LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 09:57:08 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 47
  Stampa  
Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318662 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #90 inserito:: Ottobre 10, 2008, 06:49:12 pm »

Eugenio Scalfari.

I media e la barbarie


Il circo mediatico agisce per forza propria, autoalimenta la propria potenza, utilizza i critici e gli autocritici come propellenti anziché come avversari. Tutto è spettacolo e massa  Giornali, televisioni, reti informatiche, film, libri e insomma tutti quei mezzi di comunicazione che nel loro complesso sono definiti 'media' sono responsabili di quell'imbarbarimento collettivo che sembra essere uno degli aspetti più significativi e più deprimenti delle società contemporanee?

Io penso di sì. Forse non si tratta d'una responsabilità esclusiva e forse il sistema mediatico è un effetto e non una causa dell'imbarbarimento sociale. Ma non c'è dubbio che ci sia uno stretto rapporto tra la comunicazione di massa e la barbarie contemporanea, tra il declino della ragione e l'emergere d'una sfrenata emotività, tra la fatiscenza dell'etica e il predominio delle pulsioni egoistiche. Infine tra la progettualità del futuro e la ricerca d'una felicità immediata e precaria.

Faccio queste riflessioni proprio perché, avendo passato gran parte della mia vita all'interno del sistema mediatico, credo di conoscerne a fondo i meccanismi e le difficoltà del singolo giornalista e del singolo giornale di sottrarsi ai condizionamenti del sistema la cui forza è ormai tale da esserne sfuggito il manico agli operatori addetti a quel lavoro.

Naturalmente nessuno potrà mai impedire al giornalista consapevole di esprimere le proprie critiche al mezzo al quale collabora e di preservare la propria indipendenza di pensiero. Né si deve sottovalutare l'importanza di queste critiche e dei loro effetti terapeutici su quanti riescano a coglierne il significato e farlo proprio. Ma pensare che il sistema mediatico nel suo insieme ne sia scalfito, sperare che possa autocorreggersi dall'interno, è pura illusione o astuta ipocrisia. Personalmente questa speranza l'ho persa da un pezzo né credo di salvarmi l'anima con la critica e l'autocritica: ormai il circo mediatico agisce per forza propria, autoalimenta la propria potenza, utilizza i critici e gli autocritici come propellenti anziché come avversari.

Tutto fa brodo nella civiltà di massa e di spettacolo, tutto è spettacolo e massa. Non si butta niente.

Questi pensieri mi sono tornati alla mente domenica scorsa leggendo quanto ha scritto sulla 'Stampa' Barbara Spinelli.

Sono amico di Barbara da una vita. I nostri articoli escono contemporaneamente la domenica sui nostri rispettivi giornali e quasi ogni settimana mi capita di constatare che sosteniamo gli stessi valori, abbiamo analoghe convinzioni, avvistiamo i medesimi ostacoli e critichiamo le medesime storture, quelle che a noi sembrano tali. È inutile dire che queste nostre coincidenze avvengono senza la pur minima consultazione, io vivo a Roma, lei a Parigi, ci incontriamo al massimo una volta l'anno e non abbiamo abitudine di telefonarci.

Così è avvenuto ancora una volta domenica scorsa. Il succo comune era questo: viviamo in un'epoca in cui è in atto un impoverimento drammatico della classe media la quale, proprio perché percepisce l'ineluttabilità del suo declino, è dominata dalla paura. Cerca certezze e non le trova. È stipata in un barcone senza timone e senza timoniere.

In queste condizioni - che di tanto in tanto si producono nella storia delle civiltà - si aprono due possibili opzioni: quella di dare certezze sopprimendo o indebolendo la libertà e quella di darle valorizzando la libertà. Superfluo dire dove stiamo noi.

Quella stessa domenica ho anche letto sulla 'Stampa' l'articolo di un bravo collega che resocontava da Parigi il ruolo di Berlusconi nel 'meeting' dei G4 convocato da Sarkozy per la crisi finanziaria mondiale. Da quella cronaca il nostro 'premier' appariva come il dominatore della situazione, quello che aveva capito tutto prima di tutti, quello che aveva messo d'accordo Bush e l'Europa, la Francia e la Germania, Putin con l'Occidente, rassicurando al tempo stesso le banche, i depositanti, le imprese, i risparmiatori, le Borse. Insomma un gigante della preveggenza e del decisionismo.

La conclusione di quel reportage era ancora più sconvolgente: Berlusconi era indicato come il maggior sostenitore dell'etica nell'economia e nella politica.

Ebbene, il sistema mediatico è questo: l'articolo della Spinelli e quello del suo collega che racconta e sostiene l'opposto, sono entrambi utili a rafforzare il sistema mediatico così come gli è utile ciò che ora sto scrivendo su questa pagina. Il sistema divora tutto, metabolizza tutto e resta uno dei fattori propulsivi della moderna barbarie.

(10 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #91 inserito:: Ottobre 12, 2008, 05:13:12 pm »

ECONOMIA    L'EDITORIALE

Domani mattina decidono le Borse

di EUGENIO SCALFARI


Si aspetta con il fiato in gola la campanella d'avvio delle Borse europee di domani mattina. Dopo il G7 di ieri e il vertice europeo di oggi saranno infatti domani i mercati a giudicare l'efficienza delle decisioni raggiunte dai cosiddetti Grandi. Anche questa qualifica è in discussione: se i mercati non avranno recuperato la fiducia nonostante le decisioni di Washington e di Parigi vorrà dire che i Grandi sono ormai considerati come maschere del teatro dei pupi, prive di credibilità e di forza. Speriamo che non sia così perché l'alternativa sarebbe una catastrofe planetaria.
Le conclusioni dei due incontri di Washington e di Parigi si possono così sintetizzare (per quel tanto che finora se ne sa perché quello di Parigi è in corso mentre leggete queste righe):
1. Uno scudo generale di protezione dei depositi bancari garantito dai governi dei paesi del G7 e della Ue.
2. Un secondo scudo che fa capo anch'esso ai governi, che garantisce la solvibilità delle banche e la loro forza patrimoniale. Qualora venissero meno queste condizioni i governi interverrebbero a ripristinarle turando ogni falla che dovesse manifestarsi.
3. Le garanzie fin qui elencate si estendono anche ai prestiti interbancari che rappresentano il punto più sensibile del sistema. Le banche, da quasi un mese, non si prestano più soldi reciprocamente nonostante le continue iniezioni di liquidità effettuate dalle Banche centrali. Si è creato un gigantesco ingorgo che genera conseguenze di estrema pericolosità.
4. In Usa il piano Paulson prevede anche un intervento (i famosi 700 miliardi di dollari) per l'acquisto da parte del Tesoro dei titoli-spazzatura ancora in corpo alle banche.

Questa legge, approvata dal Congresso con molte modifiche e dopo dieci giorni di discussioni, non potrà però entrare in azione prima di un mese perché la sua messa in opera è tecnicamente complessa. Perciò il suo effetto sul mercato è stato finora nullo. Tuttavia il Tesoro americano la considera uno strumento aggiuntivo da mettere comunque in opera appena possibile.

Qualche commento sul complesso delle difese finalmente concordate dai Grandi dell'Occidente si può fare anche se sarà l'appuntamento di domani la prova decisiva.

Anzitutto sulle dimensioni di questo piano: sono immense e illimitate. Non sono state fatte cifre perché non si potevano fare. Nessuno è in grado di conoscere l'ammontare dei titoli-spazzatura in corpo alle banche di tutto il mondo e nessuno può valutare le altre fonti di indebitamento che in una emergenza così acuta possono cumularsi l'una con l'altra a cominciare dalle carte di credito, dalle sofferenze più rischiose, dalle cambiali di carta straccia, dai collocamenti e dalle cartolarizzazioni di più dubbia solvibilità, dalle ipoteche non eseguibili. Il Fondo monetario internazionale azzardò poco tempo fa la cifra di 1.400 miliardi di dollari come ammontare complessivo, ma era una valutazione limitata ai titoli spazzatura connessi ai "subprime" immobiliari.

Qui è invece in discussione la fiducia dei depositanti e dei risparmiatori di due continenti. Perciò non è questione di cifre. Se sulla base degli impegni presi dai governi la fiducia tornerà sui mercati i governi stessi non dovranno sborsare nemmeno un soldo o pochissimi spiccioli come mastice per otturare qualche fessura locale e marginale.

Ma se la fiducia non tornerà non c'è diga costruita dai governi più forti del pianeta che possa resistere all'impatto dell'ondata dei mercati. Questo per dire che è la credibilità dei governi a decidere una partita che si gioca tutta sulla parola più che sui capitali disponibili.

Quanto a credibilità, Bush ne ha ben poca e il suo ministro del Tesoro meno ancora di lui. Per di più tra venticinque giorni da oggi sarà stato eletto un nuovo presidente degli Stati Uniti e tutto il personale politico cambierà. Per conseguenza gli impegni presi oggi dal governo americano saranno attuati da altre persone.

Tuttavia gli Stati Uniti d'America sono una potenza planetaria che si sostiene con il suo stesso peso. Le consultazioni tra lo staff attualmente in carica e i due candidati alla presidenza sono continue e così pure i piani di lavoro elaborati dai rispettivi collaboratori.

I mercati conoscono queste situazioni e le terranno nel debito conto anche se la coincidenza tra la crisi in corso e l'avvicendamento presidenziale non è certo tra le più felici.

* * *

La credibilità del nostro governo, malgrado gli sforzi di Tremonti e la presenza di Draghi alla guida della Banca d'Italia, non è certo un "asset" molto spendibile. Purtroppo è bassa dovunque, in Europa come in America e non bastano certo gli inviti estivi e i rapporti personali di Berlusconi con Bush e con Putin a ravvivarla.

In mezzo al fragore della tempesta che sta sconvolgendo il mondo fa una certa impressione osservare gli alterni comportamenti del nostro capo di governo. In una società dove lo spettacolo di massa ha ormai occupato interamente lo spazio pubblico Silvio Berlusconi grandeggia, l'aspetto ludico è quello che meglio gli si confà e dove dà il meglio di sé e in queste giornate lo applica al dramma delle Borse in picchiata continua. Venerdì scorso ha toccato culmini difficilmente raggiungibili. Ha suggerito quali titoli sarebbe più opportuno comprare, l'Eni e l'Enel. Tre giorni prima, aveva perfino citato Mediaset in conferenza stampa. Poi ha aggiunto che forse a partire da domani le Borse saranno chiuse fino a quando i Grandi avranno concordato nuove regole. Infine, essendo stato immediatamente smentito perfino dalla Casa Bianca, ha smentito se stesso come d'abitudine.
Un uomo così verrebbe interdetto dai suoi familiari. A maggior ragione se è il capo dell'Esecutivo dovrebbe esser sottoposto a "impeachment". Ma poiché piace al pubblico del Bagaglino lui continua e i "media" compiacenti applaudono le sue esibizioni.

Nel frattempo, forse per allentare la tensione, si fa strada la tesi della "distruzione creatrice" di schumpeteriana memoria. Secondo questa scuola di pensiero non tutto il male viene per nuocere: il cataclisma finanziario di queste settimane altro non sarebbe che il normale succedersi dei cicli economici che costituiscono l'ossatura del capitalismo. L'economia un po' va su e un po' va giù e quando va giù serve a ripulire il terreno dalle vecchie impalcature e a preparare nuovi e ancor più promettenti scenari.
Forse sarà così, ma dubito molto che i milioni di persone la cui esistenza viene distrutta si consolino al pensiero che in futuro quell'operazione sarà creatrice di lontane felicità.

* * *

Due giorni prima dei vertici internazionali di sabato e di oggi il nostro governo ha varato un decreto a somiglianza di quanto contemporaneamente facevano i governi inglese, tedesco, francese, spagnolo per erigere lo scudo di garanzia dei depositanti e le misure per rafforzare il capitale delle banche che ne avessero avuto bisogno. Si tratta appunto di quegli stessi provvedimenti che i vertici internazionali hanno infine coordinato, ma ciascun governo li ha modellati con varianti non marginali.

Per quanto riguarda il rapporto con le banche il nostro governo ha scelto di fatto la nazionalizzazione temporanea degli istituti in difficoltà. Bisognava però definire un indicatore oggettivo per limitare la discrezionalità attribuita al ministro del Tesoro.
L'indicatore scelto dal governo è il patrimonio delle banche. Se è sceso al di sotto di una certa soglia e la banca non è in grado di fare ricorso ai propri azionisti, può chiedere l'intervento del Tesoro; il Tesoro dal canto suo può anche intervenire d'ufficio se la Banca d'Italia ravvisa uno stato di sofferenza grave in un istituto di credito e la necessità d'un intervento pubblico.

A quanto ammonta il fabbisogno di questo decreto e quindi la sua copertura? Nessuno può saperlo perché nessuno sa quali sono le banche in pericolo e per quale ammontare. Quelle sotto alla soglia patrimoniale stabilita dalla Banca d'Italia sono poche e i loro azionisti sono abbastanza forti per mettersi in regola, ma si tratta di una speranza e non di una certezza.
In queste condizioni era impossibile cifrare la copertura e d'altra parte il Tesoro non ha risorse da mobilitare, perciò Tremonti ha scelto la sola strada possibile: la copertura si avrà spostando le risorse dei capitoli di bilancio o con emissione di titoli pubblici senza limitazione.

Spostare i capitoli di bilancio senza limite di cifra significa di fatto riscrivere la legge Finanziaria e la legge di Bilancio che andranno in discussione in Parlamento tra venti giorni ma che, nella sostanza, sono già state approvate con validità triennale fin dal luglio scorso. Si può fare un'operazione del genere senza coinvolgere il Parlamento? Senza che esista neppure la parvenza d'un coinvolgimento dell'opposizione?

Poi c'è il problema dei manager "colpevoli". Il governo aveva surrettiziamente cercato di graziarne alcuni infilando un emendamento nella legge sull'Alitalia. Se n'è accorta la giornalista Gabanelli di Report e le ha dato voce Repubblica di giovedì scorso. Scoperto l'inganno nessuno del governo ne ha rivendicato la paternità, Tremonti meritoriamente ha posto l'aut aut: o cancellare l'emendamento o le sue dimissioni. Così è avvenuto e l'emendamento è stato cancellato. Quindi i manager colpevoli saranno perseguiti. Ma da chi e per quali colpe?

L'emendamento ora soppresso erigeva uno scudo legislativo contro la magistratura che perseguiva reati attribuiti a Tanzi, Cragnotti, Geronzi. Il decreto Tremonti punta invece ad un altro tipo di colpevolezza che non comporta necessariamente un reato ma piuttosto una politica aziendale poco efficace o sbagliata. Il Tesoro insieme alla Banca d'Italia avranno il potere di stabilire a propria discrezione se quella politica era sbagliata e se i responsabili dovranno esser cacciati. Ciò significa usare una situazione di emergenza per fare piazza pulita dei manager sgraditi al potere. Non mi pare un criterio accettabile. Si prende un possibile dissesto aziendale come occasione per metter le mani sul credito bancario.

Ma c'è una ciliegina in più su questa torta di assai dubbia fattura ed è la presenza di Mediobanca nella cosiddetta "unità di crisi" composta dal Tesoro, dall'Abi, dalla Confindustria e per l'appunto da Mediobanca di Geronzi. Mediobanca sarebbe dunque uno dei soggetti che elabora la politica bancaria del governo, come se quell'istituto fosse un'autorità neutrale e di garanzia. Scorrete l'elenco degli azionisti di Mediobanca e scorrete anche la biografia professionale e giudiziaria del suo presidente e vedrete che non è così. Tutto ciò è molto preoccupante.

* * *

Al di là di questa matassa di problemi resta il fatto che la crisi non accenna a spegnersi e la ragione è molto chiara: si chiama recessione, si chiama caduta della domanda nel mondo occidentale e qui in Italia, si chiama insolvenza dei consumatori. La gente non ha soldi, le imprese hanno i magazzini pieni di prodotti invenduti, la Cassa integrazione ospita sempre maggiori unità disoccupate, i grandi magazzini vendono di meno per la prima volta da quando esistono, le spese "opzionali" vengono tagliate per poter soddisfare i bisogni primari, la dieta delle famiglie si impoverisce.

