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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 319057 volte)
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« inserito:: Giugno 19, 2007, 10:47:57 pm »

IL VETRO SOFFIATO

Quella rivoluzione raccontata dal cinema
di Eugenio Scalfari

Bernardo Bertolucci lamenta l'assenza da parte della politica d'una visione e di una strategia che incoraggino autori e registi italiani. Basterebbe abbattere gli ostacoli che impediscono ai talenti, se ci sono, di farsi valere  
Su 'Repubblica' dell'11 giugno Bernardo Bertolucci ha scritto di cultura di cinema ('Cultura, la parola dimenticata dalla politica') di seguito lamentando l'assenza d'una visione e di una strategia che incoraggino autori e registi a produrre buone storie e buoni film.

Bertolucci è stato uno dei maggiori registi d'Italia e d'Europa ed è ancora in età di servizio perché l'anagrafe e l'immaginazione creativa glielo consentono ampiamente. Ma registra che intorno a personaggi da tempo affermati c'è il deserto. Il nuovo cinema non decolla. "Non per mancanza d'individualità creative ma per totale assenza della politica". Così Bertolucci e su questo aspetto vorrei soffermarmi.

Bernardo ha negli occhi della memoria il grande periodo del cinema italiano nel venticinquennio successivo alla guerra e al crollo del fascismo; un periodo che segnò l'egemonia mondiale (soprattutto europea) della nostra cinematografia, costellato dai nomi di Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Rosi, Scola, Pasolini e lo stesso Bertolucci. Altri certamente ne ho dimenticati in questo elenco affidato solo alla mia memoria, ma ci furono e ci sono.

La varietà dei soggetti e lo stile delle regie erano molto diversi: Rosi non era Visconti, De Sica non era Rossellini e nessuno di loro aveva granché in comune con Fellini. Così diversi tra loro debbono essere gli autori e i loro prodotti in un'arte che raggiunga pienezza di risultati e sia punto di riferimento e di confronto con le esperienze di altri paesi.

Ci fu tuttavia, in quella fioritura di iniziative durata almeno venticinque anni, un'ispirazione comune e fu il desiderio e anzi l'urgenza necessaria di raccontare storie che fossero, attraverso vicende individuali, rappresentative d'una intera società in profonda trasformazione, con i suoi aspetti positivi di crescita civile e negativi di malaffare, cupidigia, indifferenza, viltà morale. Pensate a 'Roma città aperta', al 'Generale Della Rovere', a 'Ladri di biciclette', a 'Le mani sulla città', a 'Rocco e i suoi fratelli', al 'Gattopardo', ma anche a 'La Dolce Vita', a 'Prova d'orchestra' e poi alla 'Passione secondo San Matteo' e infine a 'Novecento'.

Nessuno di quei personaggi, di quelle storie e di quei film, è immaginabile se non nel contesto della società italiana di quegli anni, ma se ebbero come ebbero una così rilevante risonanza internazionale fu perché la società italiana riproduceva in quell'arco di tempo una trasformazione che altri paesi avevano attraversato molto prima. Con una profonda differenza però: questa volta la trasformazione da paese contadino a paese industriale avveniva sotto l'occhio impietoso della televisione e del cinematografo, sotto un impatto mediatico formidabile rispetto alle analoghe rivoluzioni industriali che avevano trasformato molto prima l'Inghilterra, la Francia, la Germania, l'America.

Così l'Italia funzionò anche come lo specchio retrospettivo per rivisitare drammi ed epopee che l'Occidente aveva già vissuto senza la visibilità amplificata fornita dagli schermi del cinema e della televisione.

Qual è ora la situazione?

Anche adesso la nostra società attraversa una fase di trasformazione, come del resto avviene di continuo nelle vicende collettive. I nuovi protagonisti sono l'individuo, la folla, l'anonimato, la solitudine.

Non è una situazione soltanto nostra: percorsi analoghi sono in corso in tutto l'Occidente e non soltanto. Il solo modo di rappresentarli è l'approccio minimalista, il racconto individuale che nasce e muore in un ambito episodico la cui cifra non può che essere la ripetitività delle situazioni, la stanchezza e le nevrosi che ne derivano, la volgarità che spesso le pervade e la noia esistenziale che inevitabilmente le avvolge.

In queste condizioni un romanzo di formazione come sono stati i soggetti per 'Gattopardo' e 'Novecento' non sarebbe immaginabile. Non dico che tradurre in linguaggio cinematografico lo stato della società attuale sia impossibile, ma dico che è molto più difficile d'un tempo. I maestri che fanno da ponte tra lo ieri e l'oggi a ben guardare sono Fellini e Antonioni, la fantasia surreale del primo e la rappresentazione dell'incomunicabilità alienante del secondo. Ma ci vogliono appunto grandi maestri per proporre e far emergere da una ripetitiva serie di episodi minimali un'opera di poesia.

Non so se il sostegno pubblico possa aiutare. Penso che la richiesta da sostenere sia quella di abbattere gli ostacoli che impediscono ai talenti di farsi valere. Non facendosi sommergere dal solo criterio dell''audience' che ormai signoreggia in tv e nel cinema. Insomma aprire il varco ai talenti. Ma poi tocca a loro, ai talenti, di farsi valere. Se ci sono.

da espressonline.it
« Ultima modifica: Agosto 29, 2010, 09:20:53 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 04, 2007, 10:48:07 am »

IL VETRO SOFFIATO

Andiamo a lezione da Thomas Mann
di Eugenio Scalfari


Leggano la sua Lectio specie coloro che oggi si vantano di incarnare la nuova borghesia, ma della quale non sanno nulla  Thomas Mann con la famigliaNon c'è come frugare svagatamente tra i libri di casa che può sorprenderti, come se la ricerca fosse guidata, come se in quel momento tu avessi bisogno di rileggere quell'autore, quelle pagine che non sfogliavi da anni e quel testo, sì, proprio quello, che non ricordi d'aver mai letto ma che ora, solo ora, ti appare come il cibo prezioso che 'solum è mio ed io son per lui' come scriveva il Machiavelli nella famosa lettera al Vettori.

Così mi sono imbattuto nell'undicesimo volume dell'opera di Thomas Mann e, alla pagina 612, nella conferenza da lui tenuta nel maggio del 1950 all'Università di Chicago, dal titolo 'Meine Zeit' (Il mio tempo). L'incipit è un esempio di eloquenza, un modo infallibile per prendere in mano la mente e il cuore del pubblico, la sua concentrata attenzione, e non lasciarlo fino all'ultima parola: "Del mio tempo voglio parlarvi, non della mia vita. Ho poco o punto desiderio di tenervi una conferenza autobiografica. Ma se parlo del mio tempo è necessario che io abbia in mente due cose: l'epoca storica in cui fu inquadrata la mia vita individuale e della quale sono stato testimone; è infatti il tempo che mi fu dato, la clessidra che mi fu assegnata... Dalla considerazione del mio tempo non si può scindere del tutto l'io autobiografico sicché, volere o no, il panorama del tempo diventa il panorama della mia vita".

Mann aveva allora 75 anni. Aveva già concluso la sua opera letteraria e saggistica con il libro della vecchiaia, il 'Doktor Faustus', ma ancora scriveva con una continuità tenace e a volte quasi furiosa perché (lo dice ancora una volta in questa conferenza) chi ha consegnato il senso della sua vita all'opera che ha scelto di intraprendere sente il bisogno di continuare "perché non c'è sosta, ed ogni nuova impresa non è che il tentativo di assumere la responsabilità per tutte le precedenti, di salvarle, di ripararne l'insufficienza".


Di qui ha inizio il racconto dei fatti - eccezionali - che accaddero nei 75 anni nei quali la sabbia della sua clessidra scivolò tra le sue dita. Era nato a Lubecca nel 1875 e in effetti gli eventi ai quali assistette da spettatore e da artista e i personaggi che fecero la loro comparsa sulla scena furono eccezionali. Dalla nascita dell'Impero tedesco costruito dalla brutale intelligenza di Bismarck, alla fine della Belle époque, alla prima guerra mondiale, al drammatico intervallo tra le due guerre, la nascita del fascismo, del nazismo e del comunismo sovietico, la seconda guerra, lo sterminio degli ebrei, l'emigrazione. Infine la vittoria della democrazia e la prima aspra fase della guerra fredda tra gli ex alleati che avevano insieme sconfitto Hitler.

Fatti eccezionali? si domanda Mann. Certo, ma non più eccezionali di quelli che costellarono la lunga vita di Goethe e che lui stesso enumera a Eckermann: la caduta dell'ancien régime, la rivoluzione francese, Napoleone, vent'anni di guerre che sconvolsero l'Europa, l'insorgenza romantica, il Congresso di Vienna e la Restaurazione, la nascita degli Stati nazionali e del nazionalismo. La conclusione di Mann su questo punto è che ogni epoca è eccezionale e quindi ogni vita, per chi la vive, per la semplice ragione che è la sua vita, che si concluderà con l'altro eccezionalissimo evento della sua morte.

Un mito comunque ha sorretto la vita (e l'epoca) di Mann e fu la borghesia e la libertà responsabile. A descrivere la 'sua' borghesia Mann ha dedicato l'intera sua opera, dai 'Buddenbrook' e da 'Tonio Kröger' alle 'Considerazioni d'un impolitico', alla 'Montagna incantata' e 'Morte a Venezia'. Infine il 'Doktor Faustus' e i grandi saggi de 'La nobiltà dello spirito'. Quella borghesia l'ha descritta nel suo fulgore e nella sua irresistibile decadenza e infine alla sua scomparsa.

La lettura di questa Lectio magistralis davanti al corpo insegnante e agli studenti dell'Università di Chicago io la raccomando ai giovani d'oggi ed anche - anzi soprattutto - agli adulti che in qualche modo fanno parte della nostra classe dirigente in quest'epoca che per noi vecchi s'intreccia per buona parte del percorso con l'epoca di Mann. È capitato anche a me d'esser spettatore e testimone del mio tempo. Quando Mann morì, a me accadde di lavorare alla fondazione de 'L'Espresso'. Alle pagine del 'Mondo' collaboravano la figlia Elisabeth e suo marito Antonio Borgese. L'aria di quel settimanale rendeva assai da vicino il mondo dell'autore della 'Montagna incantata'; la sua idea della borghesia liberale era anche la nostra pur sapendo che era una visione più del passato che del futuro malgrado gli sforzi che facevamo - ciascuno nel suo possibile - per risuscitarla. Dovrebbero leggerla, questa Lectio, soprattutto coloro che oggi si vantano di rappresentare la nuova borghesia, della quale non conoscono nulla; almeno così sembra poiché non basta anteporre il 'neo' per spiegarne una lontananza così profonda ed anzi una vera e propria antinomia tra il modello e la sua replica a mezzo secolo di distanza.

Per questo la lettura sarebbe utile e forse indurrebbe quei lettori a una riflessione critica. Anche i nostri vescovi dovrebbero leggerla e ne trarrebbero qualche insegnamento. Ci sono pagine dedicate alla religione e alla laicità che sembrano scritte oggi. Ne cito la conclusione: "La conquista del mondo è un sogno antichissimo; ogni fede vuol conquistare il mondo a rischio di diventare soltanto il mezzo per la conquista del mondo".

(03 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 12, 2007, 04:09:04 pm »

IL COMMENTO

Il sindacato, l'uguaglianza e lo scalone
di EUGENIO SCALFARI


IL MIO ARTICOLO di domenica scorsa intitolato "Quando il sindacato si accordò con Maroni" ha suscitato vivaci reazioni da parte del segretario della Cgil, del segretario di "Rifondazione comunista" Franco Giordano e del presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Il giornale ufficiale del Prc, "Liberazione" mi ha dedicato tre pagine accusandomi di essere il capo del partito della nuova destra e sforzandosi di dimostrarlo. Tutte queste vivaci critiche mi imputano d'aver scritto falsità perché i sindacati non hanno mai sottoscritto accordi sullo "scalone" con l'allora ministro del Lavoro, Maroni.

Di solito non reagisco a chi contesta le mie opinioni e le mie interpretazioni dei fatti: contestazioni pienamente legittime delle quali, quando mi convincono d'aver sbagliato, prendo atto. Ma in questo caso penso sia doveroso rispondere: troppo aspre le critiche e molto qualificati gli autori perché io possa chiudermi nel silenzio. Del resto il tema è di grande interesse: si è trasformato il movimento sindacale e in particolare la Cgil in una corporazione che guarda soltanto agli interessi particolari dei suoi associati? Ha subito analoga metamorfosi la classe politica in generale e i partiti della sinistra radicale in particolare?

Questo è il tema vero del dibattito, del quale il problema delle pensioni e dell'età pensionabile rappresentano soltanto un aspetto che però tiene sotto scacco da molti mesi il governo e l'intera vicenda politica italiana. A me pare che su di esso si sia manifestata con clamorosa visibilità la natura corporativa di alcuni settori del sindacalismo e della sinistra politica, per difetto di una visione adeguata dell'evoluzione sociale e culturale della modernità.

Prima di passare all'esame delle questioni voglio qui citare il pensiero di Aldo Schiavone sull'eguaglianza; pensiero che interamente condivido e che rappresenta il nocciolo di questo dibattito.

Scrive dunque Schiavone su "Repubblica": "Oggi l'eguaglianza sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà) messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo non meno che dall'onda del capitalismo totale che sta dominando l'orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno per riuscire a sottrarre il futuro alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l'intreccio tra scienza e mercato nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisura rispetto alla quale le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più d'un pallido ricordo. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie e distributive, disparità "di accesso"; generate non direttamente dall'economia ma dal rapporto ancora oscuro tra l'avanzamento tecnologico e il suo uso sociale".

Disparità di accesso, le chiama Schiavone ed è un modo analogo e aggiornato di definire quella "eguaglianza delle posizioni di partenza" che è stata fin dagli anni Quaranta del secolo scorso il nucleo di pensiero del liberalismo europeo e di quello italiano di Croce e di Einaudi, di Salvemini e di Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli e di Ugo La Malfa. Con buona pace dei miei attuali contraddittori mi metto anch'io in questo gruppo di persone, delle quali ho condiviso il pensiero e - con alcuni di loro - un percorso di vita e di azione mai smentito.

Mi ha fatto sorridere, ma con molta amarezza, l'accenno di un Croce che si starebbe rivoltando nella tomba se potesse aver letto il mio articolo di domenica scorsa; così l'altro accenno ad uno "Scalfari giovane" e uno "Scalfari vecchio" che avrebbe dirazzato da un liberalismo originario in favore di un liberismo totalizzante.

Io non sono così importante da meritare la distinzione tra una fase giovane e una fase vecchia del mio pensiero, che fu applicata al pensiero di alcuni grandissimi come Hegel e Marx. Ma se si vuole studiare l'evoluzione delle mie idee che certamente è avvenuta come accade a tutti quelli che compiono un lavoro intellettuale, si vedrà che essa ha portato un liberale a considerare la sinistra politica come uno strumento adeguato alla trasformazione di se stessa e dunque anche della democrazia italiana coniugando l'eguaglianza con la libertà. Spero, per dirla tutta e fino in fondo, che il nascituro Partito democratico sia l'approdo di questo percorso e quindi mi preoccupano gli ostacoli che gli vengono frapposti quando si fondano non tanto e non soltanto su differenti divisioni ideali ma su logori ideologismi dietro ai quali è facile avvistare istinti di sopravvivenze corporative, interessi ed egoismi particolari, persistenze di apparati e nomenclature ormai estenuati.

Tutto ciò chiarito per quel che mi riguarda, vengo alle poche questioni che hanno animato questo dibattito.

***

Epifani afferma con forza di non aver mai sottoscritto patti con Maroni sullo "scalone" pensionistico e ricorda i molti scioperi che la Cgil promosse, talvolta da sola e talvolta con le altre organizzazioni sindacali, per impedire che l'età pensionabile fosse aumentata.

In effetti non esiste alcun documento comune, redatto e firmato dalla Cgil insieme col ministro del Lavoro dell'epoca. Esiste invece il famoso "Patto per l'Italia" formalmente stipulato con il governo Berlusconi dalla Cisl (Pezzotta) e dalla Uil (Angeletti) che riguardava l'intera politica sociale su una piattaforma compromissoria di reciproche concessioni. Quel patto scatenò una durissima polemica tra le organizzazioni sindacali (la Cgil era ancora guidata da Sergio Cofferati) e di fatto non fu mai attuato.

Ma per quanto riguarda lo "scalone" previdenziale io non ho affatto affermato l'esistenza di un documento sottoscritto, bensì di un accordo sostanziale: i sindacati e la Cgil in particolare avrebbero di fatto consentito l'attuazione della legge delega e Maroni ne avrebbe posticipato di tre anni e mezzo l'entrata in vigore. Inoltre lo stesso Maroni avrebbe fatto slittare la verifica dei coefficienti applicati alle pensioni d'anzianità come previsto dalla riforma Dini; quest'ultima, giova ricordarlo, fu firmata da tutte e tre le organizzazioni sindacali confederali prima ancora che il governo la presentasse al Parlamento.

