sul nostro immane debito pubblico. Qui, dentro lo stesso fronte montiano, le proposte si sprecano: super-patrimoniale una tantum, patrimoniale leggera ma permanente, consolidamento più o meno esplicito del debito, vendita delle aziende pubbliche, dismissioni immobiliari, solo per richiamare alcune delle idee in campo. Su questo terreno, il punto chiave – il punto che divide – è su chi far pesare il conto di mezzo secolo di dissennatezze della classe politica: sul ceto medio-alto (patrimoniale), sui detentori di titoli pubblici (consolidamento), o sullo Stato e gli Enti locali (dismissioni).

Il terzo punto può sembrare accademico, ma lo è solo apparentemente. Nel fronte montiano convivono due diagnosi diverse sul funzionamento dei mercati finanziari. Da una parte l’ortodossia montiana, secondo cui i mercati non rispecchiano adeguatamente i fondamentali delle economie, e vanno quindi corretti attraverso gli strumenti di cui la politica può dotarsi: Banca Centrale Europea, scudo anti-spread, fondi salva-Stati, Tobin tax. Dall’altra l’idea – montiana anch’essa, ma del Monti professore – che quelli dei mercati siano segnali utili, e che la via maestra per correggere i mercati non sia deplorarli o imbrigliarli, ma rimettere a posto i fondamentali. E’ perché ci sono queste due visioni del funzionamento dell’economia, e non perché ci sono la destra e la sinistra, che l’altalena dello spread riceve sistematicamente due letture diverse. Ed è perché tali diverse visioni comportano linee d’azione a loro volta diverse che anche questo è un punto di frattura rilevante nel fronte montiano.

Se questo è il panorama, non è dei più confortanti per i cittadini-elettori. Chi detesta Monti e non teme il salto nel buio di una politica anti-europea, dovrà solo scegliere se dare il suo voto a un partito-zattera, pieno di vecchie glorie, come presumibilmente saranno Lega, Italia dei valori, e forse anche il partito di Vendola, oppure a un partito-novità, necessariamente pieno di outsider, come non potrà non essere la lista di Grillo. Ma chi apprezzasse qualcosa del governo Monti, o semplicemente diffidasse della gioiosa macchina da guerra dei nemici di Monti, dovrebbe fare i conti con la triste realtà che abbiamo provato a descrivere: solo la nostra distrazione, nonché la buona educazione dei protagonisti, riescono a nascondere la cacofonia di voci – e di ricette di politica economica – che si leva dal vasto fronte di quanti aspirano a raccogliere l’eredità di Monti

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« Risposta #157 inserito:: Settembre 03, 2012, 11:59:32 am »

3/9/2012 - LE PROSSIME ELEZIONI

Come nel 1994 lo scontro sarà tra vecchi e nuovi

LUCA RICOLFI

È difficile che si voti a novembre, ma è praticamente certo che a novembre comincerà la bagarre. Mentre il povero Monti, come succede a fine anno a qualsiasi presidente del Consiglio, sarà alle prese con i problemi dei conti pubblici, i partiti avranno tutti la testa già rivolta alle elezioni di primavera. Ogni gesto, ogni dichiarazione, ogni parola sarà finalizzata ad attirare il maggior numero di voti possibile.

A tutt’oggi, tuttavia, noi elettori siamo all’oscuro di tutto. Non sappiamo, ad esempio, quanti parlamentari dovremo eleggere. Non sappiamo se i condannati con sentenza definitivapotrannoesserecandidati oppure no. Non sappiamo con quale legge elettorale si voterà. Non sappiamo quante e quali liste saranno in campo. Anche se non sappiamo nulla, possiamo però fare qualche previsione. Io ne azzardo alcune, dalla più facile alla più difficile.

Numero di parlamentari: l’auspicata riduzione non ci sarà, penso abbia ragione Arturo Parisi quando dice che i continui rinvii dell’accordo sulla legge elettorale siano stati finalizzati all’obiettivo nascosto di rendere impossibile (con la scusa che «è troppo tardi, ormai») unariformapiùorganica,cheriduca il numero di parlamentari.

Candidabilità dei condannati: sarà perfettamente possibile candidare al Parlamento un condannato con sentenza definitiva. In questo modo il nostro Parlamento potrà conservare un primato cui evidentemente tiene molto: quello di essere l’istituzione con la massima densità di soggetti condannati e rinviati a giudizio.

Legge elettorale: se non sarà il porcellum (legge attuale), sarà il super-porcellum (legge attualmente in discussione), ossia l’unico sistema capace di sommare i difetti del proporzionale e i difetti del maggioritario. La legge di cui si parla da settimane, infatti, gode di tre interessanti proprietà: permette ai segretari di partito di scegliere a tavolino una frazione considerevole degli eletti, a prescindere dalle scelte degli elettori; non consente ai cittadini di sapere, la sera delle elezioni, chi le ha vinte e chi le ha perse (si torna ad accordi fatti in Parlamento, come nella prima Repubblica); distorce la rappresentanza, nel senso che, con il premio di maggioranza, conferisce al partito più grande molti più seggi di quanti ne merita in base al voto e, con la soglia di sbarramento al 5%, toglie molti seggi ai partiti più piccoli.

Numero delle liste: saranno tantissime, come sempre, ma quelle «vere», ossia con ragionevoli chances di superare il 5% dei consensi, saranno solo 7.

Quali liste: qui viene il bello. Secondo me lo schema delle prossime elezioni sarà un 4 + 3 + «fricioletti» (pescetti fritti, come il mio maestro Luciano Gallino chiamava i libri che una biblioteca seria non dovrebbe mai ordinare, perché costano e durano poco).