L'altro giorno il presidente del Consiglio ha detto: "Adesso diminuiremo le tasse". Doveva pensarci quando poteva ancora farlo, nel giugno scorso al momento in cui il suo governo fu insediato. Invece abolì l'Ici sulla prima casa e sulle case ex rurali e detassò gli straordinari. L'Ici però ha lasciato a secco i Comuni e il governo ha dovuto indennizzarli per l'ammontare integrale che gli aveva sottratto altrimenti il federalismo non avrebbe mosso neppure il primo passo. Perciò tutto si è risolto in una partita di giro puramente mediatica. Quanto alla detassazione degli straordinari le imprese non ne fanno più perché non c'è domanda. Non domanda, non produzione, non detassazione. Questo balletto mediatico non è più sostenibile. Adesso occorre la detassazione sul serio e non soltanto per ragioni di equità sociale ma per frenare il bulldozer della recessione.

Ci troviamo in brutte acque: dobbiamo detassare ma l'erario è a secco; tagliare la spesa senza colpire l'occupazione, fare i contratti di lavoro aumentando le retribuzioni ma con riguardo alle imprese e alla produttività. Questo governo del fare finora ha fatto assai poco: molti annunci, poche cose buone e molte sballate, dall'Alitalia ai grembiulini della Gelmini.
Adesso bisogna fare uscire il paese dalla tempesta e non sarà certo un gioco.

(12 ottobre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #92 inserito:: Ottobre 20, 2008, 12:37:11 pm »

L'OPINIONE

Figaro qua, figaro là il factotum di Arcore

di EUGENIO SCALFARI


GUARDANDO le nostre televisioni e sfogliando le pagine dei nostri giornali (con qualche sempre più rara eccezione) in mezzo ai tanti guai che affliggono l'economia mondiale emerge un aspetto consolante: il patrio governo e il suo leader hanno guadagnato molti punti in tema di prestigio internazionale. Tutti ci cercano, vogliono i nostri consigli, valutano con apprezzamento i nostri programmi, chiedono la nostra mediazione. Tra i grandi della Terra il nostro peso è crescente.

Siamo di pieno diritto nel G20, nel G15, nel G10, nel G9, nel G8, nel G7, nel G4, cioè nei consessi dove vengono forgiati i destini del pianeta, da quelli più estesi a quelli più ristretti. Infine questo periodo di passione si è concluso non a caso con l'incontro intimo e esclusivo tra il presidente degli Stati Uniti d'America (lo sarà ancora per quindici giorni) e il capo del governo italiano. Che cosa si vuole di più?

Questa crescita di autorevolezza trae conferma dalle dichiarazioni degli interessati e in particolare da quelle del presidente del Consiglio e del ministro dell'Economia che i nostri "media" riportano con la massima evidenza e il dovuto compiacimento. Siamo noi ad aver lanciato l'idea d'un fondo a tutela dei depositanti, noi ad aver suggerito la creazione d'un altro fondo sovrano europeo che sostenga gli investimenti, noi ad immaginare un intervento unitario dell'Ue per impedire il fallimento delle banche, noi a progettare una nuova Bretton Woods con l'obiettivo di riscrivere le regole del capitalismo mondiale. E del resto non era stato Berlusconi, già quattordici anni fa, a lanciare l'idea d'un nuovo piano Marshall per la Palestina, quale supremo strumento per metter fine all'interminabile conflitto in Medio Oriente?

In questa immaginaria rassegna dei primati italiani conta poco che gran parte dei progetti siano soltanto scatole vuote, annunci generici, espedienti mediatici ai quali non è mai seguito un qualsiasi avvio di attuazione e contano ancor meno i contributi concreti della Merkel, di Gordon Brown, di Sarkozy, di Bernanke, di Paulson, giuste o sbagliate che furono le loro iniziative.

Per il pubblico italiano, istruito dai media nostrani e dalle dichiarazioni a getto continuo dei nostri governanti, il motore della lotta contro la tempesta economica che si è abbattuta sul pianeta sta a palazzo Chigi e nei suoi immediati dintorni.

Perfino il voto contro la politica "climatica" dell'Europa, che ha comportato due mesi di stallo, è stato presentato come il segno della nostra forza internazionale e della nostra lungimiranza.
E' necessario segnalare che queste esaltazioni mediatiche sono prive di ogni rapporto con la realtà e con la verità dei fatti che si sono svolti in tutt'altro modo, con tutt'altre sequenze e con tutt'altri protagonisti?

* * *

Un altro assai diffuso esercizio mediatico in corso è quello della scoperta dell'acqua calda presentata come la prova della intelligenza e della vigilanza dei governi e delle istituzioni internazionali. Quell'esercizio non è limitato all'Italia ma si estende a tutto l'Occidente.
Si è scoperto pochi giorni fa che la crisi finanziaria sta incidendo sull'economia reale. Il Fondo monetario, il Tesoro americano, la Fed, la Bce, la Commissione di Bruxelles e - per quanto ci riguarda - Berlusconi e Tremonti lanciano l'allarme perché "si è aperta la seconda fase", quella cioè della recessione.

E ve ne accorgete adesso? Non era chiaro fin dall'inizio? Quando le crisi finanziarie superano una certa soglia e una certa dimensione, i loro effetti tracimano inevitabilmente al di là dell'aspetto congiunturale e avviano processi più o meno lunghi di ristagno e recessione.

Invece no, non se n'erano accorti, anzi davano dello stolto o del catastrofista a chi fin dall'inizio raccomandava di attuare provvedimenti capaci di arginare o rallentare le conseguenze negative sull'economia reale.

Da questo punto di vista la palma del primato spetta alla Banca centrale europea e alla Commissione di Bruxelles. La prima per aver mantenuto testardamente il tasso di interesse al 4.25 senza poter esercitare nessun freno sull'inflazione ma provocando invece deleteri effetti sul costo dei mutui immobiliari e dei prestiti alle imprese.

La seconda difendendo rigidamente la soglia di stabilità del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil e martellando i governi affinché perseguissero politiche di tagli di spesa e pareggio dei bilanci.

Trichet, i membri del direttorio della Bce, Barroso e Almunia, portano sulle spalle un'assai pesante responsabilità. Se è giusto dare la caccia ai manager inefficienti di banche e di imprese, lo staff della Bce e quello della Commissione di Bruxelles dovrebbero capeggiare quella lista e trarne le conseguenze dovute.

* * *

In questo panorama Giulio Tremonti rappresenta un caso anomalo e per certi aspetti patetico. Fu tra i primi a dare l'allarme nel giugno scorso sulle dimensioni della crisi finanziaria e bancaria in arrivo. Indicò gli scenari e le opzioni che si aprivano e, sia pure in termini generici, le politiche che si sarebbero dovute adottare. Ma poi, una volta messo alla guida dell'Economia, fece esattamente il contrario di quanto aveva indicato.

Fece approvare in nove minuti e mezzo (ricordate?) una legge finanziaria triennale che non merita altra definizione se non quella di configurare una politica economica deflazionistica. Una legge come quella, che punta ad abbassare la spesa per molte decine di miliardi con tagli "orizzontali", adottata da chi vede arrivare - e lo predice - una tempesta finanziaria con evidenti conseguenze recessive, è un comportamento inspiegabile.

Altrettanto inspiegabile la vicenda della "Robin-tax" che campeggiò nelle prime pagine dei giornali per almeno un mese e su cui Tremonti costruì una parte del suo fascino mediatico. Fu il fiore all'occhiello del nuovo ministro dell'Economia tassare i ricchi per dare ai poveri, tassare le banche per finanziare la "social card" da distribuire ad un milione di italiani con redditi inferiori agli 8 mila euro annui. Totale preventivato 400 milioni.

Sono passati quasi cinque mesi da quel piccolo colpo di teatro mediatico: la "social card" sarà distribuita a dicembre ma nel frattempo le banche hanno cessato d'esser ricche, il governo anziché tassarle deve sostenerle e per farlo ha varato un decreto dove prevede: "cifre illimitate" pur di evitare fallimenti.
Robin Hood se n'è andato dalla foresta di Sherwood, lo sceriffo di Nottingham gira col saio e il bastone del pellegrino e noi contribuenti attendiamo di sapere quanto costa il suo sostentamento.
Non è patetico?

* * *

Comunque il panico delle Borse sembra sia stato frenato dai provvedimenti messi in atto in Europa e in Usa sulla scia del piano indicato da Gordon Brown e dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Quando una banca è in difficoltà lo Stato interviene attraverso una sua agenzia-veicolo (l'Iri del 1933?) che entra nel capitale e nella compagine azionaria della banca. Di fatto si tratta di nazionalizzare quelle banche che non ce la fanno a camminare con le proprie gambe e con i soldi dei propri azionisti.

Questi provvedimenti, adottati con piccole varianti in tutta Europa, hanno avuto un buon effetto; depositanti e risparmiatori sembrano più tranquilli, le Borse stanno recuperando anche se una certa inquietudine permane. C'è anche qualche effetto collaterale sgradito: la speculazione si concentra contro banche "chiacchierate", ne deprime i corsi, provoca l'intervento di salvataggio pubblico e incassa la plusvalenza realizzata quando i corsi riprendono a salire.

L'aspetto positivo di questa manovra, oltre a quello di frenare il panico, consiste in una scarsa esposizione della finanza pubblica che si effettua nella forma di garanzia. L'Italia per esempio non ha neppure previsto una copertura a questo provvedimento: se la credibilità del governo rassicura i risparmiatori e i depositanti, il Tesoro non tirerà fuori neppure un soldo.
Quindi tutto bene, così sembra. Ma la musica cambia quando si passa alla fase due, cioè all'economia reale e alla recessione.

* * *

Se un settore produttivo è in difficoltà, se l'Ue autorizza forme di sostegno alle aziende e se i governi decidono di intervenire, in quel caso non si tratta di garanzie senza esborsi: si tratta di soldi veri che escono dalle casse dell'erario ed emigrano verso le aziende in questione.

Quali aziende? Scelte con quali criteri? Che tipo di sostegno? Quali le dimensioni complessive d'un siffatto e così anomalo intervento?

Il presidente del Consiglio ha immediatamente indicato come oggetto del sostegno il settore automobilistico. Per l'Italia c'è un unico nome: Fiat. Dunque si tratterebbe di entrare nel capitale di quell'impresa e/o finanziare una rottamazione in grande stile con i soldi dei contribuenti e/o incentivare qualche banca ad effettuare prestiti di favore all'azienda di Torino.

Si può fare un'operazione "ad personam" di queste dimensioni senza alterare il mercato europeo e senza suscitare altrettante aspettative e richieste da parte di altre imprese e di altri settori produttivi?

Evidentemente no, non si può fare. L'economia italiana diventerebbe un "suk" (lo è già), i conflitti si moltiplicherebbero, i commercianti, l'industria media e piccola, i sindacati dei lavoratori, i trasporti, le "utilities": un bailamme al di là d'ogni previsione e di ogni governabilità.

Non credo che, consapevole di scenari di tal genere, Bruxelles autorizzerà un'operazione Fiat. Comunque non lo credo possibile né utile. Ecco un'altra prova della torrenziale e dannosa loquacità del presidente del nostro governo.

Se si tocca il tasto degli aiuti di Stato alle imprese si rischia di aprire un buco nero di proporzioni inusitate nel bilancio pubblico. L'ammontare del nostro debito è tale da non poterci permettere politiche così azzardate.

Sono possibili soltanto interventi generali che impediscano qualunque discrezionalità politica. Abbiamo attualmente un deficit/Pil di circa il 2,5. Bruxelles autorizzerà modesti e temporanei aumenti al di sopra del 3 per cento. Diciamo che si possa arrivare al 3,5, un punto di Pil, quindici miliardi di euro.
Questa è la cifra ragionevolmente spendibile, più una parte dei tagli di spesa che erano previsti per ridurre il disavanzo del bilancio.

A fronte di quest'ordine di grandezza, che si potrà spingere al massimo a 20 miliardi, c'è l'immenso fronte dei redditi delle famiglie e dei consumi da sostenere con provvedimenti indicati da tempo dall'opposizione.
Urgono cioè delle scelte precise, degli impegni concreti e una tempistica urgente. Stupisce il silenzio degli interessati, stupisce che Confindustria e Fiat siano pronte a negoziare i loro interessi senza riguardo a quelli generali della crescita. Stupiscono i "media" che prendono sul serio le uscite improvvisate dei dilettanti. Qui c'è da conoscere i meccanismi e farli funzionare perché rimettere in moto la crescita non ha a che vedere col miracolo di San Gennaro.

(19 ottobre 2008)


da repubblica.it


Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #93 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:29:57 pm »

Eugenio Scalfari

Cesare dittatore democratico


Il suo potere ebbe come base e principale sostegno il 'demos', il consenso del popolo e la politica fu una delle sue passioni non come missione quanto come conquista del potere per sé  Si è aperta a Roma, al Chiostro del Bramante, un'esposizione che ha come tema Giulio Cesare. Il personaggio è attraente e andrò a vederla nei prossimi giorni. Una mostra su Cesare è soprattutto provocativa, le sue gesta militari e politiche sono provocative, ma soprattutto lo è la sua vita, la sua scrittura, i suoi pensieri per quel tanto che possiamo coglierli dal suo multiforme vissuto.

La definizione più corrente che si dà di lui è quella di dittatore democratico, accreditata da Luciano Canfora che è di Cesare uno dei più attenti e informati storici. Credo sia una definizione appropriata, ma merita una chiosa: tutti i dittatori sono democratici nel senso che il loro potere ha come base e principale sostegno il 'demos', il consenso del popolo. Questo è l'elemento che distingue il dittatore dal tiranno che si appoggia unicamente sulla forza e sulla repressione.

Si sa, o meglio si dice, che Cesare abbia pianto di fronte alla statua di Alessandro che era morto a trentatré anni dopo aver conquistato il mondo mentre lui, alla stessa età, era soltanto un 'edile', gradino iniziale delle magistrature della Roma repubblicana.

Alla distanza Cesare superò Alessandro: l'Impero da lui fatto emergere dalla crisi della Repubblica fu ancora più esteso di quello del macedone e durò molto più a lungo: trecentocinquanta anni e poi altri cento di declino prima della data finale.

Di Alessandro non si sa molto, il mito lo ha avvolto fin dall'adolescenza ed ha fatto sbiadire sotto il suo fulgore la personalità storica del figlio di Filippo. Si conoscono le sue battaglie, la sua stupefacente cavalcata dalla Grecia fino alle terre del Caspio e dell'Indo, all'Arabia, all'Egitto e alle lontane oasi del deserto libico. Si identificava con Achille ma poi andò oltre e si autodivinizzò.

Cesare non gli somiglia in nulla se non nella grandezza delle ambizioni. A differenza dell'Anabasi di Alessandro, l'impero di Cesare nacque più lentamente, come tutte le rivoluzioni politiche che trasformano e rinnovano l'esistente mantenendone il massimo di continuità. Cesare non era soltanto ambizioso ma anche ambiguo, intrigante, spregiudicato, equivoco. Stavo per aggiungere dissoluto, ma questo è un attributo che nella Roma di allora non avrebbe avuto alcun significato particolare.


La politica fu una delle sue passioni non tanto come missione quanto come passione per il potere. La conquista del potere per la brama di averlo per sé ed esercitarlo. Ma la strada era molto lunga: Cesare si trovava ai margini della gerarchia senatoria, aveva scarsi mezzi, nessun seguito e nessuna fama. Perciò intrigò e nel modo peggiore: cercando di destabilizzare il potere senatorio. Lo fece in due modi: rivendicando una sorta di discendenza politica dai Gracchi e da Mario e connivendo con Catilina e con i suoi congiurati. Catilina puntava al dispotismo, in quegli anni di perenne turbolenza si schierò contro la legalità repubblicana. Cesare era troppo intelligente per non vedere la pericolosità di quel 'golpe', ma lo spinse e lo incoraggiò. Non è chiaro ma molto probabile che, alla fine, lo abbia tradito. Certamente si mantenne in bilico tra il tentativo golpista e la repressione senatoria.