La data fissata per la verifica dei coefficienti era prevista dalla legge ma Maroni "se ne dimenticò". I sindacati anche. Padoa-Schioppa l'ha riproposta; i sindacati chiedono che sia rinviata ancora; ovviamente, per non turbare acque già molto agitate, la materia è stata affidata ad una commissione che... riferirà.

I sindacati confederali (Cgil in testa) affermano ora, da non più di quarantott'ore, che lo "scalone" non è né il solo e neppure il più importante delle questioni sociali in discussione con il governo. Più importanti sono l'aumento delle pensioni di anzianità al di sotto di una soglia minima, l'avvio di ammortizzatori sociali adeguati, la lotta al precariato, l'entrata in vigore del contratto del pubblico impiego il cui testo, già firmato dalle parti, è stato però oggetto di lunghe discussioni interpretative. Infine la detassazione dei contributi sul lavoro straordinario.

Gran parte di queste importanti questioni sono state risolte. Il round finale è avvenuto tra lunedì e martedì ed ha generato soddisfazione tra tutti gli interessati (un po' meno negli organismi internazionali). Non entro nel merito di questi accordi ma mi limito a constatare che se esiste un collegamento tra le questioni risolte e quella ancora aperta dello "scalone", dovremmo ora aspettarci che la via dell'accordo anche su quest'ultima parte sia in discesa. Invece non sembra così. Lo scalone, definito un aspetto non essenziale dagli stessi interessati, continua però a pesare e a turbare i sonni del governo e ad eccitare la combattività delle organizzazioni sindacali e della sinistra politica. Il governo cerca la quadratura del circolo ma i sindacati finora hanno risposto "niet".

Giordano e Bertinotti non vogliono scalini e scalette al posto dello "scalone": ne vogliono l'abolizione pura e semplice, che avrebbe un costo complessivo di circa dieci miliardi di euro e metterebbe l'Italia di nuovo sotto scacco di fronte alla Commissione europea; cosa che peraltro non preoccupa affatto né Rifondazione, né Diliberto, né Pecoraro Scanio, né il ministro Ferrero (Prc).

Epifani dal canto suo, in un'intervista al "Corriere della Sera" di lunedì scorso, ha ammonito i partiti a non interferire con i sindacati e con la loro autonomia di scelta. Ha perfettamente ragione. Ne sono seguiti incontri con la segreteria di Rifondazione che - hanno detto i partecipanti - si sono conclusi molto bene. Dopodiché la delegazione di quel partito ha ribadito che lo scalone deve essere abolito, punto e basta. Epifani ha ritirato l'ammonimento? Oppure i destinatari non erano i partiti della sinistra radicale? Lo vedremo tra pochi giorni.

Osservo che l'asprezza dello scontro è infinitamente maggiore di quanto avvenne sullo stesso argomento con il ministro Maroni quattro anni fa. Allora (era il 2004) lo scalone passò senza che la politica sociale e pensionistica fosse messa a ferro e fuoco dai sindacati. Ci fu un solo sciopero generale di quattro ore nel 2004, che i sindacati motivarono con la questione pensionistica. Tutti gli altri scioperi indetti tra il 2002 e il 2005 furono diretti contro l'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e contro le leggi finanziarie del governo Berlusconi. Nel frattempo la legge Maroni era stata approvata dal Parlamento ma la sua entrata in vigore come pure la revisione dei coefficienti pensionistici furono rinviati al gennaio 2008.

A questo punto le ipotesi sono due: o c'è stato l'accordo, tacito ma non meno evidente, tra Maroni e i sindacati, oppure i sindacati non davano al tema dell'età pensionabile il peso che adesso gli danno. Una terza spiegazione non c'è.

***

Sulle contumelie delle quali sono stato oggetto da parte dei leader di Rifondazione comunista ho già fatto cenno. Ribadisco che non è affatto vero che il programma elettorale dell'Unione preveda l'abolizione dello scalone "senza sé e senza ma". Lo condiziona invece a provvedimenti di gradualità e di compatibilità di bilancio. Questo aspetto è sottaciuto dai miei rissosi interlocutori contro l'evidenza dei testi.

Giordano ritiene incredibile, arrogante e ricattatorio l'invito da me fatto al presidente della Camera di dimettersi in caso di crisi di governo. Non ho affatto scritto questo. Ho scritto che Bertinotti dovrebbe dimettersi qualora il governo andasse in crisi a causa di un voto contrario di Rifondazione motivato dai contrasti previdenziali sui quali il presidente della Camera ha espresso un'opinione che male si concilia con il suo incarico istituzionale. Non c'è né arroganza né tantomeno ricatto. Onorevole Giordano, ricatto è una parola che riguarda un ricattatore e un ricattabile; né Bertinotti è ricattabile né io sono un ricattatore. Lei mi deve dunque delle pubbliche scuse. Io ho semplicemente constatato che Bertinotti interviene troppo spesso su questioni che riguardano la sua competenza "neutrale" di presidente della Camera e che - ove i suoi suggerimenti inducessero il suo partito a provocare la crisi - una persona perbene come lui dovrebbe dimettersi. Punto e fine.

(12 luglio 2007)
 
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 15, 2007, 12:41:22 pm »

IL VETRO SOFFIATO

A proposito dell'amore secondo Jean-Luc Marion
di Eugenio Scalfari


Sesso, denaro, tecnologia, hanno scacciato l'eros dalla nostra società: è la tesi del filosofo cattolico francese nel suo trattato 'Il fenomeno erotico' che ha fatto discutere in Francia e ora in Italia. Perché Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave  Papa Ratzinger"Amo, dunque sono": è un libro appena tradotto in italiano, l'autore è un noto filosofo francese (editore Cantagalli) che insegna alla Sorbona, si chiama Jean-Luc Marion, il titolo del volume 'Il fenomeno erotico'. In Francia è già un best-seller ed ha suscitato un dibattito molto intenso. Marion professa la fede cattolica e infatti una parte sostanziosa delle 380 pagine del libro è dedicato all'amore mistico verso Dio e ad una dell'encicliche di Papa Ratzinger sull'amore visto come carità, verso il prossimo e quindi verso Dio.

La tesi centrale dell'opera di Marion è comunque quella parafrasata dal 'Discorso sul metodo' di Descartes. Questa poneva nel pensiero l'evidenza esistenziale dell'io; Marion la colloca nell'amore, anzi per esser più precisi nell'amore erotico, nell'eros, che non si esaurisce soltanto nell'atto sessuale ma in una serie di altri comportamenti altrettanto erotici e forse di più, a cominciare dalla castità dei mistici che amano Dio e/o Gesù non solo con l'intelletto e con la fede ma soprattutto con il corpo, anzi con la carne.

La tesi di Marion è certamente interessante e potremmo anche definirla 'trendy' contrariamente a quanto pensano alcuni dei suoi sostenitori. Nel dibattito che il libro ha suscitato in Francia ma ora anche in Italia si confrontano infatti varie tesi. La prima è che nella nostra società, dominata dalla scienza e dall'economia, non ci sia più posto per l'amore ma soltanto per il sesso. Sesso, denaro, tecnologia: sarebbero questi gli idoli del presente che avrebbero scacciato l'eros. Questa è comunque la tesi di Marion e di chi sostiene le sue affermazioni.

A me non sembra che le cose stiano così. A me sembra invece che l'amore erotico abbia una parte crescente nella nostra modernità. Il corpo e la carne hanno una parte crescente, la carità ha una parte crescente, le varie forme di misticismo religioso hanno una parte crescente. Sarei perciò molto cauto nel sostenere che la società moderna sia sessualmente ricca ma eroticamente povera. A me sembra piuttosto vero il contrario. Se c'è un aspetto in netto declino è piuttosto quello dell'amore intellettuale e della conoscenza disinteressata. Questo sì, sta quasi scomparendo: la filosofia, l'amore per la sapienza e per il sapere.

Un altro punto di confronto nel dibattito suscitato dal libro di Marion riguarda un problema più propriamente filosofico: la felice formula "amo, dunque sono" avrebbe liquidato, dopo quattro secoli di incontrastata egemonia, il "penso, dunque sono" cartesiano ed anche la polarità cartesiana che contrappone o per lo meno distingue la 'res cogitans' dalla 'res extensa'. Saremmo cioè in presenza di una vera e propria rivoluzione nella storia delle idee filosofiche.

Ho usato prima la parola 'dibattito' ma mi correggo: sulla radicalità delle tesi di Marion non c'è stato dibattito ma una sostanziale unanimità. Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave. Ebbene, una posizione di questo genere dimostra soltanto a mio modo di vedere la pochezza del sapere filosofico dell'epoca nostra. La tesi cartesiana che definisce la bipolarità tra il corpo e il pensiero era già stata superata da Baruch Spinoza pochi anni dopo la pubblicazione del 'Discorso sul metodo'. Da allora cessò di egemonizzare la storia della filosofia pur essendole perennemente riconosciuta l'importanza d'aver detronizzato l'egemonia della 'Scolastica' aprendo la strada al pensiero moderno.

Diverso il giudizio che si deve dare sul 'Cogito, ergo sum'. La sostituzione di Marion dell'Io amante all'Io pensante costituisce certamente una variante che si affianca all'evidenza cartesiana senza tuttavia spossessarla della sua validità. D'altra parte non è la sola variante possibile dell'evidenza del soggetto; se ne potrebbero indicare parecchie altre di eguale evidenza e validità, tratte dai requisiti essenziali che caratterizzano la nostra specie. Per esempio: "rido, dunque sono", "gioco, dunque sono", "uccido, dunque sono", "sono nato, dunque sono" e infine, forse la più decisiva di tutti, "morirò, dunque sono".

(13 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 22, 2007, 10:34:56 pm »

POLITICA

Credo che il governo Prodi, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti

Mediare per il paese e non per il potere

Che altro c'è di buono in questa intesa?

L'aumento delle pensioni d'anzianità l'avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani

di EUGENIO SCALFARI


Mi sono fatto da qualche mese una nomea alla quale non sono particolarmente affezionato: quella di essere la sola persona convinta che Romano Prodi sia un buon presidente del Consiglio. In realtà dare giudizi su chi è migliore o peggiore rispetto ad un altro è un esercizio futile e logicamente scorretto perché non si possono paragonare le mele con le spigole, le zucchine con la carne d'agnello. E così non si possono dare etichette di efficienza a due governi che hanno operato in contesti politici ed economici diversi.

Se inquadriamo l'attuale governo Prodi nel contesto in cui ha operato nei primi dodici mesi dal suo insediamento sono convinto che si tratti d'un buon governo, anche se assai scarso nella comunicazione dei suoi provvedimenti. La capacità di Prodi a mediare è notevole, ma c'è mediazione e mediazione. Andreotti per esempio, ai suoi tempi, fu un fuoriclasse in questo esercizio da lui usato quasi sempre per mantenersi al potere anche a costo dell'immobilismo più disperante. La mediazione di Prodi ha una diversa natura: mira a compromessi capaci di avanzare verso obiettivi di utilità generale.

Andreotti - tanto per proseguire nell'esempio - governò in tutte le stagioni politiche; guidò governi appoggiati a destra, al centro, a sinistra. In alcuni casi ebbe perfino il sostegno dell'Msi; in altre fece maggioranze organiche con il Pci. Prodi al contrario ha sempre sostenuto (e confermato con i fatti) di non essere un politico disponibile in tutte le stagioni ma in una soltanto. Forse proprio per questo non piace alla maggioranza degli italiani. In più ha una testa durissima, come quasi tutti quelli che sono nati a Reggio Emilia. Io sono nato nel segno dell'Ariete, perciò lo capisco.

Guardate ai vaticini berlusconiani che si susseguono ormai da un anno. Vaticinavano che sarebbe caduto entro un mese dalla proclamazione del verdetto elettorale. Da allora spostano la data dell'apertura della crisi di due o al massimo tre settimane in continuazione. Sono passati dodici mesi e le date di scadenza della crisi sono state finora almeno una ventina. Adesso il capo dell'opposizione e tutti i suoi accoliti hanno fissato per il prossimo settembre l'appuntamento decisivo con la dissoluzione del centrosinistra.

Tutto può accadere quando si naviga con la maggioranza di un voto, ma io non credo che il centrosinistra celebrerà il suo suicidio in autunno.
Credo che, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti. Per una ragione molto semplice: ancora per un bel pezzo non ci saranno alternative al governo Prodi.

* * *

Vengo alla riforma delle pensioni, una vicenda che dura da mesi e che, un giorno dopo l'altro, è stata preconizzata come irrisolvibile. Sarebbe un esercizio utile per tutti rivedere i titoli dei telegiornali e dei quotidiani da maggio in poi. Una sequenza sussultoria senza fine: "Pensioni, l'accordo è vicino" "Scontro feroce sulle pensioni" "Il governo è spaccato" "La sinistra all'attacco" "Il contrattacco per i riformisti" "Berlusconi: governo in crisi" "Resta lo scalone" "Via lo scalone senza se e senza ma".

Bene. Giovedì sera alle 22 i sindacati confederali sono stati convocati a Palazzo Chigi. Alle 4 del mattino, in una delle tante pause d'un negoziato che tutti i partecipanti hanno definito durissimo, si sono appartati in una saletta del palazzo Prodi, Padoa-Schioppa, Letta e il segretario della Cgil, Epifani. "Devi dirmi sì o no. Adesso" gli ha detto il presidente del Consiglio. "Per me l'accordo va bene, ma debbo consultare il direttivo. Garantisco che la risposta sarà un sì ma formalmente la darò lunedì mattina". "Lo ripeto: mi devi dare la risposta adesso. Se è no esco di qui e annuncio le dimissioni del governo".

Dopo questo siparietto il sì di Epifani è arrivato con la clausola "per presa d'atto" scritta a penna prima della firma. Il senso di quella frase l'ha dato lo stesso segretario della Cgil in un'intervista di ieri al nostro giornale. Alla domanda dell'intervistatore sull'accordo raggiunto, la risposta è stata la seguente "il testo di ieri notte contiene molte misure di grandissimo valore e anche di carattere innovativo. In modo particolare sto pensando ai giovani, al fatto che nell'aggiornamento dei coefficienti di trasformazione sarà indicato che per loro la pensione non potrà essere inferiore al 60 per cento dell'ultima retribuzione. Non solo: dopo tanti anni vengono definiti finalmente i lavori faticosi".

Poche righe più in là il giornalista gli chiede: "Il governo reggerà la prova parlamentare dell'intesa?". Risposta: "Il governo ha una navigazione a vista, ma troverei paradossale che naufragasse proprio su questo. La conseguenza sarebbe la crisi di governo ma anche la sopravvivenza dello scalone e la rinuncia a tutto ciò che c'è di buono in questa intesa". Esatto. Che altro c'è di buono in questa intesa? Ricordiamolo perché di questi tempi la memoria è diventata assai corta. C'è l'aumento delle pensioni d'anzianità a 3 milioni di pensionati, l'avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani contro il precariato, per un complessivo ammontare di 2.600 miliardi.
Altri 5 miliardi sono stati stanziati per l'aumento graduale dell'età pensionabile al posto dello scalone di Maroni. Si parte da subito con lo scalino di 58 anni, nel 2009 l'età sale a 59 anni, nel 2011 a 60, nel 2013 a 61. Un anno in più alle stesse date per i lavoratori autonomi.

Tutti questi provvedimenti saranno inseriti nella legge finanziaria per il 2008. Se il governo fosse battuto, il complesso di questi accordi - che dovranno essere approvati dai lavoratori - salterà per aria insieme al governo. Ha ragione Epifani: sarebbe un capitombolo epocale. Chi si prenderebbe questa responsabilità: Giordano? Diliberto? Cremaschi della Fiom?

* * *

Tito Boeri, un economista di valore, ha scritto ieri sulla "Stampa" che l'accordo sulle pensioni è un buon compromesso. Avrebbe voluto che l'età pensionabile si muovesse con maggiore celerità ma si rende conto, appunto, del "contesto" e se ne dichiara parzialmente soddisfatto. A differenza del suo collega ed amico Francesco Giavazzi che sul "Corriere della Sera", lancia invece raffiche sul governo, sui sindacati, sulla sinistra. Se la prende anche con Veltroni. Il finale arieggia a quello che il Manzoni mette in bocca a frà Cristoforo quando apostrofando don Rodrigo con l'indice puntato contro di lui e gli occhi fiammeggianti profetizza: "Verrà un giorno... ".

Più misurati gli eurocrati di Bruxelles. Conosceremo meglio domani la loro opinione ma il primo impatto è stato favorevole, almeno perché una decisione è stata presa. Negativa - moderatamente - la Confindustria, anche perché non è stata ascoltata. Mi permetto di osservare in proposito che l'oggetto del negoziato riguardava i pensionati e i pensionandi. Non un contratto di categoria e neppure la politica economica in generale ma semplicemente pensionati e pensionandi.

