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Autore Discussione: MAURIZIO MOLINARI  (Letto 71613 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Aprile 03, 2017, 05:46:13 pm »

A Washington Trump è in trincea

Pubblicato il 02/04/2017 - Ultima modifica il 02/04/2017 alle ore 12:21

MAURIZIO MOLINARI

A oltre due mesi dall'insediamento di Donald Trump nello Studio Ovale, Washington si presenta come una città divisa, specchio dei bruschi cambiamenti in corso in America dall’Election Day. Nei dicasteri più importanti la maggioranza degli incarichi di medio ed alto livello è vacante perché il Presidente dopo aver nominato i ministri esita a completare gli organici, diffondendo una sensazione di incertezza e rappresentando un’idea di governo basata sul legame diretto con il popolo che lo ha eletto, restia agli intermediari. 

L’editoriale del direttore: a Washington Trump è in trincea

Il risultato è uno scontro quotidiano, lampante, fra il Presidente e ciò che resta dell’establishment della capitale: con funzionari spaesati da una logica che non comprendono, giudici che contestano la legittimità dei provvedimenti adottati – a cominciare dai migranti – e i media protagonisti di uno scontro aspro che evoca il precedente di Richard Nixon, facendo lievitare copie vendute e ricavi. 
 
Il tutto nel segno di un immanente «Russiagate» che vede l’Fbi indagare sullo staff del Presidente per verificare i sospetti di contatti illeciti con il Cremlino che, se confermati, porterebbero la democrazia americana a navigare in acque inesplorate. Senza contare che il Dipartimento di Stato è guidato da Rex Tillerson circondato da «vice ad interim» in quanto le nomine anche qui tardano e feluche di lungo corso come Victoria Nuland e Dan Freed hanno optato per il pensionamento anticipato. 
 
Ecco perché a prima vista Trump appare come un Presidente isolato, se non assediato, in una Casa Bianca che ha subito il primo smacco da parte del suo stesso partito - i repubblicani - sul terreno che più avrebbe dovuto unirli, l’azzeramento della riforma sanitaria di Barack H. Obama.
 
Ma visto dall’interno del 1600 di Pennsylvania Avenue lo scenario è assai diverso. I più stretti collaboratori di Trump addebitano la sconfitta sulla Sanità alle pressioni di Paul Ryan, presidente della Camera dei Rappresentanti, e di Reince Priebus, capo di gabinetto, per voler andare al voto in fretta con un testo troppo moderato che avrebbe in parte salvato l’Obamacare. Trump la vive dunque come una sconfitta frutto del cedimento all’establishment repubblicano, che lo ha convinto a smussare lo slancio anti-sistema, condannandolo all’umiliazione per mano dell’ala destra del partito. Da qui la volontà, d’ora in avanti, di essere più innovatori, rivoluzionari, a cominciare dai prossimi appuntamenti con il Congresso: taglio delle tasse, piano nazionale per le infrastrutture e soprattutto giudici alla Corte Suprema.
 
Lo scontro fra la volontà di Trump di imprimere cambiamenti radicali e la difficoltà nell’ottenerli è quotidiano. Si respira al Dipartimento di Stato come al dicastero del Commercio. Sul terreno della politica estera il Presidente ha esitato a confermare la presenza al summit della Nato, suggerendo l’invio di Pence al suo posto e generando onde di incertezza sui due lati dell’Atlantico fino a quando il consigliere per la sicurezza nazionale, H.R. McMaster, lo ha convinto dell’utilità di sedersi con gli alleati per scongiurare sconquassi e spingerli ad impegnarsi di più nelle spese militari «tornando all’equilibrio 50-50 della Guerra Fredda mentre ora noi ne sosteniamo il 70 per cento e loro appena il 30». Sono tali contrasti a spiegare perché Trump ricorre a Twitter per comunicare con il movimento che lo ha eletto e con il quale vuole restare in contatto scavalcando un sistema dell’informazione che considera visceralmente ostile.
 
