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Autore Discussione: MONDO. -  (Letto 7817 volte)
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« inserito:: Novembre 07, 2020, 09:22:13 pm »

Atwood: "Donne, resistete. L'età migliore? I 50 anni"

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4 nov 2020, 08:51 (1 giorno fa)
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Continental Breakfast - Il mondo secondo i grandi giornali d’Europa
A cura di Stefania Di Lellis

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Indonesia, con il tè al latte scorre la rabbia
Le chiamano le rivoluzioni del tè a latte. Ne abbiamo parlato anche in questa newsletter: un'onda di proteste che percorre l'Asia e che ora fa tremare l'Indonesia. Ci racconta Raimondo Bultrini: "Quando il 5 ottobre gli indonesiani si sono svegliati con la notizia della nuova legge chiamata Omnibus, milioni di operai e impiegati hanno capito di aver sottovalutato i rischi per la democrazia profetizzati da intellettuali e progressisti, considerati cassandre di sventura nel più popoloso paese islamico al mondo. Dopo lunga e segreta elaborazione, da quel giorno le 900 pagine di norme sul lavoro e sulle risorse naturali hanno cancellato dai vecchi codici decenni di battaglie sindacali e per i diritti civili senza annunci e consultazioni pubbliche. Ma hanno anche legittimato la deforestazione incontrollata in un paese dove sono già bruciate aree verdi primigenee vaste come l’Olanda. La prima reazione di massa dopo lo choc è stata guidata da ben 32 federazioni sindacali ma anche questa settimana, lunedì, sono scesi insieme in strada parecchi cittadini e ambientalisti delusi dall’ex nice guy, il presidente Joko Widodo al suo secondo e ultimo mandato. Detto Jokowi, l’ex uomo d’affari si presentò all’inizio come uomo del popolo e conquistò il cuore di molti illusi. Ma ora che non ha problemi di legittimazione e rielezione è accusato di flirtare con l’esercito, con ex criminali di guerra parenti dell’ex dittatore Suharto e musulmani ortodossi per portare nell’arcipelago i soldi delle multinazionali e sostenere le grandi imprese locali. La nuova legge ha l’intento ufficiale di creare 3 milioni di nuovi posti di lavoro, ma ne taglierà di fatto come una mannaia i costi, eliminando i 'generosi benefici obbligatori' – come li ha definiti l’Economist – che 'scoraggiavano le imprese dalla creazione di impieghi'". "Da qui l’indignazione e la rabbia spontanee. Da Giacarta la protesta accompagnata da massicci scioperi e l’adesione di gruppi islamici liberali si è presto estesa a parecchie altre città dell’arcipelago e in luoghi remoti come Nord Maluku. Agli operai si sono unite subito altre categorie di cittadini e moltissimi studenti, che formano ormai parte di un più vasto movimento giovanile panasiatico per la democrazia altrove noto come Alleanza del tè col latte, che ha in comune ben più delle preferenze sui drink. Dalle strade di Hong Kong e di Taiwan l’hashtag #Milk&Teaalliance, nata come ribellione al regime assolutista di Pechino e alle fake news dei suoi 'lupi' o troll informatici, ha fatto breccia in Thailandia dove gli studenti lottano per la fine di un altro sistema politico autoritario e la riforma della stessa antica monarchia".

Possiamo portare la democrazia nei social media?
Justin Rosenstein ha scritto per il País l'articolo che vi propongo di leggere. Rosenstein è il fondatore di One Project ("iniziativa che promuove la democrazia nelle sfide dell’era di internet") ed è uno dei protagonisti del documentario "The Social Dilemma", nonché tra gli ideatori del pulsante 'like' di Facebook. Quello che argomenta ci dovrebbe preoccupare. Ma oltre a unirsi al coro di quanti denunciano gli effetti nefasti sulla nostra democrazia dei social media (e del modello di business che presuppongono) offre delle soluzioni. "Nel 2008 ho contribuito a creare il pulsante like di Facebook - ricorda - Volevamo incorporare nel nostro social uno strumento che offrisse alle persone un vincolo più umano. Ora, più di 10 anni dopo, abbiamo prove schiaccianti del fatto che i social, privilegiando la dimensione 'mi piace' rispetto alla verità dei contenuti, abbiano generato conseguenze impreviste e catastrofiche". "I social hanno deteriorato i rapporti reali, hanno diminuito la capacità della gente di votare in elezioni giuste e libere e hanno debilitato la fiducia nella democrazia e le prospettive del suo futuro". "I social e i loro algoritmi che suggeriscono contenuti, sono disegnati in modo che si presti loro la massima attenzione. Quanto più catturano la nostra attenzione, tanto più ritorno in pubblicità ricevono, e quindi più soldi guadagnano". "Se le aziende che producono tecnologia continueranno a ricevere incentivi per ricavare utili sempre più alti, creeranno sempre tecnologie destinate a riempire le tasche agli azionisti, a scapito della società". "La soluzione non sta nell’assumere più moderatori o nel mettere più impegno nello smascherare le fake news. Rimedi che non sono altro che cerotti.  Per cambiare le cose bisogna trasformare la struttura di governo societario delle aziende; la soluzione, per salvare la nostra democrazia, è applicare loro principi democratici. Immaginiamo, per esempio, che Facebook debba rendere conto a un consiglio popolare anziché a un CdA. Il consiglio popolare, composto da azionisti di svariati settori, deciderebbe gli obiettivi globali dell’azienda, quali siano i criteri importanti e quando si debba avere un nuovo direttore esecutivo. Anziché definire i buoni risultati in funzione di criteri economici, il consiglio potrebbe chiedere di tenere in maggior conto parametri vòlti a rafforzare le istituzioni democratiche e la vita delle persone".

Atwood: "Donne, resistete. E buoni 50 anni! L'età migliore..."
La scrittrice canadese Margaret Atwood risponde alle domande del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza. Naturalmente una parte dell'intervista non può non toccare le proteste esplose a Varsavia dopo la sentenza che taglia drasticamente il diritto all'aborto in caso di malformazioni del feto. Ma le riflessioni di Atwood spaziano su tanti argomenti: i diritti delle donne ("Siamo un bersaglio facile. Solitamente i regimi autoritari sono creati dai cosiddetti uomini forti. La regola è questa: se le formiche si assumessero l’organizzazione di un picnic, farebbero in modo che rispondesse al meglio alle loro necessità. Nello stesso modo i regimi degli uomini forti stabiliscono le nuove regole del ‘picnic’ perché al meglio soddisfino ai bisogni degli uomini, intendo dire dei maschi. I governi totalitari cercano sempre, in un modo o nell’altro, di controllare le donne"); i diritti dei gay; il Covid; i suoi libri e i suoi progetti. Bella la notazione sulle età della vita: "Penso che l’epoca migliore sia stata intorno ai cinquanta: hai ancora molte energie, ma non devi più dimostrare a nessuno chi sei".


