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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108320 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Maggio 28, 2011, 11:06:38 am »

28/5/2011

Dissoluzione di due leadership

LUCA RICOLFI

Contrariamente a quanto pensano molti miei amici, non credo sia bene che le elezioni amministrative vengano trasformate in elezioni politiche. Quando si sceglie un sindaco, Berlusconi e Bersani non c’entrano nulla. E la qualità della nostra democrazia sarebbe assai migliore, la nostra vita politica assai più sana e civile, se tutti quanti la smettessimo di pensare ogni volta che «sono in gioco i destini del Paese», che «la partita è decisiva per il futuro dell’Italia», che se vincono «loro» è una catastrofe nazionale.

Preferirei vivere in un mondo à la Gertrude Stein, per cui «una rosa è una rosa è una rosa è una rosa», e dunque «un sindaco è un sindaco è un sindaco è un sindaco». La iper-politicizzazione delle campagne elettorali, trasformando la persona concreta del candidato in un simbolo astratto di un’idea generale, in un baluardo contro la vittoria dei barbari, produce l’importante effetto collaterale di rendere i cittadini indifferenti a ciò che il candidato effettivamente ha fatto o farà. E per questa via rende i politici, tutti i politici (i nostri e i loro), perfettamente immuni alle critiche: qualsiasi nefandezza abbia fatto o rischi di fare il nostro candidato, noi lo votiamo lo stesso, né mettiamo in discussione il suo operato, perché non possiamo permettere che vincano «gli altri».

Purtroppo non viviamo in un mondo à la Gertrude Stein, bensì in un mondo in cui tutti politicizzano tutto. E queste elezioni amministrative non fanno eccezione. Berlusconi ha voluto politicizzarle, esattamente come una decina di anni prima aveva fatto D’Alema, allora presidente del Consiglio. E così come allora la sconfitta del centro-sinistra provocò le dimissioni di D’Alema, oggi l’esito di una semplice tornata amministrativa, e segnatamente di due ballottaggi (Milano e Napoli), rischia di produrre effetti politici molto rilevanti. Ma quali effetti?

Effetti sul Pdl e la Lega, innanzitutto. Se il centro-destra dovesse perdere Milano e Napoli, gli effetti sulla maggioranza di governo potrebbero essere molto incisivi. La guerra per bande in atto nel Pdl troverebbe nuovo alimento, le manovre per la successione a Berlusconi si moltiplicherebbero, l’attività legislativa subirebbe un ulteriore rallentamento. Quanto alla Lega, si farebbe più forte la tentazione di scendere dalla nave che affonda, prima che sia troppo tardi. Il partito di Bossi potrebbe partecipare con convinzione alle manovre (già in corso) per cambiare la legge elettorale, magari per tornare ai collegi uninominali del Mattarellum. Incassata una legge senza premio di maggioranza, Bossi tornerebbe ad accarezzare l’idea di correre da solo, trasformando le elezioni politiche in una prova di forza del Nord contro il resto del Paese, una sorta di Nord pride in salsa padana, o neo-separatista. Uno scenario meno fantapolitico di quanto potrebbe apparire, se solo si riflette su due circostanze. Primo, i dati delle tasse e degli sprechi mostrano che le ragioni del Nord sono fondatissime, per non dire sacrosante. Secondo, oggi la Lega è più forte di 15 anni fa, allorché - alle Politiche del 1996 - l’avventura della corsa solitaria la portò a incassare il 10% dei consensi, con un mucchio di candidati eletti in Parlamento.

E a sinistra?
Sono in molti a pensare che una eventuale vittoria della sinistra ai ballottaggi rafforzerebbe il Partito democratico, che finalmente vedrebbe aprirsi una possibilità concreta di battere Berlusconi - un Berlusconi umiliato e ammaccato - non già o non solo per via giudiziaria, ma in un scontro politico aperto, al termine di questa legislatura (nel 2013 o, più plausibilmente, già la primavera prossima). E’ possibile, ma esiste anche uno scenario meno roseo.

Se a dare la vittoria al centro-sinistra fossero i ballottaggi di Napoli e Milano, con annesso trionfo di De Magistris e Pisapia, il risultato sarebbe anche un rafforzamento delle forze politiche alla sinistra del Pd, ovvero Idv (Di Pietro) e Sel (Vendola). Ed è difficile pensare che, a quel punto, Vendola non riproporrebbe la propria candidatura a guidare il centro-sinistra alle prossime politiche. Con l’esito paradossale di trasformare un successo del centro-sinistra, tenacemente perseguito da Bersani con le sue aperture a Di Pietro e Vendola, in un indebolimento della leadership di Bersani stesso. Né si può dire che l’eventuale sfida di Vendola a Bersani, indipendentemente dalla forma che dovesse assumere (partito unico Pd-Sel, primarie del Pd aperte), sarebbe frutto di hybris, di irragionevole orgoglio, o di eccessiva considerazione di sé. Decine di ricerche e sondaggi mostrano che il baricentro dell’elettorato del Pd è più a sinistra, molto più a sinistra, di quello dei suoi dirigenti, e che in caso di separazione fra la sinistra assennata (riformisti del Pd, che guardano all’Udc di Casini) e quella più radicale (Idv, Sel, Verdi, partiti comunisti vari) sarebbe quest’ultima a raccogliere i maggiori consensi.

Vedremo come andrà a finire. Ma la mia impressione è che, se la sfida dei ballottaggi fosse vinta nettamente dal centro-sinistra, quello cui assisteremmo non sarebbe il sorpasso del Pd nei confronti del Pdl ma, semmai, la dissoluzione parallela di entrambe le leadership che finora sono riuscite a tenere insieme questi due partiti. Un processo che potrebbe durare abbastanza a lungo, e avere un’incidenza non da poco sulla fisionomia futura del nostro sistema politico.

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« Risposta #121 inserito:: Giugno 01, 2011, 05:39:47 pm »

1/6/2011

Il vincitore nascosto delle elezioni

LUCA RICOLFI

Berlusconi voleva politicizzare le elezioni amministrative, voleva farne una sorta di giudizio di Dio su di sé e sul governo. C'è riuscito perfettamente, e ha perso anche per questo. Sconfitta chiara, campale e logica. Su questo non ci sono molti dubbi.

I dubbi, invece, cominciano quando si cambia la domanda. Se anziché chiederci «chi ha perso?» proviamo a chiederci «chi ha vinto?», tutto si complica. Perché di vincitori ce ne sono fin troppi, e forse nessuno lo è fino in fondo. Vediamoli tutti, questi vincitori presunti. Il primo a passare all’incasso è ovviamente il Partito democratico. Per Bersani e per i suoi è evidente che il vento è cambiato, che anche il Nord non si fida più del centro-destra, che il Paese è pronto a cambiare governo (e infatti ieri Bersani ha chiesto le dimissioni di Berlusconi).

E tuttavia il conto delle amministrazioni vinte, indubbiamente favorevole al Pd e ai suoi scalpitanti alleati (Di Pietro e Vendola), al momento non segnala un apprezzabile rafforzamento del partito di Bersani, la cui forza sembra tuttora abbondantemente al di sotto di quella che aveva nel 2008, ai tempi della corsa (quasi) solitaria di Veltroni.

Soddisfatti del risultato paiono anche i leader del Terzo polo, che molto avevano puntato su una sconfitta di Berlusconi, vista come precondizione per superare l’assetto bipolare del sistema politico uscito dalla seconda Repubblica. Anche qui, però, c'è un problema: è vero che, almeno rispetto alle Politiche del 2008, i due partiti maggiori - Pdl e Pd - si sono entrambi indeboliti a favore dei rispettivi alleati, ma i loro voti sono confluiti sulle liste civiche e sui partiti più arrabbiati, non certo sui partitini di Casini, Fini e Rutelli. La percentuale di consensi di Udc, Fli, Api uscita dalle urne è di poco superiore a quella della sola Udc nel 2008. Il che, a mio parere, indica una cosa soltanto, e cioè che a distanza di quasi mezzo secolo resta vera la spietata diagnosi di Giovanni Sartori, secondo cui il nostro sistema politico non era e non è un caso di «bipartitismo imperfetto» bensì un caso di «pluralismo polarizzato». Gli spiriti animali dei nostri politici spingono alla contrapposizione, alla frammentazione e all’estremismo, non certo al confronto fra due grandi partiti egemoni sui rispettivi alleati. Viste da questa prospettiva le elezioni del 2011 sembrano infrangere sia i sogni dei nostalgici della prima Repubblica, sia quelli dei vagheggiatori della seconda. A quanto pare gli italiani non si lasciano sedurre né dai due partiti maggiori, Pdl e Pd, né da chi vorrebbe superarli in nome di un «grande centro», rifugio dei moderati e delle persone assennate.

Resterebbe il cosiddetto «partito di Santoro», quello degli ospiti eccellenti della trasmissione Anno Zero. Partiti e leader di partito, come Di Pietro e Vendola. Agitatori come Beppe Grillo, che ha lanciato le liste Cinque Stelle (10% nella rossa Bologna!). Giornalisti come Marco Travaglio e i colleghi del Fatto quotidiano. Ma anche folle, piazze, categorie, territori in collegamento con il conduttore e gli ospiti in studio.

Il partito di Santoro non è solo il luogo di precipitazione dell’antiberlusconismo, ma è stato anche, in questi anni, la voce - una voce talora faziosa e unilaterale - delle mille realtà che l'informazione ufficiale tende a ignorare: penso, per fare l'esempio più clamoroso, alla protesta di un’intera regione, la Sardegna, vessata dallo zelo degli esattori del fisco (è un caso che, dopo 17 anni, il centrodestra abbia perso Cagliari?).

Sono dunque loro, Santoro e i suoi, i veri vincitori di questo passaggio elettorale?

A giudicare dai dati, mi sembra che si debba dire di sì. Se consideriamo i consensi ricevuti dalle liste di partito, le sole forze politiche che hanno sfondato sono quelle della protesta (Vendola e Grillo), una protesta fatta di populismo, idealismo, romanticismo anti-economico. Ed è forse non privo di significato che, fra le forze più tradizionali, a reggere non siano stati i partiti-cardine del sistema politico, gli assennati Pd e Pdl, ma i loro alleati più indisciplinati e riottosi, la Lega di Bossi e l'Italia dei valori di Di Pietro.

Così lo scenario che il voto ci consegna è più ricco di interrogativi che di certezze. Berlusconi ha perso, ma solo il partito di Santoro ha vinto. Questa è certamente una buona notizia per i molti nemici di Berlusconi, ma non è detto che lo sia per il centrosinistra. A mio parere, infatti, il ruolo storico del partito di Santoro è sempre stato duplice: avvicinare il momento dell’uscita dal berlusconismo, allontanare il momento in cui il centrosinistra saprà prendere in mano il destino dell’Italia; rendere più probabile la caduta del centrodestra, rendere più difficile la sua sostituzione con un governo di centrosinistra.

Oggi siamo a un bivio cruciale. La vittoria del centrosinistra rende più probabile la caduta del governo. La «gioiosa macchina» da guerra con cui ci stiamo preparando alla defenestrazione di Berlusconi rende più probabile l’eventualità che quella di oggi, alla lunga, si riveli una vittoria di Pirro. Perché domani, quando Berlusconi sarà uscito di scena, il gioco sarà diverso da quello del «ventennio» berlusconiano: non più uno scontro fra berlusconiani e anti-berlusconiani, ma il confronto fra una destra e una sinistra entrambe deberlusconizzate. E a quel punto quel che conterà non sarà (solo) chi ha buttato giù Berlusconi, ma chi ha le carte più in regola per prendere il timone della nave.