Ma i veterani di Washington, conservatori e liberal, invitano alla prudenza quando i visitatori stranieri - europei in testa - si affrettano a dedurre che tutto ciò potrebbe portare ad una fine anticipata dell’amministrazione Trump, a causa di un eventuale impeachment o addirittura della decisione di dimettersi d’istinto, lasciando lo Studio Ovale al vice Pence. «Non bisogna sopravvalutare Trump ma neanche sottovalutare il governo che ha messo assieme» spiega Joseph Nye, politologo dell’ateneo di Harvard, osservando che «sebbene Trump, eletto con una minoranza del voto popolare, abbia scelto di non governare al centro come in queste situazioni in genere avviene» la realtà è «che si è circondato di ministri di indubbio valore come Mattis al Pentagono, Kelly alla Sicurezza Interna, Mnuchin al Tesoro, Ross al Commercio e Tillerson al Dipartimento di Stato» assicurando «guida ferma all’amministrazione» e «continuità con il passato». Insomma, Trump è un leader di rottura nel rapporto con gli elettori ma assai pragmatico nella composizione del governo. E Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve scelto da George W. Bush, aggiunge: «E’ bene tener presente che Trump è stato eletto a causa del disagio della classe media per l’impatto della globalizzazione» testimoniato da eventi drammatici come «il picco di mortalità fra i bianchi senza titolo di studio» negli stessi Stati industriali e rurali dove ha battuto Hillary Clinton. A ben vedere il rispetto per la genesi della rivolta della tribù bianca che ha eletto Trump si respira un po’ ovunque a Washington: fra i repubblicani che lavorano ad un taglio delle tasse «non solo a favore dei ricchi come fecero Reagan e George W. Bush», fra i conservatori come Robert Kagan che spiegano l’approccio di Trump alla politica estera con il fatto che «la Russia non è avversaria del ceto medio mentre la Cina sì» a causa della competizione commerciale, ed anche fra i democratici del dopo-Hillary impegnati alla ricerca di un nuovo leader capace di guidarli in fretta a riconquistare gli elettori bianchi perduti. A fotografare tale urgenza è Stan Greenberg, il pollster preferito dei Clinton, autore di una ricerca dai risultati spietati: la maggioranza degli elettori di Obama del 2008 e 2012 che nel novembre 2016 hanno scelto Trump «non sono affatto pentiti» a conferma che la rabbia del ceto medio impoverito è ancora lì fuori, nello sterminato entroterra dove i liberal hanno perduto il polso della nazione. Un veterano della campagna di Obama lo spiega così: «Siamo andati troppo avanti, c’è un’America per la quale i bagni nelle scuole per i bambini transgender sono davvero troppo». Ecco perché il senatore dell’Arkansas Tom Cotton, classe 1977, è una delle voci più ascoltate. Non è un grande oratore, sui contenuti bada al sodo e non ama gli aggettivi. E’ stato fra i pochi a sostenere Trump sin dalle primarie, spiega il pensiero del Presidente in maniera cristallina e ne interpreta fedelmente lo spirito di rottura: il suo credo è «la classe media», difende il muro con il Messico «necessario contro i clandestini», parla del protezionismo come «arma di riserva per farci rispettare nel commercio globale» e vede all’orizzonte «possibili accordi di libero scambio fra i Cinque Occhi». Il riferimento è ai «Five Eyes» - Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti - che già costituiscono l’anglosfera dell’intelligence e potrebbero trasformarsi nell’ossatura di un nuovo mercato planetario, sfruttando a proprio favore l’impatto della Brexit. A raffigurare i nuovi equilibri di potere nella Washington di Trump è il rispetto con cui John Negroponte, già direttore nazionale dell’intelligence con George W. ed ex protagonista della Guerra Fredda, si rivolge in pubblico proprio a Cotton con cui non ha nulla in comune. Una veterana del «Grand Old Party» al Senato lo spiega così: «Cotton ha ambizioni presidenziali» e rappresenta il nuovo potere. Sono i fedelissimi di Trump ad avere il vento a favore. Altri due volti di questo firmamento politico ancora tutto da costruire sono il segretario al Tesoro Steven Mnuchin, ex banchiere di Goldman Sachs, che ha la missione di portare la crescita del pil ad almeno il 3 per cento entro il 2020, e Nikki Haley, l’ambasciatrice Onu di origine indiana che viene dalla South Carolina ed incarna un modello di donna in politica opposto a Hillary: sfoggia femminilità, affronta con grinta i nemici dell’America, difende senza esitazione gli alleati - a cominciare da Israele - e crede che il suo ruolo al Palazzo di Vetro sia «parlare con chiarezza» e «never back down», mai indietreggiare. Sul Medio Oriente d’altra parte Trump sta accelerando: l’aumento della pressione militare contro Isis e i moniti a Teheran coincidono con l’arrivo nello Studio Ovale del presidente egiziano Al-Sisi dopo il principe saudita Mohammed bin Salman e prima del re giordano Abdullah segnando una netta inversione di rotta a favore del fronte sunnita a cui Obama aveva voltato le spalle. Ecco perché Washington si riflette nella descrizione di Paula Dobriansky, ex vice segretario di Stato con George W. Bush scartata da Donald, quando riassume: «Viviamo una stagione di grandi cambiamenti politici» perché dalle urne è uscita vincitrice una coalizione «che nessuno pensava esistesse». Con cui tutti, in un modo o nell’altro, dovranno fare i conti. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/02/cultura/opinioni/editoriali/a-washington-trump-in-trincea-mbon4gII8Zl7HrUTImlQsL/pagina.html
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« Risposta #121 inserito:: Maggio 02, 2017, 11:59:13 am »

La sfida dei clan agli Stati

Pubblicato il 23/04/2017 - Ultima modifica il 23/04/2017 alle ore 07:51

MAURIZIO MOLINARI

Le indagini della Procura di Catania su possibili legami fra i network criminali ed alcune organizzazioni non governative (ong) aggiungono un tassello di valore strategico allo scontro in atto fra clan e Stati sovrani per il controllo delle acque nel Mediterraneo.
 
Accertare l’eventualità che i clan adoperino un numero limitato di ong come una sorta di «Cavalli di Troia» per penetrare le rotte è nell’interesse del nostro Paese e rientra nella definizione di una nuova dottrina di sicurezza capace di fronteggiare i pericoli generati dalla decomposizione degli Stati arabo-musulmani. Il nemico da cui dobbiamo proteggerci sono i network criminali che gestiscono il traffico di esseri umani, alleandosi con clan, tribù e milizie di ogni genere. Si tratta di un avversario spietato, dotato di ingenti risorse finanziarie ed umane, capace di gestire complesse operazioni logistiche, abile nel far fruttare le rotte per i disperati attraverso il Sahara ed ora intento a costruirsi una sorta di ponte sul Mediterraneo per facilitare il loro arrivo sulle nostre coste, ovvero in Europa.
 
I finanziamenti ad alcune ong al centro delle indagini sarebbero finalizzati a far salvare - consapevolmente o meno - dalle loro unità i profughi in arrivo sui barconi salpati dalle coste libiche. Con questo espediente il crimine organizzato punta ad assicurarsi il controllo dell’ultimo miglio di percorso verso il territorio europeo. Se un trafficante, salpando dalla Libia con un barcone di migranti, telefona ad una ong facendo sapere in che direzione navigherà si può assicurare che vadano a prendere il suo carico in mezzo al mare. È un metodo, cinico e spregiudicato, per sfruttare a proprio vantaggio la legge del mare sull’obbligo umanitario al salvataggio di chi si trova in pericolo di vita. Tutto ciò svela l’esistenza di un disegno dei clan che ha tre aspetti convergenti. Primo: conferma la loro capacità di sfruttare a proprio favore le vulnerabilità dei sistemi democratici. Secondo: si propone di moltiplicare gli arrivi di migranti nel nostro Paese in tempi rapidi. Terzo: è destinato a generare flussi imponenti di proventi illeciti destinati ad alimentare ogni sorta di attività criminali, jihadismo incluso, che minacciano più nazioni. Davanti a tale scenario l’interesse italiano è tutelare i propri cittadini, accogliere i migranti e combattere i criminali privandoli anche dell’accesso alle ong. Ciò significa far coesistere i valori dell’accoglienza e della solidarietà, fondamento dell’integrazione dei rifugiati, con il più rigido rispetto della legge contro pirati e trafficanti. In ultima analisi il braccio di ferro in atto fra il nostro Paese e i trafficanti di uomini è un tassello del più ampio scontro sui nuovi equilibri di forze nel Mediterraneo, dove la contesa è fra Stati nazionali e gruppi criminali. Questi ultimi, che già controllano ampi spazi di territorio nel NordAfrica, puntano ad estendere il loro potere su alcune rotte marittime per avere dei corridoi di penetrazione verso l’Europa continentale «bucando» le difese nazionali. Se dovessero riuscire nell’intento verrebbe indebolita la sovranità dei Paesi Ue - a cominciare dall’Italia - negli spazi marittimi centrando un obiettivo che i pirati del Maghreb perseguono dalla fine del Settecento, quando scorribande, sequestri e violenze diventarono di entità tale da spingere, nel 1801, il presidente americano Thomas Jefferson ad allearsi con la Svezia ed il Regno delle Due Sicilie facendo sbarcare i Marines sulle spiagge di Tripoli per garantire la sicurezza delle rotte dai pirati libici, algerini e tunisini. Allora come oggi, la posta in gioco è la stabilità del Mediterraneo che i clan vogliono sconvolgere e gli Stati tentano di proteggere.