Perché i polacchi meritano un monumento a Berlino
Thomas Schmid porta la storia sulle pagine di Die Welt con una analisi sulle ragioni per cui il Parlamento tedesco ha dato il suo assenso alla costruzione a Belino di un monumento alle vittime polacche del nazismo. "I tedeschi - scrive Schmid - riconoscono le colpe del passato, ma a settantacinque anni dalla fine del regime nazista l’opinione pubblica non è ancora consapevole dei crimini commessi dalla Germania ai danni dei polacchi". "A chi dice qualcosa il nome Heinz Reinefarth?  Era un generale delle Waffen–SS che represse spietatamente la rivolta di Varsavia, soprattutto nel sobborgo di Wola, ordinando l’uccisione di almeno 30.000 civili. A un comandante disse: 'Vede, il grosso problema è che non abbiamo munizioni a sufficienza per ammazzarli tutti'. Reinefarth, un protetto di Heinrich Himmler, fu insignito per questa azione di una delle massime onorificienze militari. Il massacro di cui si rese responsabile non è ancora entrato nella coscienza pubblica in Germania. La distruzione di Varsavia continua ad essere un punto cieco sulla mappa della memoria tedesca". "Solo tardivamente e con riluttanza la CDU, partito di governo, prese le distanze dal responsabile degli eccidi in Polonia, che finì per essere destituito dall’incarico di sindaco, ma venne riammesso alla professione di avvocato che esercitò indisturbato da onorato cittadino di Westerland fino alla morte, nel 1979". "È solo un esempio della scarsa consapevolezza da parte dei tedeschi dei crimini compiuti dai nazisti in Polonia. Senza dubbio Hitler odiava tutti i popoli dell’Est, considerato una terra di conquista, i cui abitanti dovevano essere scacciati o annientati. Ma il suo rapporto con la Polonia era dichiaratamente diverso. Fin dal primo giorno di guerra l’obiettivo fu distruggere la Polonia, sterminarne le élites, e – a differenza che in altri territori occupati – non consentire l’esistenza di alcuna struttura statale o semistatale propria. Con perfidia diabolica il regime nazista esternalizzò la Shoah, il 'lavoro sporco' dello sterminio degli ebrei d’Europa, nella confinante Polonia, impregnando il suolo polacco del genocidio commesso dai tedeschi”. “Milioni di polacchi, ebrei e non, persero la vita nei sei anni di occupazione tedesca".

Ma cosa vuol dire erigere un monumento? "Il monumento è una formula trita, utilizzata in passato in memoria di imperatori, re, principi. Poi di condottieri e generali. Ancora in seguito di cittadini: poeti, pittori, musicisti, scienziati, politici addirittura. Il monumento serviva ad esaltare e a imporre – dall’alto – un modello. Ben presto emerse che democrazia e monumenti sono solo in parte compatibili. Ciò che è oggetto di dibattito democratico mal si adatta all’esibizione e alla glorificazione". "Non significa però che i monumenti siano ormai impossibilitati a svolgere la loro funzione. Lo dimostra il monumento all’Olocausto a Berlino. Ma solo in parte. Il memoriale dedicato ai polacchi dovrà toccare l’animo del pubblico informato e incuriosire quello meno informato. Solo grazie alla forma, e a qualche semplice parola. Nei confronti di altri media avrà un vantaggio inestimabile. Il pregio del silenzio".

Testo alternativo
"In mare il tempo e la vita appartengono solo a noi"
Chiudo la newsletter di oggi in mare, con l"abominevole uomo dei mari". Le Figaro pubblica una lunga chiacchierata con Olivier de Kersauson, navigatore e scrittore francese. Leggetela per una boccata di vento. "L’indice sfiora incerto i tasti del telefono, per paura di risvegliare l’'abominevole uomo dei mari', come lo soprannominano alcuni. 'Non rischiate nulla, sono in piedi da quattro ore. Qui ai Tropici, bisogna alzarsi insieme al sole', ci rassicura Olivier de Kersauson, prima di proporci un tour della casa a distanza, smartphone in mano. Installato sulla terrazza della sua casa di Punaauia, con vista sul suo peschereccio e all’orizzonte la maestosa isola di Moorea, l’'Ammiraglio', con quei suoi occhi azzurri sempre ridenti e la camicia leggera in tinta, è felicissimo. La crisi sanitaria l’ha costretto a interrompere i suoi andirivieni tra la Polinesia e la madrepatria. Una buona notizia per lui, lo si vede chiaramente. 'Nove mesi senza lasciare Tahiti, è il sogno assoluto', scherza prima di aprire, per Le Figaro, il grande libro delle sue avventure in multiscafo". "Ho adorato quel mestiere. È la cosa più goduriosa che ci sia. È un’attività densa di avvenimenti, con vere storie, vere avventure. Ho vissuto quegli anni nella felicità più assoluta". "Come sceglieva i suoi equipaggi? Perché imbarcare un marinaio invece di un altro per un giro del mondo? 'Il feeling serve a questo. Non è una specie di magia riservata agli idioti. L’unica cosa che conta è che un uomo abbia un desiderio reale, il resto si impara. Era più facile insegnare a dei marinai a fare le gare che insegnare a uno che faceva le gare a diventare marinaio. Ho assunto marinai da peschereccio, ragazzi che la vita aveva privato della possibilità di fare le gare e che sono diventati in un attimo marinai da competizione di altissimo livello. Le gare sono una disciplina, ma per conoscere il mare ci vuole tempo. Molti dicono 'Faccio vela da vent’anni', quando in realtà fanno un mese o quindici giorni di vela all’anno. Non ha niente a che vedere con le cose che facevamo noi'". "Le piaceva la pressione del tempo in gara? 'Vivere in un mondo dove non c’è un secondo da perdere è straordinario! Nella vita normale gli altri riescono sempre a farti perdere tempo, facendo decollare gli aerei in ritardo o costringendoti a rimanere bloccato in un ingorgo. Il mondo intero ti fa perdere tempo. In mare, niente di tutto questo. Il tempo e la vita sono nostri. È magnifico. Da capo Horn a casa era una follia, una specie di entusiasmo, di frenesia'". “Non ho mai vissuto un solo giorno di noia in mare. Quelle ore in mare con il cattivo tempo, quelle che si scivola via, i giorni dove tutto riesce bene o le bonacce da cui bisogna uscire. Sotto la luna, quel mondo argentato così sbalorditivo, pieno di stelle, è una cosa straordinaria. La bellezza di essere sul mare è il piacere più totale. Oggi quello che mi resta è una specie di sottofondo sonoro: dei blu, dei verdi, dei neri, dei grigi abbastanza confusi. I momenti in cui sei concentrato su mari difficili o esaltanti. Ho adorato questo mestiere. Non ho mai vissuto niente di più bello”.