In quegli anni turbinosi la Repubblica fu scossa da due questioni intrecciate strettamente l'una con l'altra: la questione sociale e quella dell'impero.

La prima nasceva dalla struttura stessa della città e dal rapporto tra la plebe e gli ottimati. Tra il Senato e i Consoli da una parte e la potestà tribunizia dall'altra. Tra l'economia cittadina e quella delle provincie e delle colonie.

La questione dell'Impero si era posta nel momento in cui tra la seconda e la terza guerra punica si era chiusa la partita per l'egemonia nel Mediterraneo. Portava il nome d'un grande condottiero e di una grande famiglia: Scipione.

Questione sociale e questione imperiale avevano minato alle fondamenta il potere repubblicano. Durò cinquant'anni quella turbolenza e si concluse con la conquista delle Gallie e con la guerra civile, un milione di morti, la nascita dell'Impero e il primo dei Cesari alla sua guida.

Ma l'uomo che assunse la dittatura a vita, interrotta alle Idi di marzo dai pugnali di Bruto e di Cassio, era molto diverso da quello che aveva pianto di invidia di fronte al busto di Alessandro e che aveva incoraggiato Catilina a cospirare contro la Repubblica. Il Cesare imperatore era un effetto dei tempi, un personaggio creato dalla necessità di colmare un immenso vuoto. A volte gli uomini creano i fatti, altre volte al contrario sono i fatti a creare gli uomini adeguati. Credo che sia stato questo il caso di Cesare così come, 1.800 anni dopo, fu quello di Napoleone.

(24 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #94 inserito:: Ottobre 27, 2008, 03:45:52 pm »

POLITICA condividi     .    IL COMMENTO

Il caos calmo della rabbia riformista


di EUGENIO SCALFARI


Alle dieci del mattino la città comincia lentamente a formicolare e il brulichio aumenta e si infoltisce col passare delle ore, a mezzogiorno camminano ormai a gruppi, si muovono le associazioni, si formano piccoli cortei di quindici-venti persone: democratici con la bandiera del partito, lavoratori della Cgil con la scritta bianca sulla stoffa rossa, vecchi partigiani con il fazzoletto tricolore al collo. Nel cielo già volteggiano gli elicotteri della polizia.

All'una si formano i due cortei, arrivano i pullman e i treni, scaricano e ripartono. Vengono dal Nord e dal Sud, bandiere e vessilli dei Comuni. Piazza Esedra è già gremita. All'una e mezzo la gente si mette in moto mentre ancora dalle stazioni arriva un fiume di persone.

Vado a vedere, finché ancora si può, il grande catino del Circo Massimo attrezzato per l'occasione, già pieno per metà, ma da quanto visto finora tutta quella vasta pianura erbosa non basterà a contenere il popolo dei cortei e quello dei romani che arrivano alla spicciolata. Riempiranno le vie adiacenti, il piazzale della Celimontana, l'Archeologia.

Alle tre del pomeriggio gli organizzatori sono già convinti che il milione sarà superato, ma si tengono prudenti per non sparare cifre troppo distanti da quelle che saranno date dalla questura. La mobilitazione della gente è comunque imponente per quantità e per passione, per rabbia e per voglia di stare insieme. Direi anche per orgoglio.

Il Circo Massimo è lambito dalle Terme di Caracalla e sovrastato dal Settizonio e dalle Case dei Cesari. "La Dea Roma qui dorme" scriveva il poeta delle Odi Barbare negli ultimi anni dell'Ottocento. Anche quelli erano anni di crisi, di scandali, di scontro vivace di opinioni e di moti di piazza. Le plebi, come allora erano chiamate, erano arrabbiate e il governo, come spesso capita, faceva sfoggio di un decisionismo che decideva soltanto di mostrare i denti e il bastone dei poliziotti. Qualche volta ci scappavano i morti e allora erano guai seri.

Venerdì le Borse hanno preso un'altra scoppola. Leggo sul giornale la cifra delle perdite, specie sulle piazze europee. Non sono tanto i timori sulla consistenza delle banche quanto la paura della recessione che sta dilagando.

Mentre torno a casa dove seguirò il discorso di Veltroni dalla televisione incrocio gli studenti che vengono dall'Università. A giudicare dai cartelli e dagli slogan sono i più arrabbiati di tutti. Umiliati e offesi.
Ma qui, stamattina, tutti quelli che ho incontrato in questo lungo giro per la città mostrano rabbia e orgoglio. Non ho visto differenze di condizione, di foggia, di atteggiamenti. M'è sembrata una massa di popolo che ha deciso di alzarsi in piedi e di muoversi. Rientrare sulla scena, confermare una baldanza, riprendere il posto che le spetta, non farsi abbindolare dai pifferai di qualunque estrazione.

Se fino a ieri c'era nel paese una maggioranza silenziosa che gonfiava le cifre dei sondaggi ogni volta che sentiva pronunciare la frase "tolleranza zero", direi che ora la situazione sta cambiando. I disagi e le paure della crisi mordono ormai la carne viva dei lavoratori, dell'enorme massa del ceto medio, dei vecchi pensionati e dei giovani studenti e precari.
La maggioranza silenziosa si sta sfarinando in una serie di minoranze parlanti e protestanti che hanno bisogno d'una guida capace di unificare i loro diversi interessi lesi in valori comuni. Non si fidano della politica ma, più o meno consapevolmente, chiedono uno sbocco politico che dia rappresentanza alla loro rabbia e la trasformi in concreta proposta.

Molti osservatori si chiedono se la rabbia di piazza sia compatibile col riformismo, ma la risposta viene dalle centinaia di migliaia che occupano le strade di questa giornata e dai milioni che solidarizzano con loro attraverso i teleschermi: la rabbia è la molla che innesca il meccanismo della proposta alternativa, dello sbocco politico e politicamente rappresenta la protesta popolare e la sua partecipazione.

* * *

La proposta economica anzitutto, perché è quella la ferita più crudele nel corpo della società: milioni di famiglie cadute in povertà e milioni di famiglie in pena perché stanno per caderci.

Governi e istituzioni internazionali si sono accorti soltanto ora che la crisi finanziaria e bancaria si sarebbe trasformata inevitabilmente in recessione. Cinque mesi di tempo prezioso sono stati perduti dietro a rimedi fallaci e a colpevoli depistaggi verso falsi obiettivi. Eppure le cause della crisi erano evidenti: una caduta della domanda e per conseguenza un crollo degli investimenti in tutto l'Occidente.

Per cinque mesi sono state perseguite in Europa con opaca testardaggine politiche restrittive mentre era chiaro che sarebbe stato necessario sostenere redditi e consumi e stimolare investimenti. Il taglio degli sprechi è diventato un taglio massiccio della spesa effettuato alla cieca, aprendo la porta alla deflazione.
Quando il prezzo del petrolio crolla in tre mesi da 147 a 65 dollari obbligando i paesi produttori a diminuire la produzione del 20 per cento; quando l'oro dai picchi raggiunti diventa improvvisamente invendibile; quando il valore degli immobili si dimezza mentre i listini delle Borse perdono in un mese il 40 per cento della loro consistenza capitalizzata; quando le assicurazioni e i fondi d'investimento non riescono a far fronte ai premi da pagare e ai riscatti da soddisfare; quando le navi-container restano ferme nei porti per mancanza di clienti e di merci da trasportare; quando la catastrofe dell'economia reale assume queste dimensioni, è chiaro che non siamo in presenza d'una perversa fatalità bensì di gravissimi errori umani commessi per superficialità e imperdonabile dilettantismo, disprezzo degli interessi delle persone e dei ceti sociali, idolatria del mercato ideologizzato, conformismo all'icona del "valore tutto e subito", al vitello d'oro del profitto purchessia.

Il nostro paese non è stato esente da siffatti errori, anzi se ne è fatto baldanzoso sostenitore. In questi ultimi cinque mesi che coincidono con i primi cinque mesi del governo Berlusconi-Tremonti, siamo stati i primi in questa classe di asini. Non i soli ma certo i più convinti e pertinaci, i più iattanti e autoreferenti. Hanno colpito alla cieca interessi e categorie prendendo di mira le opere più necessarie allo sviluppo e i ceti socialmente più deboli.

Emma Marcegaglia, in un soprassalto d'intelligenza suscitato dall'aggravarsi della situazione, interrogata sul disagio nelle scuole causato dalla riforma Gelmini, ha risposto: "Ma quale riforma? Non esiste una riforma, esiste soltanto un decreto di tagli di spesa".
Ha ragione il presidente di Confindustria che non è certo una bolscevica: un decreto di tagli sul tessuto più delicato che vi sia in una qualsiasi società. Riformare la scuola media e superiore, riformare l'Università dopo due o tre tentativi malfatti o non portati a termine è necessario ma la Gelmini non ha proposto alcuna riforma, ha soltanto recepito dal ministro dell'Economia un canestro di tagli che devasteranno la scuola elementare e media.

La risposta al disagio verrà data dalle questure? Noi speriamo che le questure siano più ragionevoli del ministro Gelmini e di chi la sostiene. Qualche segnale in questo senso si è avuto, ma certo la pressione del potere cresce, la tolleranza zero si fa valere. Questa volta non colpirà soltanto gli studenti ma le famiglie che partecipano con i loro figli a questo disastro politico.

* * *

Il momento più emozionante avviene quando nel catino del Circo Massimo arriva la fiumana dei due cortei provenienti dal piazzale Ostiense e da piazza della Repubblica. Le postazioni televisive che seguono l'allegra marcia punteggiata da striscioni e bandiere segnalano che la coda di quel popolo in marcia è ancora ferma nelle due piazze di raccolta, il grosso si snoda come un serpentone gigantesco che sommando i due itinerari supera i quattro chilometri.

Gli organizzatori sono molto prudenti nel valutare la consistenza numerica di quella marea di folla in movimento ma ora azzardano una stima di due milioni. Alla fine arriveranno a due milioni e mezzo valutando non tanto la capienza del Circo Massimo e delle alture che gli stanno intorno quanto le strade adiacenti interamente occupate. Chi segue le dirette televisive ed ha sotto gli occhi la visione panoramica complessiva capisce che quella stima è molto vicina alla realtà.

In mezzo al fragore di questo popolo arrabbiato ma festante, alle cinque Veltroni comincia il suo discorso che durerà quaranta minuti. Dice parole che corrispondono a quelle che il popolo intorno a lui voleva sentire: la rabbia e la ragione, l'ispirazione politica e le proposte concrete, il sentimento dello stare insieme e l'identità di una forza politica che ha cancellato le provenienze storiche e si è immersa nel futuro come suggerisce la frase di Vittorio Foa scritta a grandi lettere sul palco della manifestazione.

Dopo il discorso del Lingotto di Torino, quello di oggi segna la vera nascita del Partito democratico. Sono passati appena cinque mesi dalla sconfitta elettorale, un tempo molto breve per un partito che aveva affrontato le elezioni dopo appena due mesi dall'insediamento del suo nuovo gruppo dirigente.
Chi ha criticato il vertice di questo partito perché in un tempo così breve non ha raggiunto risultati migliori dimostra di non conoscere i meccanismi, i tempi, le difficoltà della nascita politica e organizzativa in una società schiacciata dai disagi del presente e dalla paura del futuro.

Quanto abbiamo visto ieri dà fiducia. Un popolo responsabile, una sinistra nuova e pensante, una visione lucida del bene comune. Un'identità conquistata, la voglia di unità e di partecipazione. La speranza che tra nove giorni vinca Obama.
La partita è aperta. Se sarà continuata fino in fondo con coerenza il risultato di avere un'opposizione ampia e ferma, calma e determinata, sarà un arricchimento di grande valore per l'intera democrazia italiana.

(26 ottobre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #95 inserito:: Novembre 02, 2008, 11:42:59 am »

IL COMMENTO

Ragazzi allegri e burattini di legno

di EUGENIO SCALFARI


CHE stia avvenendo qualche cosa di nuovo nel paese Italia, nel paese Europa e in tutto il mondo è sotto gli occhi di tutti. Qualche cosa di profondamente nuovo. Giulio Tremonti lo ha detto due giorni fa parlando nella riunione celebrativa del risparmio. "Non è soltanto una discontinuità, ma qualche cosa di molto più profondo" ha detto con voce sommessa e quasi parlando a se stesso.

Ed ha aggiunto: "Dobbiamo portare al primo posto l'etica e puntare sui valori e non sugli interessi". Sembrava di ascoltare Ugo La Malfa. Quasi quasi me lo sarei abbracciato. Ma poi mi è venuto in mente che gli stessi concetti, in forma magari più disadorna, erano stati enunciati dalla figlia di Berlusconi, non quella entrata nei giorni scorsi nel consiglio d'amministrazione di Mediobanca che sull'etica pecca un po' per difetto, ma la figlia più giovane.

C'è stato un passaparola? Folgorazioni di massa sulla via di Damasco? Le anime belle sono finalmente la maggioranza del paese?

Tutto è possibile anche se stento a crederlo. Però qualche cometa in cammino c'è: tra quarantott'ore voterà l'America e forse avremo un giovane meticcio di pelle scura alla guida della più grande potenza mondiale. Incredibile ma possibile, anzi probabile. I pessimisti ad oltranza si rassicurano ripetendo che anche se ciò avvenisse nulla cambierebbe perché il potere è il potere e chi lo amministra si comporta sempre allo stesso modo da che mondo è mondo.

Il potere è il potere, questo è vero; ma non ha mai la stessa forma e lo stesso volto. Un nero alla guida degli Stati Uniti non somiglia a nessun altro inquilino tra quelli che l'hanno preceduto alla Casa Bianca se non altro per il fatto maledettamente oggettivo d'avere alle spalle un popolo che fu portato in catene nelle pianure della Florida, del Texas e del Tennessee.

Lui farà probabilmente di tutto per non vedersi così, ma gli altri è così che lo vedranno e si aspetteranno un potere che abbatta le barriere tra gli uomini di buona volontà. E lui non potrà deluderli proprio perché lui il potere lo ama.

* * *

Torniamo a casa nel nostro piccolo cortile che amiamo di più. Giovedì mattina guardavo sfilare il corteo degli studenti e dei docenti in via Arenula, allo sbocco di Botteghe Oscure. Un corteo immenso, una fiumana giovanile frammista con capigliature grigie, mamme con bambini, maestre e professori che non perdevano di vista i loro ragazzi. Sembrava ed era un popolo insorto. Un passante mi ha riconosciuto e mi ha chiesto: "La solita ragazzata non è vero? Che ne pensa?". Ho risposto: "Quelle dei ragazzi sono sempre ragazzate ma a volte cambiano la storia".

Pensavo alle ragazzate nell'Europa del 1848. E poi pensavo al Sessantotto dei "figli dei fiori", dai "campus" americani all'occupazione della Sorbonne e alla "Primavera" di Praga. Infine alla piazza di Tienamen, sotto le mura della Città Proibita. Ragazzate, certo. Giocose. A volte tragiche. Maremoti di emozioni e di vitalità dopo i quali alcuni luoghi del mondo furono diversi da prima. Non so se migliori, ma certo diversi e la diversità è comunque un segno di movimento e di allegria.

I cortei dell'altro giorno erano allegri e imponenti. Apolitici? L'apolitico è indifferente per definizione. Non ha interesse alla "polis", cioè alla città, cioè alla "res publica". Ma quei ragazzi, quei maestri, quelle famiglie marciavano, gridavano, cantavano in nome della "res publica". Dicevano no ad uno scempio ma dicevano sì ad una riforma seria, ad una nuova città del sapere.

I pessimisti hanno scritto che quelle ragazzate servono ai "baroni" per mantenere i loro detestabili privilegi. In realtà questi strani pessimisti scrivono ciò che sperano e quando parlano dell'occupazione delle scuole ci mettono due k invece di due c. Non credono a niente e non sperano niente. Sono i grilli parlanti di un mondo di burattini di legno. Quando i burattini diventano ragazzi in carne ed ossa i grilli parlanti perdono il loro ruolo e cessano di esistere.