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DA - http://www.lastampa.it/2017/04/23/cultura/opinioni/editoriali/la-sfida-dei-clan-agli-stati-T1YMMzUu37QLfE8qSsPQIK/pagina.html
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« Risposta #122 inserito:: Maggio 29, 2017, 09:09:40 pm »


Sull'Occidente il ciclone Donald Trump

Pubblicato il 28/05/2017 - Ultima modifica il 28/05/2017 alle ore 07:49

Maurizio Molinari

Donald Trump si è abbattuto come un ciclone sul G7 dopo aver vestito i panni della diplomazia in Medio Oriente. Il suo primo viaggio all’estero da presidente ha messo in evidenza i diversi binari della nuova proiezione dell’America nel mondo: muscoli e grinta con i partner d’Occidente per correggere la globalizzazione; alleanze e investimenti per risolvere le crisi regionali in Medio Oriente e sconfiggere i terroristi islamici.

La differenza di approccio riflette la genesi del movimento elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca: per le famiglie del ceto medio bianco del Mid-West e degli Appalachi, flagellati dalle diseguaglianze, la priorità è solo e soprattutto un sistema economico «più giusto» ovvero radicalmente diverso dall’architettura degli accordi globali creata dalla fine della Guerra Fredda dai presidenti Clinton, Bush e Obama. 

Ed è con questo obiettivo in mente che Trump è arrivato in Europa, ottenendo i quattro risultati di cui si è vantato parlando ai militari americani nella base di Sigonella. Primo: nella tappa di Bruxelles ha strappato agli alleati Nato l’impegno a iniziare a versare gli oneri economici a lungo disattesi. Secondo: a Taormina ha fatto inserire nella dichiarazione finale il concetto di «fair trade» (correttezza negli scambi), basato sulla reciprocità su dazi e tariffe, scegliendo come avversario pubblico la Germania di Angela Merkel partner privilegiato della Cina di Xi Jinping. Terzo: al G7 ha fatto accettare un approccio ai migranti basato sul «diritto degli Stati di controllare i confini» ovvero affiancando diritto umanitario e costruzione di muri. Quarto: sulla difesa del clima dall’inquinamento si è spinto fino a rompere l’unanimità del summit, definendo tale scelta «un successo per gli americani» in vista della decisione sull’adesione o meno al Trattato di Parigi. 

Brusco nei modi, poco rispettoso del cerimoniale ed esplicito nell’esprimere dissensi marcati sui contenuti, Trump ha riversato sul tavolo del G7 la carica dirompente della rivolta della tribù bianca che lo ha eletto lo scorso novembre. Ecco perché il leader europeo politicamente più giovane, il francese Emmanuel Macron, si è rivelato il più attento alle istanze americane: anche lui è arrivato all’Eliseo spinto dalla protesta contro le diseguaglianze ed i partiti tradizionali, rendendosi conto della necessità di un cambio di approccio alla distribuzione della ricchezza globale. Ha ragione dunque il premier Paolo Gentiloni, mediatore infaticabile del G7 più difficile, quando parla di un summit specchio di un «mondo libero» dove l’«ebbrezza della globalizzazione è alle nostre spalle». La sfida che inizia ora è dunque il riassetto del sistema economico delle democrazie avanzate. I disaccordi di Taormina hanno il pregio di aver descritto senza paludamenti la cornice entro la quale si dovranno trovare nuovi accordi ed equilibri. E’ un confronto che inizia con Trump e Merkel alla guida degli opposti schieramenti, affiancati da Macron nel possibile ruolo di mediatore, ma ogni Paese dell’Occidente - appartenente o meno al G7 - può essere decisivo nella partita per la definizione di un nuovo modello economico-sociale capace di vincere le sfide del XXI secolo, riconsegnando prosperità e speranze al ceto medio indebolito.

Rispetto alla necessità di correggere la globalizzazione, l’agenda delle crisi in Medio Oriente è assai più tradizionale: include terroristi da sconfiggere, conflitti da mediare e paci da siglare. Da qui la scelta di Trump di affrontarla rispolverando l’approccio dell’establishment conservatore dei tempi di George Bush padre, basato su armi, energia e consolidamento delle alleanze per piegare gli avversari regionali più temibili del momento: gruppi jihadisti e Iran.

Protagonista di aperti dissensi nel G7 come di negoziati segreti in Medio Oriente, Trump torna adesso a Washington per affrontare la sfida per lui più insidiosa: l’accelerazione delle indagini sul Russiagate, da parte del Congresso come del super procuratore Robert Mueller, che puntano al cuore della sua amministrazione.

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« Risposta #123 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:34:18 pm »

La sfida cyber della Russia all'Occidente

Pubblicato il 06/08/2017 - Ultima modifica il 06/08/2017 alle ore 06:54

Maurizio Molinari

«Bisogna portare lo scontro cyber alle porte della Russia»: l’ex comandante supremo delle forze Nato in Europa, Philip Breedlove, sceglie un linguaggio esplicito per chiedere agli alleati di rispondere alla sfida della guerra digitale di Mosca. E ciò avviene in coincidenza con una serie di briefing sulla sicurezza, da Bruxelles a Washington, che contribuiscono a comprendere meglio l’entità dei timori occidentali. 

Le analisi condotte dalle task force cyber presenti in più Paesi Nato convergono nell’attribuire ad «attori russi», più o meno espressione diretta del Cremlino, almeno nove diverse tipologie di attacchi cibernetici - dai «malaware» mascherati da antivirus al «doxing» per diffondere quanto catturato dagli hacker fino ai sofisticati «botnet» che si infiltrano nei sistemi come dei cavalli di Troia, per carpirne ogni informazione e trasmetterla al «master» - frutto di una dottrina strategica che Mosca ha elaborato con una sensibile accelerazione negli ultimi anni, destinando crescenti risorse alla sua realizzazione, con risultati sempre più visibili ed aggressivi.

