“Come uno Stato” di Marina Calculli
Recensione a: Marina Calculli, Come uno Stato. Hizbullah e la mimesi strategica, Vita&Pensiero, Milano, 2018, pp. 168, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Beatrice Gori
Marina Calculli in Come uno Stato delinea gli elementi cruciali che hanno determinato la sopravvivenza di Hizbullah nel corso di quasi quattro decenni. Nel farlo, l’autrice utilizza un approccio assai innovativo capace di unire la prospettiva storica e la disciplina delle Relazioni internazionali alla sua diretta esperienza sul territorio libanese che si manifesta anche attraverso interviste, fotografie e ricerche in archivi locali.
Calculli parla di “resilienza” di Hizbullah. Sebbene non esista nelle Relazioni internazionali una definizione univoca, la resilienza può riferirsi, in generale, all’«abilità degli Stati e delle società di riformarsi, quindi resistere e riprendersi da crisi interne ed esterne3]. Più recentemente, Joseph Daher ha affermato che l’evoluzione di Hizbullah può essere inquadrata come un progetto egemonico il cui fine è la strumentalizzazione e l’islamizzazione delle classi subalterne, senza però alcuna intenzione di migliorarne le condizioni socioeconomiche [4].
Se l’intenzione della jihad e della creazione di uno Stato islamico nel sud del Libano caratterizzano Hizbullah nei primi anni dalla formazione, Calculli spiega come progressivamente l’attore ibrido si distacchi dalla sua natura terroristica e assuma un ruolo istituzionalizzato all’interno del Libano. L’elemento della religione islamica così come quello della lotta per la sovranità territoriale sono certamente elementi fondamentali del Partito di Dio (Hizbullah), ma sono riduttivi perché non permettono la comprensione della natura «reattiva e difensiva» dell’organizzazione. In questa direzione, un contributo importante che Calculli menziona è quello di Rosita Di Peri, la quale si concentra sulla postura anti-sistemica di Hizbullah per spiegare la sua sopravvivenza[5]. Calculli non esclude nella sua analisi la caratteristica anti-sistemica individuata da Di Peri, tuttavia spiega come Hizbullah riesca a muoversi simultaneamente non solo contro il sistema ma anche a favore di esso. Occorre far menzione, infine, del ruolo che la global war on terror lanciata dagli Stati Uniti ha avuto nel rafforzamento della prospettiva semplicistica e riduttiva di Hizbullah come soggetto terroristico islamico. Dopo l’11 Settembre 2001, Hizbullah è stato inserito nella “categoria A” dei gruppi terroristici internazionali individuati dal Dipartimento di Stato Americano, mentre l’autore degli attentati, Al-Qa’ida, è stato inserito nella “categoria B”. Secondo la lista, dunque, Hizbullah è un’organizzazione terroristica con un livello di pericolosità superiore ad Al-Qa’ida[6].
Come uno Stato si struttura intorno a un’introduzione, cinque capitoli e una conclusione. Il primo è un capitolo teorico dove l’autrice esplicita la tesi della mimesi strategica; segue poi nei capitoli successivi l’applicazione della teoria – attraverso la metodologia empirica – a casi-studio che ripercorrono le principali congiunture critiche del rapporto tra Stato libanese e Hizbullah. In particolare, Calculli sceglie di analizzare la genesi di Hizbullah e il post-guerra civile libanese rispettivamente nel secondo e terzo capitolo, per poi giungere, negli ultimi due, all’analisi della trasformazione di Hizb[7] nel corso della global war on terror nella sua prima (2001-11) e seconda fase in seguito allo scoppio guerra civile in Siria del 2011.
Calculli inizia analizzando come nel rapporto conflittuale tra entità statuali e non, il non-Stato si rafforzi attraverso la strategia della mimesi. La rivalità si basa sull’antagonismo tra lo Stato nella sua concezione vestfaliana e l’entità “aliena”, ciò che non è Stato. L’autrice si focalizza sulla condizione del non-Stato che non riesce a farsi Stato e come questo dipenda, in un’ultima istanza, da una contraddizione tutta interna alla comunità internazionale. Quest’ultima legittima, infatti, l’esistenza dello Stato in quanto tale riferendosi ai principi della sovranità del diritto internazionale classico: popolazione permanente, territorio definito, governo, capacità di entrare in relazione con gli altri Stati[8]. D’altra parte, però, la comunità internazionale necessita per la sua stessa esistenza che tale sovranità le sia in parte ceduta dagli Stati, andando dunque a ledere il principio fondante del sistema degli Stati-nazione. Il concetto di sovranità ai sensi della comunità internazionale è dunque contradditorio e crea una gerarchia fra Stati riconosciuti e non, basandosi su criteri, se non arbitrari, quanto meno influenzati politicamente. Dunque, il riconoscimento della sovranità da parte della comunità internazionale è l’impedimento ultimo che i non-State actors incontrano nel processo di statalizzazione. Ecco perché, nel conflitto asimmetrico tra entità statali e non statali, il disquilibrio non risiede tanto nella potenza quanto nella «definizione normativa e giuridica» (p.27). La rivalità è dunque tra «ordine di sovranità esistente e ordine di sovranità sfidante» (p.80).