Io non credo che i ragazzi protagonisti di queste ragazzate coprano gli interessi dei baroni. Ma qui la questione si fa più complessa. Chi sono i baroni oggi nelle Università e nella scuola? Quali sono i malanni della scuola da estirpare e quali interessi la insidiano e vogliono impadronirsene?

* * *

La scuola elementare italiana è, complessivamente considerata, un punto di eccellenza in tutta Europa. Non ci sono fannulloni. Docenti e personale di servizio lavorano come e più dei loro consimili europei e con risultati migliori. Questo risulta da tutte le statistiche internazionali. I costi sono eguali alla media Ocse, ma i maestri sono pagati meno dei colleghi stranieri. Le aule sono insufficienti.

Molti edifici scolastici, specie nel Sud, non sono a norma. Quale che sia il parere del deputato Bocchino e del ministro Gelmini, la moltiplicazione dei pani e dei pesci è un miracolo che ha compiuto soltanto Gesù di Nazareth. Se il tempo pieno è possibile oggi e si potrebbe utilmente estendere e migliorare, non sarà possibile dopo i previsti licenziamenti di massa. Non ci vuole molto a capirlo.

Il vero malanno comincia con la scuola media e peggiora alle "superiori". Lì bisogna preparare una riforma, lì occorre convocare studenti, docenti, famiglie e lì il ministro deve esporre la sua visione culturale di una scuola nella quale entrano ragazzi di ogni ceto sociale e - ormai - di diverse etnie. Lì si affaccerà anche il federalismo con la necessità di coordinare i poteri di indirizzo dello Stato, la competenza regionale e comunale, l'autonomia degli istituti.

Il bullismo è un problema serio ma dominarlo affidandosi soltanto ad una politica scolastica muscolare è pura illusione. Uno dei possibili modi per venirne a capo è quello dei "tutori" e del miglioramento della qualità didattica. Del fascino che una didattica intelligente può suscitare nella fantasia dei giovani. Questo è il contrario dei tagli poiché richiede semmai maggiori investimenti, controlli di qualità su insegnanti e istituti.

Il miglioramento indispensabile della scuola secondaria e superiore comporterebbe di per sé un salto di qualità dei corsi universitari che sono attualmente alle prese con una massa di studenti impreparati ad affrontare l'università. Per risolvere problemi di questa complessità ci vuole grande esperienza e specializzazione fatta sul campo.

Mi ha colpito quanto ha scritto in proposito su "Repubblica" Aldo Schiavone. Ha negato, citando autorevoli fonti statistiche, che l'università italiana sia di pessima qualità. Credo che piacerebbe ai lettori saperne di più in proposito, quella di Schiavone è una voce fuori dal coro. Può approfondire la questione?

Gli studenti temono la privatizzazione delle università.
Anche questo è un tema difficile. Le fondazioni comunque hanno caratteristiche in parte private ma in parte pubbliche. Negli Stati Uniti hanno dato risultati non omogenei, toccando punte di eccellenza e punte di mediocre livello. Certo vanno rivisti il numero eccessivo di corsi di laurea e il numero eccessivo delle università.

I baroni? Esistono ancora ma il loro potere è in declino: la globalizzazione del sapere, specie di quello tecnico scientifico e medico, sta cambiando la struttura stessa della conoscenza applicata. Le baronie accademiche non hanno più la potenza di un tempo rispetto alla casta costituita dagli assessorati regionali e comunali in raccordo con le Asl e con i primariati ospedalieri o con gli appalti e i subappalti nei settori dell'urbanistica e dell'edilizia. E' lì che bisogna incidere e tagliare.

* * *

Motivi di disagio ne esistono dunque a iosa in un mondo dove il lavoro non offre sbocchi sufficienti e la flessibilità si è ormai cristallizzata in precariato generazionale. Due intere generazioni, quelle nate negli anni Settanta e Ottanta, sono state di fatto confinate nella mediocrità dei redditi e nell'inesistenza delle carriere.

I quarantenni di oggi sono umiliati e offesi. I ventenni insorgono. Questa è la novità. Non sono affatto apolitici anzi sono estremamente politicizzati ma non guardano ai partiti, guardano al loro problema, alla scuola e al lavoro, ai fatti e non alle parole. Ai fatti semplici e concreti. Le parole del governo alimentano la loro rabbia. Il decreto dei tagli è offensivo. La Gelmini è oggettivamente offensiva. Maroni, che proclama denunce, è oggettivamente offensivo dove l'avverbio serve a sottolineare la stupidità dei comportamenti di fronte alla serietà dei problemi.

Questa situazione ha cominciato ad erodere il consenso berlusconista. Fino a poche settimane fa sembrava una muraglia non scalfibile, ma adesso molti mattoni hanno cominciato a cadere, qualche travatura è precipitata, l'intonaco si sbriciola ogni giorno di più.
Avevo scritto domenica scorsa che la maggioranza silenziosa che gonfia i sondaggi berlusconiani si sta sfarinando in una serie di minoranze parlanti e protestanti. Scrivevo questo all'indomani della manifestazione del Partito democratico al Circo Massimo. Dopo la settimana studentesca questo sfarinamento della maggioranza silenziosa è ancora più vero e più evidente.

La crisi economica morde ora la carne viva del ceto medio e dei lavoratori, allarma le imprese e gli artigiani. Il governo ha dissipato miliardi in provvedimenti senza senso a cominciare dall'abolizione dell'Ici sulle dimore degli abbienti. Non si è reso conto che tempesta finanziaria avrebbe prodotto recessione produttiva e crollo dei consumi ed è ancora lì che studia rappezzi senza una strategia che ricostruisca la fiducia.

* * *

L'ultima pillola avvelenata tra le molte di questa settimana di passione è arrivata venerdì sera: il pasticcio Alitalia finisce con il rifiuto del personale navigante di firmare il protocollo contrattuale. Piloti e assistenti di volo contestano alcuni aspetti importanti dei loro contratti affermando che siano peggiorativi rispetto all'accordo-quadro accettato da tutti i sindacati venti giorni fa. Può darsi che quel peggioramento vi sia anche se i sindacati confederali hanno firmato. Può darsi che l'aggravamento della crisi economica e il crollo delle prenotazioni di tutte le compagnie aeree abbiano suggerito a Colaninno di introdurre maggior rigore contrattuale.

Ma è altrettanto evidente che i piloti e gli assistenti di volo non si sono minimamente dati carico della sorte del personale di terra che numericamente costituisce il grosso della compagnia e il vaso di coccio che sarebbe finito in frantumi se la Cai si fosse ritirata dal tavolo della trattativa. La famosa cordata tricolore, Europa permettendo, ha dunque passato la cruna dell'ago anche se dovrà ancora confrontarsi con gli equipaggi e con le loro iniziative di lotta sindacale. Siamo all'inizio dell'avventura della nuova Alitalia che lascia a carico dei contribuenti un onere di tre miliardi e dovrà sostenersi con l'appoggio di un socio straniero.

Berlusconi canta vittoria, ma dov'è la vittoria? Non ha alcuna chioma da porgere al supposto vincitore. E' rimasta, la vittoria, completamente calva.
Si conclude così una pagliacciata durata sette mesi e ritorna Air France a condizioni assai peggiori per noi di quelle dell'aprile scorso.

"Gianni Letta risolverà tutto" ha detto il premier lasciando Palazzo Chigi la sera di venerdì. Il suo vice è riuscito a convincere Colaninno da un lato e i confederali dall'altro. Ancora una volta l'ha salvato dal disastro facendo da levatrice ad un neonato rachitico, affidato alle cure d'una balia francese. Ho stima per Gianni Letta, ma ne avrei di più se smettesse di prendere in giro gli italiani vendendo loro le lucciole invece delle lanterne.

(2 novembre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #96 inserito:: Novembre 07, 2008, 04:04:31 pm »

Eugenio Scalfari.


Giornalisti con il bollino blu


È quello ricercato dai giornalisti che si proclamano di sinistra ma che criticano le forze schierate nello stesso campo. Con il risultato che la sinistra ha contro l'intero schieramento mediatico  Luigi AlbertiniSono spesso invitato da scuole e corsi universitari di comunicazione a parlare di giornalismo; va di moda da qualche tempo chiamare queste conferenze con il titolo un po' pomposo di 'lectio magistralis'. Di solito cerco di sottrarmi: avendo dedicato al giornalismo gran parte della mia vita professionale ed essendo tuttora in attività di servizio, discettare su quella materia mi suscita un sottile sentimento di noia e di 'déjà-vu'. Qualche volta accetto, più spesso scappo con qualche pretesto.

Tuttavia l'abitudine contratta in sessant'anni di mestiere mi porta tutti i giorni a leggere molti giornali e mi ispira inevitabilmente qualche riflessione sullo stato dell'arte. In particolare sono incuriosito dal giornalismo e dai giornalisti che nella loro veste di cittadini elettori si dichiarano liberal-democratici o addirittura di sinistra, ma che appunto in quanto giornalisti debbono mantenere un distacco professionale e un'indipendenza che costituiscono l'essenza deontologica di quello che io definisco un mestiere crudele.

I giornali e i giornalisti conservatori non sono molti nel nostro Paese. L'esempio più alto resta quello di Luigi Albertini, ma non ebbe eredi. Il fascismo confiscò per vent'anni la libertà di stampa. La sua caduta inaugurò una stagione di giornalismo democratico durante il quale i giornalisti conservatori intonarono la loro voce sulla lunghezza d'onda della Democrazia cristiana e quelli liberal-democratici sulla sintonia laica. (Ovviamente lascio fuori dal quadro giornali e giornalisti di partito).

Così sono andate le cose per molti anni nella stampa quotidiana e in quella settimanale, con una sola eccezione rilevante che è stata quella di Indro Montanelli. Il quale non è iscrivibile in nessuna delle due tendenze. Non era né un liberal-conservatore né un liberal-democratico. Era un anarco-individualista di scuola prezzoliniana e longanesiana. Talento ne aveva da vendere. Per trent'anni fu il portavoce del senso comune degli italiani; contribuì a crearlo quel senso comune, che in apparenza si identifica con il buon senso ma in realtà ne è molto lontano. Semplifica la realtà: operazione estremamente pericolosa.

Il talento dei semplificatori consiste nel creare un senso comune che rafforzi interessi già forti e indebolisca interessi già deboli. L'obiettivo è quello di guadagnare il consenso. Naturalmente nulla vieterebbe che i 'media' cerchino di guadagnare consenso in favore degli interessi deboli, ma ciò avviene molto di rado in paesi come il nostro.

L'attuale stato dell'arte offre delle varianti di notevole interesse al quadro fin qui delineato. Esse derivano in gran parte dal bipolarismo politico e sociale che nell'ultimo ventennio ha sostituito il bipolarismo ideologico che aveva caratterizzato la prima Repubblica. Caduta l'ideologia comunista con l'implosione dell'Urss, caduta anche l'unità politica dei cattolici, il bipolarismo attuale corre lungo una linea di confine che contrappone due diverse visioni di modernizzazione della società: una visione 'darwinistica' della destra contrapposta a una concezione solidaristica della sinistra.

In questa situazione il giornalismo indipendente stenta a svolgere il proprio ruolo e non sempre riesce a farsi voce di un senso comune che coincida con il buonsenso.

Accade così che la cosiddetta indipendenza di giudizio si eserciti soprattutto contro la visione solidale della democrazia e contro le forze politiche e sociali che ne sono portatrici. Gli attacchi, le critiche, perfino la satira prendono di mira soprattutto la sinistra politica e sindacale sia quando essa è stata al governo sia quando è all'opposizione.

Le critiche alla destra vengono considerate ovvie e quindi sottaciute; quelle alla sinistra sono considerate un elemento indispensabile a garantire l'indipendenza del giornalista e perciò preziose a preservarne l'autorevolezza.

L'aspetto paradossale di questa situazione è costituito dal fatto che i giornalisti indipendenti accentuano come mai prima era accaduto la loro adesione agli ideali di sinistra recuperando lo 'status' di indipendenti con le loro critiche alle forze schierate nel loro stesso campo. Le critiche a sinistra provenienti da giornalisti che si proclamano di sinistra garantiscono infatti una sorta di bollino blu, di marchio di garanzia professionale. Spesso la ricerca di questo bollino blu è inconsapevole, altre volte è lucidamente voluta, ma il risultato è il medesimo: le forze di sinistra hanno contro di loro l'intero schieramento mediatico, sia per i loro errori sia anche per le loro virtù.

Un tempo il giornalismo indipendente si comportava come un contropotere di controllo del potere; oggi le cose sono cambiate e questo contropotere si è fortemente indebolito. È più semplice sparare il pallone nella propria rete che nella rete altrui. Con buone intenzioni naturalmente.


(07 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #97 inserito:: Novembre 09, 2008, 11:41:41 am »

IL COMMENTO

Aspettando Godot a Bretton Woods

di EUGENIO SCALFARI



Il 15 novembre, sabato prossimo, si riunirà a Washington il grande vertice d'Occidente per decidere quali misure prendere per impedire che la grave recessione si trasformi in una grande depressione e per gettare le basi d'una nuova Bretton Woods, cioè del nuovo assetto dell'economia mondiale. Sarkozy, nella riunione dell'altro giorno a Parigi dei ventisette paesi dell'Unione europea, ha detto che nell'incontro di Washington dovranno esser prese "decisioni forti".

Previsione alquanto azzardata, almeno per ciò che riguarda la nuova Bretton Woods. Ed anche per i provvedimenti che servono a bloccare o almeno a contenere la crisi di "Main Street", come gli americani chiamano l'economia reale a differenza di "Wall Street" che sta a designare l'economia finanziaria.
Se il vertice di Washington non producesse decisioni forti i mercati sarebbero delusi e questo sarebbe un grosso guaio.

Il presidente francese parlerà il 15 novembre a Washington in nome dell'Unione europea da lui presieduta fino al prossimo 31 dicembre. Il suo interlocutore sarà George W. Bush, presidente in scadenza degli Stati Uniti. Bush ha ancora 72 giorni di permanenza in carica, il suo successore è stato eletto da cinque giorni e costituzionalmente entrerà in carica il 20 gennaio. Certamente darà suggerimenti a Bush e certamente quei suggerimenti saranno ascoltati per quanto riguarda le misure di massima urgenza. I programmi a lungo termine dovranno invece aspettare l'insediamento di Obama alla Casa Bianca. Perciò, almeno per buttar giù le fondamenta della nuova Bretton Woods, dal "meeting" di Washington non arriveranno che generici auspici e nulla di più.

Del resto le proposte europee formulate dal vertice parigino consistono nell'attribuire al Fondo monetario internazionale poteri di controllo e di pronto intervento sui mercati finanziari internazionali e nella creazione di alcune Autorità di regolazione mondiale che veglino sulla trasparenza dei mercati e sulla natura dei titoli emessi. Sarebbe questa la Bretton Woods numero due? E la moneta internazionale resterebbe il dollaro? Moneta di pagamento e di riserva? Con facoltà per l'America di vivere sulle spalle del resto del mondo?

L'Europa è stata a Parigi molto critica sull'attuale "dollar standard" ma non ha formulato alcuna proposta alternativa. E poi una nuova Bretton Woods che non sia una presa in giro non può esser nemmeno pensata senza la partecipazione delle potenze emergenti e di quelle che stanno invece inabissandosi nella povertà e nella disperazione. Vi pare che avremo "risposte forti" in materia dal vertice di sabato 15 a Washington? Dove non ci sarà neppure Barack Obama?

* * *

Torniamo alle misure di emergenza. Quelle sì, bisognerebbe prenderle subito. Obama ha già indicato alcuni punti di riferimento che però riguardano soprattutto l'economia americana. Anzitutto i riferimenti temporali: gli interventi necessari dovrebbero esser presi prima di Natale, cioè subito, per poter diventare esecutivi non oltre la metà di dicembre.

Sul merito il nuovo presidente eletto ha dato per ora le seguenti indicazioni: dare liquidità alle tre "majors" dell'automobile, General Motors, Ford, Chrysler. Ci vogliono subito una quarantina di miliardi di dollari perché almeno due delle tre "majors" di Detroit rischiano l'insolvenza entro i prossimi trenta giorni.
Obama ha poi chiesto sostegno creditizio per le imprese piccole e medie, ma non è andato oltre questa generica enunciazione. Si sa però che l'ordine di grandezza d'un siffatto intervento in prima battuta si aggirerebbe sui 150 miliardi.