Descrivere il contenuto di questi briefing occidentali significa addentrarsi nelle preoccupazioni Nato per quanto sta maturando in Russia, descritta come «una nazione con il Pil inferiore all’Italia», ma «molto determinata nel tentativo di portare scompiglio in Occidente» con una «pericolosità crescente per le nostre infrastrutture strategiche». Il momento di inizio della «dottrina russa di guerra ibrida» viene identificato nel 1996 con l’operazione «Moonlight Maze». 
L’iniziativa consente di svaligiare il computer Usa soprannominato «Baby Doe» in Colorado impossessandosi di una mole di documenti di Nasa e Pentagono sufficienti a formare una torre alta quanto l’obelisco del Washington Monument. 

Nel 2007 avviene l’assalto cibernetico all’Estonia, nel bel mezzo della crisi innescata sullo spostamento del monumento al Soldato Russo, che l’allora ministro della Difesa di Tallinn Jaak Aaviksoo descrive come «la prima volta in cui un botnet ha minacciato la sicurezza nazionale di un’intera nazione». Nel 2008 segue l’analogo attacco ai 54 siti del governo della Georgia, in coincidenza con l’intervento militare russo contro Tbilisi, e dal 2014 iniziano i blitz cyber sempre più a Ovest: Ucraina, Ungheria, Lussemburgo, Belgio fino alle sedi Nato e Osce. Cogliendo i successi più evidente nel 2015 quando in Ucraina, in coincidenza con la crisi innescata dall’occupazione della Crimea, vengono centrate tre centrali elettriche nel primo esempio di blitz contro infrastrutture civili, mentre negli Stati Uniti il Pentagono ammette la violazione di informazioni sensibili della Casa Bianca, inclusa l’agenda privata del presidente Barack Obama. 

E’ questo il momento in cui le difese cybernetiche alleate riescono ad identificare con ragionevole certezza le impronte digitali di due team di aggressori, quasi in competizione fra loro, denominati «Fancy Bear» e «Cozy Bear» ed attribuiti a diversi servizi di intelligence russi. Hanno missioni distinte: «Fancy Bear» si distingue nelle campagne in Georgia, Ucraina e anti-Nato mentre «Cozy Bear» si concentra su Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Pentagono. Nella campagna presidenziale Usa del 2016 è «Fancy Bear» a penetrare i computer del partito democratico mettendo a segno formidabili colpi contro Hillary Clinton che sollevano il sospetto di aver voluto favorire il rivale Donald Trump. L’attacco alle email di Emmanuel Macron alla vigilia delle recenti elezioni francesi rafforza nella Nato la convinzione che la «guerra ibrida» di Mosca sia in pieno svolgimento. Tanto più che l’ex ministro della Difesa polacco Radoslaw Sikorski afferma, senza remore, che «è ben noto da quale specifico palazzo di San Pietroburgo operano gli hacker di Mosca». Un recente documento dell’intelligence danese parla di «potenziali rischi di cyberattacchi russi» e il ministro della Difesa di Copenhagen Claus Hjort Frederiksen considera «impianti elettrici e centri medici nazionali sotto costante minaccia» a seguito delle tensioni nel Mar Baltico con il Cremlino sui progetti di difesa missilistica integrata della Nato.

All’origine della «guerra ibrida» del Cremlino - altrimenti definita «Seconda Guerra Fredda» - vi è la dottrina di Yuri Andropov, l’ex Segretario generale del Pcus proveniente dal Kgb, sull’«infiltrazione in Occidente» per «minarlo dal di dentro». A declinarla nel XXI secolo sono gli scritti del generale Valery Gerasimov, capo dello stato maggiore russo, che nel 2013 firma l’articolo intitolato: «Il valore della scienza è nel fare previsioni» nel quale si legge: «Le guerre non vengono più dichiarate e, una volta iniziate, procedono in maniera insolita» fino al punto che «Stati perfettamente funzionanti possono in pochi mesi e perfino giorni, precipitare nel caos» e ciò dimostra che «lo spazio delle operazioni di informazione offre possibilità asimmetriche per combattere nemici potenziali». Gerasimov parla di «azioni indirette» e non adopera il termine «cyber» preferendogli «operazioni di informazione», imitato da strateghi connazionali come il colonnello della riserva Sergei Chenikov e il generale della riserva Sergei Bogdanov secondo i quali tale dottrina può essere adoperata per indebolire governi, organizzare proteste, ingannare gli avversari, influenzare l’opinione pubblica e ridurre la volontà di resistere dei nemici. Ovvero, per combattere tanto all’esterno che all’interno.

In tale quadro non c’è da sorprendersi se il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, dedica tempo e risorse a rafforzare le difese: sostiene che un eventuale attacco cibernetico contro uno dei 29 alleati deve far scattare l’Articolo 5, ovvero la sicurezza collettiva, e guida l’Alleanza ad investire 2,6 miliardi di dollari nella cyber-sicurezza, inclusi satelliti e droni di ultima generazione. La «guerra ibrida» continua.

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« Risposta #124 inserito:: Ottobre 09, 2017, 06:19:37 pm »

Dalla Brexit alla Catalogna il domino delle patrie investe l’Ue

Pubblicato il 08/10/2017

MAURIZIO MOLINARI

In attesa di sapere se la Catalogna lascerà davvero la Spagna, il referendum indipendentista ha già prodotto un effetto concreto: la coalizione dei partiti anti-europeisti può vantare un nuovo successo dopo la Brexit, evidenziando l’indebolimento degli Stati nazionali e dunque dell’Unione europea.
 
Basta guardare a nomi e sigle che hanno espresso aperto sostegno al referendum sul distacco di Barcellona da Madrid per rendersi conto di quanto sta avvenendo in Europa. Nigel Farage, ex leader dell’Ukip britannico che vinse il referendum sulla Brexit nel giugno 2016, ha ritrovato lo smalto di allora definendo l’intervento della polizia spagnola contro i seggi catalani «un’espressione della brutalità poliziesca europea» e Geert Wilders, leader del Partito della libertà olandese, aggiunge: «L’Ue è un luogo dove si esercita violenza contro i popoli». Heinz-Christian Strache, capo del partito di estrema destra austriaco Fpo, accusa l’Europa di «tacere sulla repressione in Catalogna» adoperando un linguaggio simile a Beatrix von Storch, eurodeputata dei tedeschi di AfD, secondo la quale «chi ama la democrazia deve prendere sul serio l’opinione dei catalani». E ancora: nelle Fiandre, Bart Laermans, deputato di Vlaams Belang, contrappone «la violenza della Guardia Civil» al «diritto di libertà dei catalani».
 