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« Ultima modifica: Novembre 24, 2020, 07:42:30 pm da Admin » Registrato

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« Risposta #1 inserito:: Novembre 24, 2020, 07:42:10 pm »

Anthony Giddens: "Alleanza globale con i governi progressisti, Biden indicherà la strada" | Rep

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https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/11/23/news/anthony_giddens_biden_populismi_terza_via_europa-275521097/
 
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 02, 2020, 03:26:48 pm »

"Pechino e Mosca sono potenze sempre più aggressive con la Nato" | Rep

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ggiannig <ggianni41@gmail.com>
09:26 (5 ore fa)
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https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/12/01/news/pechino_e_mosca_sono_potenze_sempre_piu_aggressive_con_la_nato_-276643461/
 
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 03, 2020, 11:24:58 am »

Addio a Giscard, l'europeista modernizzatore

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Arlecchino Euristico
11:16 (6 minuti fa)
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Aveva 94 anni, è morto per complicazioni del Covid nella serata circondato dalla sua famiglia -

https://www.agi.it/estero/news/2020-12-03/addio-giscard-europeista-modernizzatore-10526136/

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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 10, 2020, 11:12:39 am »


L'uomo che fa tremare Erdogan

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Continental Breakfast - La Repubblica
mer 9 dic, 14:49 (20 ore fa)
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                                                                                                9 dicembre 2020

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Il signore che vedete nella foto qui sopra accompagnato dalla moglie si chiama Mansur Yavas ed è il sindaco di Ankara. Le Figaro ci racconta come sia il politico turco che in questo momento fa tremare il presidente Recep Tayyip Erdogan. "È la storia di una città, oltre che la storia di un uomo. Yavas si è ripromesso di dare un nuovo look a questa capitale senza fascino, invasa dal cemento. Via le sculture brutte e datate e le repliche di dinosauri giganti erette dal suo predecessore,  sempre pronto a dimostrare il suo zelo pro-Erdogan. Largo alle piste ciclabili, all'abbellimento dei parchi, alle energie rinnovabili e al lifting express della città sostenuto dalla democrazia partecipativa.

'Questo ponte è costato 45 milioni di lire turche', annuncia uno striscione del municipio teso al di sopra di un nastro d'asfalto tra due colline di grattacieli. Per il visitatore che ha familiarità con questa megalopoli di 5 milioni di abitanti, emersa dal deserto anatolico quando fu proclamata capitale della Repubblica da Atatürk nel 1923, prima di essere raggiunta dalla frenesia immobiliare degli islamo-conservatori dell'AKP, i cambiamenti sono evidenti.

Da quando, nel marzo del 2019, è stato eletto alla guida della città, per venticinque anni dominata dal partito del presidente turco, questo sessantenne dai capelli brizzolati impone il suo marchio con l'ardore di un giovane dissidente. Mentre i suoi rivali dell'AKP si nascondono dietro le loro guardie del corpo, lui lo si incontra da solo, a volte con la moglie senza velo, sul vialetto di un giardino".

"Ricordiamo anche il video, diventato virale su YouTube, in cui denuncia, con nomi e cognomi, le promozioni clientelari ai tempi di Melih Gökçek, l'ex inquilino del municipio. La sequenza di dieci minuti, risalente al luglio scorso, è tratta da una delle riunioni del Consiglio comunale di Ankara, che da quando è entrato in carica sono tutte trasmesse in diretta - una pratica mai vista prima in Turchia!". "Per porre fine agli sprechi, predica la trasparenza: su sua iniziativa, un consiglio cittadino, composto da 500 organizzazioni civili, discute le proposte di progetti urbani. I bandi di gara vengono trasmessi in diretta sulle reti sociali".

"Mansur Yavas è uno stile. Ed è anche una visione. È la visione di un ragazzo di Beypazari, un distretto della provincia di Ankara, figlio di un venditore di giornali morto giovane di cui la madre prese subito il posto, incoraggiandolo ad andare all'università. È stata per lui una fonte di ispirazione importante: appena eletto sindaco di Beypazari nel 1999, dopo aver studiato Giurisprudenza a Istanbul, il giovane avvocato kemalista fa dell'emancipazione delle donne, confinate dietro le quattro mura di casa il suo cavallo di battaglia".

"Tutte queste iniziative di successo potrebbero incoraggiare la nuova stella nascente di Ankara a candidarsi alla presidenza nel 2023. 'I suoi risultati sono innegabili: in poco tempo è riuscito a fare le scelte giuste al momento giusto', analizza il politologo Ilhan Uzgel. Erdogan ha buoni motivi per temerlo. Un recente sondaggio dell'istituto Akam lo mostra leggermente in svantaggio rispetto a Mansur Yavas e al suo omologo di Istanbul, Ekrem Imamoglu, estremamente popolare tra i giovani".

...

L'infinita guerra dei Saharawi. E ora spunta l'Isis?

"Nel Sahara Occidentale c'è un conflitto dimenticato tornato all’improvviso d’attualità. A 29 anni dalla firma del cessate il fuoco, sono riprese le ostilità tra il Marocco e il Fronte Polisario, rappresentante del popolo saharawi che da decenni si batte per un referendum sull’autodeterminazione". Scrive Alessandro Oppes: "Una strada strategica occupata da attivisti saharawi, giù al confine con la Mauritania, e l’intervento armato di Rabat per sgomberarla hanno riacceso la miccia del confronto bellico. In più, con un intervento del tutto inedito in questa contesa, anche l’Isis contribuisce ora a gettare benzina sul fuoco. In un comunicato, accusa il Polisario di mobilitare i suoi imam per difendere 'obiettivi non musulmani'. Taccia i saharawi di 'setta apostata'. Ma allo stesso modo attacca un imam marocchino, amico e consigliere di re Mohammed VI, per aver definito come jihad (guerra santa) la lotta di Rabat per mantenere l’occupazione del Sahara Occidentale".