Mi permetto altresì di dire che perfino la consultazione della "base" da parte dei sindacati è un gesto apprezzabile di democrazia ma non statutariamente necessario, come lo sarebbe per un contratto di lavoro. Si spera comunque che i dirigenti confederali accompagneranno la discussione con la base esternando il loro motivato parere e spiegando bene le conseguenze di un voto negativo. La democrazia non è (non dovrebbe essere) una lotta libera senza regole. Serve a costruire e non a sfasciare. E se i partiti invadono l'agone sindacale, tempi duri si preparano per i lavoratori.

Post Scriptum. Alcuni lettori si chiedono e ci chiedono perché mai la Chiesa abbia celebrato con tutti gli onori previsti dalla liturgia i funerali dell'avvocato Corso Bovio, eminente figura del Foro milanese, morto suicida, ed abbia invece negato quei funerali all'ammalato Welby che fu aiutato da un amico generoso a interrompere cure inutili che perpetuavano senza scopo alcuno una vita di intollerabili sofferenze.
Una spiegazione pare che ci sia da parte della Chiesa. Dal diniego opposto contro tutti i suicidi, essa è passata col tempo ad una visione più duttile (più ipocrita) secondo la quale il suicidio deriva da un "raptus", una perdita improvvisa di coscienza. Su questa base il suicida viene "perdonato" e ammesso ai funerali religiosi che mandano in pace l'anima sua e sono di conforto per i suoi parenti.

Nel caso Welby invece l'ipotesi del "raptus" non poteva essere adottata poiché si trattava di un militante che voleva contrastare l'accanimento terapeutico. Di qui il divieto di celebrare il funerale religioso nonostante fosse stato richiesto insistentemente da lui e dai suoi familiari. Che possiamo rispondere ai nostri lettori? Che la Chiesa è, oltre che un'organizzazione religiosa, anche se non soprattutto un'organizzazione di potere. È anzi un potere a tutti gli effetti e si muove come tale su un'infinità di questioni che hanno poco o nulla a che vedere con la religione dell'amore e della carità predicata dai Vangeli. Come tutte le organizzazioni di potere, anche la Chiesa usa largamente lo strumento dell'ipocrisia. Questo è tutto.

(22 luglio 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 29, 2007, 06:24:22 pm »

POLITICA

Breve lezione sulla felicità

di EUGENIO SCALFARI


Mi permetterete, cari lettori, di uscire oggi dal seminato e di trattare un tema che potrà sembrare non pertinente alla stretta attualità. L'ho già sfiorato più volte ma ora vorrei prenderlo di petto e vedrete che non è poi così lontano dalle tematiche quotidiane così noiosamente ripetitive.

Il mio tema coinvolge tre concetti: il tempo, il senso, la felicità, strettamente connessi tra loro nel nostro agire quotidiano. Ma forse non ce ne accorgiamo, eppure ogni nostro atto, desiderio, comportamento, sono motivati e determinati da quei tre elementi. Ciascuno di noi vuole anzitutto sentirsi felice o meno infelice di quanto non sia; questo suo obiettivo si colloca ad una certa distanza dall'attimo presente e promette una certa durata e qui interviene l'elemento temporale. Il percorso tra la decisione che ci procurerà felicità e il tempo necessario per realizzarla dà senso a quel percorso e poiché la vita altro non è che la ricerca continua di felicità che si ottiene e si perde un attimo dopo averla raggiunta, ecco che il senso viaggia senza soluzione di continuità a cavallo di quei percorsi che ci accompagnano in modi variabili fino al nostro ultimo appuntamento.

Incito i nostri attori, politici professionali economici culturali, a riflettere su queste considerazioni. Ne indico qualcuno, tanto per fornire concreti esempi, precisando che indico in questi casi risultati di felicità connessi a obiettivi di natura pubblica e non privata, che pure ci sono e per la maggior parte delle persone hanno anzi caratteristiche dominanti.

Mi viene in mente, tanto per dire, Luca Montezemolo. Quando la Ferrari vince una gara è felice e lo si vede. Così pure quando la Fiat di cui è presidente realizza risultati positivi. E ancora quando la Confindustria centra un suo obiettivo di politica economica. Queste sue attività plurime gli costano (anche questo si vede) molta fatica, ma è fatica appagante e dà senso alla sua vita fino a quando riuscirà a ghermire qualche brandello di felicità.

Me ne vengono in mente moltissimi altri. Per esempio Silvio Berlusconi. Che sia felice ogni volta che si trova in un bagno di folla plaudente è un fatto evidente. Traspira gioia da tutti i pori. Bacia volti di bambini, stringe centinaia di mani. Lancia battute eccitanti, divertenti, esalta entusiasmi. Non c'è niente di falso né di studiato in tutto questo.

Prima d'entrare in politica la sua felicità dipendeva dai bilanci delle sue aziende, dai contratti pubblicitari che riusciva ad ottenere dagli inserzionisti. Era una felicità di qualità minore rispetto al bagno di folla. Perciò sarà un triste giorno per lui quando dovrà rinunciarvi. Farà di tutto perché arrivi il più tardi possibile, di questo si può star certi.

Ma prendete anche (scelgo a casaccio dal mazzo dell'attualità) il giudice Clementina Forleo. Fa un mestiere difficile e anche avaro di felicità: chi giudica tra parti in causa e si asside come arbitro neutrale in mezzo a loro ricava felicità solo dal fatto di garantire un'applicazione appropriata della legge. Ha fatto il suo dovere e tanto dovrebbe bastarle. Ma i suoi provvedimenti passano poi al vaglio di successivi gradi di giurisdizione, possono essere confermati o cancellati. Ammetterete che la felicità arriva col contagocce. A meno che il giudice non si sporga e non sprema la spugna fino all'ultima goccia.

E' ciò che ha fatto nel caso delle intercettazioni telefoniche su alcuni membri del Parlamento. Non entro nel merito della sua ordinanza perché non ne ho né titolo né voglia. Ma l'irruenza del giudizio che ha anticipato un'incriminazione prima ancora che la Procura della Repubblica la formulasse, non ha altra motivazione che una ricerca maggiore di felicità. Come il bagno di folla di Berlusconi. Il nostro presidente della Repubblica - ben prima che l'attualità facesse esplodere il caso Forleo - aveva indicato tra i malanni della giustizia anche quelli d'una eccessiva ricerca di visibilità. Ma parole sagge non riescono quasi mai a frenare una natura.

Mi ha stupito invece la posizione di Borrelli, che fu procuratore a Milano all'epoca di Tangentopoli. Ha detto che il "sovrappiù" della Forleo è un elemento marginale rispetto al merito del problema che riguarda la possibilità di indagare presunti colpevoli. Ha ragione e torto nello stesso tempo. I sospettati siano al più presto indagati, ma chi si occuperà del "sovrappiù" di Clementina? Potrà ancora fare l'arbitro d'un procedimento nel corso del quale è scesa tra i giocatori calciando impropriamente la palla? Borrelli è stato anche procuratore della Federcalcio e ha sospeso fior di arbitri. Dovrebbe dunque avere ben presente quell'esperienza.

Tanti altri esempi potrei addurre per spiegar bene quanto pesi nelle azioni umane la ricerca di felicità. Ma spero d'aver chiarito a sufficienza e proseguo nel ragionamento.

* * *

La durata delle singole felicità ha un tempo breve. Ma esistono anche felicità collettive e la loro durata è più lunga. A volte molto più lunga.

Quando dico felicità collettiva penso a soggetti collettivi, comunità locali, comunità nazionali, comunità internazionali che si vivano anche come veri e propri soggetti e come tali siano vissuti dai popoli che ne fanno parte.

I percorsi necessari per dare durata e stabilità alla felicità che abbia soggetti collettivi come destinatari sono notevolmente lunghi. Di solito operano di rimbalzo, come le biglie del biliardo che spesso debbono fare il giro delle sponde per realizzare l'obiettivo di ottenere punti e lasciare l'avversario in posizione incomoda.

Anche qui qualche esempio, dal mazzo dell'attualità. La sinistra radicale si sente a disagio; ha la sensazione che Prodi stia privilegiando la linea riformista e che questo spostamento la penalizzi. Perciò promette battaglia. E' chiaro il perché: il soggetto che si riconosce nei partiti della sinistra radicale pensa che la felicità propria, dei movimenti che vorrebbe rappresentare, della classe operaia della quale rivendica la rappresentanza politica, si realizzi spostando a sinistra la politica del governo. Questo è il dichiarato obiettivo dei suoi leader. I quali tuttavia sanno (e lo dicono) che una crisi del governo penalizzerebbe fortemente i loro veri e presunti rappresentati.

I leader dei partiti di quella sinistra sostengono di costituire un terzo della coalizione, ed è vero. Perciò pongono la domanda: si può governare contro un terzo della maggioranza? A questa domanda i leader del centrosinistra oppongono la contro-domanda: si può governare contro i due terzi?

Rifarsi al programma è un puro alibi: un programma di 280 pagine è interpretabile e ognuno lo fa a suo modo. Sicché non c'è che affidarsi al capo del governo e della coalizione, Romano Prodi. Altro metodo non c'è. Ma i leader della sinistra radicale dovrebbero anche sapere che i loro continui strappi, che poi finiscono (finora) con il rientrare, provocano reazioni crescenti nei due terzi riformisti e disincanto ulteriore nel corpo elettorale.

Questa ricerca sussultoria di due felicità che si contrappongono configura una scomodissima situazione. Il solo risultato finora conseguito è stato quello - ottenuto principalmente dalla stessa sinistra radicale - di autoproporsi come capro espiatorio di tutto ciò che non va nella gestione della cosa pubblica. Debbo dire: non è un gran risultato.

* * *

La classe dirigente di uno Stato deve proporsi come obiettivo quello di procurare felicità agli abitanti e assicurarla per quanto possibile ai loro figli e nipoti. Diciamo tre generazioni. Andare al di là mi sembra azzardato; starne al di qua denota corta vista ed è ciò che di solito caratterizza regimi populisti e demagogici. La classe dirigente di uno Stato deve dunque avere una visione del paese dinanzi a sé e deve anche - anzi come primario obiettivo - attuare in corsa la riforma delle inefficienze dello Stato.

Si moltiplicano gli allarmi su questo punto, che viene chiamato di volta in volta questione settentrionale o questione meridionale, ma che più appropriatamente dovrebbe essere chiamata questione dello Stato.

La classe dirigente deve necessariamente darsi carico di tutto ciò. In una recente intervista al nostro giornale Giuliano Amato, per spiegare il suo punto di vista su alcuni temi d'attualità, ha avuto la cortesia di riprendere un'immagine da me usata un anno fa, quella dello specchio rotto. A terra sono rimasti i frammenti di quello specchio che non riflettono più l'intera realtà ma soltanto alcuni suoi parziali aspetti.

Bisogna dunque che la classe dirigente si dia carico di recuperare uno specchio capace di riflettere l'intera realtà nazionale e operi avendo di mira la felicità dei padri, dei figli e dei nipoti. Una felicità duratura, che dia sollievo subito ad alcuni bisogni impellenti ma nel contempo ponga le condizioni affinché speranze e attese che si proiettano nel futuro siano salvaguardate anche a prezzo di alcune rinunce oggi necessarie.

Una classe dirigente che sia capace di questo trova in questa visione e nel realizzarla, anche la propria felicità e il senso del proprio percorso e della propria funzione.

Post Scriptum. Rientro nel seminato (dal quale peraltro ho potuto allontanarmi assai poco) per spendere due parole sulla legge elettorale e sul referendum parzialmente abrogativo.

Stefano Rodotà segnala che la legge che dovesse uscire dal referendum sarebbe un mozzicone di legge, un dispositivo assai imperfetto che lascerebbe in piedi le liste bloccate senza preferenze e inciterebbe partiti e partitini a far blocco per intascare il premio di maggioranza.

Personalmente non do gran valore al sistema delle preferenze. Ricordo il trionfo del referendum Segni che restrinse le preferenze da quattro ad una soltanto e passò a furor di popolo.

Concordo invece con Giovanni Sartori che sul Corriere della Sera indica tra le soluzioni "buone" oltre al doppio turno alla francese anche la legge vigente in Germania. Purché sia conservata nel modello attuale e non ricucinata in salsa italiana, osserva Sartori. Anche su questo punto sono d'accordo con lui come pure sul gonfiarsi e sgonfiarsi dei partiti di centro, dovuto alla pressione moderata o esorbitante dei partiti estremi.

In materia pensiamo e scriviamo le stesse cose, caro Sartori, sperando con scarsa fiducia di essere ascoltati.


(29 luglio 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 06, 2007, 10:04:43 am »

POLITICA

Ahi Costantin di quanto mal fu madre

di EUGENIO SCALFARI


Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c'è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere.
Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l'arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l'Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell'America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.

Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L'"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale.
Tutto ciò va evidentemente al di là d'una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.

Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.

La questione cattolica è dunque quella che spiega più d'ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell'opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza.
"Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".

La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.

Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall'Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.

Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l'emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.

La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall'Austria e da alcuni paesi cattolici dell'America meridionale. Le capacità finanziarie dell'episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l'esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.

A fronte di quest'offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d'intransigenza che sfiorano l'anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l'antica diffidenza di togliattiana memoria.

Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un'avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell'ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell'elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.

* * *

Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.

Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".

L'obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.

Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l'hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un'altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.

* * *

Un elemento decisivo della questione cattolica e dell'anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l'articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un'organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d'un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c'è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d'un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.

Questa doppia elica non esiste in nessun'altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell'impossibilità di realizzare l'unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.

Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all'interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell'episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.

Negli scorsi giorni l'atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.

Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l'otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all'episcopato italiano quell'otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.

* * *

Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.

Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata.
Quanto al grosso dell'opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.

Perciò sperare che la democrazia possa diventare l'"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.


(5 agosto 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 12, 2007, 06:38:37 pm »

IL COMMENTO

L'ombra della crisi del '29 sui nostri risparmi

di EUGENIO SCALFARI


CI SONO state molte altre crisi finanziarie negli ultimi vent'anni del Novecento, dovute all'improvviso sgonfiarsi di bolle speculative. La crisi del rublo, quella dell'insolvenza messicana, quella dei "bonds" argentini, quella (e fu la più violenta e diffusa) che travolse i super-investimenti nell'industria informatica. E naturalmente le crisi petrolifere che portarono alle stelle i prezzi del greggio con ripercussioni non solo sulla finanza ma sull'economia reale. E tutte, ovunque fosse il loro epicentro iniziale, coinvolsero il centro finanziario del mondo: Wall Street, le grandi banche d'affari americane, l'immenso ventaglio dei loro clienti internazionali e multinazionali, chiamando in causa inevitabilmente anche la Federal Reserve, la Banca centrale americana, supremo regolatore del sistema monetario e finanziario del pianeta.

Ma nessuna di queste "fibrillazioni" somiglia a quella di questi giorni. Forse proprio perché nel caso attuale l'epicentro è nel sistema bancario americano, nei mutui immobiliari facili, nel loro piazzamento in titoli "derivati" e nella loro diffusione in molte istituzioni finanziarie internazionali.

La finanza Usa e la Fed questa volta non giocano di rimessa, ma giocano in proprio. Il sisma nasce lì, a Manhattan, nel cuore della Grande Mela e ciò aumenta la sua potenza diffusiva e le sue devastanti capacità.
C'è però un precedente cui la crisi attuale può esser confrontata ed è il terremoto finanziario del 1929. Lo si nomina poco in questi giorni, anche gli analisti che inclinano piuttosto al pessimismo fingono di dimenticarsene, forse per scaramanzia. Ma, pur nelle grandi differenze di contesto rispetto a ciò che accadde ottant'anni fa, le analogie sono impressionanti.

Consiglio ai lettori di procurarsi e di leggere un libro diventato fin dal suo primo apparire un classico in materia: "Il grande crollo" di Kenneth Galbraith. E' una lettura paurosamente affascinante. Intanto la crisi di oggi e quella del '29 cominciano allo stesso modo: una gigantesca bolla immobiliare, mutui facili, esposizione di istituti bancari specializzati in questo settore, fame di case concentrata soprattutto in California e in Florida, emissione di azioni da parte di società-fantasma, cieca fiducia dei risparmiatori, rifinanziamenti a breve da parte del sistema bancario, interventi (inutili) della Banca centrale e delle principali istituzioni finanziarie, in particolare le banche d'affari che facevano allora capo ai Rockefeller, ai Morgan, ai Rothschild.