Si tratta di leader e forze politiche che, nei rispettivi Paesi, rappresentano formazioni estreme, anti-sistema ma accomunate dal definire il referendum catalano una «prova di democrazia», identificando nell’Unione europea la fonte primaria della «violenza esercitata da Madrid». Ovvero, se nel giugno del 2016 la variopinta coalizione anti-Europa trovò, quasi per caso, nel distacco della Gran Bretagna dall’Ue la prima dimostrazione che Bruxelles poteva essere sconfitta nelle urne, adesso il referendum catalano gli offre su un piatto d’argento ulteriori munizioni: l’immagine di un’Europa insensibile, o ancor peggio complice, delle «violenze spagnole» contro la libera volontà dei propri cittadini.
 
Ecco perché il tentativo di delegittimazione dell’Unione europea ha compiuto un passo avanti lo scorso 1° ottobre, offrendo ai partiti ultranazionalisti la possibilità di cavalcare una narrativa dove «Europa» è l’opposto di «democrazia». Si tratta del danno politico più serio causato dal referendum catalano: quella che prima di Brexit era una disordinata galassia di forze marginali ed estremiste, ora assume le caratteristiche di uno schieramento capace di contestare gli stessi principi fondatori dell’Ue. Se ciò può avvenire è soprattutto a causa della debolezza degli Stati nazionali che compongono l’Ue, guidati da leadership troppo spesso incapaci di comprendere lo scontento dei propri cittadini - come David Cameron in Gran Bretagna - o talmente miopi da ricorrere ai manganelli contro i cittadini - nel caso di Mariano Rajoy in Spagna - dimostrando di aver perso il contatto con le popolazioni che avrebbero dovuto rappresentare e governare.
 
Cameron e Rajoy purtroppo non sono casi isolati: i Paesi Ue abbondano di leader politici dei partiti tradizionali troppo lenti nel cogliere le ragioni del disagio che alberga in popolazioni scosse da diseguaglianze economiche, migrazioni di massa, terrorismo e una più generale percezione di carenza di protezione collettiva.
 
Poiché l’Ue è un’Unione fra Stati sovrani, più tali miopi politiche nazionali continueranno più sarà l’Europa a indebolirsi, consentendo al nazionalismo di risorgere in maniera sorprendente nello stesso Continente dove nel Novecento ha causato due conflitti mondiali, con milioni di vittime e devastazioni colossali.
 
C’è dunque un campanello d’allarme che risuona in Europa. Prima con Brexit e poi con il referendum catalano ci ha avvertito sul rischio che l’indebolimento degli Stati nazionali porti alla decomposizione dell’Ue sulla spinta di un ritorno alle identità primordiali delle piccole patrie che per venti secoli si sono combattute dall’Atlantico agli Urali. Tanto più accelera questo domino di stampo tribale, tanto più i rimedi devono essere rapidi, energici ed efficaci: i leader degli Stati nazionali, riuniti a Bruxelles nell’Ue come ognuno nella propria capitale, hanno la drammatica urgenza di prendere l’iniziativa per garantire ai cittadini la protezione che chiedono. Altrimenti saranno i risorgenti nazionalismi a farlo al loro posto.
 
Se è vero che le democrazie non hanno mai perso una guerra lo è anche il fatto che le democrazie scompaiono a causa dei propri errori - l’Italia liberale prima del fascismo, la Germania di Weimar prima di Hitler, il Cile di Allende prima di Pinochet - e ciò assegna ai leader che le guidano la responsabilità di rinnovarne costantemente stabilità e vitalità interna. Ecco perché bisogna ascoltare il campanello d’allarme che risuona da Barcellona.
 
Dalla Brexit alla Catalogna il domino delle patrie investe l’Unione europea

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« Risposta #125 inserito:: Novembre 20, 2017, 05:33:48 pm »

Carlo Casalegno, l’eredità di Mazzini e l’etica del dovere verso il “Nostro Stato”
Pubblicato il 18/11/2017 Ultima modifica il 18/11/2017 alle ore 23:35

MAURIZIO MOLINARI
QUESTO CONTENUTO È CONFORME AL SCOPRI DI CHE SI TRATTA

Caro Direttore, 
sono passati 40 anni dall’assassinio del vicedirettore de «La Stampa» Carlo Casalegno da parte delle Brigate Rosse. Su questo giornale Lei ha scritto un articolo in cui evidenzia in modo chiaro ed esaustivo l’opera dello scrittore e giornalista. Mi piace sottolineare il riferimento che ha fatto accostando l’opera di Carlo Casalegno «a quell’idea di Dio e Popolo che Giuseppe Mazzini indicò come motore ideale dello Stato unitario». Vorrei aggiungere che l’impegno di Carlo Casalegno è stato segnato da un costante richiamo al «Pensiero e Azione» di Giuseppe Mazzini che pensò e volle e creò l’Italia per l’Emancipazione dei lavoratori e l’Educazione dei cittadini basata sull’etica del Dovere».
 Danilo Ballardini, Forlì
 
 ---
 
Caro Ballardini, 
il richiamo ai valori comuni di Casalegno e Mazzini nasce proprio dall’etica del dovere ovvero dalla convinzione che essere cittadini comporta delle responsabilità nei confronti della collettività e dunque della nazione. Con «Pensiero e Azione» Mazzini mette il singolo al centro del Risorgimento perché solo con la partecipazione, personale e volontaria, l’Italia può ritrovare la propria unità. E se Casalegno aveva intitolato la sua rubrica «Il Nostro Stato» è perché voleva mettere l’accento proprio sul fatto che l’Italia era dei suoi cittadini, che dunque ne avevano la responsabilità.
Questo rapporto diretto, personale, fra singoli cittadini e lo Stato è l’anima, il segreto del successo, di ogni democrazia. Tanto più è forte, tanto più la consolida. Tale eredità, trasmessa dagli scritti di Mazzini ed interpretata da Casalegno, ha un valore cruciale, strategico, nell’attuale stagione di indebolimento dei sistemi democratici. Le nazioni dell’Occidente, in Europa come in Nord America, sono alle prese con una crescente sfiducia degli elettori nelle istituzioni rappresentative e la risposta non può essere liquidarle bensì rinsaldarle. La strada migliore per riuscirci è richiamarsi all’etica del dovere verso il «Nostro Stato».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/18/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/carlo-casalegno-leredit-di-mazzini-e-letica-del-dovere-verso-il-nostro-stato-pVQhazQdD5V1bzsOSD0OeP/pagina.html
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« Risposta #126 inserito:: Gennaio 02, 2018, 06:50:37 pm »

Iran, la rivolta che può cambiare il Medio Oriente
Pubblicato il 02/01/2018

Maurizio Molinari

Il nuovo anno inizia nel segno della rivolta contro il carovita in Iran, che ha tre risvolti: testimonia la forza indomabile di un popolo antico, evidenzia l’entità dei cambiamenti in atto in Medio Oriente e mette a dura prova i leader dell’Occidente. 