Calculli cita a tal proposito la Teoria del partigiano di Carl Schmitt, testo che nasce dall’esigenza dell’autore tedesco di rivedere il concetto di “politico” in seguito alla Seconda guerra mondiale. La guerra asimmetrica che farà il suo ingresso negli studi delle Relazioni internazionali del secondo Novecento, emerge infatti con il secondo conflitto mondiale. La guerra tra Stati-nazione basata sul riconoscimento della sovranità reciproca entra in crisi sui campi di battaglia affollati da milizie irregolari – i partigiani appunto – che combattono contro gli Stati. Da quel momento in poi – basti pensare alle guerre post-coloniali – la guerra assume sempre più spesso una natura non convenzionale.
Analizzando le numerose guerre asimmetriche combattute da Hizbullah, Calculli nota che l’entità ibrida dimostra un “desiderio mimetico” nei confronti dello Stato libanese. Per esplicitare meglio il concetto, l’autrice riprende la teoria mimetica di René Girard[9] secondo cui, in un rapporto conflittuale asimmetrico, il soggetto desidera ciò che il rivale desidera, dunque la sovranità sul territorio conteso, ma nel farlo, il rivale diventa esso stesso il desiderio del soggetto, cioè lo Stato. L’autrice rileva un elemento aggiuntivo nella “rivalità mimetica”: il non-Stato si confonde con lo Stato stesso guadagnando consensi in territori dove la sovranità statuale non è riuscita a imporsi. «Il non-Stato mostra allo Stato i suoi fallimenti, le sue mancanze, la profonda ingiustizia su cui ci fonda. In definitiva, è proprio per questo che il non-Stato – il ‘Partigiano’ di Schmitt – ha una funzione così essenzialmente politica ed è proprio per questo che è così difficile, o forse insopportabile, riconoscergliela.» (p.43)
Calculli intende dimostrare come Hizbullah riesca a imporsi come autorità sovrana nel sud del Libano. L’autrice offre una ricostruzione storica della formazione di Hizbullah mettendola in relazione in modo originale con la nascita delle Falangi, le Kata‘ib, il partito dell’ultradestra cristiana libanese. Entrambe le organizzazioni hanno in comune il concetto di resistenza, la muqawama, che ancor prima di concretizzarsi nella lotta armata costituisce il fondamento della “attitudine culturale” con cui nascono, in momenti storici diversi, i due movimenti. La genesi delle Falangi si colloca nel periodo del Mandato francese in Libano come espressione di quel sentimento di precarietà della minoranza cristiana. Le Kata‘ib di Bachir Gemayel assumono come costitutivi della propria organizzazione il concetto di maronismo[10], il Libano deve essere indipendente e cristiano maronita, e quello di fenicianismo, il Libano ha un’origine fenicia e non araba. L’identità falangista si plasma dunque attorno al concetto di resistenza verso il nemico interno prima della creazione dell’ala armata dell’organizzazione, le Forze Libanesi (FL), allo scoppio della guerra civile del 1975.
L’autrice applica la teoria mimetica alla rivalità tra Hizbullah e le Falangi e osserva come, in questo conflitto, il primo imiti le seconde e giunga in ultima istanza a desiderare ciò che le Kata‘ib vogliono, ossia la sovranità. Hizbullah assomiglia alle Falangi più di quanto si possa pensare: così come l’organizzazione di Gemayel nasce sulla fragilità della minoranza cristiana maronita e sulla negazione dell’arabismo, il Partito di Dio nasce nel 1985 sull’abbandono della comunità sciita e sull’opposizione all’idea di un Libano cristiano. Così come le Falangi assumono una natura sovrana e si adducono la prerogativa statale della capacità di relazione con gli Stati durante la guerra civile, stringendo alleanze con Israele e con la coalizione internazionale[11], Hizbullah si assume la responsabilità di proteggere il territorio del sud del Libano, occupato dalle Israel Defence Forces (IDF), e di offrire servizi di welfare alla comunità sciita ivi residente sostituendosi pertanto allo Stato, incapace di provvedere i servizi necessari alla sua popolazione.