Nel '29 vigeva il sistema aureo, non esisteva alcuna disciplina sul mercato dei cambi, New York, Londra, Berlino, Parigi erano in accesa competizione tra loro. Ciò aggravò e moltiplicò gli effetti del sisma che da una crisi di Borsa si estese al dollaro, dalla moneta americana alla sterlina e al marco tedesco e a tutto il sistema aureo, cioè a tutte le monete del mondo.
Per fortuna il sistema monetario mondiale è oggi completamente diverso, l'amplificazione dei fenomeni si verifica agevolmente ma è entro certi limiti governabile. Siamo più attrezzati di allora. Ma le analogie restano e i rischi sono tutt'altro che lievi.

Non starò ora a ripercorrere le tecniche dei mutui immobiliari, della loro cartolarizzazione in titoli, dei tassi di interesse prossimi allo zero per invogliare la clientela, dell'assenza di valide garanzie e infine nella diffusione anche fuori dal mercato Usa dei titoli - spazzatura e dei relativi rischi. Nei giorni scorsi tutto questo perverso meccanismo è stato ampiamente descritto e quindi lo do per noto.

Ricordo soltanto ai lettori che il mercato immobiliare e il suo enorme indotto coprono almeno un quarto dell'economia Usa. A loro volta i consumi privati rappresentano i due terzi della domanda interna di quel paese e gran parte di essi, specie tutta la fascia dei beni durevoli, è strettamente connessa alla costruzione di nuove abitazioni. Stiamo insomma discutendo di uno dei gangli vitali del sistema America e del "business" ad esso collegato.

Questo sensibilissimo settore è entrato in crisi di insolvenza. I clienti che hanno contratto mutui sono insolventi, non hanno soldi per pagare le rate; di conseguenza i loro creditori diventano man mano insolventi anch'essi; i risparmiatori che hanno affidato i loro risparmi a fondi d'investimento che hanno in portafoglio anche titoli immobiliari, ritirano i loro capitali; i fondi più deboli e più presi di mira cominciano a congelare le quote della clientela e creano in questo modo altri punti d'insolvenza. Purtroppo tra i fondi coinvolti ci sono anche alcuni fondi-pensione che sono tenuti dai loro statuti a corrispondere con periodica frequenza i dividendi ai pensionati. Per ora non si ha notizia di insolvenze in questo delicatissimo settore. Auguriamoci che i gestori dei fondi-pensione non siano stati troppo aggressivi nella ricerca di rendimenti superiori alla media.
Si tratta comunque di un'insolvenza abbastanza diffusa. Il governatore della Fed, in una recentissima dichiarazione, l'ha valutata a cento miliardi di dollari. Per ora le insolvenze acclarate ammontano a cifre molto minori, eppure sono state sufficienti a terremotare i mercati finanziari in Usa, in Europa, in Canada, in Australia. L'Asia, Giappone compreso, sembra al riparo dalla tempesta. Ma se e quando dovessero venire allo scoperto le insolvenze preannunciate da Bernanke, gli effetti potrebbero essere assai più micidiali.

Proprio per impedire che ciò accada e soprattutto per recuperare la fiducia dei risparmiatori e degli operatori, le Banche centrali hanno deciso di concerto di iniettare liquidità nei mercati con prestiti a breve e brevissimo termine ai sistemi bancari, accompagnando queste operazioni con inviti alla calma e solenni assicurazioni che la crisi è circoscritta, le insolvenze limitate, la liquidità comunque garantita e i "fondamentali" senza alcun contraccolpo. Non avevano altra strada, le Banche centrali, che stanno facendo egregiamente il loro lavoro. Riassorbire l'eccesso di liquidità quando non sarà più necessario non è tecnicamente difficile. Non è detto invece che il recupero di fiducia avvenga rapidamente.

Nella crisi del '29 non avvenne, anzi durò per molti mesi fino a creare effetti depressivi sulle economie reali. Abbiamo già detto che le autorità monetarie e le istituzioni finanziarie sono oggi molto più attrezzate di allora. Tuttavia la fiducia è un elemento immateriale e estremamente volatile. L'ostentata tranquillità delle Banche centrali e delle autorità monetarie può non esser sufficiente a ripristinarla.

Se poi prendesse corpo la speculazione ribassista con l'obiettivo di deprimere fortemente i listini di Borsa per poi ricoprirsi realizzando favolosi guadagni, come spesso avviene in situazioni del genere, non c'è Banca centrale che possa reggere né fiducia che possa esser recuperata. E' tuttavia difficile (o almeno così ci auguriamo) un intervento massiccio al ribasso. La situazione dei mercati si è fatta di colpo così delicata che un intervento speculativo al ribasso potrebbe produrre effetti di tale magnitudine da render poi impossibile per lungo tempo l'esito positivo per gli speculatori. C'è insomma un deterrente psicologico, e speriamo che basti a fermar la mano della speculazione.

La Borsa italiana ha preso nell'ultimo mese e in particolare negli ultimi tre giorni potenti scoppole, più o meno in misura analoga a quella degli altri mercati europei. Più per contagio che per reali insolvenze. Di queste ne sono finora venute alla luce assai poche. Quella, di circa 700 milioni, dei tre fondi della Paribas parzialmente congelati. Altre sulle quali per ora circolano soltanto voci.

Il contagio comunque si può propagare come il "venticello" della calunnia cantato da Don Basilio nel "Barbiere di Siviglia". Ma se non è sostenuto da evidenze concrete può essere rapidamente dissipato. Il caso italiano non sembra dunque particolarmente esplosivo. C'è un punto tuttavia che merita di esser considerato e riguarda i fondi pensione nei quali sono recentemente affluiti oltre un milione di pensionandi che hanno versato i loro Tfr col metodo del silenzio-assenso.

Si è fatto un gran can-can da parte della "setta" degli economisti liberali perché il collocamento del Tfr nei fondi non era stato sufficientemente incoraggiato dal governo. Era una menzogna e il risultato delle sottoscrizioni lo dimostra. Ma ora ci sarà chi rimpiangerà, tra i pensionandi che hanno scelto la previdenza complementare, di non aver versato i propri Tfr ai fondi aziendali gestiti dai sindacati o addirittura di non aver conservato il vecchio sistema della previdenza pubblica dell'Inps. Gli investimenti arrischiati di alcuni fondi - pensione americani ci dicono che anche la via della previdenza alternativa non è cosparsa di rose e fiori e che il mercato non è mai stato e mai sarà il paese di Bengodi se non per i pochi che possono manovrarlo a danno dei molti.

C'è un altro aspetto italiano che vale la pena di considerare. E' opinione diffusa che l'eventuale rallentamento della crescita della nostra economia, aggravato dai possibili effetti della crisi in atto, spingerà in alto l'onere del debito pubblico sul bilancio dello Stato. Personalmente credo sia un marchiano errore fare simili previsioni. La crisi finanziaria in atto ha aumentato e ancor più aumenterà la propensione dei risparmiatori a investire in titoli pubblici, Bot o pluriennali. Questa propensione produrrà un aumento della domanda di quei titoli e quindi un'occasione per il Tesoro di spuntare condizioni più favorevoli nel momento dell'emissione.

L'aspetto più preoccupante della situazione italiana sta invece nei possibili effetti di rallentamento sulla crescita del Pil che la crisi può esercitare. Rallentamento dovuto ad un calo nei consumi, allo sgonfiamento della bolla immobiliare che anche da noi è in corso e quindi nell'occupazione, nel reddito e negli investimenti nell'ampio indotto dell'industria edilizia.
A fronte di questi temuti effetti recessivi si ripete il suggerimento di accelerare le riforme. Ma quali?
Bisognerebbe specificare un po' di più se si vuole evitare la ripetizione giaculatoria della parola "riforme".

Le liberalizzazioni, certo. Ma non bastano, agiscono con ritardi tecnicamente inevitabili, non possono comunque essere effettuate tutte insieme in dosi massicce senza sconvolgere mercati alquanto sinistrati.
Il rallentamento nella crescita impone di concentrare l'azione del governo su quell'obiettivo. E quindi: favorire gli accordi governo-sindacati in favore della produttività; concentrare la spesa pubblica sui lavori pubblici e le infrastrutture; procedere a ulteriori sgravi fiscali sul lavoro e all'ulteriore sostegno dei bassi redditi.

Le crisi finanziarie hanno, come la loro storia ha invariabilmente dimostrato, l'effetto di accrescere la responsabilità e il ruolo dello Stato nel rilancio dell'economia. Così accadde nell'America del '29, dove la crisi spazzò via la lunga dominanza dei conservatori e aprì la stagione dei riformisti, dai tre mandati di Roosevelt, a Truman, a Johnson, a Kennedy, a Carter, a Clinton.

La ragione è evidente: le crisi determinano rallentamento nella domanda. La ripresa avviene rifinanziando la domanda. E quando è in sofferenza il settore delle costruzioni, affiancando all'investimento privato un massiccio e organico investimento pubblico. Tanto più in un paese come il nostro dove le infrastrutture sono carenti al Nord quanto al Sud. Su questa politica il governo può ritrovare compattezza ed efficacia. La situazione è già abbastanza seria per smetterla con i tiri alla fune e gli strappi per esibire una forza che isolatamente nessuno possiede.

(12 agosto 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 24, 2007, 11:50:18 pm »

IL VETRO SOFFIATO

Le paure di Silvio i dubbi di Walter

di Eugenio Scalfari


Berlusconi teme Veltroni e deve allargare i giochi. Ma anche il sindaco di Roma ha molti nodi da sciogliere. Commenta  Tra le tante bizzarrie estive alcuni giornali hanno anche lanciato quella d'un nuovo partito che Silvio Berlusconi avrebbe in animo di fondare e del quale avrebbe già pronto il nome e il programma. Dovrebbe chiamarsi Partito delle libertà e dovrebbe radunare tutti i moderati italiani. La pseudo-notizia è stata vivacemente smentita dai diretti interessati, ma qualche cosa di vero ci deve essere.

Non un partito, che provocherebbe l'ostilità dei 'colonnelli' di Forza Italia e anche di Alleanza nazionale, ma un movimento imperniato sui Circoli della libertà, quelli promossi da Dell'Utri ma soprattutto quelli in concorrenza, promossi dalla Michela Brambilla.

Il centrodestra sente il bisogno di movimenti. È in gestazione quello di Savino Pezzotta che ha come base le famiglie cattoliche. Questo dei Circoli della Brambilla sarebbe parallelo al pezzottismo; invece che far leva sulle famiglie avrebbe riferimenti di natura economico-professionale: i commercianti, l'imprenditoria minuta, le famose partite Iva del lavoro autonomo. Lo scopo di questi movimenti ancora allo stato nascente è chiaramente rivolto a pescare nell'elettorato di An e dell'Udc convogliandone i consensi verso Forza Italia. In prospettiva, se la legge elettorale restasse quella attualmente vigente, i Circoli della libertà potrebbero dar luogo a una lista 'civetta' apparentata con Forza Italia e con quanto resterebbe dei seguaci di Fini e di Casini.

Bizzarrie estive, ma fino ad un certo punto. Perché mai Berlusconi, che è indubbiamente un uomo intuitivo, sente il bisogno di allargare il gioco e di introdurre nuovi giocatori nella partita in corso da tempo nel centrodestra? La risposta riguarda il Partito democratico e il candidato a guidarlo, Walter Veltroni. La leadership di Veltroni preoccupa Berlusconi. Stando ai sondaggi più recenti, in
uno scontro testa a testa il sindaco di Roma prevarrebbe su di lui di quattro punti, 52 contro 48 per cento. Il confronto tra le due coalizioni, sempre secondo quei sondaggi, vede ancora in testa il centrodestra, 53 a 47 per cento, ma sta di fatto che il centrosinistra con queste cifre sembra rientrato in partita. Infine il Partito democratico sarebbe in grado di raccogliere il 39 per cento dei voti contro il 29 di Forza Italia. Ecco perché Berlusconi è preoccupato. Di Casini e di Fini non si fida, la Lega è una mina vagante. Veltroni può ancora guadagnare molto terreno proprio nei settori centrali del corpo elettorale. Ma basteranno i Circoli della Brambilla ad arginare una possibile frana?

Queste considerazioni spostano l'attenzione sul Partito democratico e sulle sue dinamiche interne. Finora l'estate ha tenuto 'surplace' i vari partecipanti, ma d'ora in avanti si dovrà entrare nel merito: contenuti, strutture, liste alternative e liste collegate. Il nuovo partito è ancora una nebulosa, le elezioni del 14 ottobre configureranno la leadership nazionale, le strutture locali, la composizione dell'assemblea costituente, la consistenza numerica del partito e il bacino del suo potenziale elettorato.

Qui si pongono alcune domande. La prima: quante persone andranno a votare il 14 ottobre? Le previsioni in materia sono estremamente difficili. Si azzarda la cifra di un milione. Non è molto. Alle primarie semiplebiscitarie su Prodi, due anni fa, votarono 4 milioni e 300 mila, ma allora non si trattava di creare un partito, bensì di insediare il leader che avrebbe guidato tutto il centrosinistra nello scontro elettorale. Qui voteranno soltanto gli iscritti ai due partiti promotori e quanti nella società civile vogliono partecipare alla nascita del Pd. Un milione tuttavia supera di poco gli iscritti ai Ds e alla Margherita. Se si resta su quella cifra o addirittura se ne sta al di sotto, ciò significa che l'apporto della società civile sarebbe pressoché irrilevante. Un vero successo si avrebbe se i votanti si attestassero sul milione e mezzo. In quel casoil peso dei simpatizzanti rispetto alle strutture e alle nomenklature dei due partiti promotori sarebbe soverchiante. Un esito di questo genere è in diretto rapporto con la forza di attrazione della candidatura Veltroni.

Il sindaco di Roma è infatti il solo dotato di un carisma capace di mobilitare interessi e valori al di là delle appartenenza di partito e di corrente. Accanto a lui, specie nell'area del Centro-nord, ci sono altri sindaci, presidenti di Provincia e di Regione, che possono convogliare consensi aggiuntivi a quelli dei due partiti promotori. La dimensione di questo potenziale afflusso è il vero punto interrogativo delle cosiddette primarie del 14 ottobre.
(24 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 26, 2007, 09:40:32 pm »

POLITICA

La nevrosi tutta italiana delle tasse da pagare
di EUGENIO SCALFARI


Ieri ho telefonato a una decina di amici della generazione dei cinquantenni, variamente inseriti nelle professioni e in incarichi manageriali e ho fatto due domande: qual è secondo voi il tema più importante della vita pubblica italiana in questi giorni? E poi (seconda domanda): qual è - secondo voi - il tema che gli italiani ritengono più importante?

Ho posto ai miei amici queste due domande perché - dai fuochi che stanno bruciando mezza Sicilia e devastano terre e boschi in molte altre regioni, alle tasse, al Partito democratico, all'investitura berlusconiana di Michela Brambilla - gli argomenti non mancano e sentivo anch'io il bisogno di ascoltare un mio piccolo campione di fiducia.

Le risposte sono state le seguenti. Cosa pensano i miei amici:

1. Una statistica europea ha collocato il sistema sanitario italiano al secondo posto in Europa. Per noi, che in genere parliamo della nostra sanità come un sistema pessimo, questa è una notizia che dovrebbe stare nella prima pagina dei giornali e delle televisioni.

2. Le tasse. E qui non c'è bisogno di spiegarne il perché.

3. Il governo, il Partito democratico e il futuro del centrosinistra.

4. Il laicismo, i Dico, la bioetica.

Quali sono - secondo i miei amici - i temi che più appassionano in questi giorni gli italiani:

1. Il delitto di Garlasco.

2. Le tasse.

3. I piromani.

4. Michela Brambilla detta la Rossa.

Lascio ai lettori di valutare le risposte a queste due domande. Dal canto mio, poiché il tema delle tasse figura al secondo posto di tutte e due le indicazioni, dedicherò le mie osservazioni di oggi a questo argomento ringraziando gli amici per la loro collaborazione che, nella sua varietà, può stimolare l'attenzione del pubblico.


* * *


Comincerò dalla sortita in favore dello sciopero fiscale fatta pochi giorni fa da Massimo Calearo, presidente della Federmeccanica e vicepresidente degli industriali di Vicenza. Per le due cariche che ricopre, Calearo è uno degli esponenti di primo piano della Confindustria. Non risulta che sia un leghista. La sua dichiarazione è stata dunque fatta in nome e per conto delle associazioni imprenditoriali da lui rappresentate. Perciò è assai più seria e grave dei proclami politici di Bossi e di Calderoli.

È vero che a distanza di poche ore il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, ha vivacemente redarguito il suo collega vicentino e che quest'ultimo dal canto suo ha detto che la sua era stata una "provocazione per smuovere le acque". Ma il giorno dopo è intervenuto Montezemolo e a quel punto l'intera questione ha cambiato livello. Ha fatto, come si dice, un salto di qualità.

Che cosa ha detto Montezemolo? Nella sostanza ha detto due cose: anzitutto che la "provocazione" di Calearo rispecchia i sentimenti di gran parte degli italiani; in secondo luogo ha detto che gli industriali non pagheranno un soldo di tasse in più a meno che non vi sia in contropartita una drastica riduzione delle imposte che gravano sulle imprese.