Ci saranno quattro formazioni che, se non sbagliano clamorosamente strategia e se non sono cannibalizzate dalle liste di disturbo, possono aspirare a un risultato non lontano dal 20%. Due di esse, Pdl e Pd, sono vecchie ma si presenteranno con sigle più o meno rinnovate, il Pdl con un nome e un simbolo nuovi, il Pd con qualche segno che indichi l’annessione di Sel e di Vendola al super-partito della sinistra. Le altre due liste sono nuove di zecca, e sono il movimento di Grillo (Cinque Stelle) e quello nascente di Montezemolo (Italia Futura), più o meno ibridato con movimenti di ispirazione simile.

Ci saranno poi tre formazioni che possono aspirare a qualcosa più del 5%, e cioè l’Udc, l’Italia dei Valori e la Lega, anch’esse più o meno riverniciate e restaurate per non sembrare troppo vecchie.

E infine i fricioletti, almeno 20 liste e listarelle (alcune di nobili tradizioni, altre inventate per l’occasione), implacabilmente destinate a restare sotto il 5%, quando non sotto l’1%.

Quel che è interessante, però, è il tipo di competizione politica che si prepara. Potrò sbagliare, ma a mio parere quel che sta accadendo nell’elettorato italiano è molto simile a quel che accadde venti anni fa, nel periodo di sbriciolamento non solo delle istituzioni ma anche delle strutture mentali della prima Repubblica. Fra il 1992 e il 1994 diminuì drasticamente la quota di italiani che ragionavano prevalentemente in termini di destra e sinistra, e aumentò sensibilmente la quota di quanti ragionavano in termini di vecchio e nuovo. Ci fu un momento, anzi, in cui questo gruppo risultò più numeroso del primo. Oggi sta succedendo qualcosa di molto simile.

Gli elettori che andranno al voto si divideranno, innanzitutto, fra chi è ancora disposto a scegliere una forza politica tradizionale e chi invece preferisce puntare su una forza nuova. I primi, i «vecchisti», potranno comodamente ragionare in termini di destra e sinistra, scegliendo una fra le tre opzioni disponibili: Pdl, Udc, Pd, i tre partiti che hanno sostenuto il governo Monti. I secondi, i «nuovisti», dovranno invece abituarsi a ragionare in termini molto diversi, perché l’offerta politica delle due principali liste nuove è molto più polarizzata: da una parte c’è l’anticapitalismo anti-euro e antiEuropa di Grillo, dall’altra c’è il turbo-liberalismo di Italia Futura e dei gruppi ad essa vicini, come «Fermare il declino» di Oscar Giannino. Qui destra e sinistra c’entrano davvero poco, quel che conta - e divide - sono le ricette per affrontare la crisi: con meno Europa e meno ceto politico se voti Grillo, con meno tasse e meno Stato se voti Montezemolo. E dintorni.

Sono due modi di porre i problemi che, in questo periodo, hanno entrambi un grande appeal. I sondaggi mostrano da almeno cinque anni che le spinte anti-partitiche e i dubbi sull’Europa sono molto radicati nell’elettorato. Ma un interessante sondaggio di Renato Mannheimer di qualche tempo fa segnalava anche un’altra e assai meno nota novità: per la prima volta da molti anni sono più gli italiani che si preoccupano dell’eccesso di tasse che quelli che si preoccupano di salvare lo Stato sociale.

Insomma, se fossi il leader di una forza politica tradizionale sarei preoccupato, molto preoccupato. La forza d’urto dell’onda anti-partiti potrebbe essere assai forte, specie sotto l’ipotesi Ber-Ber: un Pd guidato da Bersani (l’usato sicuro) e un Pdl guidato da Berlusconi (lo strausato insicuro). E molto mi sorprende che, quando si parla di premio di maggioranza, se ne discuta come se potesse andare solo al Pd o al Pdl, o addirittura come se la corazzata Bersani-Vendola avesse già la vittoria in tasca. Se fossi Bersani non sottovaluterei né l’area Montezemolo né quella di Grillo, specie nella sciagurata eventualità che i partiti continuino a restare insensibili al «grido di dolore» che, da tanti anni e da tante parti d’Italia, i cittadini levano contro la politica e i suoi indistruttibili, irrottamabili, rappresentanti di sempre.

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« Risposta #158 inserito:: Settembre 11, 2012, 10:12:00 pm »

11/9/2012

Perché da noi il salvataggio è impossibile

LUCA RICOLFI

Come si fa a non stare dalla parte dei lavoratori dell’Alcoa? Non è certo colpa dei salari operai se la multinazionale americana sta chiudendo alcuni stabilimenti non solo in Sardegna, ma in Europa (dismissioni sono in corso anche in Spagna).

Ma la vera domanda viene a questo punto: posto che una volta tanto il costo del lavoro, la produttività, l’assenteismo, gli scioperi non
c’entrano nulla, che cosa si può fare?

Per rispondere bisogna ricapitolare alcuni dati di fondo della situazione dell’Alcoa. Lo stabilimento sardo di Portovesme finora è rimasto in Sardegna per due ragioni di fondo. Primo, perché la domanda di alluminio non era fiacca come oggi.

Secondo, perché lo Stato italiano, che fa pagare l’energia uno sproposito (+30% rispetto alla già alta media europea) all’Alcoa concedeva tariffe superagevolate, naturalmente facendole pesare sulla bolletta di tutti noi, famiglie e imprese che pagano l’energia elettrica a prezzo pieno. Questo avveniva per ragioni puramente politiche, ossia per salvare voti e posti di lavoro, o meglio per salvare voti pagandoli in posti di lavoro. Ma pagandoli quanto? Un calcolo molto rozzo, basato sulla spesa totale negli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro salvati, suggerisce che ogni posto di lavoro sia costato ai contribuenti circa 200 mila euro l’anno. Una follia, vista la leggerezza delle buste paga degli operai.

Ora le autorità europee hanno stabilito che quelli erano aiuti di Stato (si vedeva a occhio nudo, ma abbiamo finto di dover attendere un pronunciamento ufficiale) e la multinazionale americana ha capito che non c’è più trippa per gatti. Smantellerà un po’ di stabilimenti in Europa, e ne costruirà uno megagalattico in Arabia Saudita, ovvero in un posto dove è più conveniente produrre.