Hizbullah, insomma, si rafforza assumendo le “sembianze” di uno Stato ponendosi al di fuori dello stesso Stato libanese. Calculli analizza in modo coerente con la tesi mimetica la fase di transizione tra 1989 e 1992. In questa congiuntura critica, avviene il consolidamento dello status quo di Hizbullah nel sud del Libano attraverso l’istituzionalizzazione della milizia in un partito politico in grado di negoziare con lo Stato libanese. Con la fine della guerra civile, Hizbullah necessita infatti di rendere legittima la sua esistenza basata sulla resistenza, la muqawama. Tuttavia, Hizbullah rifiuta il sistema confessionale che ha caratterizzato il Libano indipendente e che viene riproposto con gli accordi di Ta‘if del 1989, perché lo considera come fonte di oppressione ed esclusione della comunità sciita.
Calculli sottolinea che l’istituzionalizzazione di Hizb è frutto di un “escamotage mimetico”: la distinzione tra ala armata e partito è del tutto fittizia e funzionale alla sopravvivenza all’interno dello Stato confessionale. La triade fondante del Partito di Dio, «l’esercito, il popolo, la resistenza», permane e risulta costitutiva di quella che viene definita la “società della resistenza”, la mujtama al-muqawama.
È necessario osservare che il progetto di instaurare uno Stato Islamico sul territorio dove Hizbullah insiste è protagonista in questa fase. Tale progetto deve però essere analizzato rintracciando elementi di contesto piuttosto che attraverso il filtro del terrorismo islamico internazionale come è stato fatto nella narrativa mediatica diffusa. Il Libano di inizio anni Novanta è un Paese dove confliggono per la sovranità territoriale più idee di “Stato confessionale”: le falangi di Gemayel continuano a sostenere l’idea di uno Stato cristiano e, con l’offensiva israeliana nel sud del Libano, avanza lo Stato ebraico. Hizbullah si inserisce in questa competizione sovrana propugnando la “rivoluzione islamica del Libano” e l’instaurazione di uno Stato Islamico basato sulla protezione di tutti i libanesi dall’occupazione israeliana, dal protettorato siriano e dalla forza internazionale (UNIFIL) in Libano. La natura inclusiva dello Stato Islamico di Hizbullah viene ribadita con forza in seguito agli attacchi terroristici di Al-Qa‘ida del 2001 definiti come «azioni disumane e brutali». «Hizbullah cerca di dissimulare la natura islamica del progetto che propone, agendo in nome di principi moralmente universali, che sono in teoria facilmente ascrivibili ad un’idea generale di “Stato giusto”» (p.111).
Il fil rouge della resistenza con cui l’autrice ci guida lungo l’analisi ci fa osservare una nuova trasformazione del partito del nuovo Segretario generale Hassan Nasrallah di fronte al lancio della global war on terror di G.W. Bush. L’azione mimetica di Hizbullah con lo Stato del Libano si manifesta con maggior vigore in particolare nella congiuntura 2005-2006 per resistere ai “nuovi” rivali occidentali.
Vediamo in questa fase una discrasia tra la narrazione occidentale e quella tutta interna a Hizbullah: se Bush muove l’intervento USA contro l’“asse del male” individuato nella nuova alleanza tra Hizbullah, Hamas, Siria e Iran, il partito di Nasrallah parla di “asse della resistenza” contro l’usurpazione delle potenze internazionali. Calculli ci fa osservare con dovizia di particolari storici come la global war on terror intrapresa in Libano per delegittimare Hizbullah provochi l’effetto opposto: consolida la sua legittimità transnazionale e transconfessionale e consacra l’elemento della “resistenza” come imprescindibile per il rafforzamento della sovranità dello stesso Stato libanese. Hizbullah riesce a fare ciò attraverso la mimesi con l’esercito regolare libanese (LAF): ancora una volta Hizbullah si confonde con lo Stato ed eleva oltre l’interesse dell’organizzazione «i principi di autonomia e autodifesa del territorio libanese» (p.117).