Leggete l'articolo (che è nella forma didascalica del domanda e risposta) se volete capire le ragioni incrociate dietro il lungo conflitto, che sottende anche motivazioni economiche: "Nel Sahara Occidentale c’è il maggiore giacimento di fosfati al mondo. Inoltre, il tratto di mare sul quale si affaccia è tra i più pescosi del pianeta. Ma non è solo per questo che il Marocco considera imprescindibile imporre la propria sovranità su quel territorio: avere il controllo della sterminata zona desertica che separa il confine sud del Paese dalla frontiera della Mauritania a Guerguerat significa poter gestire i traffici commerciali con il resto dell’Africa. Da qui passano i camion con il pesce pescato dagli spagnoli in Mauritania e, in direzione contraria, capi di bestiame e cavalli venduti dalla Spagna in diversi Paesi africani. Ma anche la cocaina colombiana che dalla Mauritania viene spedita in Europa e l’hascish marocchino distribuito nel continente africano".


Il petrolio di guerra di Baku

E ancora l'economia dietro la guerra. La Tribune de Genève accende i riflettori sulla società petrolifera Socar.

"È una delle società petrolifere più visibili e meglio posizionate in

Svizzera. Nelle sue 200 stazioni di servizio, decorate dal suo logo con i

colori della bandiera azera, Socar vende benzina, cioccolata e

croissant. Dalla sua filiale commerciale di Ginevra, la società

petrolifera di proprietà dello Stato azero vende sui mercati mondiali il

greggio dell’Azerbaijan.Si tratta di attività pacifiche – solo che da più di due di mesi Socar è in guerra. 

Dall’Azerbaijan, la pagina Facebook della società riversa un fiume di propaganda e di messaggi ostili contro l’Armenia al riguardo del territorio conteso del Nagorno Karabakh: 'Basta con il fascismo armeno! Stop all’aggressione armena! Il Karabakh appartiene all’Azerbaijan!'.

Il tutto è integrato da fotografie di militari e carri armati, e corredato dei discorsi bellici dell’autocrate al potere a Baku, il presidente Ilham Aliev. Che una società commerciale si trasformi in modo così radicale in uno strumento bellico è raro, come è raro che un’azienda statale straniera allacci rapporti così stretti con la Svizzera. In territorio elvetico Socar guadagna i tre quarti delle sue entrate, più che nello stesso Azerbaijan".

"Tutto questo denaro finisce nelle casse dello Stato a Baku. Le due filiali appartengono a una società madre controllata interamente dal governo dell’Azerbaijan. Il presidente di Socar e di Socar Trading a Ginevra, Rovnag Adullayev, per altro è un parlamentare. Il suo posto alla testa della società è più che strategico, tenuto conto che lo Stato azero ricava il 57 per cento di tutte le sue entrate dal petrolio, una vera e propria manna che gli ha permesso di investire in un esercito moderno, equipaggiato di droni turchi e missili iraniani.

Dopo 45 giorni di guerra, sono queste le armi che hanno permesso all’Azerbaijan di riportare la vittoria contro gli armeni e di riconquistare buona parte del Nagorno Karabakh e dei territori adiacenti. In che misura Socar contribuisce allo sforzo bellico azero? Circa il sei per cento del budget dell’Azerbaijan arriva direttamente da Socar e dalle sue filiali in Svizzera. Oltre a ciò, il 47 per cento delle entrate dello Stato arriva dal fondo petrolifero pubblico Sofaz".


La lezione di Wong
Avrete certamente letto della condanna degli attivisti Joshua Wong, Agnes Chow e Ivan Lam a Hong Kong. Wong ha collaborato con il domenicale tedesco Welt am Sonntag che gli dedica una riflessione: "Ci sono sentenze che condannano il colpevole per un reato. Così dovrebbe essere in uno Stato di diritto. E ci sono sentenze che hanno poco a che vedere con il reato e il suo autore. Gli attivisti di Hong Kong Agnes Chow, Ivan Lam e Joshua Wong sono stati tutti condannati nella loro patria.  Si tratta di una sentenza politica".

"Il mondo dovrebbe guardare a Hong Kong. Perché quello che accade nella nazione insulare è uno schema che rischia di essere applicato a mezzo mondo. La Cina sempre più potente esce allo scoperto, dissimula sempre meno le azioni dirette contro la separazione dei poteri, la democrazia e la libertà".

"Agnes Chow, Ivan Lam e Joshua Wong meritano la nostra solidarietà, per considerazioni di principio, perché difendono la libertà, la giustizia e il diritto. Ma anche perché stanno conducendo una battaglia con la Cina che potremmo ben presto dover affrontare anche noi".


Patti Smith: "Essere liberi e crescere con il sacrificio"
Stavolta finiamo in musica. E parole. Quelle di Patti Smith, intervistata dal País. E' una lunga conversazione che vi consiglio di leggere, in cui la cantante si racconta a fondo, toccando anche argomenti molto intimi e sofferti della sua vita privata. Narratrice, poeta e cantante underground, dall’alto dei suoi 73 anni si definisce una sopravvissuta. La pandemia le ha confermato che la libertà è una conquista mentale: "Alcune persone vanno alla ricerca di un’identità nell’appartenenza a un gruppo, ma è dentro di te dove la devi cercare. Diventare madre non mi ha fatto sentire oppressa. Capisco però che possa accadere ad altri. Per me il sacrificio è parte della nostra evoluzione di esseri umani. Quando ci si sacrifica, si cresce".

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da - La Repubblica



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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 12, 2020, 08:24:36 pm »

Rep: | Bertolt: Cronache da Berlino

   20:00 (15 minuti fa)      
 
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 da rep@repubblica.it

Rep: Bertolt di Tonia Mastrobuoni


12 dicembre 2020

Una Merkel mai vista

Non c’è mai stata l’ombra di una lacrima, neanche per un momento. Esasperazione, rabbia, paura, sì. Pianto, no. Ma purtroppo alcuni esseri umani non riescono proprio ad immaginare una donna che si alteri, si disperi, si emozioni senza crollare a piangere. Così, lo storico discorso di Angela Merkel al Bundestag di mercoledì scorso, i suoi accorati, emozionati, gesticolanti appelli ai suoi interlocutori più sordi, ai governatori e a quella parte della popolazione che continua a prendere sottogamba la peste del secolo, sono diventati, stupidamente, “le lacrime di Merkel”. Una mostruosa distorsione che non consente di vedere cos’è successo davvero, in quell’aula del Parlamento che ha interrotto spesso la cancelliera per applaudirla.

Ho raccontato il suo intervento qui, ma la cosa importante è che un’altra sonora sveglia a tutti coloro che pensavano di trascorrere un Natale in libertà è arrivata, puntualmente, dai numeri. Che stanno notevolmente peggiorando. Negli ultimi due giorni sono schizzati del 50%, dai 20mila circa delle ultime sei settimane a quasi 30mila. E i morti superano ormai quota 500 ogni 24 ore.
 