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« Risposta #122 inserito:: Giugno 07, 2011, 02:15:35 pm »

7/6/2011

Se i politici seguono il gregge

LUCA RICOLFI

E’ abbastanza mortificante lo spettacolo cui dobbiamo assistere in questi giorni, gli ultimi prima dell’appuntamento dei referendum.
In un Paese serio si discuterebbe del merito dei quattro quesiti, e cercheremmo tutti di farci un’idea dei pro e dei contro, dei benefici e dei costi, delle opportunità e dei rischi.

Opportunità e rischi che, contrariamente a quello che immaginano i fanatici, ci sono sempre, qualsiasi cosa decidiamo di votare.

Quello che si svolge sotto i nostri occhi, invece, è un penoso tentativo del ceto politico di non farsi travolgere dal sentimento popolare, percepito come favorevole a un quadruplice sì ai quesiti referendari. Anziché cercare di guidare l’opinione pubblica, facendola ragionare, i politici la seguono acriticamente, come un pastore che rincorre il suo gregge di pecore.

Si potrebbe fare, ed anzi qualcuno lo ha già fatto, un elenco dei politici che hanno cambiato posizione, terrorizzati dal clima d’opinione che si è installato in Italia dopo le due Fukushima: quella vera, che ha reso più radioattivo il pianeta, e quella dei ballottaggi, che ha reso radioattivo Berlusconi. Molti dei mutanti sono politici di sinistra, che hanno fiutato il vento e sono improvvisamente diventati referendari, dopo aver a lungo snobbato i referendum. Ma molti sono anche politici di destra, che fino a ieri appoggiavano con convinzione le scelte del governo in materia di acqua e di nucleare, e ora sono assaliti dai dubbi. I primi hanno capito che, in questo momento, i referendum possono risultare utilissimi per disarcionare Berlusconi, i secondi sono in piena «revirgination», per dirla con Luciana Littizzetto: sperano che la verginità acquistata oggi votando qualche sì, o almeno mostrandosi pensosi, li salvi dal disastro quando Berlusconi sarà costretto a lasciare.

Ma lasciamo perdere, e non facciamo nomi. Solo una cosa, vorrei dire: chi non perde occasione per difendere la democrazia, la laicità, la qualità della discussione pubblica, non dovrebbe prestarsi a questo gioco. Perché dei quattro referendum solo uno è puramente politico, quello sul legittimo impedimento. Qui l’effetto giuridico del voto è nullo (la Corte Costituzionale ha già di fatto bocciato la norma che si vuole abrogare) e la scelta è quindi solo simbolica, un sì o un no a Berlusconi. Ma gli altri tre referendum no, il loro esito ha anche effetti importanti sulla vita di tutti noi. E non è affatto evidente come dovrebbe votare un cittadino che avesse a cuore solo il bene comune.

Sul nucleare è relativamente chiaro quali siano i rischi di una scelta a favore delle centrali, ma è assai meno evidente quali siano i costi di un voto che bloccasse qualsiasi programma nucleare futuro. Quale ulteriore rallentamento della crescita economica dell’Italia? Quali difficoltà per la nostra bilancia commerciale? Quali sovraccosti dell’energia? Quanti posti di lavoro in meno nei prossimi anni?

Sono interrogativi su cui poco si ragiona, non solo perché andrebbero contro il sentimento romantico e anti-industriale prevalente al momento, ma perché risposte precise nessuno ne ha. E non mi riferisco solo ai referendari, ma anche ai difensori del nucleare, i quali - ad esempio - usano spesso l’argomento dell’attuale sovrapprezzo dell’energia, ma quasi sempre dimenticano che una parte di quel sovrapprezzo non dipende dalla rinuncia al nucleare ma dal livello delle tasse sull’energia.

Quanto all’acqua le cose sono ancora più intricate. Si può benissimo essere per il sì ai due quesiti sull’acqua (ad esempio perché molte liberalizzazioni e privatizzazioni del passato ci hanno resi diffidenti), ma l’argomento della «privatizzazione dell’acqua» è basato su una forzatura del significato delle parole, visto che quel che sì renderebbe (parzialmente) privato non è il bene acqua bensì il servizio di distribuzione dell’acqua stessa. Un servizio che ora costa molto, disperde una quantità inaccettabile delle nostre risorse idriche, e in molti contesti - proprio grazie alla sua gestione pubblica - fornisce ai politici una preziosa (per loro) riserva di poltrone, posti di lavoro, incarichi e commesse.

Ma in fondo non dobbiamo lamentarci troppo. Se i politici seguono il gregge, è perché il gregge è gregge. Finché ci lasceremo suggestionare dagli slogan, finché saremo accecati dalle nostre simpatie e antipatie, la politica non smetterà di usarci. I politici di destra, che ora cavalcano le paure di Fukushima, domani torneranno a spiegarci che la scelta nucleare è inevitabile, se l’Italia vuole tornare a crescere e creare occupazione per i giovani. E i politici di sinistra, gli stessi che ora ci chiedono di votare contro la «privatizzazione dell’acqua», appena avranno cacciato Berlusconi e riconquistato il governo del Paese torneranno a intonare l’inno delle liberalizzazioni, delle «lenzuolate» che dovrebbero far ripartire l’Italia.

Auguri!

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« Risposta #123 inserito:: Giugno 22, 2011, 12:15:54 pm »

22/6/2011
 
L'opposizione neo-romantica
 
 
LUCA RICOLFI
 
A dieci giorni dai referendum, con un governo che ha ammesso la sconfitta e riconosciuto la propria crisi di consenso, è forse possibile cominciare a ragionare con serenità della «vittoria» referendaria e del suo significato.

Personalmente sono sbalordito dalla convergenza dei commenti di tanti osservatori, siano essi politici, giornalisti, intellettuali.
Secondo la visione prevalente, la schiacciante vittoria dei quattro sì al referendum segnerebbe non solo la sconfitta del berlusconismo (e fin qui nulla da dire), ma una sorta di risveglio democratico degli italiani, anzi del «popolo» italiano. Per Barbara Spinelli, ad esempio, con la vittoria referendaria sarebbe nientemeno che «una filosofia politica a franare, come la terra che d’improvviso si stacca dalla montagna e scivola». Il voto del 13 giugno rappresenterebbe «il futuro che d'un tratto irrompe», perché «il popolo è uscito dai dogmi», «ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo non ne ha cura». Sulla stessa lunghezza Roberto Saviano, per il quale «un popolo si è messo in marcia», e «quello che sta avvenendo è una sorta di mutazione dell’indifferenza», qualcosa che «ha un sapore rivoluzionario»; qualcosa che «sa di rivoluzione liberale così come la intendeva Gobetti». Né si sottrae alla tentazione di evocare il popolo il solitamente assai sobrio Massimo Mucchetti, che - dopo avere denunciato sul Corriere della Sera la demagogia dei referendum sull’acqua - ora riconosce nell’esito di quei medesimi referendum l’espressione della «cultura di un popolo», che prende congedo dai miti del pensiero unico liberista, e «manifesta la sua preoccupazione per l’influenza enorme che conserva l’industria finanziaria».

Se si tolgono alcune eccezioni, fra cui quelle di Luigi la Spina (La Stampa del 18 giugno) e Giuseppe De Rita (Corriere della Sera del 20 giugno), la chiave dei commenti è per lo più quella. Dopo un lungo letargo, gli italiani sarebbero finalmente tornanti alla politica, la società civile si sarebbe risvegliata, la domanda di partecipazione sarebbe risorta. E alla base di tanti ritorni, risvegli e risorgimenti ci sarebbe lei, la rete, con la sua straordinaria capacità di fare politica, animare le discussioni, alimentare la comunicazione, muovere le coscienze, suscitare rivoluzioni più o meno silenziose, più o meno cruente.

Ma ne siamo sicuri? Non c’è un tantino di overstatement in questa pioggia di analisi concordanti?

Non ho molti dubbi sul fatto che gli elettori si siano stancati di Berlusconi, se non altro perché non ho mai creduto al mito degli italiani incantati da lui (una mia vecchia stima del numero effettivo di fan del Cavaliere dava: 6% del corpo elettorale); perché era almeno un anno che tutti i sondaggi registravano l’inesorabile erosione della fiducia nel premier; perché, secondo i medesimi sondaggi, il sorpasso della sinistra nei confronti della destra si era già consumato nelle settimane prima del voto amministrativo. Il congedo da Berlusconi era nell’aria, e credo sia non solo incontrovertibile, ma anche definitivo. Quello su cui ho dei dubbi è che un’opinione pubblica che fino a ieri veniva descritta come carente di spirito civico, apatica, anestetizzata, manipolata dai giornali e dalle tv, si sia improvvisamente trasformata in una comunità virtuosa di cittadini preoccupati del bene comune. I miei dubbi, lo confesso, in parte riposano su convinzioni (indimostrabili) sul carattere degli italiani, sulla lentezza dei processi di maturazione dello spirito civico, sui tempi lunghi che i cambiamenti culturali - quelli veri e profondi - richiedono per affermarsi. In parte, però, i miei dubbi riposano su semplici, elementari dati di fatto: i referendum su cui eravamo invitati a votare erano quattro, diversissimi fra loro nel contenuto, ma la percentuale di sì è risultata sostanzialmente la stessa, il 95%. Come è possibile se l’opinione pubblica è critica, informata, riflessiva, capace di valutare i pro e i contro delle varie scelte?

Qualcuno dice che è il meccanismo del quorum. Ma perché mai? Se non fosse stato essenzialmente un voto contro Berlusconi, avremmo avuto tantissimi sì sul legittimo impedimento (sacrosanti), tanti sì sul nucleare (comprensibilissimi, dopo Fukushima), ma sull’acqua e sui servizi pubblici locali avremmo avuto delle percentuali normali, quelle che si registrano sempre quando su un tema controverso discutono cittadini ben informati, secondo i principi della democrazia deliberativa lanciati da James Fishkin. Quando un tema è complesso e ci sono molti argomenti pro e molti contro, gli esiti sono del tipo 60-40, oppure 70-30, al limite 80-20. Ma mai 95-5. Se succede così, vuol dire che - per un complesso più o meno evidente di cause - il contesto della discussione è stato poco democratico: i media latitavano, i partiti non hanno saputo fare il loro mestiere, le informazioni erano insufficienti o unilaterali, la gente non aveva tempo o voglia di documentarsi, le pressioni di gruppo a conformarsi all’opinione della maggioranza erano soverchianti. Sulle questioni importanti, sui problemi veri, le «percentuali bulgare» non sono mai un bel segnale, un segnale di vitalità della democrazia. E anche ammesso che le percentuali bulgare (95 a 5) si spieghino con il fatto che chi era per Berlusconi è stato a casa, resta il fatto che la maggioranza democratica che è andata a votare ha mostrato una sorprendente incapacità di distinguere, ragionare sulle cose, valutare i pro e i contro delle varie opzioni. Tutte capacità che, a mio parere, costituiscono il nucleo portante di una opinione pubblica democratica, informata, esigente con la politica e con sé stessa.

Spero di sbagliarmi, ma la mia sensazione è che quello cui stiamo assistendo sia sì un risveglio, ma non della democrazia e della partecipazione. Un risveglio dal sonno dell’era berlusconiana, che tuttavia sembra sospingerci in un nuovo sonno, quello di un’opposizione neo-romantica, in cui la gente esprime umori, sentimenti, emozioni, stati d’animo, credenze, convinzioni morali, ma non si preoccupa granché di valutare le conseguenze delle proprie scelte. Per dirla con Max Weber, una sorta di primato dell’etica della convinzione su quella della responsabilità.