Ha suggerito infine un sostegno ai redditi delle famiglie fino ai 200mila dollari annui attraverso meccanismi di detassazione. E invece maggiori tasse sui redditi superiori ai 250mila dollari. Su questo capitolo le cifre sono puramente induttive ma è logico pensare ad altri 100 miliardi. Il totale raggiungerebbe dunque più o meno quei 250 miliardi che Bush e il suo ministro del Tesoro avevano stanziato come prima tranche per sostenere le banche in pericolo di "default" e rastrellare i titoli spazzatura.

Per ora siamo a questo punto. Può darsi che Bush ripeta ai suoi interlocutori del 15 novembre questo programma del suo successore. Si tratta di misure strettamente limitate all'economia Usa, ma è pur vero che è lì il nucleo del problema e la fonte primaria della recessione in atto. Misure capaci di ripristinare la fiducia delle imprese e dei consumatori rilanciando la domanda e quindi alleggerendo le scorte e mettendo in moto impianti e cantieri. Se questo avvenisse, sarebbe certamente un contributo importante anche per l'economia europea e internazionale.

Tutto dipenderà dalla determinazione con cui Bush parlerà ai suoi interlocutori e dalla sponsorizzazione che riceverà dal suo successore. Un piano di rilancio dell'ordine di 250 miliardi (se questa fosse la cifra indicata) è certamente imponente in senso assoluto ma modesto di fronte all'immensità del disastro che il Fmi ha ripetutamente quantificato tra i 1.500 e i 2.000 miliardi di dollari. I mercati riprenderanno fiducia di fronte ad un pacchetto che rappresenta più o meno un decimo del disastro totale?

* * *

Naturalmente per produrre una svolta positiva alla crisi in corso non bisogna guardare soltanto all'America. Sul piatto della bilancia vanno messe anche l'Europa e la Cina, la Russia, l'India. Lasciamo da parte questi ultimi tre paesi e soprattutto la Russia che naviga in acque assai brutte e fa anche il cipiglio all'Occidente. E vediamo qual è in Europa lo stato dell'arte.

Lo stato dell'arte, cioè della politica economica europea, è pessimo. Non solo dal giugno sorso, quando ci furono i primi segnali della crisi americana dei "subprime" ma da molto tempo prima. Pessima la politica economica della Commissione di Bruxelles per la parte di sua competenza, pessima la politica monetaria della Bce e pessima quella di gran parte dei governi nazionali membri dell'Ue. Politica restrittiva dei tassi, dei parametri che presiedono al patto di stabilità, della vigilanza sul sistema bancario.

Ho letto ieri su "24 Ore" un articolo di Fabrizio Galimberti dal titolo "Ma si può dir male della Bce?". Finalmente, ma ve ne accorgete soltanto adesso? Noi ne diciamo male da un anno e mezzo ma non siamo economisti accademici, siamo soltanto giornalisti dei quali si dice male tutti i giorni. Non costa nulla dir male dei giornalisti anche se talvolta vedono più lontano dei banchieri centrali e della folta schiera dei loro sostenitori.

La Bce ha mantenuto il tasso di sconto al 4,25 per cento per almeno due anni fino ad un mese fa, quando già infuriava la tempesta recessiva. Due punti sopra al tasso Usa. Poi, un mese fa, ha cominciato a ridurlo a passettini, con il contagocce seguendo con ritardo il crollo delle Borse e lo stallo delle imprese. Non hanno capito assolutamente niente della natura e delle dimensioni di quanto stava accadendo nell'economia americana. Della devastazione dei titoli spazzatura. Dell'inquinamento dei "derivati". E soprattutto della politica del debito che era diventata la base di una piramide rovesciata, di un "boom" cartaceo che si reggeva sulla punta anziché sulla base. Si incoraggiava il debito facile e su di esso si creavano profitti enormi ma enormemente precari.

Nel giugno scorso arrivò il primo scossone, ma le istituzioni in Europa hanno continuato come niente fosse. I "fondamentali" - così dicevano - sono solidi. Fino a quando ci abbiamo sbattuto il muso contro.
Si dice: però fin dai primi segnali di crisi non hanno fatto mai mancare liquidità al sistema. Questo è vero: sia la Fed sia la Bce hanno inondato il sistema di liquidità. Con prestiti reiterati a breve e brevissimo termine.

Nell'ultima fase, una ventina di giorni fa, anche i governi si sono finalmente svegliati intervenendo al salvataggio di alcune banche in "default" (in Gran Bretagna, in Germania, in Francia, in Olanda, in Belgio) e fornendo in tutti i paesi dell'Ue una garanzia pubblica sui depositi, con il motto "nessuna banca fallirà".

Si pensava che bastasse, ma ovviamente non è bastato. La garanzia dei depositi è un puro e semplice "spot" mediatico. Può servire a ridare fiducia ma nessun governo del mondo sarebbe in grado di garantire i depositi di fronte ad un "default" bancario. Una grande banca amministra depositi per decine di miliardi. Lo "spot" serve a rassicurare i depositanti e non costa nulla, ma se i depositanti dovessero fare ressa agli sportelli anche di una sola grande banca, verrebbe giù tutto come un castello di carta.

Per fortuna non siamo a questo. Allora tutto va bene? Nient'affatto. Sapete dove è finita la liquidità che la Bce ha fornito alle banche? E' finita nelle casse della Bce, questo è il paradosso. Era stata data nella speranza che il credito interbancario, cioè quello che le banche si prestano reciprocamente, riprendesse a scorrere fluentemente. Invece le banche hanno ridepositato la liquidità presso la Banca centrale. Ci lucrano un differenziale ma intanto tagliano i crediti ai clienti. Le cifre sono queste: il 10 settembre i depositi delle banche alla Bce di Francoforte ammontavano a 48 milioni di euro; al 31 ottobre ammontano a 280 milioni. E' evidente che il meccanismo si è inceppato ma nessuno è ancora corso ai ripari.

Un altro problema non risolto e difficilmente risolvibile riguarda i Fondi d'investimento. I clienti scappano chiedendo la restituzione dei risparmi investiti. Nei primi dieci mesi di quest'anno le richieste di riscatto sono state di 55 miliardi di euro. Per farvi fronte i Fondi scaricano sulla Borsa i loro portafogli e i listini vanno giù.

* * *

Adesso è entrata in crisi l'economia reale: aumenta la disoccupazione, diminuisce il reddito reale delle famiglie, tutto il lavoro precario è sotto schiaffo. Il lavoro precario non usufruisce nemmeno di ammortizzatori sociali, non è prevista finora la Cassa integrazione. Attenzione: i precari sono ormai alcuni milioni di persone. Finora il problema era quello di favorirne il passaggio a contratti stabilizzati, ma ora il problema è un altro: evitare che le imprese li buttino sulla strada e predisporre qualche tutela per la loro disoccupazione. Gli impiegati statali si trovano anch'essi in questa situazione perché la pubblica amministrazione è piena di precari. Fannulloni? Alcuni probabilmente sì ma tutti sicuramente no. Ma è facile farli fuori alla scadenza dei contratti.

Il governo ha stanziato un fondo di 650 milioni per sostenere le imprese. Ho riletto più volte questa cifra, credevo si trattasse di un refuso, che mancasse uno zero. Invece no, si tratta di milioni e non di miliardi. Altri 600 milioni dovrebbero servire per rafforzare la Cassa integrazione. Ma se arriva l'ondata dei precari anche questa cifra diventerà ridicola. "Non ci sono soldi" dice Tremonti ed è vero, non ce ne sono. Avete buttato dalla finestra tre miliardi e mezzo annui per abolire l'Ici sulle case degli abbienti. Malgrado i tagli alle spese il fabbisogno del Tesoro è in costante aumento e di conseguenza aumenta il debito pubblico e l'onere degli interessi. Vuol dire che la lotta all'evasione è stata abbandonata.

Ora si sta studiando un provvedimento molto opportuno: prelevare l'Iva al momento dell'incasso del credito e non al momento della emissione della fattura. Un respiro per le imprese, ma ovviamente una diminuzione di entrate da parte dell'erario. Tuttavia salari e pensioni debbono essere aumentati altrimenti il consumo, gli investimenti, la disoccupazione andranno in crisi ancora di più. Ci vuole un piano di rilancio, bisogna immaginare una copertura e utilizzare i margini di flessibilità che l'Europa finalmente concede. Il governo pensa alla Cassa depositi e prestiti e ai 100 miliardi di risparmio postale che essa amministra. Per fare che cosa? Per metterli dove?

Sono depositi di povera gente, libretti postali di vecchi, i risparmi di una vita. Che cosa volete farne? Lo deciderete in nove minuti per decreto e con la fiducia? Cento miliardi di povera gente in operazioni di rischio? Ma siete matti?

Post Scriptum. Il clamore sulla "abbronzatura" del presidente eletto degli Stati Uniti ha indignato il premier italiano. Era una carineria - ha detto - e la stampa imbecille di tutto il mondo non l'ha capita.
Io penso che Berlusconi abbia ragione, il clamore è stato eccessivo. Dovrebbe esser chiaro a tutti che l'Italia ha liberamente scelto di affidare il governo nazionale ad un comico. E' un comico un po' invecchiato ma pur sempre di prim'ordine. Chi se ne stupisce e se ne indigna è male informato. Si tratta di un attore della premiata ditta del Bagaglino. Barack Obama che è intelligente l'ha capito e gli ha telefonato. Forse qualche risata se la sarà fatta anche lui.

(9 novembre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #98 inserito:: Novembre 12, 2008, 10:03:08 am »

POLITICA

La mancata tutela del territorio, dell'ambiente e del paesaggio va di pari passo con la scarsa attenzione all'arte e all'archeologia

Beni culturali sempre più a rischio

Come porre rimedio ai disastri

Investire nella cultura significa anche rafforzare il turismo con tutto l'indotto


di EUGENIO SCALFARI


Può sembrare anacronistico occuparsi di tutela dei beni culturali e del paesaggio mentre infuria una tempesta economica senza precedenti che diffonde incertezza, paura e sfiducia e chiede risposte urgenti ed efficaci. Eppure non si tratta d'un tema peregrino, tantomeno d'un pretesto per parlar d'altro evadendo quelli che più ci riguardano. Si tratta invece d'un tema estremamente pertinente. Viviamo giorni e mesi di decisioni radicali che da un lato tendono a mettere in atto misure di tamponamento che garantiscano nell'immediato i depositi bancari, il patrimonio di banche e di imprese, il sostegno della domanda e dei redditi più deboli.

Ma dall'altro configurino nuovi assetti e nuovi equilibri nei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Configurino anche una società diversa da quella attuale, una maggiore trasparenza e più incisivi controlli per bilanciare il necessario rafforzarsi dei poteri rispetto ai diritti.

In questo profondo rimescolio esiste il pericolo che la cultura, cui si continua a tributare omaggio di parole, costituisca nei fatti l'anello debole e addirittura la vittima sacrificale. Cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio, sono infatti considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno. I tagli di spesa più cocenti sono avvenuti proprio in questi settori non soltanto per eliminare sprechi ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Non si è considerato che non si tratta di spese ma di investimenti che, proprio per la loro natura, non possono essere interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi.

La totalità di questi beni, la loro salvaguardia e la loro valorizzazione, hanno tra l'altro effetti diretti sull'economia del Paese poiché sono connessi all'industria del turismo che rappresenta una delle maggiori risorse del nostro territorio. Il turismo, dal punto di vista della bilancia commerciale, equivale all'esportazione di beni e servizi, procura entrate di valuta nelle casse dell'erario, con una differenza: non escono merci e servizi dal territorio nazionale ma entrano persone e con esse ricchezza e sostegno della domanda interna. Una flessione del turismo comporta una flessione immediata della domanda e della ricchezza prodotta.

Fino a poco tempo fa l'alto livello dell'euro in termini di dollari scoraggiava il turismo internazionale verso l'Europa, ma è proprio qui che entrava in gioco la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici di ciascuno dei Paesi europei con spiccata vocazione turistica. Abbiamo assistito negli anni di più elevato tasso di cambio dell'euro al decadimento del turismo diretto verso l'Italia a vantaggio di quello canalizzato verso la Spagna, la Francia, la Grecia: stessa moneta, quindi stesse difficoltà per i portatori di un dollaro debole rispetto all'euro, ma diversa attrattiva dovuta alla migliore valorizzazione del paesaggio, del territorio, dei beni culturali che lo animano.

Ora il cambio euro-dollaro è tornato a livelli meno penalizzanti per il turismo europeo, anche se la crisi economica internazionale ha provocato una diminuzione del movimento turistico complessivo. Proprio a causa di questa flessione congiunturale la concorrenza è diventata ancor più severa ed è quindi tanto più necessario investire sulla cultura in tutte le sue articolazioni.

Ma questo non avviene, anzi sta avvenendo il contrario. Ho già accennato al problema d'una mentalità che considera i consumi culturale come un fatto opzionale. Si tratta d'una mentalità economicamente distorta che va denunciata e combattuta

* * *

La condizione in cui versano ormai da anni le nostre Sovrintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici e culturali è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. Il ministro competente promette di colmare almeno i vuoti più drammatici e cerca soldi che compensino i pesanti tagli effettuati dalla Finanziaria triennale varata fin dallo scorso luglio. Li cerca ma finora non li ha trovati e dubito molto che possa riuscirvi nel prossimo futuro.

Il guaio è che, risorse finanziarie a parte, il ministro tergiversa anche a compiere alcuni adempimenti che non comportano spese ma che sarebbero necessari per chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio da almeno trent'anni in qua, disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la visibilità e la pubblica fruizione.

Questi abusi sono il frutto di inefficienza delle istituzioni di controllo, di scarsissima sensibilità nella pubblica opinione, dell'indifferenza dei "media" e, soprattutto, di una normativa che ha disperso i poteri di controllo tra tre diversi ministeri (Beni culturali, Ambiente, Lavori pubblici) e tre diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni, Comuni.

Aggiungete a questa dispersione dei poteri di controllo e di programmazione la scarsità delle risorse e capirete le dimensioni di un disastro che ha mostrificato l'ambiente e si prepara a peggiorarlo ulteriormente con l'avvento di un federalismo che disperderà fino al limite estremo competenze e saperi.

* * *

Il più attento conoscitore del disastro culturale e ambientale italiano è Salvatore Settis, che lotta da decenni per la tutela e la valorizzazione dell'immenso e negletto patrimonio che il Paese possiede e trascuratamente dilapida.

E' sua la definizione dell'unicità concettuale e pratica di questa nostra ricchezza, della sua manutenzione, della sua fruizione pubblica, di ciò che potrebbe e dovrebbe essere e invece non è. La definizione è questa: Esiste un "territorio" senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un "ambiente" senza territorio e senza paesaggio? Esiste un "paesaggio" senza territorio e senza ambiente?".

Da questo triplice interrogativo, retorico perché presuppone una risposta negativa alle tre domande, nasce l'esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo tra i vari enti istituzionali che sia depositario d'una visione generale, che viene inevitabilmente persa di vista man mano che si discende nei livelli locali, la Regione e ancora di più il Comune.

Purtroppo la situazione attuale ha già attribuito gran parte delle competenze alle Regioni consentendo ad esse di delegare ai Comuni una parte rilevante delle competenze e dei poteri propri. Le Sovrintendenze sono state in larga misura svuotate dei loro poteri di controllo e totalmente dei loro poteri di valorizzazione. La pianificazione urbanistica da tempo ha preso il sopravvento su quella paesaggistica e ambientale; a loro volta gli interessi propriamente edilizi hanno stravolto la pianificazione urbanistica; in tali condizioni anche la collusione, la corruzione e il lassismo sono stati oggettivamente incoraggiati.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disastro ambientale, paesaggistico, urbanistico che ha deturpato il paesaggio, l'ambiente e il territorio.

Il federalismo, in mancanza d'una normativa chiara e netta che si richiami all'articolo 9 della Costituzione ("La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione") e alla giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, porterà inevitabilmente questo triplice scempio se l'opinione pubblica non ne farà un obiettivo prioritario del proprio impegno civile.