Alcuni governatori hanno capito finalmente la gravità della situazione e stanno decidendo autonomamente delle strette. In Baviera, nello Schleswig-Holstein, a Berlino e in altri land è stato già deciso un lockdown più duro. Domani Merkel ha convocato una nuova conferenza dei primi ministri regionali per decidere al livello federale un anticipo delle vacanze scolastiche già da mercoledì prossimo e una nuova serrata di negozi come quella introdotta in primavera.
 
Bild ha anticipato i dettagli, domani si vedrà se l’ennesimo appello, più accorato che mai, che Merkel ha rivolto ai tedeschi nel Bundestag, avrà avuto effetto. Una cosa è certa: la strategia valsa finora del “Wellenbrecher”, del “frangiflutti”, insomma del lockdown leggero deciso a fine ottobre, è stato un disastro.
 

Anastasia, la setta nazi-bio-esoterica
 
Anastasia è una fanciulla di campagna, bionda e ariana, che popola i romanzi di uno scrittore russo dichiaramente antisemita. In Germania sta prendendo piede una setta che si ispira ai suoi principi tra l'esoterico, l'ecologico e il nazista. Soprattutto nelle campagne. Una tendenza che fa paura.
 

Largo alle mogli

I più cinici argomenteranno che è facile farti da parte quando hai 40 miliardi di euro di patrimonio personale e l'estate scorsa con un'astuta mossa finanziaria te ne sei messi in tasca 40 milioni in un colpo solo. E diranno che l'hai fatto per ripulire l'immagine di un'azienda criticata spesso, in passato, per il suo muro di cravatte ai vertici.
 
Ma la decisione di Rubin Ritter, il co-presidente di Zalando, di abbandonare la sua carriera a 38 anni per dedicarsi alla famiglia e per consentire alla moglie, che la fa la giudice, di concentrarsi sul suo lavoro, è comunque una bellissima notizia. Sarebbe bello leggerne tante, così. E sarebbe bello, per noi giornalisti, non doverne più scrivere. Succederà solo quando non sarà più una notizia. Come capita nel caso di milioni di donne che rinunciano alla carriera per i mariti e i compagni. È talmente normale che non ne parla mai nessuno.

 
Un nuovo bazooka per l'Europa

Christine Lagarde non ha deluso certe attese: la Bce ha varato l'ambizioso piano da 500 miliardi di acquisti di titoli che si aggiungeranno ai 1.350 miliardi già decisi nell'ambito del cosiddetto "programma pandemia". E ne ha allungato i tempi di nove mesi. Inoltre Francoforte ha lanciato nuovi programmi di prestiti agevolati alle banche disegnati in modo da essere girati alle aziende, i tltro.
 
Ma nelle nuove stime della Bce si legge che persino nel 2023 l'inflazione non si avvicinerà all'obiettivo del 2%. E in conferenza stampa la presidente è stata debole, sul problema dell'apprezzamento dell'euro.
 
Perché i prezzi e il dollaro debole continueranno a essere un problema per la Bce e perché la discussione tra banchieri centrali, nonostante qualcuno ricominci a spargere notizie su grandi spaccature, sia molto meno accentuata che in altri periodi, ve l'ho raccontato qui.

 
50 anni fa il gesto più umile

Il 7 dicembre del 1970 Willy Brandt è a Varsavia. È la prima volta di un cancelliere tedesco in Polonia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, cominciata proprio con un blitzkrieg, con l'invasione nazista del vicino a Est. Il leader socialdemocratico è andato a firmare un accordo importante, il trattato sulla frontiera dell'Oder-Neisse che chiude una lunga ferita nei rapporti tra Germania e Polonia.
 
Ma nessuno baderà a quella firma. Il mondo intero rimarrà incantato, commosso, da un gesto spontaneo, imprevisto. Davanti al monumento dei caduti nella rivolta del ghetto di Varsavia, Brandt cade in ginocchio. E quella manciata di secondi passano alla storia come uno dei gesti più forti, più coraggiosi del dopoguerra. Brandt chiede perdono per gli orrori commessi dai tedeschi durante il nazismo. Ma, come ricordo in questo thread, non tutti i tedeschi apprezzarono. Anzi.
 
Buona settimana e, come dicono i tedeschi, bleibt gesund!
Tonia
 
t.mastrobuoni@repubblica.it
 
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 15, 2020, 03:48:12 pm »

A Cuba va in scena la protesta degli artisti: “Dateci pane e libertà” | Rep

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ggiannig <ggianni41@gmail.com>
07:48 (7 ore fa)
a me

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/12/14/news/a_cuba_va_in_scena_la_protesta_degli_artisti_dateci_pane_e_liberta_-278386312/
 
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 06, 2021, 09:39:52 pm »

Fukuyama: "Non è detto che perderemo la battaglia con la Cina"

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Arlecchino Euristico
19:47 (1 ora fa)
a me

Lo studioso americano riflette sugli insegnamenti del 2020, la crisi democratica negli Stati Uniti, il vuoto spirituale da cui i sistemi liberali faticano a us…

https://www.repubblica.it/esteri/2021/01/06/news/lena_le_figaro_intervista_a_fukuyama-281140414/

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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 28, 2021, 07:11:20 pm »

Gli italiani venduti alle milizie.
Dal superstite al ruolo dell’Onu, tutti i misteri del sequestro | Rep

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ggiannig <ggianni41@gmail.com>
sab 27 feb, 22:44 (20 ore fa)
a me

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/02/23/news/gli_italiani_venduti_alle_milizie_dal_superstite_al_ruolo_dell_onu_tutti_i_misteri_del_sequestro-288940574/
 
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 24, 2021, 09:48:00 pm »

“Come uno Stato” di Marina Calculli

Recensione a: Marina Calculli, Come uno Stato. Hizbullah e la mimesi strategica, Vita&Pensiero, Milano, 2018, pp. 168, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Beatrice Gori