E’ questa, a mio parere, l’eredità più negativa dell’era berlusconiana. Aver trasformato la politica in uno scontro di fazioni, in cui conta solo annientare l’avversario, e nulla valgono le idee, i contenuti, le proposte, i dettagli. E mi preoccupa molto che nel principale partito di opposizione, in nome della spallata a Berlusconi, tanti riformisti siano finiti in minoranza, schiacciati da un apparato sempre pronto a cambiare linea e parole d’ordine non appena le circostanze lo rendano conveniente. Può anche darsi che, passata l’euforia del momento, il Partito Democratico torni sui suoi passi, e - pagato pegno alla piazza - ricominci a parlare di liberalizzazioni, efficienza dei servizi, costi dell’energia, mercato del lavoro, senza tabù e senza schemi ideologici. Ma mi sembra più probabile che Bersani sia travolto dai fantasmi che ha evocato, e la deriva neo-romantica dell’opposizione prenda il sopravvento. In quel caso la soddisfazione di avere chiuso l’era berlusconiana ci consolerà per un po’, ma ben presto potremmo accorgerci che i problemi dell’Italia sono rimasti quelli di sempre, e non c’è ancora una classe politica all’altezza di essi.

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« Risposta #124 inserito:: Giugno 28, 2011, 04:36:00 pm »

28/6/2011

L'inevitabile rag. Tremonti

LUCA RICOLFI

Ha fatto scalpore l’intervista di Guido Crosetto, sottosegretario alla difesa ed ex coordinatore di Forza Italia per il Piemonte, pubblicata ieri sulla Stampa.

Sfrondato delle venature polemiche nei confronti di Tremonti, il discorso di Crosetto è semplice: finora i conti pubblici sono stati governati imponendo restrizioni di bilancio a 360 gradi, senza agire selettivamente sulla spesa pubblica, ma non si può andare avanti sempre a forza di «tagli lineari alla spesa, quando il problema invece è eliminare le cose che producono spesa». Dice Crosetto: «Ogni volta si taglia un po’, lasciando in piedi le cose inutili e danneggiando quelle utili (...). E invece di tagliare la spesa in modo serio e programmato si sforbicia ogni anno un pezzetto». E’ vero, «Tremonti ha tenuto in vita il Paese, ma mettendolo in coma farmacologico, senza capire che l’economia reale andava aiutata». E l’economia reale, per Crosetto, è innanzitutto quella dei «piccoli»: «Vengo da una realtà fatta di artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e devo risposte a loro, che creano ricchezza. In questi anni gli abbiamo aumentato la pressione fiscale, annullato lo Statuto del Contribuente, li abbiamo fatti diventare tutti solo evasori da massacrare, non abbiamo alleggerito la burocrazia».

Crosetto, a mio parere, ha perfettamente ragione. Se l’Italia non cresce, e i nostri guai sono rimasti in gran parte quelli di 20 anni fa, è proprio perché finora i governi - tutti i governi della seconda Repubblica hanno snobbato il mondo dei produttori, piccoli e grandi, tollerando il permanere di un livello di oppressione fiscale sulle imprese che non ha eguali in nessun altro Paese occidentale. E probabilmente Crosetto ha anche ragione a lamentare un approccio un po’ meccanico o «ragionieristico» da parte di Tremonti al problema dei tagli di spesa. E’ possibile che la testa del ministro dell’Economia sia perennemente rivolta all’Europa e ai mercati, e che la bassa cucina dei tagli non interessi più di tanto un uomo le cui curiosità intellettuali paiono più simili a quelle degli storici della longue durée che a quelle degli studiosi di politiche pubbliche.

E tuttavia vorrei dire a Crosetto, a proposito di tagli lineari e non, che le cose sono più complicate, molto più complicate, di come appaiono. E’ ingenuo, per non dire demagogico, suggerire l’idea che oggi giugno 2011 - la politica abbia di fronte a sé due vere alternative: tagli lineari e tagli selettivi. L’opzione dei tagli non lineari, o selettivi, pavlovianamente invocata dall’opposizione e dai sindacati appena Tremonti fa «bau», semplicemente non esiste. E lo dico con la morte nel cuore, perché mi occupo di sprechi nella pubblica amministrazione, e studiare gli sprechi significa precisamente valutare quanto, che cosa e dove si può tagliare.

Se l’opzione tagli non lineari non esiste è, innanzitutto, per una ragione tecnica. Una ragione con cui io stesso ho fatto i conti quando l’attuale governatore del Piemonte mi prospettò di occuparmi di tagli nella sanità regionale, e io decisi di rinunciare al compito. Ho fatto in passato degli studi sugli sprechi nella sanità, e so come si può stimare quanto spreca una Regione (più di 1 miliardo di euro nel caso del Piemonte, chiunque fosse al governo dell’ente). Ma un conto è sapere quanto si dovrebbe tagliare globalmente, un conto è sapere esattamente dove, in che modo, con che tempi. Uno studio di questo tipo richiede un’équipe di specialisti (di cui alcuni provenienti dal mondo della sanità) e almeno due anni di intenso lavoro. Invece la politica ha sempre fretta, e 2-3 anni di lavoro le sembrano un’eternità. Eppure un paio di anni è il tempo minimo per preparare un dossier operativo serio, capace di individuare chirurgicamente gli sprechi e le soluzioni. Vale per la sanità, così come per la scuola, l’università, la giustizia, le carceri, i trasporti, la burocrazia.

La sinistra spesso invoca con rimpianto la spending review, ossia il lavoro di revisione della spesa pubblica iniziato dal compianto ministro Padoa-Schioppa con la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp, o Commissione Muraro), ma troppo spesso si dimentica che persino quel meritorio lavoro era appena agli inizi, e non aveva ancora prodotto le centinaia di dossier operativi, di manuali di «istruzioni per l’uso», che sarebbero stati necessari se davvero si fosse voluto varare una politica di tagli selettivi. Ora siamo più indietro di allora (perché questo governo ha soppresso la Commissione Muraro), ma siamo indietro persino se immaginiamo a un futuro governo, che si insedi fra un anno e mezzo al posto di quello attuale. Se la sinistra intendesse davvero, una volta vinte le elezioni, procedere lei a tagliare gli sprechi in modo selettivo, avrebbe già creato decine e decine di gruppi di lavoro per individuare come, dove e quanto tagliare.

Ma immaginiamo invece che, per miracolo, i dossier siano già sul tavolo del governo. Che il governo sappia con precisione dove colpire. C’è la lista degli enti inutili da sopprimere e quella degli enti da rafforzare. C’è la lista dei ministeri da far dimagrire, e quella dei ministeri da rifinanziare. C’è la lista degli atenei da chiudere e quella degli atenei da potenziare. C’è la lista dei tribunali da accorpare. C’è la lista degli ospedali inefficienti e pericolosi da chiudere. C’è la lista delle agevolazioni ed esenzioni da sopprimere. Ci sono stime accurate dei tassi di spreco di ogni regione, provincia, Comune, e un piano decennale che prevede progressive riduzioni dei trasferimenti per gli enti che dissipano denaro pubblico, ma anche progressivi aumenti delle dotazioni per gli enti virtuosi. Ebbene, provate a immaginarvelo un governo serio e determinato, crosettianamente pronto a iniziare una politica di tagli selettivi (per inciso: la manovra che ci chiede l’Europa è di 40 miliardi in 3 anni, gli sprechi della pubblica amministrazione superano gli 80 miliardi). Che cosa credete che succederebbe?

Ogni categoria, ente, territorio colpito mobiliterebbe sindacati, associazioni di categoria, tribunali, televisioni, quotidiani per salvare se stesso, naturalmente invocando l’assoluta indispensabilità delle funzioni che esso svolge, naturalmente nell’esclusivo interesse della comunità. Un coro generale si leverebbe contro il governo, l’indignazione popolare monterebbe, il lavoro dei tecnici sarebbe duramente contestato da altri tecnici, si sentirebbe di nuovo parlare di «macelleria sociale», «attacco al welfare» e alle conquiste dei lavoratori, eccetera eccetera. E allora, se le cose stanno così, come possiamo stupirci che Tremonti pensi a semplici, modesti, tagli lineari, con l’aggiunta di una spruzzatina di demagogia anti-casta, tipo limatura dei compensi ai politici?

Tremonti, probabilmente, pensa a tagli lineari perché quella è la sua forma mentis. Ma il guaio è che, giunti a questo punto, con un Paese cui è stato raccontato che nella crisi l’Italia tutto sommato se l’è cavata bene, nessun governo sarebbe in grado di imporre le misure che servirebbero, anche se nel frattempo avesse elaborato un piano, fatto di dossier precisi, seri, dettagliati. Ed è questa, a mio parere, l’eredità più nefasta che il centro-destra lascia al governo che verrà, di destra o di sinistra che sia: gli italiani sono stati convinti che la situazione è sotto controllo, e quindi giustamente non vedono proprio perché dovrebbero cambiare il loro tran-tran.

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« Risposta #125 inserito:: Luglio 03, 2011, 10:35:41 am »

3/7/2011

Carceri, la catastrofe umanitaria

LUCA RICOLFI

Credo che ben pochi italiani abbiano avuto notizia dello sciopero della fame di Marco Pannella, iniziato il 20 aprile scorso, dunque 75 giorni fa. Pannella e i Radicali protestano contro la situazione inumana delle carceri italiane, un problema che si protrae ormai da anni, e ogni estate assume tratti drammatici.

Nelle carceri italiane sono rinchiusi quasi 70 mila detenuti, a fronte di una capienza che non raggiunge i 45 mila posti. Molte strutture sono fatiscenti, i detenuti sono costretti a convivere in spazi angusti e sovraffollati, largamente al di sotto degli standard minimi europei (7 metri quadri a detenuto in cella singola, 4 in cella multipla), con servizi igienici e condizioni di accesso ai medesimi spesso umilianti. Il tasso di suicidio è circa 20 volte quello del resto della popolazione. Da anni e anni innumerevoli rapporti, ricerche, studi, resoconti di visitatori testimoniano quale inferno siano diventate tante carceri italiane (non tutte, per fortuna). E la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già richiamato più volte l’Italia per le condizioni dei detenuti nelle carceri.

Nonostante tutto ciò il tema non è mai, non dico al centro, ma neppure alla periferia del dibattito politico. Semplicemente non se ne parla, salvo nei rarissimi momenti in cui il governo annuncia misure di svuotamento delle carceri o fantomatici piani di edilizia carceraria (i nuovi posti promessi sono sempre tantissimi, quelli effettivamente realizzati negli ultimi anni sono poche migliaia, circa un decimo del fabbisogno).

L’inerzia dei media, per una volta, accomuna tutti indistintamente: destra, centro e sinistra; televisione, giornali, Internet. Se tacessero anche i Radicali e alcune rare, isolatissime voci di singole personalità, il silenzio sarebbe totale. Come è possibile ?
Una spiegazione è che all’opinione pubblica italiana delle condizioni di vita dei detenuti semplicemente non importi un fico secco. O, se vogliamo essere più benevoli, che il problema delle carceri - pur essendo noto a molti - sia entrato nel novero dei fatti cui la gente si è abituata al punto da considerarli ormai alla stregua di eventi naturali. I politici rubano, i fiumi esondano, le scuole sono a rischio sismico, i napoletani non fanno la raccolta differenziata. E, naturalmente, le carceri scoppiano: del resto siamo in Italia, il Paese più bello del mondo.