Le proteste iniziate giovedì a Mashad nascono dallo scontento per l’aumento del costo della vita dovuto alla necessità della Repubblica islamica di finanziare gli interventi militari in Siria, Iraq, Libano e Yemen a sostegno di milizie sciite strumento del disegno di estendere l’egemonia iraniana sull’intero Medio Oriente. Si tratta del cuore stesso del regime, perché tale imponente apparato militare e di intelligence è incarnato dai Guardiani della Rivoluzione, che rispondono direttamente alla Guida Suprema della Rivoluzione, Ali Khamenei, e gestiscono anche gran parte delle risorse economiche nazionali senza troppo curarsi delle altre istituzioni della Repubblica islamica, a cominciare dal governo del presidente Hassan Rohani. Il fatto che gli iraniani, oggi in gran parte nati dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, abbiano la forza, l’energia e il coraggio di contestare il nucleo duro del regime degli ayatollah, al suo apogeo militare ed oramai privo di una reale opposizione politica interna, lascia intendere quanto siano radicati, estesi, condivisi i principi di libertà personale e rispetto per i diritti individuali. A quasi 40 anni dall’avvento della teocrazia degli ayatollah negli iraniani resta intatta la voglia di libertà che li portò a rivoltarsi contro la dittatura dello Shah, e ciò suggerisce alle democrazie la necessità di mostrare a questo popolo antico tutto il rispetto che merita.

Per quanto concerne il Medio Oriente le proteste iraniane evidenziano la veridicità di uno dei principi-cardine della vita nel deserto: chi sembra forte non sempre lo è, e chi sembra debole non sempre lo è. L’Iran infatti è il più importante vincitore della guerra civile siriana, controlla una Mezzaluna di territori contigui da Teheran a Beirut - passando da Baghdad e Damasco - e tiene in scacco militare l’Arabia Saudita grazie ai ribelli houthi dello Yemen, che riescono perfino a minacciare Riad con i loro missili. L’arrivo delle avanguardie militari iraniane, affiancate dagli Hezbollah, alle pendici del Monte Hermon a meno di 10 km da Israele descrive l’indubbio successo tattico regionale dovuto al formidabile e spietato generale Qassem Suleimani, regista e guida di ogni operazione bellica all’estero, inclusa Hamas nella Striscia di Gaza. L’intento di Suleimani, che risponde solo a Khamenei, è di travolgere gli Stati sunniti e distruggere Israele per piegare agli sciiti l’intera regione da Hormuz a Suez come non è mai avvenuto dall’avvento nell’Islam. Ma tale e tanto sfoggio di potenza militare non ha alle spalle un’economia solida né tantomeno il sostegno popolare e così Teheran si trova obbligata a fare i conti con le proprie debolezze: un sistema produttivo non diversificato, la corruzione dilagante, l’accentramento della ricchezza nelle mani di pasdaran e ayatollah, la rabbia dei giovani che preferiscono Instagram alla sharia. La sovraesposizione bellica si è così trasformata in un boomerang, finendo per evidenziare le debolezze della Repubblica islamica. 

 Se tutto questo mette alla prova l’Occidente è perché quando nel giugno del 2009 l’Onda verde della protesta iraniana sfidò il regime, contestando i risultati della riconferma alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad, gli Stati Uniti e l’Europa si voltarono dall’altra parte. Moltitudini di iraniani credettero che l’Occidente li avrebbe ascoltati e sostenuti. Ricevettero invece solo un tradimento, morale e politico, il cui primo - ma non solo - responsabile fu il presidente americano Barack H. Obama che, anziché sostenere le loro grida di libertà, scrisse in segreto a Khamenei, offrendogli un dialogo che sei anni dopo avrebbe portato all’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano corredato dalla fine delle sanzioni con imbarazzanti dettagli segreti che solo ora iniziano ad affiorare: dalla spedizione con un aereo militare di un miliardo di dollari in contanti ai pasdaran al blocco delle indagini dell’Fbi sui traffici illeciti degli Hezbollah fino all’avvertimento a Teheran che il generale Suleimani rischiava di essere eliminato da Israele. Scegliendo il silenzio davanti alla repressione dell’Onda verde Obama indirizzò l’America, e trascinò l’Europa, verso l’appeasement con lo stesso regime che oggi gli iraniani tornano a contestare a viso aperto, rischiando le proprie vite. Da qui l’importanza della scelta dell’amministrazione Trump di schierarsi subito dalla parte dei manifestanti e l’interrogativo se la Casa Bianca riuscirà a far seguire alle parole i fatti. È un bivio che riguarda anche l’Europa: dopo le prime timide dichiarazioni da Berlino e Bruxelles ha l’occasione per invertire drasticamente la rotta rispetto agli errori compiuti con gli ayatollah negli ultimi otto anni.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/01/02/cultura/opinioni/editoriali/iran-la-rivolta-che-pu-cambiare-il-medio-oriente-OJYrTgJCnFF8Vxav3mTycK/pagina.html
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« Risposta #127 inserito:: Marzo 06, 2018, 02:31:53 pm »

Il laboratorio del nostro scontento

Pubblicato il 06/03/2018 - Ultima modifica il 06/03/2018 alle ore 09:33

MAURIZIO MOLINARI

La vittoria di Movimento Cinque Stelle e Lega nelle elezioni del 4 marzo è un evento spartiacque nella politica italiana, descrive l’entità dello scontento sociale che alberga nel nostro Paese. 

E apre la strada ad un governo tanto difficile da formare quanto capace di innescare conseguenze imprevedibili in Europa. 