(11 novembre 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #99 inserito:: Novembre 16, 2008, 05:43:29 pm »

ECONOMIA    IL COMMENTO

L'assalto al futuro della nuova generazione

di EUGENIO SCALFARI



EPIFANI ha deciso di isolarsi. E' un massimalista. Si aggrappa al sindacalese del secolo scorso e non capisce che siamo in un'economia globalizzata.
Ha scelto il movimentismo abbandonando il riformismo. Insegue la Fiom. Si crede il centro del mondo. E' uscito di testa ma speriamo che si ravveda. (Quest'ultimo giudizio è di Bonanni, l'uomo forte della Cisl). La sua politica favorisce Berlusconi. La Cgil non conta più niente. Il Pd prenderà le distanze. Lama si rivolterebbe nella tomba. Perfino Di Vittorio...

Venerdì sera l'ho chiamato al telefono, tanta unanimità contro di lui mi aveva incuriosito, del resto non è la prima volta per lui e non è la prima volta per chi guida il maggior sindacato italiano. Vi ricorderete Cofferati: per due anni fu la bestia nera dell'Italia benpensante. Anche lui si era isolato perché Cisl e Uil avevano firmato con Berlusconi il "patto Italia" che tuttavia restò lettera morta. Vi ricorderete Bruno Trentin, del quale tutti riconoscevano l'onestà intellettuale e tutti biasimavano la politica sindacale. E vi ricorderete Lama.

Luciano Lama è stato ricoperto di elogi (dall'Italia benpensante) quando lasciò la carica di segretario della Cgil e soprattutto quando morì. E non parliamo di Di Vittorio. "Post mortem" un generale rimpianto; da vivo invece l'avrebbero volentieri messo in galera per continua violazione dei diritti di proprietà, interruzione di pubblici servizi, resistenza alla forza pubblica.

Diffido molto della cosiddetta "Italia benpensante". Spesso pensa male, il più delle volte non pensa affatto, ripete gli "spot" dai quali viene ogni giorno bombardata e imbottita. Scopre le persone di qualità quando sono morte. Così fu per Ezio Vanoni, per Ugo La Malfa, per Aldo Moro e per Enrico Berlinguer. Da vivi preferisce i truffaldini che promettono miracoli e felicità.

Dunque Epifani. Lui non vuole isolarsi da nessuno e comunque non si sente affatto isolato. L'altro giorno fiancheggiava la manifestazione studentesca nelle strade di Roma, centomila ragazzi che chiedono una riforma vera e seria della scuola e dell'università e non i pannicelli caldi del grembiulino, del maestro unico e dei tagli.

Lo stesso giorno la Cgil insieme agli altri sindacati confederali, ha dato il disco verde alle assunzioni individuali che la Cai di Colaninno comincerà domani. Nei prossimi giorni chiederà al governo di convocare le parti sociali a Palazzo Chigi per discutere della recessione e delle urgenti misure che essa richiede. Poi bisognerà proseguire la discussione con la Confindustria sui contratti di lavoro e sulla loro eventuale riforma.

"Sembro uno che si vuole isolare? Quando il capo di un sindacato va a cena nell'abitazione privata del capo del governo è lui a rompere l'unità ed è lui che si isola".
Quella cena a Palazzo Grazioli l'ha fatto molto arrabbiare. "Non è la prima volta, ormai ci ho fatto l'abitudine, ma il fatto nuovo è stato la presenza di Emma Marcegaglia. Cisl, Uil e Confindustria a cena da Berlusconi per parlare di contratti con la voluta assenza della maggiore organizzazione sindacale. Qual è il senso? Che cosa significa?".

E quindi sciopero generale da soli il 12 dicembre. "No, quello era già previsto. Non sono così imbecille da indire lo sciopero generale per un mancato invito a cena. La motivazione è molto più seria, i lavoratori lo sanno e la loro adesione lo dimostrerà".

* * *

Uno sciopero generale è sempre politico per definizione. Se ci fosse un obiettivo specifico che interessa una specifica categoria professionale non si farebbe appello alla totalità dei lavoratori. Quando si proclama lo sciopero generale vuol dire che si vogliono affermare e conquistare diritti che riguardano tutti i lavoratori e addirittura tutti i cittadini. Riguardano l'interesse generale del paese, naturalmente visto dall'angolazione dei lavoratori. Per questo dico che si tratta d'uno sciopero politico per definizione.

Bisogna dunque capire quali sono i diritti da affermare e conquistare in questa fase dello scontro sociale che pure richiederebbe la collaborazione di tutte le forze per far fronte ad una tempesta economica che ha rari precedenti nella storia degli ultimi cent'anni.
Il diritto è quello che si legge nell'articolo uno della Costituzione: "La Repubblica italiana è fondata sul lavoro".

Sembrerà una frase rituale, mille volte invocata e mille volte elusa, che rappresenta tuttavia l'elemento portante della nostra architettura costituzionale. Tutti quelli che seguono sono diritti ai quali la Costituzione conferisce dignità e tutela giuridica, ma nessuno dei quali è definito come fondamento del patto nazionale. Il lavoro non è soltanto un diritto ma è anzitutto un valore. Così l'hanno voluto i nostri "padri costituenti": il lavoro degli operai e quello dei contadini, dei professionisti e degli imprenditori, dei docenti e dei discenti.

Ma perché proprio oggi uno sciopero per lavoro? E' vero, la disoccupazione sta aumentando, la recessione distrugge ogni giorno posti di lavoro, le imprese riducono il personale dipendente, molte chiudono, anche il lavoro autonomo è in crisi. Ma non sarà certo uno sciopero a far invertire la tendenza. Allora perché lo sciopero generale? Bisogna esaminare con molta attenzione questa questione per capire ciò che sta accadendo.

I redditi reali dei lavoratori negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi sei mesi sono aumentati meno dell'inflazione ufficiale e molto meno dell'inflazione reale. Ciò significa che il potere d'acquisto dei redditi inferiori ai trentamila euro annui è fortemente diminuito.

Poiché i redditi nominali sono tuttavia aumentati, di altrettanto è aumentato il prelievo fiscale. Il lavoro dipendente non può evadere e i pensionati neppure, per conseguenza il potere d'acquisto è ulteriormente diminuito.

Il lavoro precario, che negli anni scorsi è stato incoraggiato in molti modi e presentato come lo sbocco più idoneo per fronteggiare i fenomeni dell'economia globale, sarà il primo ad esser colpito sia nelle aziende private che nelle amministrazioni pubbliche. Nei prossimi mesi, ma già fin d'ora, decine di migliaia di lavoratori precari saranno licenziati senza disporre di alcuna tutela sociale.

L'intera gamma degli ammortizzatori sociali è inconsistente. La cassa integrazione non è estesa a tutti, non esiste un salario sociale minimo, il sussidio di disoccupazione è insufficiente e di breve durata, i corsi di formazione sono tuttora nella fase preliminare, privi di sostegno finanziario adeguato.

Nel frattempo la trattativa sul nuovo schema di contratto del lavoro è stata scavalcata dalla crisi recessiva in corso. Quando il negoziato tra le parti sociali ebbe inizio la crisi non era ancora scoppiata e tutti credevano di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di qui la lunga discussione tra le parti sociali sui contratti di primo e secondo livello, quello nazionale e quelli aziendali agganciati alla produttività.

La Cgil, tra i tre sindacati confederali, era la meno entusiasta dell'idea di spostare l'asse contrattuale dalla sede nazionale a quella locale; tuttavia accettò l'aggancio alla produttività di settore e di azienda che avrebbe dato maggiore flessibilità al mercato del lavoro.

Nelle condizioni in cui ora ci troviamo, tuttavia, questa discussione è completamente fuori dalla realtà. Con la caduta della domanda e degli investimenti, con la restrizione del credito che sta soffocando il sistema delle imprese e in particolare delle più piccole, con l'aumento della disoccupazione, gli incrementi di produttività sono una giaculatoria puramente verbale, un'icona culturalmente valida ma concretamente inesistente.

Le cose reali, le rivendicazioni da mettere in campo, riguardano il sostegno e i redditi, l'espansione del credito, un sistema di ammortizzatori sociali efficace. In sostanza il rilancio della domanda, dei consumi e della produzione.

Tremonti sa benissimo che di questo si tratta ma ancora ieri ha ribadito che questa politica non si può fare aumentando il deficit e il debito. Ha perfettamente ragione. Si fa infatti riprendendo vigorosamente la lotta all'evasione che è stata di fatto abbandonata, tassando le rendite e i redditi più elevati.

Questa è la ricetta che Barack Obama si appresta a mettere in pratica non appena sarà insediato alla Casa Bianca. Del resto non c'è altra via: coi tempi che corrono la redistribuzione fiscale è lo strumento principale per rilanciare la crescita senza aumentare un debito già enorme.

I miliardi della Cassa depositi e prestiti sui quali il ministro dell'Economia fa tanto affidamento possono essere utilizzati per finanziare le infrastrutture (promesse nel 2001 con il famoso "contratto con gli italiani" stipulato in televisione da Berlusconi e completamente inevaso per tutta la legislatura) ma non possono certo essere usati per sostenere il reddito.

* * *

Una politica così configurata, che è la sola possibile per uscire dalla tempesta della crisi, dovrebbe vedere unite tutte le organizzazioni sindacali e tutti i lavoratori. Accade viceversa che proprio in questo delicatissimo momento di svolta esse si dividano e la loro unità d'azione si spacchi clamorosamente. Questi fatti, oltreché incomprensibili, rendono assai difficile l'adozione della sola politica economica di crescita disponibile per un paese con un debito schiacciante.

L'opposizione reclama da tempo questa politica ma i rapporti di forza parlamentari sono quelli che sono. Diverso è il peso delle organizzazioni sindacali anche se non ha più la forza di un tempo. Il momento di gettarlo sul piatto della bilancia è questo. Il tentativo di convincere Berlusconi, Tremonti, Marcegaglia a tassare i ricchissimi patrimoni e le rendite per rilanciare il motore della crescita è pura illusione. Non è quella la loro strategia e non è quella l'alleanza sociale che li sostiene. Siamo dunque arrivati, dopo sei mesi di legislatura, al punto della svolta.

* * *

Gran parte degli osservatori, in Europa come in America, sostengono che il vento della crisi mondiale ha rimesso in sella il potere politico rispetto al mercato, i governi rispetto al "business", l'interventismo pubblico rispetto al liberismo.
C'è una buona parte di verità in questa diagnosi, ma non tutta la verità. Certamente il liberismo e il pensiero unico che ad esso si ispira sono in netta ritirata. Tuttavia è un fatto che per uscire dalla tempesta serve soprattutto un atto di fiducia. Senza un ritorno della fiducia l'economia mondiale precipiterà da una recessione temporanea in una lunga e devastante depressione.

Chi sono i destinatari della fiducia? I governi e le istituzioni nazionali e internazionali. E la fiducia da dove viene? Dalla società. Dagli individui, dalle famiglie, dai ceti, dai lavoratori-consumatori-contribuenti-risparmiatori che la compongono.
Queste enormi masse di persone sono prevalentemente animate da preoccupazioni economiche, però non soltanto da esse. Su un fondale di bisogni inappagati e di paure del futuro non dissipate si stagliano anche convinzioni profonde di carattere morale, di giustizia, di riconoscimento.
La politica è tornata in sella là dove la società si riconosce in essa. Bush era un'anatra zoppa già molto prima della campagna elettorale di Obama. Del resto Obama è sceso in guerra contro l'establishment del suo partito e McCain ha fatto altrettanto. Dopo le elezioni del 4 novembre la società americana ha determinato una nuova politica e nuove rappresentanze. La società ha espugnato il castello politico e vi ha issato una nuova bandiera.

In Italia il castello della politica berlusconiana era fino a un mese fa fortissimo. Ora è meno forte perché una parte della società si sente disconosciuta e ferita. Non più rappresentata. Questo è il fatto nuovo: una parte crescente della società è ferita per mancanza di futuro. I giovani studenti, i giovani precari, le donne, i lavoratori dipendenti, le imprese del Nordest, il Mezzogiorno non mafioso, le imprese schiacciate dal racket, i moderati che sognano il buon governo, i cattolici cristiani che non si riconoscono nella gerarchia papalina: queste minoranze si stanno cercando tra loro nel momento stesso in cui si distaccano dal castello politico berlusconiano.

Siamo appena ai primi segnali, ma sotto la spinta della crisi i mutamenti e gli smottamenti possono procedere con estrema rapidità. In una direzione o nell'altra. Ricementando il castello politico o smantellandolo.
Siamo ad una svolta di alto rischio dove la partita richiede lucidità e coraggio. Soprattutto coraggio. Bisogna dimenticare le proprie botteghe se si vuole l'assalto al futuro impedendo che ci venga confiscato.

(16 novembre 2008)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #100 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:53:54 am »

Eugenio Scalfari.

Quei ministri tolleranza zero


Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, pur in modo difforme, mostrano di non volere dare spazio a una opinione pubblica che riscopre il pluralismo e la tolleranza  Renato Brunetta e Mariastella Gelmini sono i due ministri (rispettivamente della Funzione pubblica e dell'Istruzione) più osteggiati dall'opposizione. Lo scrive Angelo Panebianco sul 'Corriere della sera' di sabato scorso e se ne domanda il perché. La sua risposta è questa: Brunetta e la Gelmini sono i ministri che più hanno colpito gli interessi conservatori e corporativi di due categorie, quella dei docenti e quella dei dipendenti della pubblica amministrazione, due pilastri di sostegno della sinistra in genere e del Partito democratico in particolare ed ecco spiegata la ragione di tanta acredine dell'opposizione contro l'operoso tandem Gelmini-Brunetta. La conclusione di Panebianco è conforme allo stile di tutti i commentatori di centrodestra che auspicano da tempo un'opposizione al guinzaglio: Veltroni aveva fatto sperare in un'opposizione costruttiva (dicono) che appoggiasse le riforme, ma il Veltroni attuale è cambiato, insegue Di Pietro, è diventato massimalista e conservatore.

Se continuerà così finirà con lo scomparire dalla scena politica. Non entro nel merito di questi vaticini. Mi interessa invece analizzare la tesi di Panebianco nella quale vedo annidati alcuni gravi errori di valutazione e alcune altrettante gravi omissioni, al punto da farmi supporre che una mente lucida come la sua sia stata in questo caso soverchiata dalla passionalità. Può accadere e non escludo affatto che accada talvolta anche a me. Quando me ne accorgo cerco di correggermi e spero che anche Panebianco faccia lo stesso. Ciò detto veniamo al merito e cominciamo da Brunetta. Il ministro della Funzione pubblica non ha preparato finora alcun progetto di riforma dell'amministrazione, un tema che pesa sulla struttura dello Stato da almeno 150 anni, dall'epoca del primo ministero Depretis e da allora non ha fatto che aggravarsi.

Ora poi siamo alla vigilia d'un riassetto federalista, sicché una riforma non potrebbe avvenire se non seguendo il nuovo schema federale del quale ancora non si sa assolutamente nulla. Brunetta tuttavia non poteva starsene con le mani in mano né tantomeno avrebbe accettato di lavorare alle dipendenze di Calderoli. Il suo problema personale è quello di farsi vedere e lo fa alternando bizzarrie e volgarità. In questa sua smania di apparire, magistralmente imitata dal comico Crozza, il ministro della Funzione pubblica moltiplica le sue lettere ai giornali (ne saranno apparse almeno una quindicina in questi ultimi tempi). Per rilanciare la sua lotta contro i fannulloni si comporta come un cacciatore che andando in cerca di allodole si sia armato di cannone. Le conseguenze sono di configurare tutti gli impiegati statali come scansafatiche incompetenti in tutto fuorché nella furbizia di prendere lo stipendio senza lavorare.