Non so se le cose stiano così (sospetto che sì). Ma quale che sia l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica, a me pare che una classe dirigente che ignori il problema dell’inferno carcerario non sia all’altezza del proprio ruolo. Ci permettiamo di criticare la violazione dei diritti umani in Cina, in Russia, in Libia, in Siria. Ci scandalizziamo ogni volta che un leader occidentale visita un Paese totalitario (con cui tuttavia ci piace commerciare) e omette di fare il suo bravo discorsetto sui diritti umani. Abbiamo avuto il coraggio (o la faccia tosta?) di entrare in guerra con la Libia «per evitare una catastrofe umanitaria», con il risultato di provocare e tenere in piedi una guerra civile che è già costata migliaia di morti. Però non vediamo la catastrofe umanitaria che noi stessi apparecchiamo e tolleriamo ogni giorno nelle nostre carceri, e che è lì, davanti ai nostri occhi, solo che ci degniamo di prestarvi attenzione.
No, c’è qualcosa che non va. L’eventuale indifferenza dell’opinione pubblica non assolve la classe dirigente, e quando dico classe dirigente non parlo solo dei politici, ma della sensibilità di tutti coloro che hanno responsabilità nelle imprese, nelle banche, nei sindacati, nelle associazioni, nei media, nelle università, nelle professioni.

Si possono avere i dubbi e le riserve più radicali sulle proposte di Pannella, e io stesso non condivido almeno la metà delle cose che dice e pensa, a partire dall’idea che la soluzione del problema del sovraffollamento carcerario sia una grande amnistia. Però non si può ignorare il problema che Pannella solleva, perché quella delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane è una questione di civiltà. Una questione che si può affrontare lungo linee libertarie (depenalizzazioni, indulti, amnistie, misure alternative al carcere), oppure lungo linee sicuritarie (ammodernamento delle carceri esistenti, costruzione di nuove carceri), o ancora con una miscela dei due approcci. E che tuttavia un Paese occidentale non può permettersi di rimuovere, o di vivere come qualcosa che non tocca la sua identità, la sua morale, la sua coscienza collettiva.

Si parla tanto di modernizzazione dell’Italia, della necessità di riforme che ci consentano di tornare a crescere. E tuttavia in questo gran parlare di riforme, cui io stesso non di rado prendo parte con i miei studi, forse si sta lasciando un po’ troppo in ombra un aspetto, e cioè che modernizzazione non significa solo modernizzazione economica, e che in Italia esiste anche un drammatico problema di modernizzazione civile. Un problema che ovviamente chiama in causa i comportamenti di ognuno, ma che è prima di tutto un problema di civiltà giuridica nei rapporti fra lo Stato e i singoli cittadini.

Oggi in Italia, di fronte allo Stato e ai suoi apparati, troppe volte il singolo cittadino è inerme, sottoposto a ogni tipo di vessazione, arbitrio, ricatto, abuso, negligenza, sordità. Sotto questo profilo, a 150 anni dall’Unità d’Italia siamo ancora sudditi, e non cittadini. E lo siamo ovunque, sia quando siamo ancora liberi e ci troviamo di fronte ad apparati che violano le regole e abusano del loro potere, sia quando incappiamo nelle maglie della giustizia e, fin dalla condizione di detenuti in attesa di giudizio, sperimentiamo l’inferno delle carceri italiane.
Perciò, non auto-inganniamoci. Lo sciopero della fame di Marco Pannella sembra parlare solo dei detenuti, ma parla anche di noi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8928&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #126 inserito:: Luglio 20, 2011, 10:07:49 am »

18/7/2011

Rassegnati alle troppe tasse

LUCA RICOLFI

Quella che si apre oggi è una settimana importante per valutare le prospettive dell’Italia dopo la manovra-lampo approvata nei giorni scorsi. Non è detto che i mercati siano i migliori giudici della bontà delle nostre politiche, ma non v’è dubbio che - finché le utopie di chi sogna istituzioni economiche europee funzionanti non si saranno realizzate - è con i mercati che dovremo fare i conti.

Le previsioni degli osservatori, in proposito, non sono particolarmente ottimistiche. La manovra allestita in fretta e furia dal governo, e «responsabilmente» lasciata passare in tempi rapidissimi dalle opposizioni, non è piaciuta innanzitutto per la sua iniquità, ossia per la sua incapacità di distribuire in modo razionale e selettivo i sacrifici richiesti, con l’aggravante di avere ridotto al minimo quelli richiesti alla casta dei politici, un vero e proprio schiaffo in faccia ai cittadini. Ma non è piaciuta nemmeno sotto il profilo della sua capacità di calmare i mercati e rassicurare gli investitori, ricostituendo un po’ di fiducia nel sistema Italia.

Quasi tutti gli analisti hanno individuato tre punti deboli della manovra. Primo: è di entità risibile nel 2011-2012, mentre diventa draconiana solo nel 2013-2014, il che significa che i suoi effetti certi sono minimi, mentre gli effetti significativi non sono certi (gli impegni del 2013-2014 molto difficilmente potranno essere onorati, visto che non si sa nemmeno chi dovrà farlo: dalla fine del 2012 saremo in campagna elettorale). Secondo: una componente della manovra, quella fiscale, non solo è spostata avanti nel tempo, ma è di contenuto sconosciuto, in quanto affidata a una delega fiscale. Terzo: la manovra è troppo incisiva dal lato delle entrate (tasse), e lo è troppo poco dal lato delle uscite (spesa pubblica).

Di qui il timore che la manovra ottenga il doppio effetto di non convincere i mercati, con conseguente innalzamento del costo del nostro debito pubblico, e di azzoppare l’economia, già sufficientemente in difficoltà prima della manovra. Non sono particolarmente ottimista sulla reazione dei mercati, che non mi paiono così ingenui da non accorgersi del bluff di un pacchetto inflazionato di semplici intenzioni future. E’ questa preoccupazione che ha indotto non pochi osservatori, anche di sinistra come Eugenio Scalfari, a invocare un significativo anticipo di sacrifici al 2011-2012.

Quanto al rischio che la manovra soffochi del tutto la crescita il mio pessimismo è invece totale, e discende da un fatto (incontestabile) e da un’opinione, ovviamente discutibilissima. Il fatto è che nessun Paese sviluppato ha una pressione fiscale sui produttori alta come la nostra (il Total Tax Rate è al 68,6%), una circostanza aggravata dagli elevatissimi costi dell’energia e dalla doppia zavorra degli adempimenti burocratici e dell’inefficienza della giustizia civile. L’opinione (discutibile, ma supportata da qualche evidenza empirica) è che il fardello che un Paese impone ai produttori lavoratori e imprese - sia di gran lunga la causa più importante del suo ristagno. Molto, ma molto più importante di tutti gli altri fattori che - sotto la voce riforme mancate vengono ritualmente elencati, e da cui a mio parere ci si aspetta troppo.

Vista da questa angolatura, quella della permanente mortificazione di chi produce ricchezza, la storia delle ultime settimane è semplicemente agghiacciante. Ancora a giugno si dibatteva di riduzione della pressione fiscale, di un possibile ritorno del Pdl allo spirito originario del 1994. Poi si è cominciato a dire che la pressione fiscale non poteva scendere, ma che si poteva redistribuire il carico, spostandolo dalle persone (Irpef) alle cose (Iva), con ben poca attenzione al fatto che la crescita non dipende genericamente dalle «persone» ma da chi genera ricchezza, ossia lavoratori e imprese. E infine, nei giorni scorsi, ci si è arresi al fatto che le tasse non solo non potranno essere diminuite, ma dovranno salire. Nel giro di un mese un micidiale 1-2-3 si è abbattuto sulle prospettive dell’economia italiana, di cui - a me sembra - si continua a sottovalutare il problema centrale: a queste condizioni ci vuole una dose spropositata di coraggio per operare in Italia, come del resto mostra al di là di ogni ragionevole dubbio il livello risibile degli investimenti diretti dall’estero.

Ed è sorprendente, almeno ai miei occhi, che una tale sottovalutazione della crucialità del problema delle tasse, e della drammaticità della situazione di chi cerca di stare sul mercato, non provenga solo dagli attori da cui ce lo aspettiamo, ossia sinistra, sindacati, pubblico impiego, ma anche da settori importanti dell’accademia e del mondo economico-finanziario. Io leggo tutti i giorni «Il Sole - 24 Ore», quotidiano vicino al mondo delle imprese, e sono perennemente stupito dalla profluvio di discorsi, inviti e ammonimenti a «fare le riforme» e dalla relativa rarità delle richieste di ridurre significativamente la pressione fiscale, quasi che uno strano cocktail di rassegnazione e senso di responsabilità nazionale avesse convinto gli stati maggiori dell’economia italiana che, per ora, su quel fronte nulla è possibile. E quando leggo che, di fronte a una manovra tutta sbilanciata dal lato delle entrate, la presidente degli industriali dichiara «abbiamo l’impressione che ci possa essere un aumento delle tasse», irresistibile mi si accende nella mente l’immagine di Titti, il canarino perennemente inseguito da Gatto Silvestro, che dice «oh, oh, mi è semblato di vedele un gatto».

Insomma, la mia sensazione è che spesso anche chi fatica, compete, e si batte ogni giorno per non far affondare la barca sia ormai da molti anni assuefatto a questo ceto politico, a questo Stato, e non percepisca fino in fondo il tasso di eroismo che oggi è richiesto in Italia a chi intende lavorare e produrre nella legalità, senza scorciatoie e protezioni politiche. Né mi sembra si possa escludere che la severità dei mercati nei confronti dell’Italia abbia anche qui una delle sue radici. Pensare che il debito pubblico si possa abbattere senza crescita, semplicemente azzerando il deficit, è già alquanto azzardato, ma pensare che la crescita possa ripartire con questo livello di pressione fiscale sui produttori lo è forse ancora di più. C’è solo da augurarsi che questa non sia la visione dei mercati, perché se lo fosse ben presto l’Italia potrebbe ritrovarsi nella tempesta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8992
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« Risposta #127 inserito:: Agosto 08, 2011, 11:34:02 am »

8/8/2011

Un Paese senza

LUCA RICOLFI


Siamo abituati a pensare che ad ogni problema corrisponda una soluzione. Ma ci sono anche rebus che non hanno soluzioni: ad esempio la quadratura del cerchio, o l'equazione di quinto grado. Fra i rebus senza soluzione, a mio parere, c'è anche il problema politico italiano, almeno per ora.

Possiamo prendercela fin che vogliamo con la speculazione, l'irrazionalità dei mercati finanziari, la perfidia delle agenzie di rating (è di ieri la notizia che, per la prima volta, il debito statunitense ha perso la tripla A, almeno nel giudizio di Standard & Poor's). Ma la realtà è che, anche se i mercati si dessero una calmata (cosa che prima o poi succederà), né il mondo, né l'Europa, né l'Italia avrebbero per ciò stesso risolto i loro problemi. Le malattie che la febbre dei mercati mette in evidenza sussistono indipendentemente dal nervosismo dei mercati stessi. E si tratta di malattie molto gravi.

Il mondo è malato perché, dopo aver goduto dei benefici della globalizzazione, non ha trovato - né forse ha veramente cercato - il modo di contenerne alcuni drammatici effetti collaterali, come l'amplificazione degli squilibri economici fra Paesi e l'ipertrofia dei mercati finanziari.

Mercati che sono arrivati a pesare 8 volte il Pil mondiale e quindi (come notava sabato Morya Longo su Il Sole 24 Ore) ormai in grado di incidere sui fondamentali delle economie, anziché limitarsi a misurarne più o meno accuratamente lo stato di salute. E non va certo ad onore della classe dirigente mondiale il fatto che, a quattro anni dallo scoppio della crisi, così poco sia stato fatto per riportare un po' di ordine e di trasparenza nelle transazioni finanziarie.