Il tono è stato molto brusco e decisamente "radicale" nel senso che di solito si attribuisce alla sinistra massimalista che usa quel tono per affermazioni di opposto contenuto. È vero che Montezemolo, per bilanciare politicamente la sua perentoria dichiarazione, ha aggiunto che essa suona come condanna sia della politica economica del governo attuale sia di quella del precedente governo Berlusconi-Tremonti. Ma questo bilanciamento si risolve in un incitamento antipolitico che un'organizzazione semi-istituzionale come la Confindustria non dovrebbe fare se conservasse il dovuto senso di responsabilità e di misura.


* * *


Il ministero dell'Economia ha diffuso ieri gli ultimi dati sulle entrate fiscali dello Stato dopo l'autotassazione di agosto di Irpef, Ires e Irap. Sono dati molto positivi, al di là delle aspettative. In percentuale l'aumento dei primi otto mesi dell'anno confrontati con l'analogo periodo dell'anno precedente è stato del 21 per cento. A parità di aliquote e di reddito. In cifre assolute sono entrati 4 miliardi in più di quanto previsto nel Dpef dello scorso giugno e 8 miliardi in più delle previsioni del marzo. Il risultato sarebbe stato ancora maggiore se non fosse già stata scontata la spesa di 4 miliardi per la restituzione dell'Iva sulle automobili delle imprese, decisa dalla Comunità europea.

Il presidente del Consiglio, commentando queste cifre, le attribuisce al senso civico degli italiani che smentiscono con i loro comportamenti gli irresponsabili appelli allo sciopero fiscale. E preannuncia che la prossima legge finanziaria affronterà il tema dell'alleggerimento del peso fiscale sulle imprese e sulle fasce di reddito più deboli.

Il vice ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, dal canto suo ha liquidato la posizione di Montezemolo come "vacua retorica" ed ha aggiunto ai dati sulle entrate un'analisi della situazione che merita attenta riflessione.


* * *


Dice Visco che il vero problema italiano è quello dell'evasione fiscale di massa che egli definisce una vera e propria "pandemia". Dice che l'aumento delle entrate fiscali - a parità di reddito e di legislazione - è interamente dovuto al recupero di evasioni ed elusioni fiscali e che il suo ammontare dall'inizio del governo Prodi è stato di 20 miliardi. Dice che la lotta all'evasione va dunque mantenuta con lo stesso rigore fin qui applicato. Dice che il governo Berlusconi-Tremonti ci aveva lasciato in eredità una finanza pubblica prossima ad una situazione Argentina. Dice che le maggiori entrate non hanno affatto accresciuto la pressione fiscale proprio perché ottenute con recuperi dell'evasione, ma che comunque è venuto il momento di abbassarla, quella pressione fiscale, in favore delle imprese, delle micro-strutture artigianali e dei redditi più deboli. Dice infine che molti dimenticano che l'Italia ha un debito pubblico enorme che ci costa ogni anno 5 punti di Pil in più di quanto avvenga negli altri paesi europei. Questo debito si formò nel decennio 1982-'92 balzando dal 57 al 120 per cento del Pil.

Vi ricordate quegli anni? Erano quelli della "nave va" e della "Milano da bere". In realtà dell'"Italia da bere", innaffiata dal debito e dall'inflazione, una Bengodi che ha scaricato l'onere sui figli e sui nipoti senza che nessuno vigilasse e desse l'allarme salvo pochissime Cassandre (tra le quali questo giornale) inascoltate e vilipese.

Queste cose ha detto il ministro Visco, anche lui come Prodi e Padoa Schioppa tra gli ultimi in classifica nell'opinione degli italiani. Ed ecco un altro tema che non figura nelle risposte dei miei amici ma figura in una mia personale classifica della disinformazione ed anche della propensione del pubblico a fermarsi alla prima osteria senza far la fatica di approfondire e di scegliere con più attenzione le vivande delle quali cibarsi.


* * *


Io penso che il vero grave errore del governo e della maggioranza che lo sostiene (o dovrebbe sostenerlo) sia l'endemica disparità dei giudizi e la molteplicità delle ricette proposte a getto continuo da ministri, sottosegretari e capi partito, ciascuno dei quali si richiama a qualcuna delle 281 pagine di un programma elettorale in cui c'era tutto il generico dello scibile politico sciorinato con l'intento di tenere insieme una coalizione troppo lunga e strutturalmente disomogenea.

Ricordo a me stesso - come si dice per sfoggio di umiltà lessicale - d'esser stato tra i primi a segnalare questo serio anzi serissimo inconveniente dopo i primi trenta giorni dal suo insediamento parlando di "governo sciancato", il che non mi ha impedito di riconoscere i molti meriti su gran parte dei provvedimenti presi da allora ad oggi. Ma quel difetto purtroppo permane, come pure l'eccesso di annunci che sarebbe assai meglio evitare parlando soltanto dopo aver deciso e attuato le decisioni.

La rissosità governativa del resto - come ha chiarito assai bene domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera" - è stato proprio anche del centrodestra che, pur disponendo di maggioranze bulgare in Parlamento, non è riuscito a muovere neppure un piccolo passo avanti nell'attuazione del suo programma "liberale" che Berlusconi vorrebbe rilanciare oggi fondando il nuovo "Partito della libertà", anch'esso di pura plastica poggiata sulla figurina di Michela la rossa.

Queste considerazioni ci portano al tema della legge elettorale e del Partito democratico.


* * *


Walter Veltroni, in recenti e ripetute dichiarazioni, ha detto che il Partito democratico nella sua visione dovrà rinnovare l'alleanza con gli altri partiti dell'Unione ma al tempo stesso privilegiare l'omogeneità della coalizione stilando un programma chiaro, concreto, sintetico.

Ove questi due obiettivi risultassero incompatibili tra loro, quello dell'omogeneità dovrebbe avere la meglio secondo Veltroni. In tal caso il Partito democratico sarebbe costretto a presentarsi da solo, rinviando a dopo le elezioni il problema delle alleanze.

Credo che questo modo di ragionare sia interamente condivisibile. L'antipolitica è un vizio antico degli italiani, ma non c'è dubbio che essa tragga nuovo e nutriente alimento dalle risse interne alle coalizioni, amplificate come è inevitabile dal circolo mediatico che vive anche di questi scontri adempiendo al suo compito di controllo in nome e per conto della pubblica opinione.

Naturalmente se questo modo di ragionare è giusto, esso dovrebbe essere applicato anche all'interno dei partiti. Le correnti sono inevitabili e anche utili nei partiti di ampia dimensione, a condizione che esprimano diversità di posizioni e di tonalità, compatibili tuttavia entro ambiti di condivisione di obiettivi e di principi.

Da questo punto di vista a molti osservatori - ed anche a me come ho già più volte scritto - non pare che le candidature alternative a quella di Veltroni siano portatrici di posizioni differenziate. Finora queste diversità non risultano, il che conduce a pensare che si tratti piuttosto di posizionamenti per acquisire maggior voce e presenza nel quadro dirigente del futuro partito. E' un obiettivo più che legittimo in un partito democratico, ma va chiamato per quel che è.

Ci sono però due temi specifici che il nuovo partito deve con urgenza affrontare e sui quali è opportuno richiamare l'attenzione del candidato principale: uno è quello dell'elezione dei segretari regionali, se debba esser fatta il 14 ottobre insieme a quella del leader nazionale o se debba invece avvenire successivamente, quando la Costituente del partito sarà stata insediata e dovrà appunto occuparsi anche dell'organizzazione. Si può sottrarre alla Costituente un tema così importante come è il quadro regionale e i modi della sua elezione?

Il secondo tema è quello dei partiti territoriali la cui federazione darebbe vita al partito nazionale. Finora sembra di capire che Veltroni sia favorevole a questo schema federativo. Come osservatore esterno ma interessato mi permetto di dissentire. Le istituzioni dello Stato è giusto che abbiano articolazioni federali provviste di ampie autonomie culminanti nel Senato federale e nel federalismo fiscale. Ma proprio per questo i partiti debbono avere una propria personalità nazionale. Le articolazioni territoriali sono ovvie e sempre esistite, ma non possono dare luogo a partiti autonomi di scegliere alleanze non compatibili e politiche proprie come se si trattasse di altrettanti Stati confederati.

I grandi partiti esprimono convinzioni, principi, consensi su base nazionale. L'Italia è stata e ancora in gran parte è uno spezzatino di interessi e di costumanze. Non spetta ai partiti di perpetuarle e di accentuarle. Essi anzi dovrebbero avere il compito di smussarle e ricondurle ad un concetto di unità della nazione e di visione dello Stato. Si vorrebbe conoscere in proposito l'opinione dei vari candidati alla leadership e in particolare quella di Walter Veltroni.

Post scriptum. Ho letto sui giornali di ieri che Vittorio Feltri è stato insignito dal Circolo Mario Pannunzio di Torino del premio, intitolato appunto a Pannunzio. Come vecchio collaboratore del Mondo sono molto stupito: Vittorio Feltri è senza dubbio un buon giornalista ma non ha niente a che vedere con la figura professionale morale e politica di Mario Pannunzio e del Mondo. Anzi è quanto di più lontano possa mai immaginarsi rispetto al premio dato in nome del fondatore di quell'ormai epico settimanale.


da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 08, 2007, 09:26:41 pm »

IL VETRO SOFFIATO

Quel pianto di Bush sulla spalla di Dio

di Eugenio Scalfari


Retorico? Ipocrita? Sconveniente? Io credo che la confessione del presidente americano sia stata sincera. E questo è il guaio peggiore  George BushSembra che George W. Bush attraversi una fase di intenso e sincero pentimento politico. Si è reso conto che il suo interventismo militare, l'unilateralismo delle sue decisioni, il suo sogno di esportare la democrazia nell'Oriente di mezzo, il disprezzo verso l'Europa e verso l'Onu, il bagno di sangue in Iraq, hanno creato un isolamento pauroso dell'America, la rivolta sempre più accentuata della pubblica opinione americana, il rilancio dell'opposizione democratica.

Mancano ancora 500 giorni alla fine del mandato presidenziale. Il periodo finale della presidenza è di solito quello durante il quale l'uomo più potente del mondo - come tutti pensano che sia il presidente degli Stati Uniti - cerca di passare alla storia con comportamenti che illustrino l'opera sua e diano un significato epocale alla sua politica. Un lascito di solidarietà disinteressata. L'espressione d'un sentimento morale che prevalga sugli interessi lobbistici affermando al di sopra di essi ideali di giustizia e di solidarietà.

Ma Bush difficilmente riuscirà a 'immortalare' i suoi otto anni di presidenza. Il tentativo in corso sembra dunque ridotto a limitare i danni, a disfarsi del team di consiglieri e di collaboratori che l'hanno spinto su una via rovinosa e ad ammettere con sincerità gli errori compiuti confessandoli al paese senza invocare attenuanti.

Così sembra che stia accadendo. Il verbo sembrare è d'obbligo perché i segnali che questa sia la strada intrapresa da Bush sono ancora molto ambigui e contraddittori. È vero che una buona parte del suo staff è stata mandata a casa, ma i rimpiazzi non brillano per caratteristiche che esprimano una linea politica opposta a quella fin qui seguita. Nella maggior parte dei casi si tratta di sostituzioni incolori. D'altra parte il vicepresidente Cheney - rappresentante numero uno della politica conservatrice, degli interessi petroliferi e dell'intervento militare in Medio Oriente - si è visibilmente rafforzato negli ultimi mesi e resta un alfiere della continuità senza alcuna disponibilità a pentimenti e a tardivi scrupoli.

Non è tuttavia di questa possibile inversione di marcia bushana che vogliamo qui discutere, quanto di una frase, anzi d'una immagine assai suggestiva contenuta in un'intervista autobiografica anticipata qualche giorno fa dal 'New York Times'. "Ho pianto a lungo sulla spalla di Dio". Non è bellissima? Non è poetica? Non è l'espressione sincera di un ravvedimento operoso che dovrebbe servire di incitamento e di esempio a tutti gli americani?

Non sappiamo ancora quali saranno le reazioni dell'opinione pubblica di quel Paese; nella peggiore delle ipotesi (per Bush) gli si potrebbe obiettare che avrebbe potuto pentirsi prima; un'altra ipotesi, più ottimistica, si esprime con la frase "meglio tardi che mai". Infine una terza: si commuoverà e piangerà insieme a lui assicurando un lieto fine ad una oggettiva catastrofe politica e ad una tragedia umana documentata da migliaia di vittime militari e da molte decine di migliaia di vittime civili (ma c'è anche chi parla di centinaia di migliaia).

Vedremo nelle prossime settimane come evolverà la catarsi di George Bush, ma intanto vorrei proporre ai nostri lettori una domanda: come sarebbe accolta in Italia e in Europa una confessione come quella compiuta da Bush nella sua intervista autobiografica? "Ho pianto a lungo sulla spalla di Dio" è una frase che si può dire oppure è una frase inaudita, inaudibile, scandalosa da parte di un uomo che è assiso al vertice del potere americano e mondiale?

Io credo che in Europa un'espressione simile verrebbe presa - come si suol dire - con le molle. Retorica, certamente. Accettabile da un poeta o da un sedicente profeta, da un uomo di religione, ma non da uno statista. Ipocrita, detta da chi è responsabile di eccidi e crimini paurosi. Espressione di luciferina superbia perché Dio non è uno scendiletto o un inginocchiatoio privato al quale ci si può avvicinare per fare un piantino riparatore come fanno i bambini sulla spalla delle mamme.


Infine gli europei sono in maggioranza laici anche se credenti; utilizzare Dio per un'operazione politica credo sarebbe giudicato sconveniente da una larghissima maggioranza. Forse ad eccezione di Clemente Mastella, di Pier Ferdinando Casini e, perché no, di Silvio Berlusconi che ne dice tante e poi tante da non stupirsi di nulla.

Dal canto mio penso che Bush non sia stato né ipocrita né blasfemo. Penso anche che alla maggior parte degli americani quella frase non sia sembrata inaudita. Non dimentichiamo che Bush è un 'cristiano rinato', con tutte le ingenuità e le forzature del neofita. E non dimentichiamo neppure che la religione in America è vissuta assai diversamente che in Europa. La Bibbia e il fucile: questo era il simbolo dei pionieri.

Insomma, credo che Bush sia stato sincero. E questo in realtà è il guaio peggiore che possa capitarci.

(07 settembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 09, 2007, 07:40:15 pm »

POLITICA

A proposito della crisi immobiliare-finanziaria che non si è affatto spenta come alcuni ottimisti ritenevano e come tutti speravamo

La trottola impazzita che affossa i mercati

Tra la finanza e la domanda-offerta di beni e servizi non esiste più alcuna barriera

di EUGENIO SCALFARI

 

PURTROPPO bisogna di nuovo tornare sul tema della crisi immobiliare-finanziaria che non si è affatto spenta come alcuni ottimisti ritenevano e come tutti speravamo al di là e al di qua dell'Atlantico. Non si è spenta per varie ragioni e sta tracimando sulla cosiddetta economia reale. In realtà la globalizzazione finanziaria ha cancellato questa distinzione scolastica; tra la finanza e la domanda-offerta di beni e servizi non esiste più alcuna effettiva barriera e chi si ostina a pensare come se quella barriera esistesse sbaglia sia la diagnosi sia la terapia.

Fin dall'inizio, ai primi d'agosto, a noi sembrò chiaro che il terremoto che aveva come epicentro la bolla immobiliare americana avrebbe rapidamente coinvolto non solo alcuni fondi "aggressivi" e alcune istituzioni impegnate nel settore dei mutui ipotecari, ma anche le aspettative di investimento nell'edilizia e nel vastissimo reticolo di aziende che lavorano nell'indotto edile.

Le aspettative negative avrebbero avuto ripercussioni sulla domanda di investimenti e quindi sull'occupazione. Le Borse avrebbero registrato questi fenomeni attraverso strappi al ribasso sempre più forti in tutte le voci del listino.

Tutto ciò è regolarmente avvenuto. Ma si sperava - irragionevolmente - che il calo di domanda per investimenti non mettesse in discussione la domanda di consumi. E poiché i consumi nelle società opulente rappresentano una quota molto più consistente degli investimenti, l'irragionevole fiducia nella loro tenuta alimentava un moderato ottimismo.

Ancora una volta, cioè, ci si aggrappava ad una distinzione puramente scolastica, inesistente nella realtà. La domanda di consumi era già falcidiata dallo sgonfiamento disordinato della domanda di case e di beni e servizi connessi con il mercato edilizio e dalle insolvenze di molti fondi. A questo primo taglio della domanda si è aggiunto quello proveniente dai ribassi delle Borse (particolarmente importante nei paesi dove l'investimento del risparmio in valori mobiliari rappresenta un fenomeno di massa).