Non credo che Brunetta pensi questo degli impiegati di Stato ma l'esuberanza della sua natura fa sì che sia quello il risultato del suo modo di parlare e di operare. La conseguenza è stata che gli statali sono diventati ormai il bersaglio sul quale si può sparare liberamente. È strano che un ministro di questo genere susciti diffidenza ironie e animosità? Mariastella Gelmini è un caso più complicato. Non sono state le sue sortite sul maestro unico, sui grembiulini, sul voto in condotta a farne il bersaglio della maggioranza degli italiani e della quasi totalità dei docenti e degli studenti. Di quegli argomenti era possibile discutere senza trasformare la discussione in una rissa. Ancor meno sono state le storture dai lei indicate nell'Università, condivise dalla stragrande maggioranza della pubblica opinione: il numero eccessivo delle sedi universitarie, il baronaggio dei docenti, la sovrabbondanza dei corsi di laurea.

Sull'abolizione di queste storture si poteva e si può raggiungere la quasi unanimità. Ciò detto è perfettamente vero che la Gelmini sia il ministro più contestato da studenti e docenti e dal centrosinistra tant'è che negli ultimi sondaggi è finito in fondo alle classifiche dei ministri con una perdita di cinque punti in trenta giorni. Il motivo di tanto sfavore sta nel fatto che il ministro dell'Istruzione ha imbracciato la politica dei tagli voluti da Tremonti ed ha cercato di motivarla come una politica di profonda e seria riforma. Ha cioè fatto vistosamente e scopertamente un'operazione di disinformazione politica. Per di più ha accettato tagli che, se attuati in quella dimensione, porteranno né più né meno che alla chiusura delle università per asfissia finanziaria. Oggi il ministro si dichiara pronta a dialogare con gli studenti e con l'opposizione escludendo però dal dialogo chiunque persegua il 6 politico e il 18 politico ispirandosi alle 'utopie sessantottine'.

Il merito prima di tutto e le bocciature come strumento per affermarlo. Il ministro non si è accorto che il movimento degli studenti è lontano anni luce dagli ideali che ispirarono il Sessantotto, rivendica anch'esso il merito, non copre affatto i baroni, è guidato non dagli ultimi ma dai migliori. E tuttavia, ed anzi proprio per questo, respinge la meritocrazia muscolare della Gelmini la quale è ormai diventata l'icona di Dell'Utri e della parte più retriva dello schieramento di centrodestra. Questo è un dato di fatto del quale il professor Panebianco dovrebbe domandarsi il perché. Dal canto mio azzardo l'ipotesi che lo slogan 'tolleranza zero' stia passando di moda nella pubblica opinione, in una società che riscopre il pluralismo e la tolleranza.

(21 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #101 inserito:: Novembre 23, 2008, 10:58:36 pm »

IL COMMENTO

Le bugie nel palazzo le risse nel cortile

di EUGENIO SCALFARI


I GOVERNI aspettano, nessuno ha voglia di fare la prima mossa. Neppure l'America, messa in angolo dalla troppo lunga transizione tra il presidente uscente e quello già eletto ma non ancora governante. Neppure l'Europa dove la Banca centrale promette un ribasso del tasso di interesse e la Commissione di Bruxelles studia un piano di intervento sulle infrastrutture che è ancora sotto limatura e in mancanza del quale i governi nazionali rinviano le decisioni di loro competenza.

I governi dunque aspettano ma la crisi dell'economia no. Le Borse continuano a crollare, le aziende a licenziare, le famiglie a stringere la cinta. Il Natale non si preannuncia allegro per nessuno; forse, una volta tanto, sarà una festa religiosa per i credenti e un momento di riflessione e di consuntivo morale per tutti.

Questa domenica vorrei fare anche un po' di chiarezza sul programma di sostegno dei redditi e delle imprese che il nostro ministro dell'Economia sta preparando e che, salvo ulteriori rinvii, dovrebbe essere varato dal Consiglio dei ministri il 28 prossimo. Ma vorrei anche esprimere qualche opinione sulla politica italiana e in particolare sul centrosinistra. Di solito evito questo tema, sa troppo di politichese, un genere che mi appassionava in passato ma che ha perso da tempo lo smalto che aveva. Ci sono tuttavia momenti nei quali la politica evoca di nuovo una scelta morale. Stiamo vivendo uno di quei momenti nonostante la diffusa mediocrità degli apparati e delle oligarchie. Perciò mi sembra doveroso parlare anche di questo tema.

Me ne offre lo spunto la conversione del presidente del Consiglio dalla strategia di aggressività nei confronti di chiunque metta in discussione le sue decisioni ad un'improvvisa apertura verso i sindacati, verso il movimento degli studenti e verso quei settori e quei ceti che, sotto l'impatto della crisi economica, cominciano a risvegliarsi dall'ipnosi e a chiedere non più annunci ma fatti concreti.

Le aperture del presidente del Consiglio sono ancora molto caute e contraddittorie, contrastano con la sua natura che lo spinge ad occupare interamente la scena senza condividerla con nessuno, alleato o avversario che sia. Ma la forza dei fatti e le necessità che ne derivano lo inducono a tentare un percorso diverso. Fino a che punto diverso?

L'esperienza ci ha insegnato che le aperture berlusconiane hanno un arco di oscillazione molto limitato. La sola opposizione accettabile è per lui un'opposizione al guinzaglio che si accontenti di qualche briciola e di qualche pacca sulle spalle, che rida alle sue barzellette, che si contenti di essere invitata a cena e trattata con buone maniere. Carota sì, purché si intraveda che il bastone è sempre lì, poggiato in un angolo a portata di mano.

Certo se quella parte di Italia che lo sente incompatibile si innamorasse improvvisamente di lui le cose cambierebbero molto. Per ora l'innamoramento è avvenuto per pochi e non sempre, anzi quasi mai, per conversione sulla via di Damasco ma piuttosto con motivazioni di tornaconto personale. Non è questo che vuole il sire di Arcore e di Palazzo Grazioli. Perciò quel momento magico tarda a venire. Per fortuna, perché quello sì, sarebbe la fine della democrazia italiana.

* * *

Intanto il Partito democratico versa in serie trambasce. Le lacerazioni interne non sono una novità e del resto esistono in tutti i partiti e in tutto il mondo. La sinistra però ne è affetta molto più della destra perché storicamente la sua natura è ideologica. Infatti profonde lacerazioni vi sono nella Spd tedesca, nel Partito socialista francese, tra i laburisti inglesi. E' accaduto perfino in Usa durante la campagna elettorale tra Obama e l'ala clintoniana del partito.

Qui da noi le lacerazioni del Pd viaggiavano sotto traccia fin da quando Veltroni fu chiamato alla "leadership" nell'autunno del 2007 quando il governo Prodi e la legislatura erano oramai alla fine. La sua ascesa alla segreteria fu voluta dai due gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita, cioè dall'Ulivo che si trasformò rapidamente in un partito nuovo e affrontò pochi mesi dopo le elezioni politiche guidato dall'ex sindaco di Roma, confermato nel ruolo di leader da tre milioni e mezzo di votanti alle primarie del partito.

Se miracolosamente avesse vinto le elezioni la compattezza del nuovo partito sarebbe stata garantita dall'interesse di tutti cementato dal potere e dall'assenza di contrasti politici. La cornice generale era infatti interamente condivisa: un partito aperto e innovatore che aveva unificato il riformismo laico e quello cristiano, uscito dalle ceneri dell'alleanza con la sinistra estrema che aveva segato il governo Prodi.

La sconfitta elettorale era nel conto ma mancando il cemento del potere emersero le lacerazioni. Non c'era un contrasto nella visione del bene comune e neppure dei mezzi da impiegare per realizzare quell'obiettivo; c'era però materia per uno scontro di potere all'interno del partito. Il Pd aveva difatti incassato un risultato elettorale del 33 per cento dei voti espressi, un partito riformista che aveva ottenuto il consenso di un terzo del corpo elettorale non si era mai visto nella storia italiana, né in tempo di repubblica, né in tempo di monarchia.

I contrasti rimasero tuttavia sotto traccia, ma col passare dei mesi e con la stupefacente luna di miele tra Berlusconi e la pubblica opinione, diventarono sempre più evidenti, nacquero fondazioni che sotto l'apparenza culturale si atteggiavano a vere e proprie correnti. In particolare quella guidata da D'Alema che si dette addirittura un assetto territoriale.

L'obiettivo sembrò esser quello di logorare la leadership veltroniana anche a costo di danneggiare la compattezza del partito ancora in fase organizzativa.
Infine, proprio in queste ultime settimane, arrivarono due mosse strategiche di Berlusconi: la rottura con la Cgil e l'elezione del senatore Villari alla guida della Commissione di vigilanza sulla Rai con i voti della destra e contro il candidato dell'opposizione. Su questa micidiale doppietta lo scontro interno al Pd è esploso in piena luce sotto l'antica e mai risolta rivalità tra Veltroni e D'Alema.

* * *

Con tutto quello che sta accadendo nel mondo uno scontro di cortile è quanto di più mediocre e provinciale si possa immaginare. Frustrante per gli elettori e i simpatizzanti di un partito ancora allo stato nascente ma con un seguito nient'affatto trascurabile come ha dimostrato qualche settimana fa l'imponente raduno del Circo Massimo, poi il rilancio nei sondaggi che vedono il Pd di nuovo al 32 per cento, poi la vittoria elettorale nella provincia di Trento, infine l'inizio d'uno smottamento sociale del consenso berlusconiano.

D'Alema, nel suo ruolo di sfidante, nega sia pure a fior di labbro che lo scontro vi sia, ma i fatti lo smentiscono. Parlano per lui i suoi luogotenenti e i media da lui in qualche modo influenzati. L'attacco a Veltroni è il punto di convergenza di tutte queste voci.

Il testo che traccia con più chiarezza quest'indirizzo politico lo si trova in un articolo di Galli Della Loggia pubblicato di fondo sulla prima pagina del "Corriere della Sera" di martedì scorso, quanto mai rivelatore. L'accusa a Veltroni è motivata dal suo supposto appiattimento su Di Pietro che sarebbe incompatibile con la linea riformista del Pd tradita dal segretario del partito. "Il riformismo - scrive l'autore - ha avuto un rigoglioso sviluppo quando ha rifiutato il massimalismo ed è stato invece condannato al declino quando si è confuso con esso".

Sbagliato in tutti e due questi assunti. Il riformismo italiano è sempre stato minoritario e non ha mai raggiunto un terzo del corpo elettorale come è invece avvenuto per il Pd. Quanto all'appiattimento su Di Pietro i fatti smentiscono la tesi di Della Loggia: né la scelta di Orlando a candidato per la Vigilanza Rai può essere considerata una prova a carico e basterebbe a dimostrarlo il fatto che la scelta fu concordata anche con l'Udc di Casini che non può certo essere definita come una formazione politica massimalista.

Al contrario, la corrente dalemiana, in mancanza di un vero dissenso politico cui appoggiarsi, ha compiuto atti e pronunciato dichiarazioni di sistematica denigrazione ai danni del leader del Pd, culminate nell'appoggio palese e ripetuto verso il neoeletto alla Vigilanza Rai: esempio emblematico della strategia della destra e della spregiudicatezza di una corrente interna del centrosinistra.

Queste risse di cortile sono deprimenti, specialmente in una fase di crisi mondiale che vorrebbe un'opposizione compatta e responsabile, non distratta da beghe interne e capace di offrire all'opinione pubblica risposte convincenti e di formulare in Parlamento contributi per la soluzione dei problemi che incombono.

* * *

Quei problemi non sono né potevano essere avviati a soluzione dal G20 svoltosi a Washington pochi giorni fa. Quel "meeting" al quale per la prima volta hanno partecipato alcune delle potenze emergenti come la Cina, l'India, il Brasile, ha avuto un solo risultato storico: ha gettato le basi di una inevitabile redistribuzione del potere mondiale. Anche in termini istituzionali. La prima conseguenza concreta sarà infatti una redistribuzione già allo studio delle quote di partecipazione dei paesi emergenti al Fondo monetario internazionale e agli altri analoghi organismi. Al di là di questo, peraltro importantissimo, risultato nient'altro è stato né poteva esser deciso in attesa che il nuovo presidente eletto sia insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio.

Ma poiché la crisi non aspetta, l'Europa renderà noto un documento programmatico mercoledì prossimo e il governo italiano dal canto suo ne emetterà uno proprio il prossimo venerdì. Poiché sia l'uno sia l'altro sono già conosciuti nelle loro grandi linee, vediamo di che si tratta.

* * *

Il piano della Commissione europea mobilita 130 miliardi di euro per il 2009, dopo la ratifica dell'Ecofin. Una cifra rispettabile, destinata interamente a costruzione di infrastrutture d'importanza europea e nazionale. Rappresenta la sommatoria dell'1 per cento del Pil dei 27 paesi dell'Unione. Ciascuno di essi mobiliterà risorse per eseguire le opere sul proprio territorio previa notifica alla Commissione che dal canto suo erogherà a supporto risorse proprie per integrare quelle stanziate dai singoli governi. Le risorse della Commissione saranno tratte dal bilancio europeo e poiché il loro ammontare eccederà rispetto alle disponibilità esistenti, i 27 paesi dovranno accrescere di altrettanto le loro contribuzioni all'Unione.

Si tratta dunque, in larga misura, di una complessa partita di giro dall'Unione verso i paesi membri e da questi verso l'Unione che, comunque, dovrà spostare i fondi da alcuni capitoli di spesa ad altri capitoli. Si chiama "raddrizzamento". Ovviamente anche il Parlamento di Strasburgo dovrà dire la sua in proposito. Se volete il mio parere, definirei questo programma le nozze coi fichi secchi, una mano dà, l'altra mano prende. In napoletano si direbbe "facimmo ammuina".

La Commissione ha anche stabilito che i singoli paesi membri possano diminuire l'Iva (imposta sovranazionale) per alleggerire i rispettivi pesi tributari. Infine ha messo su carta l'autorizzazione a sforare la soglia del 3 per cento di deficit/Pil a condizione che lo sforamento non sia superiore ai sedici mesi e non sia maggiore dell'1 per cento. Questi due provvedimenti hanno una loro reale sostanza e consentiranno politiche anticicliche. Secondo me avrebbero dovuto essere adottati almeno sei mesi fa quando già era evidente l'arrivo della tempesta e così pure la riduzione dei tassi d'interesse da parte della Banca centrale europea, che ancora centellina i ribassi mentre le economie reali sono sconvolte dalla depressione.

* * *

Gli 80 miliardi di euro di Tremonti, come ormai hanno capito tutti, sono uno spottone mediatico. Anche lui come la Commissione brussellese, sposta di qua e sposta di là, preleva risorse già impegnate dall'anno scorso ma non spese, attiva opere pubbliche che avrebbero dovuto essere eseguite dal 2001 o almeno dal giugno 2008 e che giacevano e ancora giacciono nei rispettivi capitoli di copertura o nei fondi d'attesa previsti dalle leggi di bilancio.

Gli 80 miliardi dunque sono spese ritardate o coperture destinate ad altri scopi che ora resteranno scoperti. Tanto per fare un esempio: dieci miliardi erano destinati al Mezzogiorno, sono stati prelevati e saranno usati per opere pubbliche in parte destinate al Mezzogiorno stesso. Semplici movimenti contabili, quasi tutta aria fritta di scritture di giro per ottenere ottimi effetti sui giornali e nei teleschermi. Perciò, cari lettori, non fatevi ingannare dalle apparenze e dalle bugie. Di vero in quelle cifre ci sono soltanto 16 miliardi per infrastrutture che il Cipe doveva indicare tre giorni fa ma ha rinviato perché aspetta di conoscere l'ammuina di Bruxelles per modellarvi sopra la propria

Infine 4 o 5 miliardi per le famiglie, un miliardo per rifinanziare la Cassa integrazione e dare qualche soldo ai precari licenziati. Per le imprese l'Iva da versare al momento dell'incasso (e questo è un buon provvedimento) e il rinvio degli acconti di fine anno. Nessuno sconto sull'Irpef. Detassazione degli straordinari (non serve a niente perché in recessione non ci sono straordinari). Nuovo patto con le banche per migliorare i mutui a tasso fisso (il patto precedente tanto strombazzato non ha avuto alcuno effetto). Sottoscrizione governativa di bond bancari per rafforzarne i patrimoni. Chiedendo in contropartita aperture di credito alle piccole e medie imprese. Questo è quanto. Tarallucci e vino. Infatti piovono critiche da Cgil Cisl e Uil e, nientemeno, anche da Confindustria.