L’evento spartiacque viene dal fatto che i governi della Repubblica italiana erano stati finora guidati o condizionati da Dc, Psi, Forza Italia e Pd ovvero forze appartenenti alle maggiori famiglie politiche europee - popolare e socialista - mentre adesso a vincere sono formazioni di origine differente, la cui legittimazione viene dal rappresentare istanze specifiche - su economia, sicurezza e identità locali - accompagnate da un forte sentimento di sfiducia nelle istituzioni rappresentative. Ovvero, ciò che accomuna i vincitori del 4 marzo non sono le radici nell’Europa del Dopoguerra bisognosa di pace ma nell’Europa della protesta contro gli effetti della globalizzazione iniziata dopo la Guerra Fredda. 

Lo scontento sociale in Italia si era già affacciato con l’esito delle elezioni amministrative del giugno 2016 - frutto della protesta delle periferie - e la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre - con una partecipazione record - ma i partiti tradizionali di matrice socialista e popolare hanno chiuso gli occhi davanti all’entità della protesta. Che aveva, ed ha, molteplici genesi: disoccupazione giovanile, delocalizzazione delle aziende, concorrenza sleale, perdita di speranze, corruzione, criminalità locale, presenza di migranti. Tale mosaico di scontento non è una peculiarità italiana: ha generato la Brexit in Gran Bretagna, la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ha consentito a Marine Le Pen di raccogliere 10 milioni di voti in Francia e ad «Alternativa per la Germania» di raggiungere il 13 per cento. È l’Occidente ad essere il palcoscenico della protesta del ceto medio che si considera impoverito dalle diseguaglianze, aggredito dagli stranieri e dimenticato dai partiti tradizionali.

Ciò che distingue l’Italia è l’essere il primo Paese dell’Europa continentale a vedere il successo delle forze anti-establishment e la peculiarità che Movimento Cinque Stelle e Lega ne rappresentano volti diversi, concorrenti, spesso conflittuali. Basta guardare dentro le file degli schieramenti vincitori del voto per accorgersi di tali differenze. Nella risposta alle diseguaglianze economiche i Cinque Stelle puntano sul reddito di cittadinanza ovvero l’intervento pubblico contro la disoccupazione mentre la Lega preferisce abbassare le tasse e rivedere la legge Fornero per promuovere il lavoro. E sui migranti i Cinque Stelle includono le posizioni più diverse mentre la Lega sposa le istanze più rigide. Ciò significa che gli elettori italiani hanno avuto a disposizione due consistenti opzioni diverse anti-globalizzazione, come non era finora avvenuto in alcun Paese occidentale. E le hanno premiate entrambe. Questo trasforma l’Italia in una nazione-laboratorio dell’affermazione di nuove forze frutto dello scontento sociale, estranee a linguaggi e dinamiche del secondo Novecento. Con tutti i pericoli di instabilità politica e degenerazione razzista, ma anche le opportunità di riforme sociali, che ne conseguono.

È questa la delicata cornice nella quale il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, è atteso dal compito istituzionale di accompagnare le forze politiche nella formazione del governo. Tentando di disinnescare l’apparente ingovernabilità con ogni carta a disposizione: a cominciare dalle diverse opzioni del Pd dopo le dimissioni del segretario Matteo Renzi.

Se l’Europa guarda, con timori e sospetti, verso Roma è perché ciò che accomuna Di Maio e Salvini è un approccio conflittuale all’Unione europea, alla Bce e all’euro. E la nuova legislatura include nel 2019 le elezioni europee, con la nomina della Commissione e delle più alte cariche dell’Ue, ovvero l’Italia avrà voce in capitolo e diritto di veto - al pari di ogni partner - su decisioni di valore strategico. Questo è il motivo per cui Steve Bannon, teorico del nazional-populismo americano, vede nell’«Italia dei populisti» un possibile cavallo di Troia dentro l’Unione europea.

Saranno le prossime settimane a dire quanto Di Maio e Salvini saranno capaci di rispondere alle forti attese degli italiani «dimenticati» che li hanno premiati nelle urne. Il terreno è la responsabilità che dimostreranno nella partita per la formazione del governo. E si tratta per entrambi di un primo, ma già decisivo, test di leadership. 

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« Risposta #128 inserito:: Marzo 30, 2018, 04:52:30 pm »

La diplomazia muscolare di Washington

Pubblicato il 25/03/2018

Maurizio Molinari

Lo stile «transactional» di Trump nella guida della Casa Bianca comincia ad avere dei risultati concreti, suggerendo ad avversari e alleati la necessità di confrontarsi con un nuovo modo di declinare il ruolo degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Per Michael Wolff, autore del best seller «Fire and Fury» frutto di lunghe settimane passate nella West Wing, «transactional» significa «agire sulla base della volontà di fare qualcosa per ottenere sempre qualcosa in cambio, in tempi stretti». 

Ovvero, la presidenza come strumento di continue e aspre «transazioni» con chiunque, sempre, nell’interesse degli Usa. È una versione della diplomazia come strumento della teoria «America First» che si è vista con chiarezza in azione nei confronti della Cina di Xi in occasione della scelta di imporre dazi per almeno 60 miliardi di dollari sull’importazione di circa mille prodotti al fine di proteggere le industrie nazionali più minacciate dalla concorrenza di Pechino. Per gli elettori degli Stati del Mid West e degli Appalachi, decisivi per la conquista della presidenza nel 2016, significa che Trump sta mantenendo l’impegno di ridurre drasticamente l’impatto del «made in China» sulla perdita dei posti di lavoro nel ceto medio vittima delle diseguaglianze economiche. 

Trump ha interesse ad esaltare questo braccio di ferro con Pechino in vista delle elezioni di Midterm per il rinnovo del Congresso di Washington in novembre nel tentativo di mobilitare la base del suo movimento per scongiurare un cambio di maggioranza a favore dei democratici. Ma c’è dell’altro, perché la coincidenza fra i dazi alla Cina e la decisione del despota nordcoreano Kim Jong-un di accettare un incontro con Trump e sospendere i test nucleari ha consolidato alla Casa Bianca la convinzione che solo esercitando forti - e pubbliche - pressioni su Pechino si riesce a spingere Xi ad ottenere reali concessioni da Pyongyang. Sono queste le «transazioni» che distinguono l’approccio di Trump alle relazioni internazionali ed hanno poco a che fare con l’arte della diplomazia tradizionale, perché il braccio di ferro non avviene nel riserbo, affidato ad incontri segreti e sherpa, ma si svolge sotto gli occhi di tutti - anche su Twitter - al fine di renderlo più efficace, dirompente. 