L’ultima sfida di Hizbullah che l’autrice esamina è quella della guerra civile siriana del 2011. Se nelle fasi descritte fino a questo punto Hizbullah riesce a sopravvivere mimetizzandosi con lo Stato e uscendo dalla condizione normativa non riconosciuta di non-Stato, l’intervento in Siria pone un dilemma nuovo, di natura morale. Il supporto che la Siria fornisce alla milizia libanese è politico-strategico e, per questo motivo, Hizbullah non può permettersi di perderlo. Tuttavia, la difesa della sopravvivenza di un dittatore come Bashar al-Assad confligge con la raison d’être di Hizbullah: la resistenza degli oppressi contro gli oppressori. Nasrallah giustifica l’intervento in Siria a fianco di Assad affermando la necessità della guerra preventiva al terrorismo – avvallando dunque l’idea che gli oppositori al regime siano terroristi – e sottolineando l’esigenza di proteggere la pluralità confessionale del Libano dalle ripercussioni che le proteste siriane potrebbero avere. Hizbullah, dunque, muta ancora e adotta la strategia della counterinsurgency ponendosi, non più come forza sovversiva, ma come detentore e difensore dell’ordine di sovranità. Nel corso della guerra civile in Siria, Calculli ci fa osservare come effettivamente le milizie sciite risultino fondamentali nel respingimento del progetto di instaurare un califfato islamico nel Libano e come «si realizzi il trionfo della complementarità (al-takamul) tra lo Stato e il non-Stato» (p.142).
Ultimo punto con cui Calculli conclude è il dilemma totalmente nuovo, e non ancora risolto, che Hizbullah pone alla comunità internazionale in seguito all’adozione della retorica dell’antiterrorismo. Se prima era stato possibile – seppure con contraddizioni – etichettare l’attore ibrido come minaccia terroristica, risulta problematico usare la stessa strategia adesso che Hizbullah si è posto come prima forza difensiva del Libano e come oppositore al fondamentalismo islamico.
[1] La definizione è dell’allora Alto rappresentante dell’Unione Europea per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini che il 7 giugno 2017 si è espressa sul concetto di resilienza introdotto nella European Union Global Strategy del 2016. (Fonte: IAI)
[2] A tal proposito si veda per esempio l’analisi di U. Hartmann, The Evolution of the Hybrid Threat, and Resilience as a Countermeasure, «Research Division», NATO Defense College, Roma, No. 139, settembre 2017.
[3] W. Sharara, Dawlat Hizb Allah: Lubnan mujtami’an Islamiyyan, Dar al-Nahar, Beirut, 1998; M. Kramer, The Calculus of Jihad in Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences, Maggio, 1994, Vol. 47, No. 8 (May, 1994), pp. 20-43.
[4] J. Daher, Hezbollah. The Political Economy of the Party of God, Pluto Press, Londra, 2016.
[5] R. Di Peri, Islamist Actors from an Anti-System Perspective: The Case of Hizbullah, «Politics, Religion & Ideology» 1 (2014). Per una trattazione più generale si veda anche R. di Peri, Il Libano contemporaneo. Storia, politica, società. Nuova edizione, Carocci, Roma, 2017.
[6] La lista è stata creata proprio nel 2011 dall’allora Segretario di Stato americano Richard Armitage per classificare i gruppi terroristici in base alla minaccia che essi rappresentano per la sicurezza degli Stati Uniti.
[7] L’abbreviazione Hizb deriva da Hizb ‘Allah che si traduce in italiano come Partito di Dio.
[8] Art.1, Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati (1933).
[9] R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Parigi, 1972.
[10] I maroniti sono la comunità cristiana originaria del Monte Libano. Essi hanno sempre considerato la loro terra natale unicamente come cristiana. Con il mandato francese in Libano del 1923, la comunità maronita immaginava che lo Stato sarebbe diventato un’enclave cristiana con un orientamento culturale franco-mediterraneo anziché panarabo. Il mandato francese optò invece per un sistema confessionale che considerasse tutte le comunità religiose presenti. Le quote di potere attribuite a ciascuna comunità causarono fin da subito conflitti interni e il concetto di maronismo acquisì sempre più forza. (Cleveland; Bunton, 2016).
[11] Multi-National Force (MFN) composta da USA, Francia, Italia e Regno Unito.
Scritto da Beatrice Gori
Beatrice Gori, nata a Firenze nel 1997. Laureata in Studi Internazionali presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze con una tesi sul potere degli Assad in Siria e l’avvento della guerra civile. Attualmente studentessa alla laurea magistrale in Relazioni Internazionali e Studi Europei presso l’Università di Firenze. Appassionata di storia e geopolitica del Medio Oriente.
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