Ora torniamo alla nostra domanda di partenza. Che cosa si può fare?

Mi spiace essere crudo, ma la sola risposta che mi sento di dare è: niente. O meglio: molto di assistenziale e nulla di industriale. Siamo in Europa, e gli operai che perdono il lavoro hanno diritto a qualche forma di sostegno del reddito, e a essere aiutati nella ricerca di un posto di lavoro nuovo. Ma non raccontiamoci la fiaba che spingere un’azienda straniera a produrre in perdita sul nostro suolo sia «politica industriale», o sia una scelta razionale. La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente, per l’incredibile matassa di vincoli e regolamenti che ci siamo dati negli anni. E in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, l’energia (in particolare elettrica) costa troppo, come ha giustamente fatto notare il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.

Il guaio, tuttavia, è che quello dell’energia è solo un sovraccosto del produrre in Italia, uno dei tanti. Accanto all’energia ce ne sono innumerevoli altri: tempi della giustizia, tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione, adempimenti burocratici, corruzione, prestiti bancari, tasse sul lavoro, tasse sulle imprese. Per questo, a partire da oggi, «La Stampa» - insieme con la Fondazione «David Hume» - proporrà una serie di dossier sui sovraccosti del produrre in Italia, con l’obiettivo di costruire - alla fine - un super-indice che possa dare un’idea quantitativa di qual è il sovrapprezzo che un’impresa deve pagare per operare in Italia anziché in un altro paese appartenete all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le 34 economie più sviluppate del pianeta.

Io capisco che, non essendoci un solo euro in cassa e non riuscendo a tagliare né i costi della politica né gli sprechi, i nostri governanti siano affezionati all’idea delle riforme a costo zero. Ma mi permetto di metter loro una pulce nell’orecchio: se vogliamo che la gente torni a trovare lavoro non c’è riforma a costo zero capace di raggiungere l’obiettivo in tempi ragionevoli. Le riforme che costano nulla vanno fatte senz’altro e prima possibile, ma è ingenuo illudersi che possano bastare se non si abbassa - e di molto - il costo del produrre in Italia.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10512
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« Risposta #159 inserito:: Settembre 15, 2012, 11:17:32 am »

14/9/2012

Che cosa blocca il Paese

LUCA RICOLFI

Ultimamente, non posso nasconderlo, mi è capitato più volte di provare un moto di solidarietà, o quantomento di comprensione, per le cosiddette «parti sociali», Cgil e Confindustria innanzitutto.

Che cosa sta succedendo, infatti?

Da alcune settimane sta succedendo che il nostro governo, resosi conto di aver usato la mano troppo pesante sull’economia e di non avere alcuna risorsa, tesoretto o altro da mettere sul piatto, sta caricando sulle parti sociali – sindacati e organizzazioni degli imprenditori – una responsabilità molto maggiore di quella che sindacati e industriali possano assumersi. L’invito a mettersi d’accordo per aumentare la competitività dell’Italia («dobbiamo abbattere lo spread della produttività») è solo il punto di approdo di una strategia comunicativa che va avanti da tempo. Prima c’era stata l’imperiosa esortazione del ministro Fornero agli imprenditori a investire («noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca a voi»). Poi, alla Fiera del Levante, l’invito del premier a «cambiare mentalità». E infine, giusto ieri, l’attacco di Monti allo Statuto dei lavoratori, che avrebbe danneggiato la creazione di posti di lavoro.

Anche se Monti ha detto una cosa al limite della banalità, ovvia per qualsiasi studioso non troppo ideologizzato, capisco la reazione di Susanna Camusso, secondo cui le parole del premier sono «la dimostrazione che questo governo non ha idee su sviluppo e crescita» e ormai «ha esaurito la spinta propulsiva». Capisco la reazione perché essa rivela uno stato d’animo che, a mio parere, non è di una singola parte sociale, ovvero la Cgil o il mondo sindacale, ma è di tutto il mondo del lavoro, sindacati, imprenditori, artigiani, partite Iva, insomma di chiunque stia sul mercato. Nessuno lo dice esplicitamente, perché Monti è una persona seria e rispettata, ma l’impressione è che le parti sociali si sentano prese un po’ in giro. Dopo aver detto peste e corna della concertazione, il governo le convoca e le invita a concertare per salvare il Paese, come se un accordo fra Confindustria e sindacati sulla produttività potesse dare un contributo decisivo a farci uscire dalla crisi.

A mio modesto parere le perplessità delle parti sociali sono largamente giustificate. E’ chiaro che ogni accordo sulla produttività è benvenuto, e saremo grati a Confindustria e sindacati se ne troveranno uno efficace. Ma la dura realtà è che le parti sociali, anche impegnandosi al massimo, anche rinunciando a ogni egoismo, possono fare pochissimo. L’espressione stessa «produttività del lavoro» è profondamente fuorviante. Suggerisce che il prodotto dipenda essenzialmente dall’impegno dei lavoratori, e che la scarsa produttività sia dovuta a impegno insufficiente, scarsa meritocrazia, cattivi incentivi. Non è così. La produttività è bassa e stagnante innanzitutto perché il sistema Italia ha dei costi smisurati, che nessun governo è stato in grado fin qui di rimuovere.

Costi degli input del processo produttivo, innanzitutto. Facciamo un esempio concreto e di estrema attualità: il caso di un’azienda che ha un grande input di energia elettrica, e che non è sussidiata come Alcoa. Qual è il suo valore aggiunto? Poiché il valore aggiunto è la differenza fra i ricavi e i costi, il fatto di pagare l’energia 100 anziché 50 dilata i costi e contrae il valore aggiunto. Ma la produttività non è altro che il valore aggiunto per occupato, quindi il fatto di pagare l’energia uno sproposito abbassa la produttività del lavoro, e questo a parità di impegno dei lavoratori. Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per decine di altre voci di costo delle imprese italiane (assicurazioni, burocrazia, prestiti bancari, etc.), che fanno lievitare i costi e quindi abbattono la produttività. Anche per questo «La Stampa» e la Fondazione David Hume stanno conducendo la loro inchiesta su «Che cosa soffoca l’Italia».