Marina Calculli in Come uno Stato delinea gli elementi cruciali che hanno determinato la sopravvivenza di Hizbullah nel corso di quasi quattro decenni. Nel farlo, l’autrice utilizza un approccio assai innovativo capace di unire la prospettiva storica e la disciplina delle Relazioni internazionali alla sua diretta esperienza sul territorio libanese che si manifesta anche attraverso interviste, fotografie e ricerche in archivi locali.
Calculli parla di “resilienza” di Hizbullah. Sebbene non esista nelle Relazioni internazionali una definizione univoca, la resilienza può riferirsi, in generale, all’«abilità degli Stati e delle società di riformarsi, quindi resistere e riprendersi da crisi interne ed esterne3]. Più recentemente, Joseph Daher ha affermato che l’evoluzione di Hizbullah può essere inquadrata come un progetto egemonico il cui fine è la strumentalizzazione e l’islamizzazione delle classi subalterne, senza però alcuna intenzione di migliorarne le condizioni socioeconomiche [4].
Se l’intenzione della jihad e della creazione di uno Stato islamico nel sud del Libano caratterizzano Hizbullah nei primi anni dalla formazione, Calculli spiega come progressivamente l’attore ibrido si distacchi dalla sua natura terroristica e assuma un ruolo istituzionalizzato all’interno del Libano. L’elemento della religione islamica così come quello della lotta per la sovranità territoriale sono certamente elementi fondamentali del Partito di Dio (Hizbullah), ma sono riduttivi perché non permettono la comprensione della natura «reattiva e difensiva» dell’organizzazione. In questa direzione, un contributo importante che Calculli menziona è quello di Rosita Di Peri, la quale si concentra sulla postura anti-sistemica di Hizbullah per spiegare la sua sopravvivenza[5]. Calculli non esclude nella sua analisi la caratteristica anti-sistemica individuata da Di Peri, tuttavia spiega come Hizbullah riesca a muoversi simultaneamente non solo contro il sistema ma anche a favore di esso. Occorre far menzione, infine, del ruolo che la global war on terror lanciata dagli Stati Uniti ha avuto nel rafforzamento della prospettiva semplicistica e riduttiva di Hizbullah come soggetto terroristico islamico. Dopo l’11 Settembre 2001, Hizbullah è stato inserito nella “categoria A” dei gruppi terroristici internazionali individuati dal Dipartimento di Stato Americano, mentre l’autore degli attentati, Al-Qa’ida, è stato inserito nella “categoria B”. Secondo la lista, dunque, Hizbullah è un’organizzazione terroristica con un livello di pericolosità superiore ad Al-Qa’ida[6].

Come uno Stato si struttura intorno a un’introduzione, cinque capitoli e una conclusione. Il primo è un capitolo teorico dove l’autrice esplicita la tesi della mimesi strategica; segue poi nei capitoli successivi l’applicazione della teoria – attraverso la metodologia empirica – a casi-studio che ripercorrono le principali congiunture critiche del rapporto tra Stato libanese e Hizbullah. In particolare, Calculli sceglie di analizzare la genesi di Hizbullah e il post-guerra civile libanese rispettivamente nel secondo e terzo capitolo, per poi giungere, negli ultimi due, all’analisi della trasformazione di Hizb[7] nel corso della global war on terror nella sua prima (2001-11) e seconda fase in seguito allo scoppio guerra civile in Siria del 2011.
Calculli inizia analizzando come nel rapporto conflittuale tra entità statuali e non, il non-Stato si rafforzi attraverso la strategia della mimesi. La rivalità si basa sull’antagonismo tra lo Stato nella sua concezione vestfaliana e l’entità “aliena”, ciò che non è Stato. L’autrice si focalizza sulla condizione del non-Stato che non riesce a farsi Stato e come questo dipenda, in un’ultima istanza, da una contraddizione tutta interna alla comunità internazionale. Quest’ultima legittima, infatti, l’esistenza dello Stato in quanto tale riferendosi ai principi della sovranità del diritto internazionale classico: popolazione permanente, territorio definito, governo, capacità di entrare in relazione con gli altri Stati[8]. D’altra parte, però, la comunità internazionale necessita per la sua stessa esistenza che tale sovranità le sia in parte ceduta dagli Stati, andando dunque a ledere il principio fondante del sistema degli Stati-nazione. Il concetto di sovranità ai sensi della comunità internazionale è dunque contradditorio e crea una gerarchia fra Stati riconosciuti e non, basandosi su criteri, se non arbitrari, quanto meno influenzati politicamente. Dunque, il riconoscimento della sovranità da parte della comunità internazionale è l’impedimento ultimo che i non-State actors incontrano nel processo di statalizzazione. Ecco perché, nel conflitto asimmetrico tra entità statali e non statali, il disquilibrio non risiede tanto nella potenza quanto nella «definizione normativa e giuridica» (p.27). La rivalità è dunque tra «ordine di sovranità esistente e ordine di sovranità sfidante» (p.80).
Calculli cita a tal proposito la Teoria del partigiano di Carl Schmitt, testo che nasce dall’esigenza dell’autore tedesco di rivedere il concetto di “politico” in seguito alla Seconda guerra mondiale. La guerra asimmetrica che farà il suo ingresso negli studi delle Relazioni internazionali del secondo Novecento, emerge infatti con il secondo conflitto mondiale. La guerra tra Stati-nazione basata sul riconoscimento della sovranità reciproca entra in crisi sui campi di battaglia affollati da milizie irregolari – i partigiani appunto – che combattono contro gli Stati. Da quel momento in poi – basti pensare alle guerre post-coloniali – la guerra assume sempre più spesso una natura non convenzionale.
Analizzando le numerose guerre asimmetriche combattute da Hizbullah, Calculli nota che l’entità ibrida dimostra un “desiderio mimetico” nei confronti dello Stato libanese. Per esplicitare meglio il concetto, l’autrice riprende la teoria mimetica di René Girard[9] secondo cui, in un rapporto conflittuale asimmetrico, il soggetto desidera ciò che il rivale desidera, dunque la sovranità sul territorio conteso, ma nel farlo, il rivale diventa esso stesso il desiderio del soggetto, cioè lo Stato. L’autrice rileva un elemento aggiuntivo nella “rivalità mimetica”: il non-Stato si confonde con lo Stato stesso guadagnando consensi in territori dove la sovranità statuale non è riuscita a imporsi. «Il non-Stato mostra allo Stato i suoi fallimenti, le sue mancanze, la profonda ingiustizia su cui ci fonda. In definitiva, è proprio per questo che il non-Stato – il ‘Partigiano’ di Schmitt – ha una funzione così essenzialmente politica ed è proprio per questo che è così difficile, o forse insopportabile, riconoscergliela.» (p.43)
Calculli intende dimostrare come Hizbullah riesca a imporsi come autorità sovrana nel sud del Libano. L’autrice offre una ricostruzione storica della formazione di Hizbullah mettendola in relazione in modo originale con la nascita delle Falangi, le Kata‘ib, il partito dell’ultradestra cristiana libanese. Entrambe le organizzazioni hanno in comune il concetto di resistenza, la muqawama, che ancor prima di concretizzarsi nella lotta armata costituisce il fondamento della “attitudine culturale” con cui nascono, in momenti storici diversi, i due movimenti. La genesi delle Falangi si colloca nel periodo del Mandato francese in Libano come espressione di quel sentimento di precarietà della minoranza cristiana. Le Kata‘ib di Bachir Gemayel assumono come costitutivi della propria organizzazione il concetto di maronismo[10], il Libano deve essere indipendente e cristiano maronita, e quello di fenicianismo, il Libano ha un’origine fenicia e non araba. L’identità falangista si plasma dunque attorno al concetto di resistenza verso il nemico interno prima della creazione dell’ala armata dell’organizzazione, le Forze Libanesi (FL), allo scoppio della guerra civile del 1975.
L’autrice applica la teoria mimetica alla rivalità tra Hizbullah e le Falangi e osserva come, in questo conflitto, il primo imiti le seconde e giunga in ultima istanza a desiderare ciò che le Kata‘ib vogliono, ossia la sovranità. Hizbullah assomiglia alle Falangi più di quanto si possa pensare: così come l’organizzazione di Gemayel nasce sulla fragilità della minoranza cristiana maronita e sulla negazione dell’arabismo, il Partito di Dio nasce nel 1985 sull’abbandono della comunità sciita e sull’opposizione all’idea di un Libano cristiano. Così come le Falangi assumono una natura sovrana e si adducono la prerogativa statale della capacità di relazione con gli Stati durante la guerra civile, stringendo alleanze con Israele e con la coalizione internazionale[11], Hizbullah si assume la responsabilità di proteggere il territorio del sud del Libano, occupato dalle Israel Defence Forces (IDF), e di offrire servizi di welfare alla comunità sciita ivi residente sostituendosi pertanto allo Stato, incapace di provvedere i servizi necessari alla sua popolazione.
Hizbullah, insomma, si rafforza assumendo le “sembianze” di uno Stato ponendosi al di fuori dello stesso Stato libanese. Calculli analizza in modo coerente con la tesi mimetica la fase di transizione tra 1989 e 1992. In questa congiuntura critica, avviene il consolidamento dello status quo di Hizbullah nel sud del Libano attraverso l’istituzionalizzazione della milizia in un partito politico in grado di negoziare con lo Stato libanese. Con la fine della guerra civile, Hizbullah necessita infatti di rendere legittima la sua esistenza basata sulla resistenza, la muqawama. Tuttavia, Hizbullah rifiuta il sistema confessionale che ha caratterizzato il Libano indipendente e che viene riproposto con gli accordi di Ta‘if del 1989, perché lo considera come fonte di oppressione ed esclusione della comunità sciita.
Calculli sottolinea che l’istituzionalizzazione di Hizb è frutto di un “escamotage mimetico”: la distinzione tra ala armata e partito è del tutto fittizia e funzionale alla sopravvivenza all’interno dello Stato confessionale. La triade fondante del Partito di Dio, «l’esercito, il popolo, la resistenza», permane e risulta costitutiva di quella che viene definita la “società della resistenza”, la mujtama al-muqawama.
È necessario osservare che il progetto di instaurare uno Stato Islamico sul territorio dove Hizbullah insiste è protagonista in questa fase. Tale progetto deve però essere analizzato rintracciando elementi di contesto piuttosto che attraverso il filtro del terrorismo islamico internazionale come è stato fatto nella narrativa mediatica diffusa. Il Libano di inizio anni Novanta è un Paese dove confliggono per la sovranità territoriale più idee di “Stato confessionale”: le falangi di Gemayel continuano a sostenere l’idea di uno Stato cristiano e, con l’offensiva israeliana nel sud del Libano, avanza lo Stato ebraico. Hizbullah si inserisce in questa competizione sovrana propugnando la “rivoluzione islamica del Libano” e l’instaurazione di uno Stato Islamico basato sulla protezione di tutti i libanesi dall’occupazione israeliana, dal protettorato siriano e dalla forza internazionale (UNIFIL) in Libano. La natura inclusiva dello Stato Islamico di Hizbullah viene ribadita con forza in seguito agli attacchi terroristici di Al-Qa‘ida del 2001 definiti come «azioni disumane e brutali». «Hizbullah cerca di dissimulare la natura islamica del progetto che propone, agendo in nome di principi moralmente universali, che sono in teoria facilmente ascrivibili ad un’idea generale di “Stato giusto”» (p.111).
Il fil rouge della resistenza con cui l’autrice ci guida lungo l’analisi ci fa osservare una nuova trasformazione del partito del nuovo Segretario generale Hassan Nasrallah di fronte al lancio della global war on terror di G.W. Bush. L’azione mimetica di Hizbullah con lo Stato del Libano si manifesta con maggior vigore in particolare nella congiuntura 2005-2006 per resistere ai “nuovi” rivali occidentali.