L'Europa è malata perché è come l'Italia. L'edificio dell'euro non funziona per gli stessi motivi per cui non ha funzionato l'unità d'Italia. Quando si impone un mercato e una moneta unica a territori che hanno enormi divari di produttività, di modernizzazione, di cultura civica, solo un processo di convergenza economica e sociale accelerata può evitare la formazione di squilibri drammatici. L'unificazione monetaria, infatti, sopprime l'unico meccanismo di riequilibrio incisivo, ossia la svalutazione della moneta nazionale. Private della possibilità di svalutare, le economie deboli tendono a importare più di quanto esportino, ed accumulano deficit e debiti pubblici sempre più grandi per potersi permettere un tenore di vita che va al di là di ciò che il Paese effettivamente produce. In queste condizioni, per contenere gli squilibri c'è solo la via della modernizzazione del territorio più debole, ma questa via - in Europa - è stata percorsa pienamente solo da alcuni Paesi dell'Est, e segnatamente dalla Germania orientale nell'ambito della riunificazione tedesca. Le economie deboli del Mediterraneo - Italia, Spagna, Grecia, Portogallo - sono entrate tutte nell'euro, ma ben poco hanno fatto per meritarsi l'appartenenza all'eurozona. Un processo molto simile a quello che, nell'Italia repubblicana, ha fatto fallire tutti i tentativi di annullare il divario fra Nord e Sud del Paese. Con una differenza importante: che non esistendo un mercato dei titoli di Stato delle Regioni, le nostre nove regioni in deficit (Lazio più tutto il Sud) hanno potuto mascherare il loro status di territori-cicala molto più a lungo di quanto siano riuscite a fare Grecia, Portogallo, Spagna e Italia.

Quanto all'Italia, la sua malattia è simile a quella delle altre economie deboli, ma presenta almeno due complicazioni importanti. La prima è che una parte del Paese, ovvero tutto il Nord inclusa l'Emilia Romagna (ma esclusa la Liguria), ha istituzioni di livello europeo, e tassi di crescita più bassi del resto d'Europa solo perché - attraverso il massiccio prelievo fiscale cui è soggetta - è costretta a sostenere i consumi delle regioni meno produttive.

La seconda complicazione è la nostra classe dirigente, che - a mio parere - ha cessato di essere tale intorno al 1998, appena perfezionato il nostro ingresso in Europa. La stagione che va da Mani pulite e dal tracollo della lira (1992) alla caduta del primo governo Prodi (1998) fu ancora, nonostante vari limiti ed incertezze, una stagione di riforme, di cambiamenti, di tentativi di modernizzazione. E lo fu indipendentemente dal colore politico dei governi, e con il contributo sofferto, ma tutto sommato costruttivo, delle principali forze sociali, a partire dai sindacati. Non così il dodicennio che va dal 1999 ad oggi, in cui la nostra classe dirigente ha progressivamente abbassato le ambizioni riformiste, fino allo stallo degli ultimi due esecutivi (Prodi e Berlusconi), capaci di competere fra loro solo nell'arte del non governo.

Ed eccoci arrivati al perché il rebus politico italiano non ha alcuna soluzione. Il governo Berlusconi ha negato sistematicamente la gravità della situazione, e proprio sulla base di questa diagnosi errata ha ritenuto di potersi permettere una manovra risibile, in cui l'85% dell'aggiustamento necessario per azzerare il deficit veniva scaricato sulle spalle dei governi futuri. Sarebbe stato stupefacente che i mercati non si accorgessero del bluff. Ed è un bene (o meglio è il male minore) che l'Europa, imponendo l'anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, abbia di fatto commissariato l'Italia, sostituendosi a un governo paralizzato. Dunque è vero, questo governo è diventato un problema, se non il problema.

Il nostro guaio, sfortunatamente, è che questa opposizione - anzi queste opposizioni - non sono la soluzione, ma una parte del medesimo problema. E' almeno due anni che l'opposizione è convinta dell'inadeguatezza di questo governo, ma neppure in un tempo così lungo è stata in grado di approntare una diagnosi condivisa e una terapia credibile. E' scoraggiante, in questi giorni, leggere sui giornali la cacofonia di valutazioni e di proposte che arrivano da ogni angolo del cantiere delle opposizioni. E ancora più scoraggiante è la genericità, per non dire il vuoto spinto, dei documenti delle cosiddette parti sociali.

La realtà è che nessuno, oggi, è in grado di dire se le attuali opposizioni sarebbero capaci di formare un governo, e tantomeno che cosa un tale governo ci riserverebbe, al di là delle solite chiacchiere su costi della politica, lotta agli sprechi, contrasto all'evasione fiscale. Eppure il rebus è chiaro: se non vogliamo essere in balia dei mercati bisogna trovare 50 miliardi di euro (più tasse e meno spese), e inoltre bisogna trovarli senza provocare né una recessione né una rivolta sociale.

Ecco perché penso che il rebus sia insolubile. Un'impresa come quella oggi richiesta all' Italia potrebbe tentarla solo una classe dirigente credibile. Dove per credibile non intendo solo un po' meno corrotta e squassata dagli scandali, ma soprattutto più lucida, più unita, più coraggiosa, meno ossessionata dalla ricerca del consenso a breve termine. L'immobilismo e l'impotenza di Berlusconi sono diventati il problema dell'Italia, ma la tragedia del Paese è che le opposizioni non hanno usato il lungo tempo del crepuscolo berlusconiano per diventare, esse, la soluzione che il Paese attende.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9074
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« Risposta #128 inserito:: Agosto 14, 2011, 10:49:00 pm »

14/8/2011

Il rischio di sacrifici inutili

LUCA RICOLFI

Lì per lì, sentite le prime notizie sulla super-manovra, mi sono detto: saranno pure sacrifici, e sacrifici alquanto impopolari, ma meglio tardi che mai. In fondo erano almeno tre anni, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che quasi tutti gli analisti indipendenti scongiuravano il governo di non mettere la testa sotto la sabbia, di smetterla con gli annunci e le dilazioni (vedi l’annacquamento del federalismo), di agire subito e con determinazione. Ora anche Berlusconi e Tremonti l'hanno capita, e si apprestano ad affrontare i gravissimi problemi della nostra economia. Spiace riconoscerlo, ma ai mercati è riuscito quello che alle menti illuminate dei riformisti di destra e sinistra non era mai riuscito: convincere un governo immobilista (come gli ultimi cinque, dal ‘98 a oggi) che non si può restare oltre con le mani in mano, paralizzati dalle divisioni e dagli interessi privati del premier. Poi però, accanto a questo sentimento di relativa soddisfazione, se ne è installato un altro, di segno opposto. Che cosa mi ha fatto cambiare atteggiamento?

In primo luogo, la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che - dopo aver per anni disprezzato e sbeffeggiato chiunque osasse mettere in dubbio la solidità dei conti pubblici italiani - ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata», la tempesta che ha investito borse e titoli di Stato «non era prevedibile», e via cadendo dalle nuvole.

Eh no, tutto si può dire ma non che non foste stati avvertiti. La stragrande maggioranza degli studiosi, in questi anni, mesi, settimane e giorni era assolutamente concorde sulla diagnosi di base: i conti pubblici italiani non sono affatto in sicurezza, l’entità del nostro debito pubblico ci rende permanentemente vulnerabili, la manovra varata un mese fa era una presa in giro dei mercati e delle istituzioni europee, perché rimandava l’85% dell’aggiustamento al 2013-14, quando non si sa nemmeno chi governerà, né di conseguenza si può avere la minima garanzia che rispetterà gli impegni presi oggi.

Ricordate lo «scalone» delle pensioni? Anche allora, eravamo nel 2004, Tremonti lo varò per legge rimandandone però l’applicazione al 2008, e il governo successivo - come si poteva facilmente prevedere - se lo rimangiò in un sol boccone. E anche per quanto riguarda la manovra di luglio, che il governo si è finalmente deciso ad anticipare di un anno, vorrei ricordare quello che Roberto Perotti e Luigi Zingales scrivevano più di un mese fa, quando era già del tutto evidente che i mercati non credevano alle vaghe promesse del nostro governo: «Esiste quindi una sola via d'uscita, che ci metta al riparo dalla volatilità del mercato: raggiungere il pareggio di bilancio nell’arco diciamo di un anno».

Se anziché accontentarsi della solidarietà e dell’approvazione dei colleghi europei, i nostri governanti avessero preso un po’ più sul serio i mercati, avrebbero agito molto prima, e oggi il prezzo che sono costretti a chiedere ai cittadini sarebbe minore. Insomma, aver rimandato i sacrifici significa averli aggravati. Questa è una gravissima responsabilità, un errore che una classe dirigente degna di questo nome non avrebbe fatto. Anche se va aggiunto, per amore di verità, che la timidezza del governo è anche il risultato dell’immaturità dell’opposizione: se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizioni e parti sociali li avrebbero massacrati.

E’ paradossale, e duro da accettare, ma la lezione di questi giorni è anche questa: la paura suscitata dai mercati rende possibili oggi al governo scelte che - senza quella paura - sarebbero state semplicemente impraticabili, perché avrebbero richiesto un’opposizione seria, disponibile al dialogo sulle riforme economico-sociali anziché ossessionata dall’incubo della democrazia in pericolo.

Ma non è solo la sfrontatezza del governo che mi ha fatto cambiare atteggiamento sulla manovra. E’ la lettura dei suoi contenuti che mi ha lasciato alquanto perplesso. E questo sotto almeno tre profili: equità, rigore, futuro.

Equità. Ci sono anche cose ragionevoli, per non dire sacrosante, ma la misura centrale, il «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 90 mila euro, è profondamente ingiusta. Essa infatti colpisce una minoranza di cittadini (poco più dell’1%) che ha due sole colpe: guadagnare più di 4000 euro netti al mese, e pagare le tasse. A parte l’ipocrisia della parola solidarietà (la solidarietà non può essere coatta), un prestito semantico necessario per ingraziarsi i sindacati e nascondere che si tratta - né più né meno - di un innalzamento dell’aliquota marginale Irpef, la misura è iniqua perché i ricchi «nominali» sono una piccola frazione (tra il 5% e il 10%) dei ricchi «reali».

Bastano pochi elementari confronti - ad esempio sui consumi di lusso, o sui patrimoni finanziari e immobiliari - per capire che almeno il 90% dei veri ricchi sono evasori fiscali, che vivono nell’abbondanza ma dichiarano redditi da ceto medio. Meglio, molto meglio anche sotto il profilo del gettito, sarebbe stato agire con una piccolissima imposta sul patrimonio (tipo il 5 per 10.000). Almeno avrebbero pagato anche gli evasori.

Così, sempre sotto il profilo dell’equità, sarebbe stata doverosa una esplicita differenziazione fra territori-formica, che producono molto ed evadono poco, e territori-cicala, che producono poco ed evadono molto. Alle amministrazioni più virtuose, proprio perché hanno già razionalizzato la spesa, non si possono imporre gli stessi tagli che si chiedono alle amministrazioni che hanno ancora un lungo cammino di risanamento da compiere.

Rigore. Qui le obiezioni sarebbero moltissime, per cui mi limito a quattro esempi: manca un piano di dismissioni del patrimonio pubblico; manca un intervento incisivo sulla previdenza (in particolare su chi è andato in pensione prima dei 50 anni); diverse misure, a partire dal contributo di solidarietà, non hanno carattere strutturale; l’idea di togliere le tredicesime ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche che spendono troppo è peregrina in assenza di obiettivi di budget ben studiati e se prima non si ristabilisce il «comando» nei pubblici uffici, due precondizioni che mancano del tutto.

Futuro. Ma è soprattutto sulle prospettive future del Paese che la manovra, così come si profila in queste ore, appare più deludente. Il nostro problema centrale, la nostra palla al piede, è il debito pubblico. Pensare di risolvere questo problema senza accelerare la crescita, senza portarla dallo stentato 1% attuale ad almeno il 2%, è pura illusione. Se non torneremo a crescere a un ritmo decente non ci saranno né posti di lavoro per i giovani e per le donne, né soldi per completare il nostro stato sociale, che è ipertrofico dal lato delle pensioni ma rachitico su tutto il resto.