Infine i primi licenziamenti e le mancate nuove assunzioni nel mercato del lavoro, che hanno accentuato le aspettative negative di ulteriori tagli nella formazione del reddito e quindi un crescente trend a monetizzare il risparmio.

Tutti questi fenomeni strettamente connessi tra loro hanno rotto le briglie con sorprendente rapidità, specie nei paesi dove la flessibilità del lavoro è pressoché totale. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: languono gli investimenti edilizi, i consumi indietreggiano, la liquidità sul mercato è in diminuzione, aumentano le insolvenze, le banche non si fidano delle altre banche, i tassi overnight (a brevissimo termine) sono rincarati di almeno 40 punti-base, i prestiti interbancari a tre mesi di 70 punti base.

Le Banche centrali in Usa e in Europa hanno per fortuna seguito una linea comune iniettando liquidità con ampie operazioni. Ampie, ma con velocissimi rientri. Molti osservatori ed esperti (?) continuano a commettere l'errore di sommare le varie immissioni di liquidità arrivando a totali di centinaia di miliardi di dollari e di euro. Totali inesistenti quando si parla di prestiti tra Banche centrali e banche ordinarie della durata di 24-48 ore, salvo quelli trimestrali che hanno infatti tassi molto più alti e rappresentano una massa assai minore delle operazioni complessive.

L'immissione di liquidità, indispensabile per costruire attorno ai sistemi bancari internazionali una rete di relativa sicurezza, ha tuttavia scarsi effetti su una crisi che si protrae coinvolgendo i cosiddetti "fondamentali". Scarsi effetti poiché le aspettative negative degli operatori e dei risparmiatori si stanno orientando verso la monetizzazione. Vengono cioè chiuse le posizioni rischiose e vengono aperte posizioni in impieghi liquidi. Un tempo si mettevano i risparmi "sotto il materasso"; oggi si collocano in fondi "monetari", in titoli pubblici, in obbligazioni di massima garanzia e di tipo assicurativo, di immediata negoziabilità.

Movimenti di questa natura hanno l'effetto di far sparire il capitale di rischio dal mercato facendo dimagrire fortemente i flussi di finanziamento alle imprese. Non è la liquidità che manca, ma gira su se stessa senza sbocco come una trottola impazzita. Gira da un fondo all'altro, da una banca all'altra, dalle Banche centrali agli istituti di credito ordinari, appunto come una trottola che si avvita su se stessa. Nessun imprenditore oggi sarebbe in grado di lanciare tra il pubblico un aumento di capitale della sua impresa o un'Opa. Le fusioni tra imprese restano possibili solo attraverso scambio reciproco di titoli. I take over sono diventati rari. Quanto al "nanismo" delle aziende - fenomeno particolarmente diffuso in Italia - tentare di spingerlo verso dimensioni aziendali più ampie e ottimali è diventata nelle attuali condizioni del mercato e delle aspettative un'impresa impossibile.
Questo, dopo un mese e mezzo dall'inizio della crisi, è lo stato dei fatti. Scrivemmo ai primi d'agosto che il solo paragone possibile era con la crisi del '29. Gli esperti (?) dissero di no, che il paragone era sbagliato. Ma sono loro che continuano a sbagliare. La crisi del '29 - che trasse origine anch'essa dallo sgonfiarsi improvviso d'una bolla immobiliare e borsistica - creò un blocco degli investimenti, un'insolvenza diffusa, il crollo dell'occupazione, del reddito e dei consumi.
Naturalmente in situazioni diverse: c'era guerra tra le Banche centrali, guerra tra le monete, erraticità dei cambi. Oggi siamo meglio attrezzati da questo punto di vista ma la natura del sisma è assolutamente identica. Se poi si decide di non nominare il '29 per non spaventare la gente, è un altro discorso; e se si decide questo tipo di autocensura per non risvegliare il ricordo dei rimedi proposti allora da Keynes e praticati da Roosevelt, è un altro discorso ancora. Discorsi ipocriti che producono solo chiacchiere senza formulare alcuna valida diagnosi e terapia.

* * *

Il tema della crisi immobiliare-finanziaria ci riporta a questo punto in patria per esaminare la congruità della manovra di politica economica che il nostro governo sta elaborando, delle varianti sostenute dalla sinistra radicale, dell'opposizione a tutto campo preannunciata dal centrodestra e dalla martellante campagna di Montezemolo sull'abbattimento delle imposte che gravano sull'industria italiana.

Sembrerebbe che vi siano dissensi anche in campo riformista. Si dice che la manovra ammonterà a 14 miliardi a costo zero: ogni spesa in più dovrà essere finanziata con risorse proveniente da tagli di altri spese. La pressione fiscale non dovrà aumentare, quindi niente inasprimenti e niente nuove tasse. Le maggiori entrate già in cassa o in corso di entrarvi serviranno a finanziare provvedimenti già decisi come il bonus di 300 euro a 3 milioni di pensionati che stanno sotto ai 500 euro al mese e l'accordo con i pubblici dipendenti per quanto riguarda il contratto firmato in luglio e scaduto nel 2006. Ma ci sarà anche un ribasso dell'Ici con modalità allo studio. A ciò si aggiunga il taglio di 3 punti di cuneo fiscale per complessivi 4 miliardi e mezzo, già operativo, il cui finanziamento fa parte della legge finanziaria 2007.
Questi provvedimenti, pur apprezzabili e apprezzati dalla sinistra radicale da un lato e da Montezemolo dall'altro, sono giudicati insufficienti. La sinistra radicale vorrebbe emendare l'accordo sulle pensioni, propone altri sgravi sui redditi bassi e sui salari dei lavoratori dipendenti. La Confindustria chiede un taglio drastico di almeno 5 punti sulle imposte che gravano sull'industria, pronta a scambiarlo con l'abolizione degli incentivi alle imprese tuttora vigenti.
L'opposizione dice di no a tutto senza finora proporre nulla. Ma Tremonti sta studiando...

* * *

Padoa-Schioppa vuole trasferire una parte della spesa improduttiva agli investimenti più carenti: infrastrutture, scuola, ricerca, sanità, sicurezza. Ha preparato un "libro verde" che segnala una serie di vistose distorsioni. Vuole cominciare a dare qualche concreta prova di questo risanamento qualitativo mai sperimentato da alcuno negli ultimi vent'anni. È invece contrario a riduzioni immediate di imposte. Lo scambio proposto da Montezemolo non si effettuerebbe a costo zero perché l'abolizione degli incentivi coprirebbe a stento un terzo della somma necessaria per ridurre di 5 punti le imposte sulle imprese. Veltroni dal canto suo vorrebbe uno sforzo in più, ma Padoa-Schioppa non vede da dove prendere i soldi necessari. Se verranno fuori qualche cosa si farà, altrimenti si rinvierà ai prossimi esercizi. Prodi ci spera ma non abbandona il suo ministro del Tesoro.

In proposito ecco quattro riflessioni su questi controversi temi:

1. Bisognerebbe sempre premettere, quando si fanno confronti con altri Paesi, che il nostro bilancio è gravato da un debito pubblico che pesa per 70 miliardi all'anno. Non c'è Paese al mondo con un debito e un onere di queste proporzioni. Sinistra radicale e Confindustria si dimenticano sempre questo non piccolo dettaglio. Un debito che fu fatto durante il decennio degli anni Ottanta dalla Dc con l'attivo concorso di socialisti, comunisti e partiti laici minori.

2. Le imprese hanno ottenuto un taglio di 3 punti dell'Irap, già in corso di realizzazione, per un complessivo ammontare di 4 miliardi e mezzo. In Germania la Merkel ha fatto molto di più ma il debito pubblico tedesco è meno della metà del nostro.

3. La sinistra radicale sorvola sia sul debito sia sull'aumento delle pensioni minime per 3 milioni di pensionati sia sull'abolizione dello scalone sui pensionandi con un costo di 10 miliardi per il bilancio dello Stato. (Rossanda vuole sapere se il bilancio delle gestione contributiva dell'Inps sia in pareggio. Lo è, ma va in largo passivo con le uscite di tipo assistenziale. Se quelle uscite vengono tolte all'Inps bisognerebbe pagarle con altre tasse o abolire i servizi. Rossanda ha suggerimenti in materia?).

4. Padoa-Schioppa ha stabilito che il rapporto deficit/Pil vada mantenuto al 2.2 per cento nel 2008 come da impegni assunti a Bruxelles dal governo Berlusconi e confermati da quello attuale. Il proposito del ministro del Tesoro è encomiabile ma quando quell'impegno fu preso la crisi finanziaria mondiale non era scoppiata e le previsioni sul Pil erano migliori di quelle di oggi. Se i governi debbono sostenere la domanda globale con un'azione che compenserà gli effetti recessivi della crisi, credo che il rapporto deficit/Pil potrebbe essere portato fino al 2.5 senza danno e anzi con vantaggio. Del resto anche la Bce s'era impegnata ad innalzare i tassi di interesse a settembre ma ha cambiato politica, quindi potrebbe cambiarla su un punto abbastanza marginale anche il governo italiano.

La conseguenza sarebbe un aumento del fabbisogno che si potrebbe però compensare con tagli di spese maggiori del previsto e/o con alienazioni di patrimonio pubblico prefinanziate dal sistema bancario. In totale si tratta di uno scostamento di 5 miliardi di euro, che non è la fine del mondo.

Nell'eventualità che quest'ipotesi sia percorsa e percorribile si pone il problema di come usare quella cifra. Forse in parte per ridurre ancora Irap e Ires. Un'altra parte per sostenere i redditi degli incapienti, dei giovani e delle famiglie.

Vorrei anche far notare che negli undici anni dal '95 al 2006 le imposte riscosse dal fisco sono aumentate del 12 per cento in termini reali; nello stesso periodo il Pil è aumentato del 20 per cento e le imposte riscosse dagli enti locali sono aumentate del 111 per cento. E' vero che alcuni trasferimenti dal centro alla periferia sono stati ridotti o cancellati, ma non in quelle dimensioni. Non è questione da poco quella di tirare la briglia alla finanza locale. Una buona parte della pressione fiscale e del debito pubblico viene proprio da lì.

Post Scriptum. Molti emeriti collaboratori del Corriere della Sera si susseguono a recensire il libretto di fresca pubblicazione scritto da altri collaboratori di quel giornale (nel caso specifico Giavazzi e Alesina) con il titolo "Il liberismo è di sinistra". Pare, stando ai recensori, che sarà il libro più importante di questa stagione editoriale con robusti effetti anche sul dibattito politico e sulle decisioni del governo.
Avendolo letto anch'io per ragioni d'ufficio, non vi ho trovato granché da discutere. Mi è sembrato un tessuto di domandine retoriche che, per come sono formulate, contengono già le risposte. È di destra o di sinistra liberalizzare i mercati? È di destra o di sinistra favorire i figli anziché i padri e i nonni? È di destra o di sinistra assicurare la legalità? Far funzionare meglio e con minori costi la sanità, la giustizia, le infrastrutture?

Siamo ai dibattiti che satiricamente si tenevano nel salotto di Arbore nella trasmissione Quelli della notte. Ebbene non è né di destra né di sinistra risolvere questi problemi che rappresentano le condizioni per un funzionamento normale della società. In Italia vige un sistema corporativo. Da quando? Da sempre. Perché? A questo bisognerebbe rispondere. Noi ci abbiamo provato più volte.

Il libro di Alesina-Giavazzi considera il mercato come uno strumento al quale bisognerebbe rimettere la soluzione dei problemi. Ma i due economisti non ignorano - visto che insegnano una disciplina che si chiama Economia Politica - che il mercato fornisce risposte in presenza di una data distribuzione della ricchezza. Se quella distribuzione fosse diversa anche le risposte del mercato lo sarebbero.

Luigi Einaudi ipotizzò teoricamente una società nella quale gran parte della ricchezza accumulata e trasmessa per eredità fosse redistribuita ad ogni generazione. Tutta la struttura dei prezzi e l'allocazione delle risorse ne sarebbe risultata rivoluzionata. Quindi ragionare sul mercato e affidarsi ad esso come fosse uno strumento neutrale è un'assoluta sciocchezza.

Infine gli autori del libro si domandano perché i governi non operino per favorire i consumatori anziché le lobby che rappresentano i produttori. C'è ovviamente del vero in quella domanda, ma non va ignorato che non esiste un consumatore allo stato puro che non sia allo stesso tempo anche un produttore; con una mano consuma e con l'altra lavora per procurarsi il reddito destinato a farlo vivere. Sicché i provvedimenti che favoriscono alcuni consumi sono accolti con favore dagli utenti o consumatori di quei beni e di quei servizi, ma non da chi li offre sul mercato. Tutti gli altri poi sono indifferenti.
Micro esempio: le licenze dei tassisti e le tariffe dei taxi. Gli utenti dei taxi sono lieti di provvedimenti che liberalizzano quel mercato. I tassisti invece sono furibondi. Le persone che dispongono di automobile e autista se ne infischiano. La massa dei poco abbienti va a piedi o con i mezzi pubblici e anch'essa se ne infischia. Così più o meno avviene in tutti i settori e questa è la vera ragione per cui non esiste un partito dei consumatori in nessun Paese dell'Occidente.
Può dispiacere. A me personalmente dispiace. Ma con i dati di fatto è inutile polemizzare. Per dire che il liberismo ha pochi fautori perché parte da premesse del tutto irreali. Quanto al liberalismo, quella è un'altra cosa.

(9 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 12, 2007, 06:56:15 pm »

CRONACA

IL COMMENTO

L'invasione barbarica di Grillo

di EUGENIO SCALFARI


HO VOLUTO aspettare qualche giorno prima di scrivere su Beppe Grillo e sul "grillismo". Ho letto le cronache, i commenti, le domande e le risposte. Ed ho riflettuto e ricordato. Infatti il fenomeno della piazza Maggiore di Bologna non è affatto una novità. In Italia c'è una lunga tradizione di "tribuni" e capi-popolo, un germe che ha messo radici da secoli e che rimane una latenza costante nell'"humus" anarcoide e individualista della nostra gente.

Quel filone - per fortuna - è mescolato con molti altri elementi: la nostra è una gente laboriosa, paziente, capace di adattamenti impensabili, generosa. Ad una cosa non si è mai adattata: a pensare e a comportarsi come partecipe d'una comunità, d'una struttura sociale con leggi e regole da rispettare anche quando sembrano danneggiare il proprio particolare interesse.

L'anarco-individualismo è un virus che corre sotto traccia ma spesso emerge ed esplode in superficie. I suoi avversari sono inevitabilmente sempre gli stessi: il potere costituito e il potere immaginato, quelli che fanno le leggi e quelli che le propongono e le attuano. L'anarco-sindacalismo è per definizione il nemico dell'autorità. Può rappresentare una necessaria valvola di sfogo quando provoca l'insorgenza contro regimi autoritari e dittatoriali (ma avviene di rado); ma diventa anacronistico in regimi di diffusa democrazia dove esistono forme di opposizione e di denuncia più efficaci e molto più civili di quella di radunarsi o marciare dietro cartelli con su scritto "Vaffanculo".

Non sono affatto d'accordo su quanti dicono che il "Vaffa-day" è solo un dettaglio folcloristico dovuto alla dimensione comica del primo attore. La forma - specie nella vita pubblica - è sostanza e chi inneggia al "Vaffanculo" partecipa consapevolmente a quelle invasioni barbariche che connotano gran parte della nostra mediocre e inselvaggita attualità.

* * *

È vero che la classe dirigente nella sua interezza ha reso plausibili anche le critiche più radicali. Soprattutto quella di non aver fornito alla società un esempio e un punto di riferimento capace di orientare il pubblico verso la ricerca del bene comune e della felicità propria e altrui.

Ho letto il commento di Fausto Bertinotti al raduno dei "grillisti" e ai tavoli per la raccolta della firme sotto la proposta di legge sponsorizzata da Grillo. Bertinotti ha sempre privilegiato la società rispetto alle istituzioni, la piazza rispetto al governo. Ma tenendo fisso il criterio dell'insostituibilità dei partiti, che lui vede come laboratori ideologici specializzati nella cultura dell'ossimoro. Che però volesse cavalcare il "grillismo" - sia pure con tutti i distinguo - questa è un'assoluta novità. Bertinotti esalta "l'esistente" affermando che è inutile polemizzare con esso. Fossero vivi i fratelli Rosselli ed Ernesto Rossi, avrebbero di che rispondergli su questo delicatissimo argomento.

All'entusiasmo "grillista" di Di Pietro non c'è invece da far caso. L'ex sostituto procuratore di Milano confonde - e non è la prima volta - Mani pulite con il giustizialismo di piazza e non si accorge che così facendo fa un pessimo servizio alla lotta che il Tribunale di Milano impegnò nel '92 contro la pubblica corruttela e contro i corruttori, i concussori, i corrotti che erano diventati da singoli casi giudiziari reati di massa pervadendo e deformando l'intero sistema degli appalti e insidiando le basi stesse della democrazia.