Non è tutto, purtroppo. La produttività dipende anche dai macchinari e dalle tecnologie con cui i lavoratori operano. Cento operai con macchine moderne producono più pezzi che cento operai con macchine obsolete. Cento impiegati con una contabilità ben informatizzata sbrigano più pratiche di cento impiegati che usano ancora la carta, o che lavorano con un software di bassa qualità. Ma le tecnologie dipendono dagli investimenti, e gli investimenti li fanno gli imprenditori, non gli operai e gli impiegati di cui pretendiamo di misurare la produttività. Ha dunque ragione il ministro Fornero che invita gli imprenditori a fare la loro parte investendo di più?

Direi proprio di no, anche gli imprenditori hanno molte ragioni per essere irritati. Non tanto per l’insufficienza di sgravi e incentivi agli investimenti in ricerca e sviluppo, bensì per la elementare ragione che per investire ci vogliono due condizioni: una domanda che tira e un regime fiscale che lasci ai produttori una quota ragionevole del loro profitto. Invece la domanda va malissimo in quasi tutti i settori, e la tassazione del profitto commerciale in Italia (68.6%) è fra le più alte del mondo, ed è addirittura la più alta fra quelle dei 34 Paesi appartenenti all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le economie avanzate.

La realtà, purtroppo, è che la crescita dipende dalla produttività, ma la produttività dipende pochissimo dalla buona volontà delle parti sociali e moltissimo dai costi che i produttori sono costretti a sostenere, essenzialmente costi degli input e costi fiscali. Su questo fronte, purtroppo, l’azione del governo ha peggiorato e non migliorato la vita a chi produce ricchezza. Può darsi che non si potesse fare diverso. Ma come stupirsi se alle parti sociali suona un po’ strano che, dopo essere state vessate «per salvare il Paese», ora si faccia intendere che a salvarci debbano essere proprio loro, e che per la salvezza possa essere decisivo un accordo sulla produttività.

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« Risposta #160 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:31:48 pm »

16/9/2012

Le due mosse che svelano chi è Renzi

LUCA RICOLFI

A Matteo Renzi, ultimamente, vengono rimproverate un mucchio di cose, ma soprattutto una: la tendenza a glissare sui contenuti, sulle proposte programmatiche, sulle cose concrete che farebbe se diventasse presidente del Consiglio.
Pochi giorni fa, ad esempio, sul «Corriere della Sera» Antonio Polito lo ha invitato a prendere posizioni precise su nove punti, fra cui alcuni della massima importanza (ad esempio: come farà a ridurre il debito pubblico di 400 miliardi in soli 3 anni?). Renzi, nella risposta, svicola con un espediente retorico: «Se rispondo punto per punto mi accuseranno di essere rimasto fermo al tempo in cui partecipavo ai telequiz».

Anche nel discorso di Verona, in cui annuncia la sua candidatura a premier, liquida quasi con fastidio l’idea di doversi soffermare sui programmi, definiti un po’ spregiativamente come «lista della spesa». E rimanda gli appassionati di contenuti a una «bozza di programma on line», aperta alla discussione. Come dire: se proprio volete annoiarvi, trovate tutto lì.
Finora questa reticenza di Renzi aveva lasciato perplesso anche me. Poi però ho deciso di ascoltare tutto il suo discorso (disponibile su YouTube), dalla prima sillaba all’ultima, e vi devo confessare che mi sono ricreduto. Perché dentro un discorso ci possono essere passaggi che non incontrano il tuo gusto, o giri retorici che preferiresti non sentire, però alla fine – se chi parla sa parlare, e Renzi indubbiamente sa parlare – il senso generale del messaggio emerge. E il senso del messaggio di Renzi è chiaro, molto chiaro.

E’ chiaro sul piano politico, innanzitutto. Renzi sta occupando, con un coraggio e un’energia incommensurabilmente superiore ai suoi predecessori, lo slot che – a suo tempo – hanno provato ad occupare i rappresentanti delle correnti liberali e riformiste del Pd, i vari Veltroni, Morando, Ichino, Letta, Chiamparino, Rossi, lo stesso Bersani quando non giocava da segretario del Pd ma da ministro delle Liberalizzazioni, le famose «lenzuolate». Con la fondamentale differenza che Renzi ci prova, a sfidare la maggioranza del suo partito, mentre nessuno degli altri lo aveva fatto finora (Veltroni perché la segreteria del Pd gli è stata gentilmente offerta, gli altri per motivi che ignoro). La differenza di metodo è fondamentale, perché con Renzi la posta in gioco non è di conquistare o mantenere una piccola voce in capitolo nelle scelte del partito, ma di spostare il Pd su posizioni di sinistra liberale. Un’impresa meritoria, ma che a mio parere si scontra con un dato di fatto: finora la base del Pd è sempre stata più vicina a Vendola che ad Ichino, e lo stesso Bersani è decisamente meno radicale dei militanti che lo appoggiano.

Ma non c’è solo il posizionamento politico, che riprende quasi tutte le idee-chiave della sinistra liberale in campo economico: meritocrazia, meno tasse sui produttori, spending review, semplificazioni burocratiche. La novità fondamentale di Renzi sta, a mio parere, in due mosse che nemmeno la sinistra liberale ha finora compiuto fino in fondo. Due mosse che non stanno sul piano dei programmi e delle cose da fare, ma che vengono prima, e forse spiegano perché, in questa fase di stato nascente, il racconto, la narrazione, i temi identitari la facciano da padroni, e lascino i programmi un po’ sullo sfondo.