Ma nella manovra, per riconoscimento unanime, quel che manca sono proprio le due misure fondamentali per la crescita: riduzione della pressione fiscale sui produttori, abbattimento del numero di adempimenti per le imprese. E al loro posto, incredibilmente, compaiono ulteriori aggravi per lavoratori autonomi e società: dalla «rimodulazione» degli studi di settore per i primi, alla riduzione - per le seconde - della possibilità di abbattimento delle perdite.

Può darsi che quel che non si vede oggi spunti domani dalla delega fiscale. Può darsi che il governo si decida ad alzare l’Iva sui beni di lusso, a ridurre la selva delle esenzioni ed agevolazioni dei regimi fiscali. Ma se una parte cospicua di questi risparmi non verrà usata per dare ossigeno all’Italia che produce e che compete, se - come purtroppo è avvenuto finora - ogni centesimo di gettito recuperato andrà a finire nel calderone del bilancio pubblico senza alleggerire la pressione fiscale sui produttori, allora temo che anche i sacrifici che ora ci vengono richiesti finiranno per essere stati vani.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9093
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« Risposta #129 inserito:: Agosto 29, 2011, 10:43:00 am »

29/8/2011

I mercati non sono stupidi

LUCA RICOLFI

Inostri politici pensano che i mercati siano stupidi? E che i cittadini siano completamente rassegnati a subire qualsiasi vessazione?

Direi proprio di sì. Nelle scorse settimane, scrivendo su questo giornale, ho avuto parole piuttosto dure sulle due manovre messe a punto dal ministro Giulio Tremonti, quella di luglio e la manovrabis di agosto.

Come la maggior parte degli studiosi, le ritenevo inique, insufficienti, sbilanciate dal lato delle entrate, moderatamente recessive, carenti di misure strutturali, del tutto disattente alle esigenze della crescita.

E purtroppo la mia previsione che i mercati non si sarebbero lasciati ingannare si è rivelata fondata: né la prima manovra, né quella aggiuntiva, sembrano aver convinto gli investitori della serietà delle intenzioni dell’Italia.

Ora, tuttavia, mettendo in fila le proposte alternative dei critici della manovra, proposte che vengono sia dalle opposizioni sia dall’interno della maggioranza (in particolare dalla Lega), non posso che riconoscere: uditi i critici, era meno peggio il menu confezionato da Tremonti.

Le contro-proposte, o contro-manovre, sono infatti largamente peggiorative. Quanto a quella del Partito democratico, è difficile non condividere il severo giudizio espresso nei giorni scorsi da Tito Boeri, sulle colonne di «Repubblica»: le misure proposte dal Pd sono ancora meno incisive di quelle di Tremonti, e inoltre hanno il grave difetto di spostare il baricentro della manovra ancor più dal lato delle entrate.

Quanto alle contro-proposte del soggetto politico più agguerrito, la Lega, la loro logica è fin troppo chiara. Qui i capisaldi sono tre.

Primo, impedire la distruzione di poltrone riservate ai politici locali: a ciò serve la rinuncia a sopprimere i Comuni sotto i 1000 abitanti, ma soprattutto la sostituzione della misura (semplice e immediatamente attuabile) della riduzione del numero di province, con la misura (complicatissima, e indefinitamente rinviabile) della loro soppressione totale mediante disegno di legge costituzionale.

Secondo, impedire che i tagli alle risorse degli Enti locali costringano gli amministratori a spendere meno. È questo l’obiettivo principale cui sono volte proposte come l’aumento dell’Iva e la «patrimoniale contro gli evasori». Una proposta contro natura, se si pensa che la retorica della Lega è sempre stata: riduciamo gli sprechi, dando meno risorse agli amministratori inefficienti (per lo più concentrati al Sud, ma non solo).

Terzo, lasciare intatto il nostro sistema pensionistico, tuttora ricco di privilegi (a partire da quello delle pensioni di anzianità), pur di non perdere consensi fra i propri elettori: una quota molto elevata dei pensionati è concentrata al Nord.

Questo è il tipo di nobili istanze su cui i politici si azzanneranno in Parlamento nei prossimi giorni e settimane. A nessuna forza politica pare venire in mente che, se l’Italia vuole uscire dalla crisi deve tassativamente tornare a crescere e che, se non cresce, è perché mancano le condizioni strutturali che promuovono l’attività economica: non solo le riforme a costo zero, ma una pressione fiscale sui produttori accettabile, molti meno adempimenti per lavoratori autonomi e imprese, una giustizia civile rapida, una burocrazia meno ubiqua ed opprimente. D’altronde la spudoratezza con cui le forze politiche eludono il problema della crescita ha la sua base nella immaturità dei cittadini-contribuenti. L’unico tema che sembra davvero appassionare i cittadini è chi dovrà pagare di più: il Nord o il Sud, i pensionati o i lavoratori, i dipendenti o gli autonomi, i ricchi o i poveri, gli evasori o gli onesti. Mentre il punto centrale per il futuro di tutti noi è un altro: non tanto se le misure saranno giuste, ma se saranno efficaci. Ed è su questo, solo su questo, che - temo - ci giudicheranno i mercati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9141
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« Risposta #130 inserito:: Settembre 08, 2011, 04:27:12 pm »

8/9/2011

Sprecata l'ultima munizione

LUCA RICOLFI

Di cose da dire sulla manovra ce ne sarebbero tantissime. Ad esempio che nessuno ci ripagherà mai dell’enorme costo, innanzitutto economico, che graverà sulle famiglie italiane per l’incredibile leggerezza dei nostri governanti: il fatto di avere rimandato così a lungo le decisioni, il fatto di avere montato e smontato la manovra per troppe volte, il fatto di avere tagliato così poco la spesa pubblica e incrementato così tanto le tasse, tutti questi fatti costeranno molti miliardi di euro, e saremo noi cittadini - non certo i politici - a pagare il conto.

Per non parlare dello spettacolo di poca serietà dato nella selezione dei provvedimenti da salvare o da far cadere: i provvedimenti di limitazione dei privilegi della politica - abolizione delle Province, dimezzamento dei parlamentari - sono ormai derubricati a promesse per il futuro (e sa il Cielo quanta credibilità abbiano le promesse dei nostri politici!), mentre molti dei provvedimenti cancellati lo sono stati non perché iniqui o inefficaci, ma per la rivolta delle lobby (esercizi commerciali, farmacie, avvocati) o, incredibilmente, perché a un certo punto ci si è accorti che una determinata misura toccava troppi elettori.

È il caso della cancellazione degli anni di università riscattati, che è diventata iniqua solo quando ci si accorti che colpiva molti cittadini, ma è anche il caso del cosiddetto contributo di solidarietà, che era iniquo finché colpiva i «ricchi onesti», ma è improvvisamente diventato equo quando, alzando la soglia a 300 mila euro, si è deciso di punire solo i «ricchissimi onesti».

Ma lasciamo perdere le singole misure, e concentriamoci sull’impianto, sul nucleo fondamentale della manovra. Che cos’è che funziona e che cos’è che non funziona nell’ultimo aggiustamento?

Quel che funziona è che, grazie alle ultime misure - ma in realtà essenzialmente grazie al gettito di un unico provvedimento, quello dell’aumento dell’Iva - si rafforzano le garanzie che il deficit si azzeri nel 2013, un risultato che fino all’altro ieri appariva assai aleatorio, per non dire del tutto improbabile. Speriamo che i mercati apprezzino questo aspetto della manovra, e che gli interessi che il Tesoro deve pagare sui nostri titoli pubblici comincino a scendere naturaliter, ossia senza il misericordioso intervento della Banca Centrale Europea. Altrimenti il complesso delle manovre, manovre-bis, manovre-ter e neo-manovre messe in campo negli ultimi mesi non potrebbe che apparirci come un’immane fatica di Sisifo inflitta al Paese.

Detto questo, però, c’è la parte che non funziona della manovra. E questa parte, temo, peserà molto sul nostro futuro. Per capire che cosa non va, tuttavia, bisogna fare una premessa: i nostri conti pubblici sono a rischio non tanto a causa del deficit (che è uno dei meno preoccupanti d’Europa), quanto a causa del debito, ossia della somma dei deficit accumulati nei decenni, che ci vedono superati in questa triste graduatoria all’incontrario solo dall’inguaiatissima Grecia. E’ lo stramaledetto debito al 120% del Pil ciò per cui i mercati ci guardano in cagnesco, e sono sempre pronti a colpirci con una zampata fatale. Quel che i mercati temono non è che l’anno prossimo lo Stato italiano spenda qualcosina in più di quel che incassa (deficit), ma che non riesca a restituire i prestiti che ha contratto, e continui ancora a lungo ad avere sulla gobba del Pil un debito che è più grande dell’intero reddito prodotto dall’Italia in un anno (è questo che significa avere un rapporto debito/Pil maggiore del 100%).

Ora, il punto è che per far scendere sotto il 120% il rapporto debito/Pil non basta smetterla una buona volta di fare nuovo deficit, cosa in cui la manovra potrebbe anche avere successo, ma occorre che cresca sensibilmente il Pil nominale, ossia il denominatore del rapporto debito/Pil. Ma da che cosa dipende la crescita del Pil nominale?

Essenzialmente da due parametri: la crescita del prodotto in termini reali (il famigerato incremento del Pil) e la crescita dei prezzi, che ha l’effetto di svalutare la massa del debito, che non è indicizzata all’inflazione. E’ da questo punto di vista che la manovra rischia.

Rischia perché, per riconoscimento unanime degli esperti, il suo effetto complessivo è di ridurre il tasso di crescita. Una manovra che aumenta le tasse per tutti, consumatori e produttori, riduce la domanda di beni e attenua lo stimolo a investire ed intraprendere. Un effetto che non è mitigato da una decisa politica di liberalizzazioni (su cui, semmai, le ultime correzioni della manovra hanno fatto significativi passi indietro), e non sparisce certo per il fatto che si colpiscano gli evasori piuttosto che i cittadini onesti: più tasse significa meno spese, e poco importa che a tirare la cinghia sia l’impiegato delle poste o il piccolo commerciante.

Ma la manovra rischia anche per un motivo più specifico. Con la scelta di aumentare l’Iva per tappare i buchi di una manovra i cui saldi sono apparsi fin da subito troppo ballerini, il governo ha sprecato l’ultima munizione di cui disponeva, una munizione che - se le forze sociali fossero state concordi e determinate - avrebbe potuto essere usata per rilanciare la crescita e aggiustare i conti. Usando il gettito dell’aumento dell’Iva per ridurre le aliquote che gravano sui produttori, si sarebbero ottenuti alcuni effetti quasi tutti benefici per la nostra economia. Innanzitutto una maggiore crescita, grazie agli sgravi fiscali su chi produce. In secondo luogo un moderato effetto inflazionistico, con conseguente miglioramento del rapporto debito/ Pil. In terzo luogo un miglioramento della nostra bilancia commerciale, perché l’Iva colpisce i prodotti importati ma non quelli esportati. Il tutto senza gravi effetti redistributivi, non solo perché intervenendo sull’aliquota massima (20%) si colpiscono prevalentemente beni di fascia medio-alta, ma perché maggiore crescita significa più posti di lavoro (se le cose dovessero andare benino), o meno licenziamenti (se le cose dovessero mettersi male).

Ora che l’ultima munizione importante (l’Iva) è stata sprecata, ora che liberalizzazioni e privatizzazioni sono sostanzialmente passate in cavalleria, ora che il governo ha mostrato fino in fondo le sue divisioni ed incertezze, non ci resta che sperare che i mercati e l’Europa si accontentino. In caso contrario potremmo scoprire ben presto che, anche per i governanti, gli esami non finiscono mai. E che per noi cittadinicontribuenti-elettori, a non finire mai sono i sacrifici che una politica irresponsabile continua a pretendere per riparare i propri errori e le proprie omissioni.