Vediamo in questa fase una discrasia tra la narrazione occidentale e quella tutta interna a Hizbullah: se Bush muove l’intervento USA contro l’“asse del male” individuato nella nuova alleanza tra Hizbullah, Hamas, Siria e Iran, il partito di Nasrallah parla di “asse della resistenza” contro l’usurpazione delle potenze internazionali. Calculli ci fa osservare con dovizia di particolari storici come la global war on terror intrapresa in Libano per delegittimare Hizbullah provochi l’effetto opposto: consolida la sua legittimità transnazionale e transconfessionale e consacra l’elemento della “resistenza” come imprescindibile per il rafforzamento della sovranità dello stesso Stato libanese. Hizbullah riesce a fare ciò attraverso la mimesi con l’esercito regolare libanese (LAF): ancora una volta Hizbullah si confonde con lo Stato ed eleva oltre l’interesse dell’organizzazione «i principi di autonomia e autodifesa del territorio libanese» (p.117).
L’ultima sfida di Hizbullah che l’autrice esamina è quella della guerra civile siriana del 2011. Se nelle fasi descritte fino a questo punto Hizbullah riesce a sopravvivere mimetizzandosi con lo Stato e uscendo dalla condizione normativa non riconosciuta di non-Stato, l’intervento in Siria pone un dilemma nuovo, di natura morale. Il supporto che la Siria fornisce alla milizia libanese è politico-strategico e, per questo motivo, Hizbullah non può permettersi di perderlo. Tuttavia, la difesa della sopravvivenza di un dittatore come Bashar al-Assad confligge con la raison d’être di Hizbullah: la resistenza degli oppressi contro gli oppressori. Nasrallah giustifica l’intervento in Siria a fianco di Assad affermando la necessità della guerra preventiva al terrorismo – avvallando dunque l’idea che gli oppositori al regime siano terroristi – e sottolineando l’esigenza di proteggere la pluralità confessionale del Libano dalle ripercussioni che le proteste siriane potrebbero avere. Hizbullah, dunque, muta ancora e adotta la strategia della counterinsurgency ponendosi, non più come forza sovversiva, ma come detentore e difensore dell’ordine di sovranità. Nel corso della guerra civile in Siria, Calculli ci fa osservare come effettivamente le milizie sciite risultino fondamentali nel respingimento del progetto di instaurare un califfato islamico nel Libano e come «si realizzi il trionfo della complementarità (al-takamul) tra lo Stato e il non-Stato» (p.142).
Ultimo punto con cui Calculli conclude è il dilemma totalmente nuovo, e non ancora risolto, che Hizbullah pone alla comunità internazionale in seguito all’adozione della retorica dell’antiterrorismo. Se prima era stato possibile – seppure con contraddizioni – etichettare l’attore ibrido come minaccia terroristica, risulta problematico usare la stessa strategia adesso che Hizbullah si è posto come prima forza difensiva del Libano e come oppositore al fondamentalismo islamico.
[1] La definizione è dell’allora Alto rappresentante dell’Unione Europea per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini che il 7 giugno 2017 si è espressa sul concetto di resilienza introdotto nella European Union Global Strategy del 2016. (Fonte: IAI)
[2] A tal proposito si veda per esempio l’analisi di U. Hartmann, The Evolution of the Hybrid Threat, and Resilience as a Countermeasure, «Research Division», NATO Defense College, Roma, No. 139, settembre 2017.
[3] W. Sharara, Dawlat Hizb Allah: Lubnan mujtami’an Islamiyyan, Dar al-Nahar, Beirut, 1998; M. Kramer, The Calculus of Jihad in Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences, Maggio, 1994, Vol. 47, No. 8 (May, 1994), pp. 20-43.
[4] J. Daher, Hezbollah. The Political Economy of the Party of God, Pluto Press, Londra, 2016.
[5] R. Di Peri, Islamist Actors from an Anti-System Perspective: The Case of Hizbullah, «Politics, Religion & Ideology» 1 (2014). Per una trattazione più generale si veda anche R. di Peri, Il Libano contemporaneo. Storia, politica, società. Nuova edizione, Carocci, Roma, 2017.
[6] La lista è stata creata proprio nel 2011 dall’allora Segretario di Stato americano Richard Armitage per classificare i gruppi terroristici in base alla minaccia che essi rappresentano per la sicurezza degli Stati Uniti.