La prima mossa è nell’analisi della crisi in cui siamo tuttora immersi. Nel discorso di Verona sono del tutto assenti gli accenti vittimistici sulla questione giovanile, e c’è un’idea della crisi come fatto epocale, come «trasformazione definitiva del nostro modo di vivere», che ci invita anche a cambiare i nostri comportamenti, con una rivalutazione dei doveri, dell’impegno, del sacrificio. C’è la gratitudine alle generazioni passate per il benessere che hanno saputo costruire, ma c’è anche il sospetto che la «prospettiva di benessere» che le nuove generazioni hanno ereditato sia «forse persino eccessiva». Di qui la pulce nell’orecchio ai suoi coetanei: «Non vorrei che il troppo avere ci abbia fatto dimenticare il nostro essere».

Ma c’è anche una seconda mossa, che rende Renzi indigeribile non tanto alla base del suo partito, ma più in generale alla cultura di sinistra di matrice sessantottina. Qui, nonostante tutto, sopravvive ancora l’idea che la politica sia una missione etica, che la sinistra rappresenti la parte migliore del Paese, che chi vota a destra possa essere mosso solo dall’interesse o dall’ignoranza. Su questo la rottura del sindaco di Firenze è totale e senza alcuna incertezza. L’appello di Renzi agli elettori del Pdl, prima che una mossa politica, è la conseguenza logica della sua analisi della società italiana e del suo atteggiamento verso gli elettori. E’ perché non pensa che gli «altri», i cittadini di destra, siano «la parte peggiore del Paese» che Renzi può concludere il suo discorso descrivendo la politica con parole come «leggerezza», «sorriso sulle labbra», «Voglia di non parlare male degli altri». Per lui è naturale, perché vede l’elettore di destra come una persona a tutti gli effetti, e non come un’entità malsana, da neutralizzare, combattere, o tutt’al più rieducare.

E il fatto che, sul versante di Bersani, questo passaggio sia letto in chiave strettamente politica, come un’incapacità di Renzi di rompere senza ambiguità con il berlusconismo, mostra solo quanto lunga sia la strada che la sinistra deve compiere per superare il complesso di superiorità che ancora l’affligge. Per il militante di sinistra medio è semplicemente inconcepibile che una persona che ha votato per Berlusconi possa essere una persona per bene. Per questo non capisce come se ne possa chiedere il voto. Per questo Renzi gli risulta letteralmente incomprensibile. E per questo, temo, la strada di Renzi dentro il suo partito sarà molto in salita.

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« Risposta #161 inserito:: Settembre 26, 2012, 02:45:48 pm »

24/9/2012

Il federalismo funziona se responsabile

LUCA RICOLFI

Sì, penso anch’io – come Mario Calabresi e Franco Bruni che ne hanno scritto nei giorni scorsi – che lo scandalo Lazio faccia retrocedere molte nostre illusioni. Ad esempio l’idea, coltivata per decenni, secondo cui il decentramento amministrativo e il federalismo siano cose buone e giuste. Si vede bene in questi giorni che avere i governanti «a portata di mano dei cittadini» è un’arma a doppio taglio: i sempre lodati «rapporti con il territorio» raramente si traducono in controllo da parte dei cittadini, più spesso significano clientele, solo ossessiva ricerca del consenso, spudorato sfruttamento dei propri privilegi e delle proprie posizioni di potere. Di qui anche il dubbio di molti, adombrato nell’articolo di ieri di Franco Bruni: non sarebbe meglio tornare al centralismo statale? E se abolissimo non solo le Province, ma anche le Regioni? Siamo sicuri che, sul federalismo, non sia meglio fare macchina indietro?

E’ una reazione possibile, quella di chiedersi se invertire la marcia su un cammino che l’Italia ha imboccato 42 anni fa, con il varo delle Regioni.

Il punto preliminare, tuttavia, è di intendersi sul significato della parole. La parola federalismo è da molti anni entrata nel novero dei termini su cui esiste un tabù, come «solidarietà», «condivisione», «meritocrazia». Sono parole che è proibito usare in senso negativo. Naturalmente esistono gli anti-federalisti, ma anche loro preferiscono proclamarsi federalisti in nome di un diverso modo di intendere il federalismo. Così come ci sono gli anti-solidaristi, che però preferiscono presentarsi come paladini di un altro tipo di solidarietà. E poi ci sono quelli che in cuor loro detestano la meritocrazia, ma preferiscono dire che il merito si misura in un altro modo. In tutti questi casi quel che succede è che le parole non aderiscono più alle cose, diventano dei passepartout che ognuno usa a modo proprio.

In questo senso la storia della parola federalismo è esemplare. C’è stato un momento, intorno alla prima metà degli Anni 90, in cui la parola federalismo è diventata politicamente redditizia, e da allora sono diventati tutti federalisti (se non sbaglio qualcosa del genere sta succedendo ora con la parola «liberale»). E’ stata una disgrazia, perché questa sorta di completa liberalizzazione del significato della parola ha reso il dibattuto politico estremamente confuso, facendo perdere di vista la sostanza del problema. E persino la Lega Nord, che del federalismo è stata la principale sostenitrice, ha finito per difendere almeno tre versioni di esso, radicalmente diverse l’una dall’altra, rendendo ancora più confuso un dibattito che già per conto suo non brillava per l’uso di idee chiare e distinte.