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« Risposta #131 inserito:: Settembre 26, 2011, 04:49:24 pm »

26/9/2011

L'inganno dell'evasione fiscale

LUCA RICOLFI

Da un po’ di mesi a questa parte il tema dell’evasione fiscale è tornato alla ribalta. Ma è un ritorno strano. A differenza di un tempo, neanche poi tanto remoto, in cui la lotta all’evasione fiscale era una bandiera della sinistra, mentre la destra mostrava una certa indulgenza, oggi il tema dei miliardi (circa 130) sottratti ogni anno al fisco è diventato uno strumento di agitazione politica universale. Lo usa come sempre l’opposizione di sinistra, ma lo usa anche la Chiesa per impartirci lezioni di moralità, lo usano gli indignati di ogni colore politico, lo usa la destra di governo alla disperata ricerca di soldi per tappare le falle dei conti pubblici.

Accade così che, poco per volta, alle preoccupazioni per i sacrifici che la manovra ci impone, si mescoli e si sovrapponga un malessere sordo, una specie di risentimento, che alimenta un clima vagamente maccartista, di moderna caccia alle streghe. Gli evasori sono visti sempre più come la causa di tutti i nostri mali, la loro individuazione diventa una missione morale, e ci capita persino vedere un governo di destra - che ha sempre strizzato l’occhio all’evasione - accarezzare l’idea di fare gettito mediante la delazione.

Meno male, verrebbe da dire. Era ora, finalmente ci decidiamo a combattere questa piaga. Quando avremo vinto questa battaglia, l’Italia sarà finalmente un Paese civile e prospero.

E invece, su questa visione dei nostri problemi, vorrei insinuare qualche dubbio. Se quello che vogliamo è solo sentirci migliori del nostro vicino, la caccia alle streghe va benissimo. Ma se per caso il nostro sogno fosse anche di rimettere in carreggiata l’Italia, quella medesima caccia andrebbe reimpostata radicalmente. Perché l’evasione è un fenomeno che va innanzitutto spiegato e compreso, prima di combatterlo a testa bassa. Altrimenti la testa rischiamo di rompercela noi, anziché romperla (metaforicamente) agli evasori.

In Italia l’evasione fiscale ha due facce. La prima è quella che fa imbestialire i lavoratori dipendenti in regola: c’è chi potrebbe benissimo pagare le tasse, e non lo fa semplicemente perché vuole guadagnare di più. Questo tipo di evasione, da mancanza di spirito civico, si combatte con due strumenti: più controlli e aliquote ragionevoli. Se la si combatte solo con più controlli, il risultato è prevalentemente un aumento dei prezzi, come sa chiunque abbia a che fare con idraulici e ristoratori. Detto per inciso, è il ragionamento che - implicitamente fanno milioni di cittadini di fronte alla domanda: preferisci pagare 100 senza fattura o 140 con fattura?

C’è poi un secondo tipo di evasione fiscale, di sopravvivenza o di autodifesa. È l’evasione di quanti, se facessero interamente il loro dovere fiscale, andrebbero in perdita o dovrebbero lavorare a condizioni così poco remunerative da rendere preferibile chiudere l’attività. In questo caso quel che serve è innanzitutto una drastica riduzione delle aliquote che gravano sui produttori, altrimenti il risultato della lotta all’evasione è semplicemente la distruzione sistematica di posti di lavoro, un’eventualità che peraltro si sta già verificando: le regioni in cui Equitalia ha ottenuto i maggiori successi, sono le stesse in cui ci sono stati più fallimenti (vedi il dramma recente della Sardegna).

Immagino l’obiezione a questo ragionamento: «It’s the market, stupid!». Detto altrimenti: è un bene che nei periodi di crisi ci siano fallimenti, perché questo significa che il mercato riesce a far uscire le imprese meno efficienti, e a sostituirle con altre più dinamiche e competitive. Ma questa obiezione, che si basa sul concetto schumpeteriano di «distruzione creativa», vale solo se i regimi fiscali sono comparabili e ragionevoli. Oggi in Italia ci sono aziende in crisi che starebbero tranquillamente sul mercato se il nostro Ttr (Totale Tax Rate) fosse quello dei Paesi scandinavi, e simmetricamente ci sono floride aziende scandinave che uscirebbero dal mercato se le aliquote fossero quelle dell’Italia. Il mercato è un buon giudice dell’efficienza solo se le condizioni in cui le imprese operano sono comparabili. E in Italia le condizioni in cui le imprese sono costrette ad operare sono così sfavorevoli per tasse, adempimenti e infrastrutture, che la domanda vera non è «perché le imprese italiane arrancano?», bensì «perché ne sopravvivono ancora così tante?».

Ecco perché l’idea di risolvere i nostri problemi intensificando la lotta all’evasione fiscale andrebbe maneggiata con cura. Quello di far pagare gli evasori non è solo il sogno degli onesti, ma è l’ultima zattera con cui un ceto politico che non sa più che pesci pigliare cerca di salvare sé stesso e sfuggire alle proprie responsabilità. Incapaci di varare le riforme promesse, inadatti a prendere qualsiasi vera decisione, irresoluti a tutto, i nostri politici, di governo e di opposizione, hanno trovato nell’evasore fiscale il capro espiatorio con il quale distrarre l’opinione pubblica.

Ma è un grande inganno. Se la lotta all’evasione viene condotta unicamente per aumentare le entrate è inevitabile che essa produca effetti recessivi: disoccupazione (specie al Sud), aumenti di prezzo, contrazione dei consumi. Non solo, ma nulla assicura che l’obiettivo di far cassa venga raggiunto: quando la pressione fiscale sui produttori è già altissima (e quella italiana lo è: nessun Paese avanzato ha un Ttr più elevato), non è detto che il gettito che si recupera grazie a nuovi balzelli e più controlli superi il gettito che si perde a causa dei fallimenti e dei passaggi all’economia sommersa. Tanto più in un periodo come questo, in cui è già in corso una drammatica riduzione della base produttiva.

Se però ogni euro recuperato dall’evasione fosse destinato - per legge - a rendere meno difficile la vita a lavoratori e imprese, allora otterremmo almeno due risultati, uno economico e uno morale. Il risultato economico è che, poco per volta, i produttori di ricchezza che le tasse le pagano potrebbero finalmente rialzare la testa, consentendo all’Italia di tornare a crescere. Il secondo è che, con aliquote via via più ragionevoli, l’evasione fiscale non solo diverrebbe meno conveniente, ma perderebbe ogni giustificazione morale. Il «mostro» dell’evasione fiscale non ha un solo genitore, ma ne ha due. Ed è solo quando la mancanza di cultura civica (la madre) si sposa ad un fisco oppressivo (il padre) che il ragazzaccio diventa un mostro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9243
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« Risposta #132 inserito:: Ottobre 03, 2011, 06:27:21 pm »

3/10/2011

Non c'è lotta se non vanno giù le aliquote

LUCA RICOLFI

Giusto una settimana fa avevo provato, con un articolo, a sollevare qualche interrogativo sulla crociata anti-evasione in corso in Italia. Oggi è giunto il momento di tornare sull’argomento, rispondendo ai commenti comparsi su questo giornale a firma Stefano Lepri, Alberto Bisin, Alberto Mingardi, Franco Bruni.

Non è facilissimo, perché dopo averli letti e riletti non mi sembra di dissentire con nessuno. A parte Lepri, che non deve aver letto attentamente il mio articolo, visto che mi attribuisce l’idea che l’evasione fiscale non andrebbe repressa con maggior forza (io sostengo esattamente il contrario, aggiungo solo che i proventi dovrebbero essere usati per abbassare le aliquote), tutti paiono condividere il punto principale della mia analisi, e cioè che in Italia la pressione fiscale sulle imprese è eccessiva, e che se si vuole far ripartire la crescita le aliquote sui produttori devono scendere.

Per il resto, vedo solo sfumature dettate da sensibilità politico-culturali. Alberto Mingardi, ad esempio, è preoccupato che l’Italia diventi uno «Stato di polizia tributaria», con un finanziere ad ogni angolo di strada. Tutto all’opposto, Franco Bruni se la sente di difendere lo Stato esattore anche se provoca il fallimento di molte imprese: «Non si deve lasciar intendere che il rispetto degli obblighi fiscali sia negoziabile, nemmeno per chi, se non evadesse, soccomberebbe e sparirebbe dal mercato». Questioni di punti di vista, c’è chi crede nel primato dell’individuo sullo Stato, e chi crede nel primato dello Stato sull’individuo.

Solo Alberto Bisin resta sul terreno a me più congeniale, quello dell’analisi dei fatti e dei meccanismi di funzionamento del sistema economico-sociale. Bisin pare condividere i due punti fondamentali della mia analisi. Primo: le aliquote sui produttori sono troppo alte. Secondo: se non le abbassiamo, la lotta all’evasione fiscale rischia di produrre solo fallimenti (dove c’è concorrenza) e aumenti dei prezzi (dove la concorrenza manca). Però aggiunge un terzo punto molto importante, toccato anche da Lepri e Bruni: l’evasione è spesso associata a inefficienza, cattiva organizzazione, dimensioni troppo piccole.

Sì, questo è un punto importante, che meriterebbe di essere approfondito dati alla mano. È possibile che una parte del problema stia proprio qui, e che sarebbe bene dare una robusta potatura al mondo delle piccole imprese, dei professionisti, degli artigiani, delle partite Iva in genere. E tuttavia anche questo argomento, a mio parere, andrebbe maneggiato con molta attenzione.

Se la pensiamo così (e sono dispostissimo a pensarla così, se qualcuno mi presenta un’analisi empirica convincente) dobbiamo smetterla con le mitologie sul «ruolo della piccola impresa», sul «futuro artigiano» (titolo di un bel libro di Stefano Micelli sulle prospettive dell’artigianato), sulla flessibilità e il dinamismo dei «piccoli», come li chiama un altro libro, di Dario Di Vico. Dobbiamo avere il coraggio di favorire la scomparsa delle piccole unità produttive, puntando sulla nascita di grandi imprese e organizzazioni.

Ma come? E con quali risultati?

Da quel che capisco, qui le strade si dividono, e in qualche modo si torna al punto di partenza della mia analisi. Perché non è affatto chiaro come si dovrebbe fare per favorire un aumento di efficienza dell’apparato produttivo attraverso il taglio dei rami secchi (produttori inefficienti). C’è chi crede che il passaggio essenziale sia reprimere gli evasori. C’è chi crede sia invece di liberalizzare i mercati. E c’è chi, come me e Bisin, crede che la sacrosanta lotta all’evasione fiscale «senza una appropriata riduzione del carico fiscale avrebbe costi enormi sul sistema produttivo del Paese»: va bene far fallire le imprese inefficienti, ma siamo sicuri che - con le tasse che ci sono in Italia - ci saranno nuovi imprenditori pronti a sostituirle?

Quel che vorrei fosse chiaro, comunque, è che il punto non è se l’evasione fiscale sia giustificata oppure no. Questa non è una questione empirica, ma una questione ideologica. Non mi interessa, almeno qui. A me interessa solo che cosa succede inasprendo la caccia agli evasori, e se l’Italia possa permettersi di condurla senza abbassare le aliquote. E quale sia la mia impressione (perché nessuno sa veramente come stanno le cose) riesco a spiegarlo meglio con una specie di apologo.