Ma Di Pietro, si sa, non va per il sottile. Non c'è andato neppure nella scelta dei candidati del suo partito, come purtroppo si è visto. Cerca sgabelli sui quali salire. Ma Grillo - questo è certo - non è sgabello se non di se stesso, come mezzo secolo fa capitò a Guglielmo Giannini: quando il suo "Uomo qualunque" mandò in Parlamento trenta deputati furono in molti a tentar di mettervi le mani sopra, la Dc, i liberali, i monarchici. Non ci riuscirono e ben presto tutto si ruppe in tanti pezzetti.

* * *

Movimenti d'opinione di natura antipolitica, come quello di cui stiamo discutendo, e rompono dal seno della società e poi declinano rapidamente. La politica non è un'invenzione di qualche mente corrotta o malata, ma una categoria della vita associata. Il governo della "polis", cioè della città, cioè dello Stato. L'antipolitica pretende di abbattere la divisione tra governo e governati instaurando il governo assembleare. L'"agorà". La piazza. L'equivalente del blog di Internet. Infatti la vera novità del "grillismo" è l'uso della Rete per scopi di appuntamento politico (o antipolitico).

Ma nella Rete si vede più che mai il carattere personalizzato dell'"agorà"; di ogni "agorà". Da quella di Cola di Rienzo a quella di Masaniello, da quella di Savonarola a quella di Camillo Desmoulins. Il blog ha infatti un'intestazione ed è l'intestatario che indica la via, che formula gli slogan, che produce gli spot. E' lui insomma il padrone di casa che guida e domina l'assemblea.

In realtà il governo assembleare è sempre stato una tappa, l'anticamera delle dittature. La storia ne fornisce una serie infinita di conferme senza eccezione alcuna. Proprio per questo quando vedo prender corpo un movimento del tipo del "grillismo" mi viene la pelle d'oca; ci vedo dietro l'ombra del "law & order" nei suoi aspetti più ripugnanti; ci vedo dietro la dittatura.

Non inganni lo slogan "né di destra né di sinistra". Si tratta infatti di uno slogan della peggiore destra, quella populista, demagogica, qualunquista che cerca un capo in grado di de-responsabilizzarla.

Il più vivo desiderio delle masse, cioè dell'individuo ridotto a folla e a massa, è di essere de-responsabilizzato. Vuole questo. Vuole pensare e prendersi cura della propria felicità delegando ad altri il compito di pensare e decidere per tutti. Delega in bianco, semmai con una scadenza. Ma le scadenze, si sa, sono scritte con inchiostri molto leggeri che si cancellano in breve tempo. Il potere, una volta conquistato, ha mille modi per perpetuarsi.

L'antipolitica è sempre servita a questo: piazza pulita per il futuro dittatore. Che non sarà certo uno come Grillo. Il dittatore quelli come Grillo li premiano e poi li mettono in galera. E' sempre andata così.

* * *

Spero che molti abbiano letto il discorso pronunciato da David Grossman all'apertura del Festival della letteratura a Berlino, che Repubblica ha pubblicato nel numero di mercoledì 5 settembre. E' un testo di grande significato e di grande stile e mi permetto di raccomandarne la lettura ed anche la rilettura perché merita d'esser meditato e possibilmente trasformato in propria sostanza.

Mi spiace rimescolare l'alta prosa di Grossman a questioni tanto più mediocri e volgari come il raduno dei sostenitori di "Vaffa". Ma quel pensiero e il testo che lo contiene toccano tra le tante altre cose anche il tema della riduzione dell'individuo a massa, lo schiacciamento dell'individuo, il suo divenire succube di slogan inventati per imporli a lui che inconsapevolmente li adotta e se ne compiace.

Quel tema è l'aspetto drammatico della civiltà di massa, della società di massa e dei "mass media" che ne diffondono l'immagine sovrapponendola all'immagine individuale. Un aspetto al quale è difficilissimo sottrarsi perché ci invade e ci pervade quasi in ogni istante della nostra esistenza. La modernità porta con sé questo virus micidiale: la riduzione dell'individuo a massa, materiale malleabile e plasmabile, materia per mani forti e dure. La massa riporta gli adulti all'infanzia e alla sua plasmabilità. Alla sua manipolazione. Questo - in mezzo a molte virtù innovative - è il delitto della modernità, il virus dal quale bisogna guardarsi e contro il quale bisogna mobilitare tutti gli anticorpi di cui disponiamo.

Ma ascoltiamo Grossman.

"Ci fa comodo, quando si parla di responsabilità personale, far parte d'una massa indistinta, priva di volto, d'identità e all'apparenza libera da oneri e colpe. Probabilmente è questa la grande domanda che l'uomo moderno deve porsi: in quale situazione, in quale momento io divento massa?"

"Ci sono definizioni diverse per il processo con il quale un individuo si confonde nella massa o accetta di consegnarle parti di sé. Io ho l'impressione che ci trasformiamo in massa nel momento in cui rinunciamo a pensare, a elaborare le cose secondo un nostro lessico e accettiamo automaticamente e senza critiche espressioni terminologiche e un linguaggio dettatoci da altri".

"I valori e gli orizzonti del nostro mondo e il linguaggio che lo domina sono dettati in gran parte da ciò che noi chiamiamo "mass media". Ma siamo davvero consapevoli del significato di questa espressione? Ci rendiamo conto che gran parte di essi trasformano i loro utenti in massa? E lo fanno con prepotenza e cinismo, utilizzando un linguaggio povero e volgare, trasformando problemi politici e morali complessi con semplicismo e falsa virtù, creando intorno a noi un'atmosfera di prostituzione spirituale ed emotiva che ci irretisce rendendo "kitsch" tutto ciò che tocchiamo: le guerre, la morte, l'amore, l'intimità. In molti modi, palesi o nascosti, liberano l'individuo da ciò di cui lui è ansioso di liberarsi: la responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle sue azioni ed omissioni. E' questo il messaggio dei "mass media": un ricambio rapido, tanto che talvolta sembra che non siano le informazioni ad essere significative ma il ritmo con cui si susseguono, la cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano. Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo "zapping"".

Mi perdonerete, cari lettori, la citazione forse è troppo lunga, ma questo brano del discorso di Grossman è così attuale al nostro tema che credo ne sia l'indispensabile compimento. Egli inoltre addossa una parte rilevante di quanto accade nello schiacciamento dell'individuo sulla massa ai mezzi di comunicazione, al loro funzionamento che ormai ha preso la mano a quasi tutti quelli che operano in quel settore, al "sistema" che tutti insieme hanno costituito, dove la moneta cattiva scaccia la buona e la concorrenza paradossalmente funziona più per peggiorare il prodotto che per migliorarlo.

Chi che come me ha dedicato una parte della vita ai giornali ed ha vissuto da giornalista tra i giornalisti conosce bene questa realtà ed anche l'estrema difficoltà di sottrarvisi. Eppure è uno sforzo che a questo punto occorre fare. Ne verrebbe un forte miglioramento alla qualità della vita pubblica, una vera e non fittizia attenzione alla moralità e anche la gratificazione d'aver innovato un modo di comunicare in direzione contraria ai "Vaffa" che ormai ci serrano da ogni parte trasformando il linguaggio in un dialetto da taverna.

* * *

Mi resta ancora da esaminare i tre quesiti proposti ai tavoli delle firme da Beppe Grillo. Molti che hanno firmato distinguono infatti la firma di quei quesiti dall'adesione al "grillismo".

La distinzione è assolutamente legittima: si può firmare anche valutando il movimento dei "Vaffa" per ciò che è. Ma esaminiamoli nella sostanza quei tre quesiti.

Il primo stabilisce che tutti i cittadini che concorrono a cariche elettive debbano essere scelti attraverso elezioni primarie preliminari. Questo principio mi sembra meritevole di essere accolto. Il Partito democratico, tanto per dire, ha deciso di farlo proprio. Tutto sta a come saranno organizzate queste primarie. Grillo per esempio ha definito una "mascalzonata" l'esclusione di Pannella e di Di Pietro dalle candidature per la leadership del Pd, ignorando che entrambi fanno parte di altri partiti e anzi li guidano e non hanno accettato di abbandonarli all'atto della candidatura. Come se un nostro condomino, invocando questa qualifica, pretendesse di decidere assieme a noi e ai nostri figli questioni strettamente familiari. Dov'è la logica?

Il secondo quesito vieta ai membri del Parlamento di farne parte per più di due legislature. Questo divieto è una pura sciocchezza. Ci obbligherebbe a rinunciare ad esperienze talvolta preziose. Forse anche a molti vizi acquisiti durante l'esercizio del mandato. Ma quei vizi non possono essere presupposti e affidati all'automatismo di una norma. Spetta agli elettori discernere tra vizi e virtù e decidere del loro voto. Per di più una norma automatica del genere sarebbe incostituzionale perché priverebbe l'elettore di una sua essenziale facoltà che è quella di poter votare per chi gli pare. Che cosa sarebbe successo per esempio se nei primi anni Cinquanta fosse stato impedito agli elettori democristiani di votare una terza volta per De Gasperi, a quelli comunisti per Togliatti, ai socialisti per Nenni e ai repubblicani per Pacciardi o La Malfa?

Il terzo quesito - impedire ai condannati fin dal primo grado di giurisdizione di far parte del Parlamento - sembra a prima vista ineccepibile. Per tutti i reati? E fin dal primo grado di giurisdizione? La presunzione d'innocenza è un principio sancito dalla nostra Costituzione; per modificarlo ci vuole una legge costituzionale, non basta una legge ordinaria. I reati d'opinione andrebbero sanzionati come gli altri? Quando Gramsci, Pertini, Saragat, Pajetta, furono arrestati io credo che gli elettori di quei partiti li avrebbero votati e mandati in Parlamento se un Parlamento elettivo fosse ancora esistito e se quei partiti non fossero stati sciolti d'imperio. Personalmente ho fatto un'esperienza in qualche modo consimile: entrai alla Camera dei deputati nel 1968 sull'onda dello scandalo Sifar-De Lorenzo nonostante o proprio perché ero stato condannato in primo grado dal tribunale di Roma. Lo ricordo perché è un piccolissimo esempio di una proposta aberrante.

Questioni complesse - ha scritto il Grossman sopracitato - quando sono semplificate sopprimono la responsabilità personale dell'individuo e ottundono le sue capacità critiche. Ma è proprio a quelle capacità che è affidato il nostro futuro.

(12 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 17, 2007, 12:24:25 pm »

CRONACA

IL COMMENTO

Il popolo che cerca il giudizio universale

di EUGENIO SCALFARI


DICONO che Prodi, a chi gli faceva osservare con disappunto che il consenso attorno al suo governo non dava alcun segno di ripresa nonostante il discreto andamento dell'economia e alcuni provvedimenti del governo senz'altro positivi, avrebbe risposto: "Non ti preoccupare. Già la Finanziaria del 2007 comincia ad esser giudicata in modo più favorevole dei mesi scorsi. Abbiamo ancora quattro anni di tempo. Alla fine della legislatura la maggioranza degli italiani darà un giudizio favorevole sul nostro operato".

Può darsi che Prodi abbia ragione e che le cose andranno così. Come cittadino e anche come giornalista che ha sempre riconosciuto al presidente del Consiglio una tenacia a prova di bomba, me lo auguro. Però non sono d'accordo. Per due ragioni. La prima è che l'attuale consenso riscosso dal governo è tecnicamente troppo basso, come un aereo che è sceso talmente verso terra da correre ad ogni attimo il pericolo di avvitarsi su se stesso rendendo inutile e anzi impossibile ogni tentativo di recuperare la linea di volo.

Ma la seconda ragione è ancora più decisiva della prima: cresce la quantità di cittadini che rifiutano in blocco questa classe politica.

Che questo atteggiamento si possa definire antipolitico (come personalmente ritengo) oppure politico al massimo grado perché non è frutto di indifferenza ma di partecipazione attiva e combattiva (come sostengono rabbiosamente tutti quelli che hanno risposto all'appello del "Vaffa-day") è questione opinabile, ma non cambia la sostanza nelle cose. C'è un crescente rifiuto di "questa" politica di "questi" partiti, di "questi" uomini politici.

Tutti, nessuno escluso. Loro e tutto il mondo che - secondo le persone che condividono quello stato d'animo - ruota intorno a loro.

Rifiuto totale. Su tutti i piani e a tutti i livelli: le tasse, la sicurezza, la legalità, le disuguaglianze, la libertà. Pollice verso su tutto. Se ne devono andare.

Dopo il mio articolo su Grillo ho ricevuto 57 lettere tutte dello stesso tenore. Alcune, non tutte ma parecchie, scagliano il loro "Vaffa" declinato nella versione completa contro di me e la riga sotto concludono con un "cordiali saluti" in omaggio alla buona educazione d'un tempo.

Argomenti? Pochi. Uno in realtà ed è quello già citato: dovete andarvene, si deve ricominciare da zero, la nuova "agorà" sarà la rete, il metodo della democrazia rappresentativa non rappresenta nessuno, la forma non è sostanza ma pura e semplice ipocrisia, l'Italia non è quella che vedete dai vostri salotti ma quella di chi lavora e non guadagna abbastanza da poter campare.

Insomma tutto il male da una parte e tutto il bene dall'altra, le menzogne da una parte e la verità dall'altra, l'illegalità di qua e la legalità - quella autentica - di là. Questo è il modo di pensare di molti ed è in crescita.

Dubito molto che un taglio dell'Ici o dell'Ires o dell'Irpef possa modificare la situazione anche se bisogna continuare a lavorare come se si vivesse mille anni, guardando al domani e non solo all'oggi.

Dubito che serva spiegare e spiegarsi. Quando il pollice della folla è rivolto all'ingiù ci vogliono colpi di scena per fargli cambiare posizione. Ci vogliono emozioni che capovolgano emozioni di segno opposto. Questa équipe politica tutto può fare salvo che suscitare emozioni in proprio favore.

Per queste ragioni credo che sia molto difficile riportare l'aereo governativo a livello di crociera anche perché pochissimi del personale navigante mostrano di aver capito quello che sta accadendo.

E' probabile che tra sei mesi o tra un anno la gente sia stufa di esibire il pollice verso. Questo genere di ventate passa presto ma dietro di sé lascia un terreno devastato.

Il mitico Sessantotto insegna. Dopo arrivarono gli anni di piombo, l'indifferenza, il richiamo all'ordine. Una parte dei sessantottini di allora rientrò nel mondo della realtà concreta di tutti i giorni; altri finirono nella clandestinità, nel sangue e in galera; altri ancora fecero carriera nei percorsi che avevano vilipeso e desacralizzato.

Di solito va così. Ma qui non siamo in una situazione che consenta lunghe attese. Il tempo passa presto, come dice la canzone. Il distacco tra la città della politica e i sentimenti delle persone è diventato difficile da colmare.

Veltroni ci sta provando ma anche per lui le difficoltà aumentano.

Dicevo che ci vorrebbe un colpo di scena, un segnale preciso che inverta il "trend". Per esempio il taglio del numero dei ministri e dei sottosegretari.

Non annunciarlo ma farlo. La politica degli annunci è deleteria.

L'operazione del taglio dei ministri è difficilissima, come voler prendere il miele da un alveare mentre le api sono tutte nelle loro cellette e non hanno alcuna intenzione di volar via. Ma, se fatta con saggia incisività, sarebbe un colpo di scena coi fiocchi. Scommetto che non si farà. Quand'anche il presidente del Consiglio si convincesse alla bontà dell'operazione, non avrebbe i poteri per imporla.

Avrebbe bisogno che tutti i ministri e i partiti che sono dietro di loro fossero d'accordo; che ciascuno gli affidasse la sua lettera di dimissioni e si rimettesse alle sue decisioni. Ma saremmo nel mondo dei sogni e non ci siamo.

* * *

Il sondaggio fatto pochi giorni fa da Ilvo Diamanti dice che dei 300 mila cittadini che hanno firmato la proposta di legge Grillo il 58 per cento ha opinioni di sinistra e centrosinistra. Solo il 30 per cento si dichiara di centrodestra. Si sapeva che la sinistra è più sensibile della destra a queste sollecitazioni ma le percentuali sono assai eloquenti.

Una sinistra militante ha dentro di sé il mito della politica, l'ideale della politica. Della politica "alta".
Della politica nobile. Della politica delle mani pulite. Se la presa del potere si impelaga nel lavoro sporco la sinistra militante si sente tradita.

La legalità è tradita.

Gli ideali sono traditi. La rivoluzione è tradita. La palingenesi è tradita.

Anche la destra estrema coltiva questo tipo di mitologia e il tradimento contro di essa: la guerra tradita, la vittoria tradita, la nazione tradita.

La reazione a questi supposti tradimenti è il rifiuto di tutto l'esistente e la sua sostituzione con un nuovo esistente virtuale.