Andiamo allora al succo del problema. Se per federalismo si intende quello che è stato sperimentato dal 2001 a oggi, prima con la riforma voluta dal centrosinistra, poi con la riforma voluta da quasi tutti (Lega, Pdl e Pd), non si può che aderire in pieno ai dubbi sollevati da Franco Bruni. Ma non perché quel federalismo non ha funzionato, bensì perché non poteva funzionare. Quel federalismo aveva (anzi ha: è tuttora in vigore) tre difetti capitali: un ruolo esorbitante della mediazione politica, tempi di attuazione lunghissimi (2020), pochissima responsabilità fiscale dei territori. E’ ingenuo pensare che i cittadini controllino, se i politici possono coccolarli spendendo, e persino riceverne la solidarietà quando vanno a Roma per esigere maggiori trasferimenti. I cittadini di Palermo e di Catania, i cui debiti sono stati ripianati dal governo centrale, si sarebbero accorti facilmente delle spese pazze dei loro governanti se la legge avesse obbligato gli amministratori che hanno fatto quei debiti a ripagarli con risorse dei territori in cui quei soldi sono stati spesi, ovvero vendendo beni pubblici e aumentando le tasse. E il discorso, sia ben chiaro, non vale solo per le più dissennate amministrazioni del Mezzogiorno ma anche per diverse amministrazioni del Centro-Nord. Compresa quella di Torino, che è uno dei Comuni più indebitati d’Italia: solo se le amministrazioni locali fossero state obbligate a finanziare quei progetti con risorse di Torino noi cittadini avremmo avuto effettivamente l’opportunità di esprimerci, scegliendo fra rinunciare alle opere e al loro indotto, o pagarle con i nostri soldi e i beni pubblici della nostra città. Facendo debito, la politica risolve un suo problema, e ne crea uno a noi: non deve chiedere il permesso di spendere agli elettori di oggi, e sposta il fardello sulle generazioni future.

Quindi, tornando al problema federalismosì federalismo-no, il nodo è molto chiaro: solo se è altamente responsabilista, il federalismo può funzionare. Se per ragioni puramente politiche lo si annacqua con il principio opposto, permettendo a intere porzioni di territorio di ricevere molto di più di quanto danno, allora chiamarlo federalismo è un abuso di linguaggio, un omaggio al plumbeo conformismo per cui ci sentiamo obbligati tutti a proclamarci federalisti, anche quando non lo siamo affatto. La Lega stessa, che è stata federalista fino al 2008, ha finito per smarrire del tutto il senso della sua battaglia quando, a partire dal 2009, ha accettato ogni sorta di compromesso pur di salvare faccia e poltrone: la faccia dei suoi dirigenti, desiderosi di presentarsi all’elettorato con una vittoria in tasca, le poltrone dei suoi amministratori locali, giustamente terrorizzati che un federalismo rigoroso lasciasse loro meno quattrini da spendere.

La mia conclusione è quindi netta, anche se un po’ amara. Se il federalismo è vero federalismo, non può piacere al ceto politico. E se piace al ceto politico, è perché non è vero federalismo, ma federalismo nominale.

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« Risposta #162 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:47:25 pm »

18/9/2012

Imu, strategie e propaganda

LUCA RICOLFI

Non ci potevo credere. Berlusconi promette – se tornerà al potere – di abolire l’Imu, l’odiata tassa sulla casa. Si possono obiettare tante cose: che l’imposta sulla casa è la principale fonte di finanziamento dei Comuni; che dare ai Comuni solo il gettito delle seconde case è un assurdo anti-federalista; che l’Imu così com’è l’ha votata anche il Pdl.

Questa uscita di Berlusconi conferma che il Pdl non ha una strategia credibile sulle tasse, ma solo un disperato bisogno di recuperare voti. In un momento come questo, in cui il dramma delle famiglie è la distruzione quotidiana di posti di lavoro, un partito serio metterebbe al primo posto il ritorno alla crescita, unica strada per ridurre il debito pubblico e aumentare l’occupazione. E se qualche margine ci fosse per ridurre le tasse, quel partito comincerebbe da quelle che più soffocano la crescita: Irap, Ires, cuneo contributivo, imposte sull’energia. Non certo da tasse come l’Imu o l’Ires, che attirano voti ma non smuovono occupazione e Pil.
Da questo punto di vista Berlusconi fa benissimo a ricandidarsi. La sua ridiscesa in campo è un atto di chiarezza: è la conferma che nel Pdl nulla è cambiato: il partito è prontissimo a ripetere gli errori di sempre.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10542
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« Risposta #163 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:26:23 am »

Editoriali

02/10/2012

Chi si nasconde dietro l’agenda Monti

Luca Ricolfi

Mi capita raramente di pensarla come Alfano o come Bersani, ma questa volta ho l’impressione che un po’ di ragione ce l’abbiano. 

 

Ai segretari dei due maggiori partiti italiani non è piaciuta l’uscita di Monti, che l’altro ieri si è detto disponibile – se molto pregato – a riaccomodarsi sulla sedia di Palazzo Chigi dopo le elezioni politiche. 

 

Certo, in pubblico Bersani e Alfano parlano in modo cortese e politicamente forbito, ma la sostanza del loro discorso è chiara, e anche parecchio ruvida: «Caro Monti, grazie del lavoro svolto fin qui, ma se vuoi fare il presidente del Consiglio anche dopo le elezioni del 2013, allora devi chiederlo esplicitamente agli elettori, o facendo un partito tuo, o facendoti candidare da un partito altrui». Insomma, una sorta di «è la democrazia, bellezza!», rivolto al Presidente del Consiglio.

 

Naturalmente capisco che il cattivo umore di Alfano e Bersani (ma anche di Renzi) sia dettato, più che dal loro amore per la democrazia, dalla preoccupazione di combattere una battaglia politica inutile. 

 

E’ come se pensassero: prima ci scanniamo per decidere i nostri candidati leader (Bersani o Renzi? Alfano o Berlusconi? ), poi facciamo una campagna elettorale massacrante, infine si va alle urne, uno di noi prende più voti dell’altro, e che cosa succede ? che chi se ne è stato comodamente a bordo campo viene «chiamato» una seconda volta a salvare la Patria! Capisco anche che chi non ama Bersani e Alfano potrebbe apostrofarli a sua volta così: ma come? con i vostri pastrocchi sulla legge elettorale state facendo di tutto perché non ci sia un vero vincitore, e poi vi lamentate che qualcuno si ponga fin da ora il problema di gestire un Parlamento balcanizzato, in cui non ci saranno maggioranze politiche omogenee? 