La dimensione pubblica - quasi televisiva - della diplomazia «transactional» serve a moltiplicare l’impatto politico della concessione ottenuta. Fa parte di quella che Trump definisce «the art of deal», l’arte dell’accordo. Si spiega così anche l’approccio con gli alleati europei - a cominciare dai tedeschi - sui dazi: hanno l’opportunità di evitarli ma devono spendere di più per la difese nella cornice della Nato, da oltre mezzo secolo troppo dipendente dai contribuenti americani. E si spiega con tale approccio «transactional» anche il rimpasto avvenuto nell’amministrazione con la sostituzione di Rex Tillerson con Mike Pompeo al Dipartimento di Stato e di H.R. McMaster con John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale: ad avanzare sono due avversari dichiarati dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015, perché Trump non lo vuole solo modificare bensì stracciare. 

 
L’eloquente messaggio ha tre destinatari: Teheran, per far capire agli ayatollah che la stagione delle concessioni di Barack Obama è davvero finita; Bruxelles, per spingere gli alleati europei ad un approccio diverso all’Iran entro il 12 maggio quando Trump annuncerà la decisione sull’intesa del 2015; Riad e Gerusalemme, per rassicurare gli alleati in Medio Oriente sulla volontà di proteggerli dalle crescenti minacce strategiche iraniane. Ciò che tiene assieme tante e tali mosse è la volontà del presidente Trump di ingaggiare palesi, determinati e mediatici bracci di ferro con gli avversari dell’America: la Cina sul fronte del libero mercato, la Nord Corea e l’Iran su quello della sicurezza. Nell’intento di ottenere da loro concessioni talmente evidenti da essere percepite dai singoli cittadini che lo hanno eletto. Resta da vedere come Trump declinerà tale approccio nei confronti della Russia, un aggressivo rivale nei confronti del quale ha tentato un approccio più dialogante ma, visti gli scarsi risultati dalla Siria al cyberspazio, sta ora ripensando la strategia. Assieme a Pompeo, Bolton e alla terza protagonista della sua politica di sicurezza: l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley.

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DA - http://www.lastampa.it/2018/03/25/cultura/opinioni/editoriali/la-diplomazia-muscolare-di-washington-ZKTP2a7ggTsVsJVvjrOhOO/pagina.html
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« Risposta #129 inserito:: Giugno 04, 2018, 12:13:08 pm »

Le ambiguità del governo gialloverde

Pubblicato il 03/06/2018

MAURIZIO MOLINARI
Espressione di un massiccio mandato popolare ma titolare di un programma ambiguo, l’Italia gialloverde scuote l’Unione Europea dal di dentro, obbligandola a fare i conti con la rivolta populista.

Il governo Conte, frutto dell’intesa politica fra Cinque Stelle e Lega, ha una legittimità di stampo rivoluzionario: gli elettori sono oltre la metà dei votanti e si propongono di cambiare radicalmente l’establishment nazionale per sanare diseguaglianze economiche e illegalità di ogni genere con misure fiscali e di ordine pubblico senza precedenti. Come avviene nei momenti spartiacque di una nazione, tale ventata di novità è accompagnata da forti emozioni: piccoli imprenditori in fila dai commercialisti nelle città del Nord per sapere quando entrerà in vigore la «flat tax» e famiglie di disoccupati in fremente attesa nelle città del Sud del reddito di cittadinanza. La sovrapposizione fra entità delle aspettative e sostegno popolare dà bene l’idea dell’insoddisfazione dilagante nel ceto medio nei confronti dei partiti tradizionali, di colori diversi, che hanno governato nell’ultimo quarto di secolo.

Con una maggioranza più ribelle della «Grande Coalizione» di Angela Merkel in Germania ed una base popolare più ampia di Emmanuel Macron in Francia, la coalizione Lega-Cinque Stelle ha di fronte a sé anche una strada facilitata dalla debolezza degli avversari centristi che sembrano incapaci nel medio termine di coordinare un efficace contrasto parlamentare.

Ma tali vantaggi tattici dell’Italia gialloverde si scontrano con una debolezza strategica: l’assenza di una visione comune per il futuro del Paese e, dunque, anche per l’approccio all’Unione Europea di cui siamo stati fondatori nel 1957. 

Grillini e leghisti non solo sono portatori di ricette economiche contrastanti - reddito di cittadinanza e «flat tax» - e prive di coperture finanziarie - stimate da Moody’s in circa 100 miliardi di euro - ma sembrano anche privi di un’idea comune di approccio all’Europa. Al loro interno infatti vi sono posizioni che vanno dal referendum sull’uscita dall’euro, proposto da Beppe Grillo, all’ostilità viscerale per le istituzioni di Bruxelles, espressa da Matteo Salvini, fino alla volontà di riformarle rimanendovi protagonisti, come suggerisce Giovanni Tria. Lo stesso vale per i rapporti con gli Stati Uniti: alcuni gialloverdi li considerano alleati ma altri contestano le missioni comuni in Afghanistan e Iraq preferendo guardare a Mosca. Per non parlare di chi nutre dubbi sulla presenza delle forze americane sulla Penisola.

La sovrapposizione fra legittimità popolare e contraddizioni politiche è il Dna con cui nasce il primo governo della Repubblica guidato da forze anti-establishment. È il certificato di nascita di un populismo di governo senza precedenti nell’Europa Occidentale, il cui elemento positivo viene dal rafforzamento della rappresentanza - spina dorsale di ogni democrazia - mentre quello negativo sta nella confusione programmatica, che può innescare pericolosi conflitti interni ed esterni. È proprio il carattere ondivago delle posizioni gialloverdi - dalla Tav al debito fino ai legami con Mosca - che desta inquietudine nei partner Ue e alleati Nato così come sui mercati finanziari, creando attorno al nostro Paese un alone di incertezza che proietta instabilità.

Da qui la necessità che il premier Conte ed i suoi ministri facciano in fretta chiarezza sui loro propositi, a cominciare dell’economia, dall’Europa e dai legami con la Russia. Spetta a loro declinare una ricetta per consolidare la crescita, ancora troppo debole rispetto alle altre democrazie industriali, chiarire quale approccio avranno all’Ue, ovvero se vogliono migliorarla o farla implodere, e scegliere se mantenere o rompere il fronte occidentale con il Cremlino. Saranno queste tre risposte a consentire di conoscere meglio l’Italia gialloverde che dopo aver conquistato il governo battendosi contro qualcuno - l’establishment italiano ed europeo - ora deve spiegare a favore di cosa vuole impegnarsi. Perché ambiguità ed opacità indeboliscono l’Italia.

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