[7] L’abbreviazione Hizb deriva da Hizb ‘Allah che si traduce in italiano come Partito di Dio.
[8] Art.1, Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati (1933).
[9] R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Parigi, 1972.
[10] I maroniti sono la comunità cristiana originaria del Monte Libano. Essi hanno sempre considerato la loro terra natale unicamente come cristiana. Con il mandato francese in Libano del 1923, la comunità maronita immaginava che lo Stato sarebbe diventato un’enclave cristiana con un orientamento culturale franco-mediterraneo anziché panarabo. Il mandato francese optò invece per un sistema confessionale che considerasse tutte le comunità religiose presenti. Le quote di potere attribuite a ciascuna comunità causarono fin da subito conflitti interni e il concetto di maronismo acquisì sempre più forza. (Cleveland; Bunton, 2016).

[11] Multi-National Force (MFN) composta da USA, Francia, Italia e Regno Unito.

Scritto da Beatrice Gori
Beatrice Gori, nata a Firenze nel 1997. Laureata in Studi Internazionali presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze con una tesi sul potere degli Assad in Siria e l’avvento della guerra civile. Attualmente studentessa alla laurea magistrale in Relazioni Internazionali e Studi Europei presso l’Università di Firenze. Appassionata di storia e geopolitica del Medio Oriente.

Da - https://www.pandorarivista.it/articoli/come-uno-stato-di-marina-calculli/
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 10, 2021, 05:04:13 pm »

Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale - Anarcopedia

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ggiannig <ggianni41@gmail.com>
12 mar 2021, 09:20
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https://www.anarcopedia.org/index.php/Esercito_Zapatista_di_Liberazione_Nazionale
 
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 11, 2021, 03:15:49 pm »

Tutte le democrazie occidentali e orientali hanno scheletri negli armadi e indegnità da celare, se subiscono e sopportano, con indolenza, simili indegnità.

Intervenire negli stati esteri per scopi espansionistici, che in ogni caso finiscono in clamorose sconfitte (Cina a parte che invece ci riesce senza clamori) è più facile che difendere i propri concittadini in missione, per la libertà di informazione sulle atrocità subumane.

ciaooo
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 30, 2022, 03:09:58 pm »

Gianni Gavioli ha condiviso un link.
Amministratore
  · 21it4uS mpg9c3n3arzoo amlgle 30oreuc 119:1422d  ·

Oltre al Sistema Sanitario Regionale sgretolato, anche la Gestione dei provvedimenti da prendere nel Governo, a nostra difesa dalla Pandemia hanno risentito e risentono, negativamente, dell'infiltrazione di elementi ProPutin.

Con la messa in atto dello Sfascismo dichiarato, programmato e portato avanti negli ultimi anni, da Movimenti antiStato, AntiEuropei e AntiOccidentali, allo scopo di favorire la disgregazione dell'Italia e allontanarci dall'Europa e dall'Occidente.

Saremmo stati una preda facile per Putin o per la Cina, nelle loro intenzioni.
Per fortuna e per volontà della sana politica del passato, siamo nella NATO.
Siamo ben DIFESI e abbiamo garantita la protezione della nostra Democrazia.
Non corriamo il rischio d'essere invasi da poteri stranieri!

Permane, invece, alto e dovremo risolverlo, al più presto, il rischio che ci proviene dai ProPutin o ProCina con la loro eventuale eversione più o meno violenta, favorita dalle infiltrazioni profonde, nella nostra società, in atto da lungo tempo.

Ovvio che, sempre la Nato, per difendere interessi nostri e dell'occidente, non ci lascerebbe nelle mani degli eversori.
Sarebbe la guerra in casa nostra.

ggiannig


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« Risposta #13 inserito:: Aprile 22, 2022, 12:31:41 pm »


D'essere nel mirino dell'odio Orientale, in Occidente lo sapevamo da tempo e l’abbiamo ignorato.
E adesso siamo diventati un loro Obiettivo, da distruggere!

Ma la strategia non è Russa.
Putin è il boia sanguinario.

La stratega è cinese.

ggiannig
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 03, 2022, 03:06:19 pm »

Macron e Cardini hanno ragione, ... Biden ha l'occhio lungo, vede più in là, l'ha già dimostrato.

Ma Biden deve aggiungere, se Putin usa le atomiche tattiche le usiamo anche noi su Mosca?

I moscoviti e noi, questo dovremmo saperlo, tanto per saperci regolare.

ciaooo
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