 

E tuttavia c’è anche qualcosa di ragionevole nella preoccupazione dei leader Pd e Pdl per il gran parlare che si sta facendo di Monti-bis. Il continuo richiamo a un Monti-bis è anche un indizio, un segno, di una serie di patologie del nostro sistema politico. E’ patologico, ad esempio, che nella seconda Repubblica le elezioni politiche non siano mai state vinte da un vero politico, ma sempre da un messia, esterno al sistema dei partiti: 3 volte da Berlusconi, 2 volte da Prodi. La destra non ha mai avuto il coraggio di candidare un politico puro, come Fini, Casini o Bossi. La sinistra ci ha provato per 3 volte e invariabilmente ha perso: con Occhetto nel 1994, con Rutelli nel 2001, con Veltroni nel 2008. 

 

E’ patologico che, pur avendo capito che una figura alta come quella del professor Monti riscuote un notevole (e meritato) consenso, nessun partito – nemmeno quelli che fermamente vogliono un Monti-bis (Udc e Fli) – sia in grado di presentare un proprio candidato con un profilo e una credibilità comparabili. Non è strano? Se Monti non fosse solo un marchio per acchiappare voti, un partito che volesse realizzare l’agenda Monti la spiegherebbe dettagliatamente al Paese e, stante il rifiuto di Monti di candidarsi, presenterebbe un altro candidato, tecnico o politico, in grado di attuarla. O l’agenda Monti è come la «cura Di Bella» contro il cancro, che a quanto pare funzionava solo se era lui a occuparsi del malato?

 

Ma il segnale più patologico è ancora un altro. Osserviamo chi, finora, ha sottoscritto l’agenda Monti. Se ci pensiamo un attimo, ci rendiamo subito conto che c’è qualcosa che non va. Monti piace a Udc e Fli, due partiti radicati soprattutto al Sud, che finora – di fatto – hanno difeso una concezione assistenziale della spesa pubblica e osteggiato in tutti i modi il federalismo, ossia l’unica proposta che ha tentato di scalfire questo male italiano. Ma Monti piace anche alla nascente lista di Oscar Giannino (Fermare il declino), imbottita di pensatori liberal-liberisti, che hanno idee perfettamente speculari a quelle dei cattolici in politica: tagli draconiani alla spesa pubblica, riduzione delle tasse sui produttori per rilanciare la crescita. E per finire Monti piace anche a Montezemolo, ma in un modo che lascia di stucco. Con un capolavoro dialettico il leader di Italia Futura (un’altra lista che sarà in qualche forma presente alle prossime elezioni) afferma di auspicare un Monti-bis, ma al tempo stesso ne prende le distanze. Per chi non ci credesse, cito dall’intervista di domenica al Corriere della Sera: «La crescita è il grande tema della prossima legislatura. Con molta franchezza, è su questo tema che dall’attuale governo sono venute le maggiori delusioni. Si è data l’impressione di perdersi in mille rivoli e annunci mirabolanti, mentre occorreva una visione netta e pochi obiettivi chiari». 

 

Ecco perché dicevo, all’inizio, che Alfano e Bersani un po’ li capisco. Il richiamo a una fantomatica agenda Monti, a mio parere, non è una mossa di un gioco politico leale. Se l’agenda Monti è sottoscritta da Casini, da Fini, da Montezemolo e persino da Oscar Giannino, vuol dire che una tale agenda non esiste, o tutt’al più coincide con l’impegno a non sfasciare un’altra volta i conti pubblici (il cosiddetto rigore). Tutto il resto, ed è proprio questo «resto» che fa la differenza fra un progetto politico e l’altro, non sta nell’agenda Monti ma nei modi in cui ogni forza politica intende andare oltre il governo Monti. 

 

Anziché dichiararsi sostenitori, eredi o ammiratori di Monti, sarebbe più utile che i suoi fan si decidessero a dire con precisione qual è la loro agenda, chi propongono come prossimo presidente del Consiglio, e quali cose condividono e quali no fra le molte che questo governo ha fatto, o ha omesso di fare. Se questa operazione venisse condotta esplicitamente, la competizione elettorale diventerebbe più equa e trasparente, e meglio ci renderemmo conto che il prestigio di Monti, più che nel sostegno a un programma politico ben definito, ha le sue radici in un fatto stilistico, per non dire estetico. Quella metà degli italiani che sta dalla parte di Monti, e forse accetterebbe pure un Monti-bis, di questo governo ha apprezzato soprattutto serietà, competenza, sobrietà, senso delle istituzioni, tutte cose che in politica dovrebbero essere normali e anzi obbligatorie, ma di cui purtroppo da molti anni si era persa ogni traccia. Scambiare tutto questo per un programma vero e proprio, per un’agenda programmatica, è un salto logico che non aiuta a fare chiarezza.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/02/cultura/opinioni/editoriali/chi-si-nasconde-dietro-l-agenda-monti-G98dMK5WcYZnSHDBEe4lpN/index.html
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« Risposta #164 inserito:: Ottobre 13, 2012, 03:56:36 pm »


Editoriali

13/10/2012

Se il fisco è più iniquo di prima

Luca Ricolfi

Ci sono voluti un paio di giorni per raccapezzarsi, ma alla fine il quadro è diventato abbastanza chiaro. 

I conti li abbiamo fatti e rifatti un po’ tutti: quotidiani, centri studi, esperti economici, sindacati, associazioni dei consumatori. E alla fine dei conti è difficile non essere arrabbiati, innanzitutto con noi stessi. Perché per un attimo ci eravamo illusi, per un attimo avevamo voluto credere che finalmente, con questa manovra (detta «Legge di stabilità»), l’insopportabile pressione fiscale che grava sul nostro sfortunato Paese potesse cominciare a diminuire, sia pure di pochissimo. O che, almeno, la distribuzione del carico fiscale sarebbe diventata più favorevole alla crescita, o anche solo un tantino più giusta. E invece no, niente di tutto questo. 

Prima di commentare, però, ricapitoliamo i punti fermi.

Primo: nonostante la sbandierata diminuzione dell’Irpef, la pressione fiscale complessiva sulle famiglie aumenta leggermente.
A regime, infatti la lieve diminuzione dell’aliquota Irpef è più che compensata dalla somma delle misure che aumentano il prelievo: scomparsa di alcune deduzioni e detrazioni, introduzione di franchigie e, soprattutto, ulteriore aumento dell’Iva.