C’è una gara di velocità. Dieci corridori sono ai blocchi di partenza. Parte la gara, e uno dei dieci corridori arriva ultimo, molto staccato dagli altri. La gara si ripete molte volte, ma quel corridore arriva sempre ultimo. E allora si comincia a discutere del perché. C’è chi dice che ha sbagliato scarpe, le sue sono con i tacchetti di gomma, quelle degli altri hanno i chiodi d’acciaio, che mordono molto di più sul terreno di gara. C’è chi nota che maglietta e calzoncini non sono aerodinamici, non aderiscono abbastanza al corpo. C’è chi osserva che il corridore rimasto indietro è leggermente sovrappeso, ha un paio di chili di troppo. C’è chi rivela che l’allenatore del corridore perdente si accontenta di due soli allenamenti la settimana. Stranamente, però, nessuno nota che il perdente corre con uno zaino sulle spalle, e che nello zaino sono stati messi dieci chilogrammi di zavorra.

Ecco, a me pare questo lo stato del dibattito sulla crescita. Sono convinto anch’io che con scarpette migliori, calzoncini più aderenti, una dieta appropriata, un allenatore esigente, il nostro corridore potrebbe migliorare molto. Ma vorrei mettervi una pulce nell’orecchio: non pensate che, fino a che gli imporrete di correre con quello zaino di dieci chili sulle spalle, non riuscirà mai a vincere una gara?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9273
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« Risposta #133 inserito:: Ottobre 14, 2011, 05:18:00 pm »

14/10/2011

La politica del nulla

LUCA RICOLFI

Ho seguito il discorso di Berlusconi alla Camera dall'inizio alla fine, parola per parola.

Ho persino preso appunti, come uno scolaretto. Mi sono sforzato di ascoltare, capire, indovinare qualcosa di nuovo: un segnale di apertura, un impegno, un cambiamento. La situazione dell’Italia lo richiedeva e lo richiede, le migliori menti e le istituzioni più autorevoli del Paese da tempo lo invocano.

E invece no. Niente. Assolutamente niente. Il vuoto spinto. Nessuno dei luoghi comuni dell’autocelebrazione berlusconiana è stato omesso, non un solo pensiero nuovo è stato enunciato.

Uno spettacolo anche scenograficamente desolante: Bossi, seduto a fianco di Berlusconi, che sbadiglia più volte, con lo sguardo stanco, spento, annoiato di chi pensa a tutt’altro, ed è lì solo perché non può farne a meno.

Chi vuol credere che Berlusconi abbia ancora qualcosa da dire al Paese, che possa rilanciare la «rivoluzione liberale» che i suoi governi hanno tradita, dovrebbe ascoltarlo e guardarlo attentamente, il video di quel discorso.

Così mi ritrovo - io che detesto i discorsi vuoti e prediligo le analisi basate sui dati - a commentare il nulla. Il nulla di un governo che non crede più in sé stesso, il nulla di un’opposizione divisa su tutto, compresa la scelta di disertare l’Aula (i radicali erano presenti, il resto dell’opposizione era assente per protesta). Che si può dire, di fronte al nulla? Forse semplicemente quello che non c’era ma avrebbe potuto esserci. Le nostre ingenue speranze, i nostri più utopistici desideri. Non certo le dimissioni del governo (il mantra di Bersani): le dimissioni sarebbero davvero un atto di responsabilità solo se esistesse fin da ora una alternativa credibile, eventualità da cui siamo purtroppo lontanissimi. Quello che da Berlusconi ci si poteva ragionevolmente attendere erano affermazioni più di sostanza, che preludessero a gesti di certo meno drastici delle dimissioni, ma comunque utili al Paese. Vorrei indicare almeno tre punti di questo discorso mancato, che avrei voluto ascoltare ma non ho ascoltato, tre vie possibili e auspicabili, tre bagliori nel buio, per così dire.

Un primo punto sarebbe stato quello di «fare come Zapatero», ossia dichiarare esplicitamente che non si ricandiderà alle prossime elezioni, e magari che è disposto ad anticiparle di un anno, al 2012 anziché al 2013. Non è implausibile, infatti, quello che alcuni osservatori sostengono, e cioè che se oggi - a differenza di ieri - i mercati giudicano la Spagna meglio dell’Italia (come risulta dall’andamento degli spread) sia anche perché la promessa di Zapatero di farsi anticipatamente da parte è comunque un segnale di apertura, una finestra sul futuro. Il Financial Times di ieri arriva ad ipotizzare che il «Berlusconi premium» stia costando all’Italia qualcosa come 100 punti base, circa 20 miliardi di euro all’anno a regime. Difficile dire se questa valutazione sia fondata, ma è ancor più difficile non vedere quanto Berlusconi sia ormai diventato un fattore di immobilismo e di congelamento per la politica italiana.

Il secondo punto sarebbe stato di assumere almeno un impegno che desse un segnale forte di discontinuità, che mostrasse una reale volontà di cambiare rotta. So bene che su questo terreno circolano idee diverse: liberalizzare del tutto le professioni? abolire il valore legale del titolo di studio? ridurre drasticamente le pensioni di anzianità e le false pensioni di invalidità per estendere gli ammortizzatori sociali? cancellare tutti gli incentivi discrezionali alle imprese per abbattere l’Irap o l’Ires (una vecchia proposta di Montezemolo, a suo tempo uccisa dal governo Prodi)?

Non sta certo a me dire che cosa dovrebbe fare il governo. Ma qualcosa avrebbe dovuto dire di voler fare. Come cittadino non posso non notare che, sul terreno delle azioni da compiere subito per invertire la rotta, non una sola idea nuova è stata enunciata, non un solo impegno solenne e verificabile è stato preso dal presidente del Consiglio.

Una terza possibile via sarebbe stata di chiamare l’opposizione a condividere con il governo la responsabilità di qualche misura impopolare, ma utile per far uscire l’Italia dalle secche in cui è incagliata. Un’eventualità che suona del tutto irrealistica, visto che l’opposizione ieri non era neppure presente in Aula.

Ma proprio il fatto che oggi, in Italia, non sia nemmeno concepibile che governo e opposizione concordino su qualcosa, o cerchino un accordo minimo e temporaneo per il bene comune, dà la misura di quanto le cose siano andate avanti. E forse anche di quanto, viste da questa prospettiva, maggioranza e opposizione si assomiglino. Entrambe sono paralizzate dalle loro divisioni interne, entrambe si preoccupano solo di non dare qualche dispiacere ai propri elettorati di riferimento. Non paiono avvedersi che, per questa via, esse non fanno altro che alimentare lo scetticismo e la disillusione, e alla lunga finiranno per prosciugare le acque in cui oggi ancora nuotano.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9318
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« Risposta #134 inserito:: Novembre 06, 2011, 11:01:43 pm »

6/11/2011

Dodici quesiti al governo che verrà

LUCA RICOLFI

Berlusconi potrebbe lasciare, travolto dal precipitare degli eventi. Questa eventualità appare sempre più verosimile, ma nessuno può - al momento - prevedere quali sarebbero le reazioni dei mercati. Può darsi prevalga il sollievo per la rimozione di un ostacolo alle riforme, come può darsi prevalga il timore per la paralisi decisionale che - inevitabilmente - accompagnerà i rituali di una crisi di governo.

Credo che tutte le persone di buon senso, e innanzitutto i risparmiatori, si augurino che non si installi un sentimento di incertezza e di paura, e prevalga invece il sollievo per l’uscita di scena di un uomo che, comunque si giudichino i suoi meriti e demeriti passati, oggi è manifestamente incapace di tenere ferma la barra del timone della nave Italia. Ma da che cosa dipenderà la reazione dei mercati?

Fondamentalmente, da una cosa soltanto: dall’esistenza di un’alternativa credibile al governo Berlusconi. Per alternativa credibile non intendo, necessariamente, un governo capace di recepire e applicare le ricette dell’Europa, ma - prima ancora - un governo dotato di idee chiare e della fermezza necessaria per attuarle. Esattamente quel che, per ora, non si intravede minimamente.

In attesa che questa condizione prenda forma, c’è almeno un esercizio che si può tentare subito: elencare le cose controverse, su cui sarebbe bene che l’esecutivo che verrà avesse idee chiare e distinte. L’elenco che vi propongo non è in alcun modo esaustivo, ma è fatto di punti critici, o rivelatori: saper prendere posizioni chiare su questi punti significa avere un’idea del futuro dell’Italia, tentennare o girare intorno alle questioni significa non essere pronti ad assumere la guida del Paese.

Uno. Il nuovo esecutivo considera intangibili le pensioni di anzianità, o intende intervenire in modo significativo su di esse? E se sì per quanti miliardi di euro nel prossimo anno?

Due. Il nuovo esecutivo intende attuare un piano di dismissioni del patrimonio pubblico più ampio o più leggero di quello (5 miliardi l’anno) previsto dal governo attuale? Se è favorevole alle dismissioni, intende mettere sul mercato solo immobili o anche aziende a controllo pubblico, come Eni, Enel e Finmeccanica?

Tre. Il nuovo esecutivo è contrario o favorevole al disegno di legge Ichino sul mercato del lavoro?

Quattro. Il nuovo esecutivo è favorevole o contrario all’abolizione del valore legale del titolo di studio?

Cinque. Il nuovo esecutivo intende introdurre un’imposta patrimoniale? Se sì, di che tipo? Una tantum o permanente? Su tutto il patrimonio o solo su una componente, ad esempio gli immobili? Di quale entità? E a partire da quale soglia di reddito?

Sei. Se favorevole all’imposta patrimoniale, come intende usare il ricavato? Riduzione del debito, redistribuzione a favore dei ceti deboli, alleggerimento della pressione fiscale sulle imprese?

Sette. In che modo intende, il nuovo esecutivo, reperire i 20 miliardi di maggiori entrate e/o minori spese previsti dalla delega fiscale-assistenziale?

Otto. Come risultato finale dell’attuazione della delega fiscale-assistenziale, il nuovo esecutivo pensa di essere in grado di alleggerire la pressione fiscale sui produttori, con particolare riguardo alle aliquote Ires e Iva?

Nove. Se sì, in quale misura e attraverso quali risorse? E’ previsto un ulteriore aumento dell’Iva?

Dieci. Il nuovo esecutivo intende sottoscrivere l’impegno del precedente governo ad azzerare il deficit nel 2013?

Undici. A giudizio del nuovo esecutivo i tagli di spesa pubblica previsti dal precedente governo, al di là della composizione, sono eccessivi o insufficienti?

Dodici. Se nel corso del 2012 si rendesse necessaria una manovra aggiuntiva pari a 1 punto di Pil (15 miliardi), in quale proporzione il nuovo esecutivo ricorrerebbe a nuove tasse e in quale proporzione a nuovi tagli di spesa?

Naturalmente ci sarebbero anche altre domande, in parte ancora più aride (condoni, liberalizzazioni, infrastrutture, servizi pubblici locali…), in parte più romantiche (energie rinnovabili, Internet, coppie di fatto, costi della politica…). Ma qui non sto discutendo di programmi elettorali, o di parole d’ordine acchiappa-voti. Non sto parlando del software del sistema sociale, ma del suo hardware. Della capacità di una classe dirigente di salvare il proprio paese da un disastro prima economico, poi sociale, e alla fine esistenziale.

Il successo o il fallimento di una simile impresa non dipenderà da belle parole, «scatti di reni», esortazioni e indignazioni varie, ma da gesti molto concreti, che chi ci governerà nei prossimi mesi potrà essere o non essere in grado di compiere. E’ facile prevedere che da domani, con la riapertura dei mercati, i nostri politici ripeteranno come un mantra che sono «preoccupati per il futuro del Paese», e molti di essi - con aria grave e pensosa - ci assicureranno di essere «pronti ad assumersi le proprie responsabilità». Io mi accontenterei di sentire qualche risposta non evasiva alle dodici domande che ho provato a mettere in fila

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9401
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