Il riformismo non funziona in questo modo; si accontenta di un passo per volta. Purché non sia un passetto, ma un passo deciso. Uno per volta va bene, ma che incida e lasci una traccia. Se non è un passo ma solo un passetto anche il riformismo militante entra in crisi. I compromessi saltano, le ambizioni individuali prendono il sopravvento, la compattezza degli intenti si disgrega, lo specchio del bene comune si rompe.

Solo il 30 per cento del centrodestra è sensibile agli appelli di Grillo, perché il centrodestra il suo Grillo ce l'ha già e se lo tiene ben stretto. Si chiama Silvio Berlusconi, che da 15 anni fa politica in nome dell'antipolitica, che guida il più grosso partito italiano in nome della lotta ai partiti, che di battute ce ne ha una più di Grillo. Le fa perfino su stesso e ci si ride addosso contagiando quel riso a tutti i suoi fedeli. Lui è ben contento che ci sia Grillo che il danno lo fa a sinistra. A lui, a Berlusconi, i "Vaffa" gli rimbalzano. Colpiscono i suoi nemici, non lui.

La sinistra radicale forse non lo prevedeva, ma buona parte dei seguaci del "Vaffa" provengono proprio dalle sue fila.

E perfino dalla Lega. Dai Ds. Da tutti quelli che si sentono traditi. Si sentono offesi. Si sentono feriti. Li volete riconquistare con le detrazioni fiscali? Col poliziotto di quartiere? Con la confisca dei patrimoni mafiosi? Con la lotta alla prostituzione stradale? Con il recupero dei parametri di Maastricht? Ma via! Vogliono ben altro. Vogliono un giudizio universale. Una purificazione collettiva. Il regno dei giusti dopo le devastazioni dell'apocalisse che punisca i corrotti e i malvagi.

Attenzione: non è la rabbia degli esclusi e degli ultimi. Non è la protesta dei mendicanti di Brecht nell'"Opera da tre soldi". I protestatari non sono né esclusi né tantomeno ultimi. Ma non si sentono riconosciuti. Si sentono impoveriti nel portafoglio e negli ideali e questa è una miscela esplosiva.

* * *

Leggerete in queste stesse pagine gli esiti del sondaggio effettuato nei giorni scorsi sulle intenzioni di voto, confrontati con quelli del giugno scorso e con i dati delle elezioni 2006. Essi registrano una situazione drammatica per il centrosinistra rispetto ai risultati di un anno fa e un leggero recupero nel confronto col giugno scorso. Quanto al Partito democratico, migliora di un punto e mezzo rispetto a giugno ma non decolla. Non ancora. Spiccherà il volo dopo il 14 ottobre?

Intanto si moltiplicano gli appuntamenti di piazza. Alleanza nazionale in ottobre, Pezzotta e il "Family Day", Grillo anche lui in ottobre (ma ieri sera ha già fatto il suo show alla "Festa dell'Unità" di Milano), Berlusconi il 2 dicembre e vuole portarci due milioni di persone.

Senza contare il grande referendum dei lavoratori sul Welfare, decisivo anche ai fini della Finanziaria e della tenuta del governo.

Se si votasse oggi, dice il sondaggio, il 65 per cento degli interpellati dà la vittoria al centrodestra, solo il 12 al centrosinistra. Si possono certo opporre a questo sondaggio altri con esiti alquanto diversi, ma la visione comune è quella di un paese agitato, percorso da emozioni e incertezze, speranze e paure. Domina - così mi sembra - un'attesa di palingenesi con sfumature vagamente messianiche.

Quanto di peggio.

(16 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 23, 2007, 04:05:26 pm »

POLITICA

COMMENTO

La prova d'orchestra di pifferi e tromboni

di EUGENIO SCALFARI


La pessima esibizione del Senato nel dibattito sulla Rai di giovedì scorso è stata in realtà una sorta di prova generale di quanto potrà avvenire nell'appuntamento parlamentare con la legge finanziaria 2008. La sessione di bilancio: così si chiama quell'appuntamento che ha inizio con la presentazione del disegno di legge al capo dello Stato e al Parlamento e si conclude tassativamente entro la fine dell'anno sgombrando in quei tre mesi ogni altra iniziativa legislativa salvo i casi di urgenza e la conversione in legge di eventuali decreti pendenti.

Una prova generale assolutamente "sui generis". Infatti - a differenza delle prove generali vere - qui non c'era un regista. Ciascuno recitava a soggetto e ciascuno aveva un soggetto proprio e mai come in questa deplorevole occasione è utilissimo riandarsi a vedere "Prova d'orchestra", uno dei più bei film di Federico Fellini, indimenticabile lezione artistica, umana, politica.

In "Prova d'orchestra" un gruppo di orchestrali che fino a quel giorno avevano lavorato insieme sotto la guida d'un celebre direttore, decidono di fare da loro. Il direttore tenta in tutti i modi di battere il tempo con la sua bacchetta e di far rispettare a ciascuno il suo ruolo e la corretta esecuzione dello spartito, ma ogni suo sforzo è vano, i violini vanno per conto loro e così i bassi, il clarinetto, l'oboe, i timpani, i tromboni. Finisce in una vera e propria rissa a colpi di archetto e di tamburo.

Ero amico di Fellini e un paio di volte andai ad intervistarlo a Cinecittà durante la lavorazione dei suoi film. Gli chiesi in una di quelle interviste quale fosse il film che gli era più caro. Ci pensò un po' e poi - tipico suo - mi rispose: "Mentre li giravo mi piacevano, dopo il montaggio rivedevo tutte le imperfezioni e ne ero scontento. E poi non li ho mai più rivisti". Tutti? gli ho chiesto. Scontento di tutti? "Tutti salvo uno: Prova d'orchestra. Ogni tanto me lo rivedo".

Suggerisco ai membri del Senato che hanno mandato in scena uno spettacolo vergognoso per inconcludenza e dimostrazione d'ignoranza dell'argomento di cui dibattevano, di comprarsi la cassetta di quel film e meditarci sopra. Ne trarrebbero certamente diletto ma soprattutto sgomento, lo specchio gli rimanderebbe infatti l'immagine che tutti noi spettatori abbiamo visto ma che le loro mediocri vanità e personali ambizioni insieme all'ossessiva contemplazione del proprio ombelico gli hanno nascosto. Se avessero un briciolo di senso di responsabilità ne sarebbero sconvolti come noi spettatori e cittadini ne siamo rimasti.
* * *
Comunque la singolare prova generale di quanto potrebbe accadere ad ottobre nel dibattito sulla Finanziaria c'è stata. E' stata commentata da Prodi in Consiglio dei ministri, da Berlusconi e da tutto il teatrino politico, come se gli attori parlamentari fossero persone diverse da quelle che il giorno seguente commentavano quanto è avvenuto. Queste dissociazioni rispetto al proprio operato sono frequenti quando la politica si avvita su se stessa dimenticando il suo alto ruolo e le sue responsabilità. Miserie, che gettano discredito su tutto incoraggiando le urla degli istrioni di ogni genere e conio.

Il disegno che emerge è chiaro e si può riassumere così:
1. Il dibattito sulla Finanziaria sarà il momento culminante della strategia della "spallata ".
2. Il governo non reggerà a causa delle interne divisioni della maggioranza e dunque imploderà, almeno in Senato dove ormai anche l'esiguo margine di vantaggio del centrosinistra è scomparso.
3. Dini ha in mente la presidenza del governo interinale che sarà inevitabile quando Prodi sarà stato sfiduciato dal Senato. Perciò troverà mille modi per votare contro e sfiancare la maggioranza, articolo dopo articolo.
4. Mastella vede con crescente preoccupazione l'avvicinamento di Dini al centrodestra, verso il quale anche lui è da tempo in movimento. Chi ci arriva prima (nella visione di questi due "statisti") meglio alloggia. Di qui i loro ambigui e ondivaghi comportamenti.
5. Di Pietro ha scoperto Grillo e ambisce a rinverdire i fasti di "Mani pulite". Il leader dell'"Italia dei valori" è affascinato dalle insorgenze in nome della "legalità". Cantavano nel nostro Risorgimento: "Quando il popolo si desta / Dio si mette alla sua testa / la sua folgore gli dà". Di Pietro pensa di poter esser lui quella folgore relegando Grillo al ruolo maieutico ma non politico. Le sue preannunciate dimissioni da ministro e l'uscita dei suoi parlamentari dalla coalizione servirebbero egregiamente a consolidare la sua fama di difensore della legalità disinteressato, mettendo nelle sue mani un seguito per ora valutabile al 17 per cento che la sua leadership (secondo lui) potrebbe portare oltre il 20. Insomma un grande partito alla faccia di Veltroni che gli ha impedito di candidarsi per la guida del Partito democratico.
6. Il quale Veltroni (e Rutelli con lui) non può assistere inerte a questo sfascio dell'Unione e alle difficoltà che si ripercuotono anche sul nascituro Pd. Quindi dovrà prendere qualche iniziativa spettacolare. Ma poiché nelle condizioni attuali ogni iniziativa spettacolare rischia di accrescere la litigiosità della maggioranza, ecco che i rischi d'implosione possono venire anche dal sindaco di Roma.
Questa è la diagnosi di quelli che lavorano per la spallata. Ed ora vediamo chi sono.
Anzitutto il centrodestra al completo. Su questo punto la Casa delle cosiddette libertà è compatta da Bossi a Casini, passando anche per Tabacci. Tutti puntano sulla cacciata di Prodi. Dopodiché si dividono: Berlusconi e i suoi fedeli vorrebbero le elezioni immediate; Casini punta su un governo istituzionale che prepari la nuova legge elettorale con tutto il tempo necessario, almeno un anno, per intraprendere la creazione di un piccolo-grande centro.
Questo disegno d'altra parte è condiviso anche da forze di diversa provenienza, economiche, editoriali, culturali: cacciata di Prodi, governo istituzionale che duri almeno fino al 2009, scomposizione degli attuali schieramenti bipolari, aggregazione centrista con Udc, la parte moderata dei Ds, i cattolici di Pezzotta, le comunità di Cl e di Sant'Egidio alle ali, la Confindustria alle spalle e i grandi giornali di proprietà banco-industriale ai fianchi.

Questo disegno prevede anche, oltre alla cacciata di Prodi con disonore - la giubilazione di Berlusconi con premi e medaglie e la nascita d'una nuova leadership non centrista ma centrale. E qui il ventaglio è largo e va da Montezemolo a Draghi, a Mario Monti, e perché no a Veltroni.

Grillo ha un ruolo in questo disegno: il lavoro sporco. Deve spazzar via i disturbatori di professione, la sinistra radicale, i diessini non abbastanza flessibili, il potere della Cgil e dei sindacati in genere. Poi - come ha scritto il buon Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera" - non servirà più. Butteremo l'acqua sporca (Grillo) ma non il bambino che in quell'acqua ha emesso i suoi primi vagiti.
* * *
Spero d'esser stato chiaro nell'esporre i vari elementi di crisi che dovrebbero produrre l'implosione del governo e della maggioranza. Elementi diversi ma tutti convergenti su quell'obiettivo.

Ci sono però alcuni elementi avversi e anch'essi vanno considerati. Uno anzitutto: affinché l'implosione si verifichi deve avvenire sulla Finanziaria, che è la regina di tutte le battaglie parlamentari. Se la Finanziaria dovesse invece passare indenne, la strategia della spallata di fatto risulterebbe sconfitta.

Provocare la crisi con la bocciatura della Finanziaria avrebbe tuttavia come conseguenza l'esercizio provvisorio, il declassamento del debito pubblico italiano sui mercati internazionali, un terremoto nei nostri rapporti con l'Unione europea, il fallimento della riforma delle pensioni e il ritorno dello "scalone", la rivolta dei sindacati, la fine della pace sociale.

Chi si prenderà una così drammatica e storica responsabilità? Mastella? Lamberto Dini? Rifondazione? Diliberto? Pecoraro Scanio? Cesare Salvi? Di Pietro? Bordon? Mandare il paese ai margini dell'Europa, azzerare i timidi accenni di crescita economica, aprire la guerra sociale? E' vero che si vedono in circolazione molti irresponsabili, ma fino a questo punto?

Il disegno suddetto si fonda anche sulla giubilazione di Berlusconi. Ma il "patron" di Fininvest e di Mediaset ha la vittoria a portata di mano. Vi pare che si farebbe mettere in soffitta proprio adesso? Vi pare che si separerebbe dalla Lega, che è carne della sua carne e costola del suo corpo? Berlusconi è certamente un uomo di pulsioni improvvise che lui stesso non riesce a controllare, ma è anche guidato da un fortissimo istinto di sopravvivenza. Sa che un governo istituzionale per lui sarebbe una soluzione a perdere. Ma sa anche che questo è l'obiettivo di gran parte dei suoi alleati. Potrebbe anche operare in modo che la spallata sulla Finanziaria sia tentata ma non abbia esito, seguendo i suggerimenti moderati di Gianni Letta e di Marcello Dell'Utri.

Infine, piaccia o non piaccia, c'è "testa di ferro", cioè Romano Prodi. Chi lo sottovaluta commette un grave errore. Chi pensa che sia svagato, distratto, sonnacchioso, bravo soltanto nel tirare a campare, sbaglia ancora di più.

Prodi ha molti difetti. Non è un principe della comunicazione (ma da Vespa andò benissimo) è sospettoso. E' rancoroso. Ma è riuscito a governare in mezzo ad un'incessante tempesta dovuta in gran parte a quella "porcata" della legge elettorale imposta dal precedente governo.

In un anno nel quale la sua popolarità è crollata al 26 per cento (ma quella di Berlusconi non supera il 32) insieme a Padoa-Schioppa, a Visco e a Bersani è riuscito a rimettere a posto i conti con l'Europa, a far emergere da zero a 2 punti l'avanzo primario, a realizzare un recupero dell'evasione di molti miliardi e un super-gettito tributario senza nessuna tassa in più.

Ha diminuito l'Irap di 5 miliardi a beneficio delle imprese e dei lavoratori. Sta per decretare il bonus per le pensioni minime e il loro aumento stabile. Nella Finanziaria semplificherà il pagamento delle imposte per le micro-aziende (sono tre milioni e mezzo) istituendo un'imposta unica senza nessun altro adempimento; abbatterà l'Ires di 5 punti stimolando la crescita come e forse più di quanto la Merkel abbia fatto per le imprese tedesche.

Per uno che è stato definito Mortadella, Valium, Prozac e - secondo l'ultima diagnosi di Grillo - Alzheimer, direi che non c'è male.

Io non sono nella sua testa e perciò non so prevedere che cosa farà nei prossimi giorni, ma di una cosa sono certo: non resterà esposto ai colpi senza reagire. Se deve implodere, sarà lui ad esplodere. Anticiperà i tempi. Andrà magari a dimettersi al Quirinale. O qualche cosa del genere. Oppure sfiderà avversari esterni o interni ponendo la fiducia sulla sua Finanziaria. Con l'appello nominale e le eventuali assenze, tutto sarà chiaro e ciascuno si assumerà le sue responsabilità. Ivi compresi noi giornali e giornalisti. Ci vuole almeno un po' di grandezza quando si affronta la bufera.

Post scriptum. Nel corso di una trasmissione televisiva (Speciale Tv 7) cui ho partecipato venerdì, andata in onda all'una di notte,) ho ascoltato gli insulti e alcune falsità indirizzatimi dalle urla del comico Giuseppe Grillo. Poiché la mia risposta non sarà stata ascoltata da molti a causa della tardissima ora, la riferisco qui di seguito.

Grillo ha detto che ho ricevuto venticinquemila "email" di protesta contro un mio articolo critico nei suoi confronti. In realtà le lettere a me indirizzate sono state in tutto - fino ad oggi - sessantanove, sette delle quali in mio favore e sessantadue contro.

Ho anche ricordato, in cortese polemica con Giovanni Sartori in studio con me insieme al direttore del Tg1 Gianni Riotta, che nel 1919 i fasci mussoliniani nacquero più o meno con un programma analogo, eccitando gli italiani ad insorgere contro la decrepita classe politica, contro i partiti esistenti, contro la monarchia costituzionale, per far vincere l'Italia dell'ordine e delle persone perbene.

Dal '19 al '23 personalità come Benedetto Croce e Luigi Albertini, che hanno dedicato la propria intelligenza e la propria vita alla difesa della libertà, appoggiarono quel movimento o perlomeno non ravvisarono i rischi cui esso sottoponeva la fragile democrazia italiana. Giudicarono che poteva essere utile per recuperare "legge e ordine". Poi Mussolini e i suoi sarebbero stati rimandati a casa con tanti ringraziamenti per il lavoro sporco che avevano effettuato.

Anche i grandi filosofi e i grandi giornalisti possono commettere gravi errori e questo fu il caso di Croce e di Albertini.

Nella trasmissione di venerdì mi sono limitato, senza proporre alcun confronto improprio, a ricordare quanto accadde 88 anni fa e gli effetti che ne derivarono per questo sempre immaturo Paese.



(23 settembre 2007)

da repubblica.it
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