Secondo: il grosso della manovra tocca famiglie (con le riduzioni Irpef) e consumatori (con l’aumento dell’Iva), ma lascia sostanzialmente invariata la pressione fiscale sui produttori, peraltro già vessati nelle manovre precedenti. Difficile pensare che una miscela di questo tipo possa stimolare la crescita.

Terzo punto: la distribuzione del carico fiscale è più iniqua di prima. Questo è un punto un po’ tecnico, ma ne voglio parlare lo stesso, perché a prima vista sembrerebbe vero il contrario. Il governo ha infatti presentato la sua manovra come una boccata d’ossigeno ai ceti bassi, in quanto le aliquote che sono state abbassate (di 1 punto) sono le prime, quella del 23% e quella del 27%. Quel che non si dice, tuttavia, è che le riduzioni del prelievo sui primi «scaglioni» di reddito riguardano tutti, anche chi guadagna 50 o 100 mila euro l’anno. 
 
Facciamo un esempio concreto: un lavoratore che guadagna 18 mila euro avrà uno sconto di 180 euro l’anno (15 euro al mese), ma un lavoratore che guadagna il doppio, ossia 36 mila euro, avrà uno sconto di 280 euro (23 euro al mese), perché percepirà interamente gli sconti previsti sui primi due scaglioni (fino a 28 mila euro). Per il fisco, infatti, ogni reddito è la somma di tanti «pezzi» di reddito (gli scaglioni, appunto), ciascuno dei quali è tassato con una sua aliquota: quindi se un governo abbassa l’aliquota sullo scaglione più alto il beneficio va solo ai ricchi, ma se abbassa l’aliquota sugli scaglioni più bassi il beneficio non va solo ai poveri bensì a tutti, perché il reddito di un ricco è la somma di tanti «pezzi» di reddito, ciascuno tassato con la sua aliquota. In breve la manovra non concentra affatto i benefici sui ceti bassi, ma li spalma un po’ su tutti.

Ma davvero su tutti? Assolutamente no, perché dalla riduzione delle aliquote restano esclusi i poverissimi, ossia coloro che guadagnano così poco da essere completamente esentasse (i cosiddetti incapienti). Come sempre lo strumento fiscale è impotente verso chi sta fuori del circuito del fisco, ossia evasori e veri poveri.

Si potrebbe pensare che però almeno i ceti medio-bassi, ossia chi guadagna fra 8 e 28 mila euro (e dunque non è né incapiente né ceto medio), abbia comunque un beneficio. Ancora una volta, sembra ma non è: i soldi per abbassare le aliquote verranno trovati anche eliminando o attenuando vari sconti fiscali preesistenti, con il risultato di annullare o decurtare il già misero regalo di 10 o 15 euro al mese.

Se poi a tutto ciò aggiungiamo l’aumento di un punto dell’Iva, che scatterà nella seconda metà del 2013 (ossia dopo le elezioni, guarda caso), è facile dedurne che la pressione fiscale aumenterà su quasi tutti i contribuenti, e in misura massima sui poverissimi, che non solo non potranno usufruire di alcun beneficio fiscale (perché non versano tasse), ma pagheranno l’aumento dell’Iva nella veste di consumatori, e lo faranno in misura maggiore di qualsiasi altro gruppo sociale, visto che la propensione al consumo è ovviamente massima là dove non vi è alcuna possibilità di risparmiare.

Quarto punto: mentre tutti i benefici fiscali previsti sono futuri, la soppressione degli sconti in vigore (detrazioni e deduzioni) scatta già sui redditi del 2012, e dunque è retroattiva, essendo tali redditi in massima parte già maturati (siamo a ottobre, e la legge sarà approvata a fine anno). 

Di tutta la manovra fiscale quel che più mi ha colpito è proprio la consapevole spudoratezza (o «arroganza fiscale», come l’ha definita Il Sole 24 Ore di ieri) con cui quest’ultimo schiaffo al cittadino viene annunciato: nell’articolo 12 della bozza di legge di stabilità si dice che le norme che sopprimono gli sconti fiscali sono introdotte «in deroga» allo Statuto dei diritti del contribuente (la legge del 2000 che tutela i cittadini dagli abusi dello Stato in materia fiscale). E’ veramente il colmo: un governo che bacchetta gli italiani per il loro scarso senso civico pare non sapere che è lo Stato stesso ad essere criminogeno, quando diventa arrogante e predatore. 

E ora veniamo ai commenti. Ne avrei tanti, ma sarebbero troppo amari. Perciò mi limiterò a un’osservazione: con quest’ultima mossa, a mio parere, il governo Monti ha definitivamente mostrato il suo volto politico. L’espressione «governo tecnico» gli si addice sempre di meno, perché al di là dell’indubbia qualità professionale dei suoi membri, di gran lunga superiore a quella degli esecutivi del passato, la somiglianza con i governi politici che l’hanno preceduto è sempre più marcata ed evidente. Lo è nei contenuti, perché questa manovra assomiglia tantissimo ai giochi di prestigio cui i politici della Seconda Repubblica ci avevano abituato in occasione di ogni manovra: varare con una mano misure popolari e nascondere con l’altra le misure impopolari con cui le si finanzia. Ma lo è ormai anche nello stile: vedendoli onnipresenti in televisione, nei convegni, nei talk show, avendo registrato con imbarazzo la sceneggiata dell’altra notte a Ballarò (con annunci, smentite e autosmentite fra membri del governo), ormai mi pare chiaro che molti ministri e sottosegretari di questo governo sono già in campagna elettorale, e lo sono prima ancora dei politici di professione da cui, noi elettori, speravamo imparassero il meno possibile. Ma in fondo che male c’è? Evidentemente ai professori la politica piace, e quanto all’imparare, è ovvio, nessuno è più bravo di loro.

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