Intanto il petrolio è sceso fino a 49 dollari al barile, il credito diminuisce, i canali interbancari restano intasati, la Citigroup licenzia 52mila dipendenti, lunedì dovremo seguire con estrema attenzione l'andamento di Wall Street, Detroit è un dramma, la Opel tedesco-americana pure. A Torino la Fiat non ride.
La ministra Carfagna ad "Invasioni barbariche" (mai titolo le fu più adatto) si è paragonata a Reagan ed anche a Obama. Berlusconi si è commosso perché Forza Italia è stata sciolta per far nascere nel 2009 il nuovo Partito della Libertà. Lo scioglimento è stato approvato con un dibattito di venti minuti. Berlusconi ha nell'occasione rimproverato la Rai perché "parla solo di crisi e il mio messaggio non riesce a passare".
Questo è quanto ci passa il nostro convento. Poiché non c'è di meglio accontentiamoci. Ma per quanto?

(23 novembre 2008)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #102 inserito:: Novembre 30, 2008, 10:46:23 pm »

ECONOMIA      L'EDITORIALE

Una manovra inesistente da cinque miliardi

di EUGENIO SCALFARI


PRESI UNO per uno i provvedimenti della manovra di Tremonti sono quasi tutti da approvare anche se alcuni di essi (dirò tra poco quali) suscitano forti preoccupazioni. Ma la manovra nel suo complesso è inesistente. Mobilita in tutto e per tutto cinque miliardi di danaro fresco cioè il 30 per cento di un punto di Pil per quanto riguarda il sostegno della domanda e gli stimoli alla produzione.

Il piano di investimenti è apparentemente più ambizioso perché ammonta a 16 miliardi, ma non sono risorse fresche. Erano somme già previste e stanziate su altri capitoli e con altre destinazioni. Il ministro dell'Economia avrebbe potuto (anzi dovuto) mobilitarle fin dallo scorso giugno, visto che aveva precocemente intuito che una crisi di enormi proporzioni stava arrivando. Ha perso cinque mesi preziosi e purtroppo ne dovranno passare a dir poco altri dodici prima che si aprano i cantieri e sia assunta la mano d'opera necessaria.

Naturalmente quest'avarizia nella spesa è motivata dalla necessità di stare nei limiti imposti dalle regole europee. Questo aspetto della questione merita d'essere approfondito.
Il deficit lasciato dal precedente governo Prodi era al di sotto del 2 per cento. A metà novembre, cioè prima della manovra approvata venerdì scorso ma dopo la Finanziaria 2009, il deficit viaggiava attorno al 3 per cento. Scontava infatti i tre miliardi dovuti all'abolizione dell'Ici, i tre miliardi derivanti dall'operazione Alitalia, l'aumento del fabbisogno derivante dai minori incassi tributari.

L'insieme di questi fenomeni hanno peggiorato i nostri conti pubblici per un punto di Pil e questa è la ragione della politica dei tagli voluta da Tremonti "per mettere in sicurezza il bilancio" come ha più volte ripetuto.
Se non fosse stata abolita l'Ici (che non ha prodotto nulla di positivo sul rilancio della domanda), se non fosse stata creata la nuova Alitalia tricolore e non si fosse abbassata la guardia sull'evasione fiscale, avremmo avuto oggi un punto di Pil, cioè 15 miliardi, da spendere per rivitalizzare i consumi e un altro mezzo punto di sforamento consentito da Bruxelles per chi ha i conti in sicurezza.

In totale 22 miliardi. Vedi caso, è la stessa cifra chiesta da Epifani e dall'opposizione per determinare la svolta che non c'è stata e non poteva esservi. Tremonti ha ripetuto più volte che non fa miracoli e l'ha detto perfino Berlusconi che i miracoli è di solito convinto di poterli fare. Se il nostro ministro dell'Economia avesse in giugno avuto nei confronti del "premier" la stessa grinta dei giorni scorsi, se avesse bloccato l'Ici e l'Alitalia tricolore, se non avesse dato tregua all'evasione fiscale, oggi avrebbe avuto la possibilità di effettuare una politica keynesiana che viceversa è stata impossibile nelle condizioni date.

* * *

Ho premesso che i singoli provvedimenti approvati venerdì scorso sono tutti da approvare. Quasi tutti. Confermo. Ho detto che alcuni sono politicamente preoccupanti. In particolare è preoccupante l'autorizzazione data alla Cassa Depositi e Prestiti di utilizzare il risparmio postale per operazioni bancarie vere e proprie, che rappresenta un'innovazione radicale e non prevista dallo statuto della Cassa e dalle leggi che ne regolano l'attività.

Il risparmio postale ammonta più o meno a centomila miliardi ed è destinato ad aumentare in futuro. Il suo impiego è di concedere mutui a basso tasso d'interesse agli enti locali per il finanziamento di opere pubbliche da essi deciso. I mutui hanno garanzia pubblica e pertanto il risparmio postale è pubblicamente garantito.

L'innovazione voluta da Tremonti non è da poco. D'ora in avanti la Cassa potrà effettuare direttamente e sotto la propria responsabilità finanziamenti ad infrastrutture "segnalate" da enti locali che non saranno però loro i debitori. La Cassa aprirà dunque una sua gestione speciale per un importo per ora limitato a 30 miliardi; le operazioni saranno controllate dal Tesoro e non passeranno per i canali usuali della pubblica amministrazione. Si tratterà insomma di finanziamenti bancari e quindi discrezionali decisi dagli organi dirigenti della Cassa sotto il controllo del Tesoro.

Tremonti voleva una banca del Sud? Adesso ce l'ha per tutt'Italia ed è una banca di grandi dimensioni. L'autorizzazione di venerdì scorso prelude alla riscrittura dello statuto della Cassa e alla "mainmise" sull'intera raccolta del risparmio postale. Si tratta di un'innovazione in linea coi tempi ma è preoccupante la potenza e la discrezionalità che viene in tal modo conferita ad un singolo ministro. Mi sorge il dubbio che vi sia l'ombra dell'incostituzionalità, in quanto la nuova norma è contenuta in un decreto-legge che, per quanto riguarda questo specifico provvedimento, non mi pare abbia le caratteristiche dell'urgenza prevista dalla Costituzione.

* * *

Le cifre della manovra vera e propria sono le seguenti. Bonus per le famiglie (che sarà versato nel febbraio 2009) 2.400 milioni; aumento della Cassa integrazione 600 milioni; ancoraggio dei mutui immobiliari al tasso del 4 per cento per un costo di 600 milioni. Totale 3.600 milioni.

I provvedimenti di stimolo alle imprese e di detassazione ammontano complessivamente a circa due miliardi, sicché il totale generale della manovra è, come già si è detto, di cinque miliardi e mezzo.
Bene il bonus alle famiglie, bene il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, bene l'Iva da pagare al momento dell'incasso, bene gli sconti sull'Ires e sull'Irap, bene il blocco delle tariffe ferroviarie in favore dei pendolari, bene aver annullato la detassazione degli straordinari (in tempi di recessione sono ben poche le aziende che ricorrono agli straordinari che comunque vanno contro la formazione di nuovi posti di lavoro. Finalmente il ministro dell'Economia l'ha capito).

Non va invece affatto bene non aver detassato i salari e le pensioni. Tremonti ha sempre parlato della necessità di evitare i benefici a pioggia e di concentrarli invece su pochissimi obiettivi, soprattutto in un periodo di scarsità. Invece ha fatto esattamente il contrario ed è per questo che la sua non è una manovra ma uno stillicidio di interventi disseminati in 36 articoli. Ne bastavano un paio o poco più. Bastava concentrare tutte le risorse disponibili sulla detassazione dei salari al di sotto d'una soglia di 30 mila euro di reddito.

Qui si apre un altro tema della massima importanza: i provvedimenti presi riusciranno a rimettere in moto la domanda? Perché esiste il concreto rischio che la pioggia dei benefici vada a risparmio e non a consumi.
Se si trattasse di benefici duraturi, strutturali, gli effetti sui consumi quasi certamente ci sarebbero. Si tratta invece di "una tantum" e quindi gli effetti desiderati è improbabile che si verifichino. Ma come fare a renderli duraturi con risorse così limitate?

Ci sono tre possibili soluzioni a questo problema.
1. Tagliare gli sprechi e devolverli al sostegno duraturo dei salari, cioè ad una vera e propria redistribuzione del reddito. Ma i tagli sono stati già effettuati nella Finanziaria e con tutt'altra destinazione.
2. Tassare i redditi miliardari, le innumerevoli rendite esistenti, i redditi sommersi.
3. Puntare sulla crescita e sulle nuove risorse tributarie che essa determinerebbe.

Le soluzioni di cui ai numeri 2 e 3 non sono alternative e possono essere utilmente miscelate. Ma se non s'imbocca questa strada avremo soltanto provvedimenti "spot" di assistenza sociale e come tali con un pregevole significato etico, ma nessun effetto di rilancio sulle capacità produttive del Paese.

Aggiungo che l'insieme delle misure fin qui approvate penalizzano nettamente i salariati delle regioni settentrionali, nelle quali si concentra la parte maggiore del lavoro operaio. Si parla tanto di questione settentrionale ma non sembra che l'opinione nordista, prevalente nella maggioranza di centrodestra, si sia resa conto di quest'aspetto tutt'altro che marginale del decreto in questione. I benefici a pioggia sulle famiglie hanno tagliato fuori il lavoro dipendente che entra nel quadro solo tangenzialmente e marginalmente.

Per il lavoro autonomo ci sarà la revisione degli studi di settore e la detassazione avverrà in quel modo. Ma per il lavoro dipendente non è previsto nulla di specifico. Non si capisce in questo quadro che cosa abbiano ottenuto la Cisl e la Uil che hanno dato il loro accordo a questa pseudo-manovra. La detassazione dei miglioramenti salariali di secondo livello? Ed è per questi spiccioli che hanno rotto l'unità sindacale?

* * *

Ci sarebbero parecchie altre osservazioni da fare sui 36 articoli del decreto. Faccio solo qualche esempio.
Esiste un fondo soprannominato Scajola, per dire infrastrutture emergenziali. Esiste un altro fondo soprannominato Sacconi, per dire provvedimenti aggiuntivi sul lavoro ove si rendessero necessari (e si renderanno sicuramente necessari) c'era, e sarà in parte riposizionato, un fondo per le aree sottosviluppate (Fas) di oltre 50 miliardi, dei quali 25 sono stati ricollocati da Tremonti per infrastrutture a tempo futuro.

Quest'abitudine di accumulare denari in fondi provvisori dai quali attingere a tempo opportuno può essere un accorgimento utile in casi eccezionali ma se diventa, come sta diventando, un uso corrente la conseguenza sarà quella di indebolire ancora di più di quanto già non sia il potere di controllo del Parlamento accrescendo la discrezionalità dell'Esecutivo.

Nessuna notizia sul tema dei "bond" e delle obbligazioni convertibili che le banche con patrimoni insufficienti dovrebbero emettere e il Tesoro sottoscrivere. Tutto rinviato. Meglio così, è un segno di solidità del nostro sistema bancario. Sembra però che Tesoro e banche stiano trattando un accordo sul credito alle piccole e medie imprese, quello che la Confindustria chiede con crescente insistenza ma di cui ancora non c'è preannuncio. Sembra che il governo vorrebbe affidare ai prefetti (!) la vigilanza sull'esecuzione dell'accordo in questione quando e se si farà. Se questa fosse la soluzione, avremo una politicizzazione del credito che neppure il fascismo riuscì ad imporre al sistema bancario. Capisco che siamo in tempi molto agitati, ma l'eccezionalità non giustifica lo stravolgimento dei mercati e della Costituzione materiale.

Post scriptum. La ciliegina su questa torta purtroppo assai sottile è rappresentata dal raddoppio dell'Iva, dal 10 al 20 per cento, sui contratti di Sky con i propri utenti. Si tratta di milioni di contratti e di un provvedimento che raschierebbe l'intero margine lordo di quell'impresa che opera sull'emittenza digitale.
Siamo in pieno conflitto di interessi. Un governo presieduto dal proprietario di Mediaset emana un decreto che mette fuori mercato un suo diretto concorrente.

La ministra Carfagna rispondendo in una trasmissione televisiva ad una domanda sulla proprietà di Mediaset, disse non a caso che "in queste questioni Berlusconi fa quello che gli pare". Aveva l'aria di approvarlo e non di biasimarlo ed è evidentemente così: fa quello che gli pare. In questo caso però la faccia ce la mettono Tremonti e l'intero Consiglio dei ministri, Carfagna compresa.
La decenza consiglierebbe di ritirarla subito questa sconcezza.


(30 novembre 2008)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #103 inserito:: Dicembre 05, 2008, 10:59:16 pm »

Eugenio Scalfari.


Il rischio della fede


Pagine drammatiche e scandalose quelle di 'Conversazioni notturne a Gerusalemme' del cardinale Martini.
Ho letto il libro del cardinale Carlo Maria Martini, 'Conversazioni notturne a Gerusalemme' qualche giorno prima che uscisse nelle librerie: un amico suo e mio me l'aveva fatto avere insieme ai saluti dell'autore. Quel libro ha un sottotitolo molto significativo: 'Sul rischio della fede'. L'autore ne parla ad ogni pagina, si vede che è stato proprio quel rischio ad affascinarlo, la sua fede ha avuto in esso il suo nutrimento e il suo fondamento.

Per me non credente quest'approccio ha catturato la mia attenzione ed anche il mio affetto per l'autore che so molto ammalato e in costante dialogo con la morte. Si direbbe che quella prossimità abbia reso esplicita nei suoi pensieri e nelle sue parole una testimonianza di libertà e di giustizia così profonda da superare ogni steccato e ogni ortodossia. Il rischio della sua fede sta proprio in quella testimonianza che lo avvicina in nome del suo Gesù ad ogni altro testimone che sia altrettanto votato alla giustizia e alla libertà, quale che sia la religione che professa e la cultura che lo ispira.

Mi aspettavo che il libro stimolasse un dibattito ampio soprattutto nella comunità cattolica che ne è la principale destinataria, ma non mi pare che questo dibattito sia avvenuto o almeno non nello spazio pubblico. Molte recensioni al suo apparire, soprattutto sui giornali laici; ma anche quelle dedicate agli aspetti edificanti, all'amore per i giovani, alla speranza del bene e della contemplazione della morte. Sentimenti che abbondano in quelle pagine ma che non fanno trasalire chi le legge e non esprimono il rischio cui si richiama chi le ha scritte.

Voglio qui trascrivere i passi più significativi e più emozionanti delle 'Conversazioni notturne'. Riguardano la Chiesa, i cattolici, i giovani, le donne, l'ecumenismo, l'accoglienza e - prima d'ogni altro valore - la giustizia e la fratellanza.


Non omologate questa testimonianza d'un cardinale arcivescovo con frettolosa compunzione, voi uomini di Chiesa, voi politici che vi dichiarate devoti, voi che avete il Cristo sulle labbra con sospettabile frequenza. Queste pagine non sono rassicuranti ma drammatiche e scandalose nel senso evangelico del termine. Proprio per questo loro spessore sarà difficile omologarle e dimenticarle in qualche polveroso scaffale.

"Nella mia vita mi sono imbattuto in molte cose terribili, la guerra, il terrorismo, le difficoltà della Chiesa, la mia malattia, la mia debolezza. Ma la mia infelicità è poca cosa in confronto alla felicità. La felicità va condivisa. E soprattutto la felicità non è qualcosa che arriva e che dobbiamo solo aspettare. Dobbiamo cercarla".

"Chi ha imparato ad avere fiducia non trema, ha il coraggio di darsi da fare, di protestare quando viene detta qualcosa di spregevole, di cattivo, di distruttivo. E soprattutto ha il coraggio di dire 'sì' quando si ha bisogno di lui".

"Chi legge la Bibbia e ascolta Gesù scoprirà che lui si meraviglia della fede dei pagani. In un passo del Vangelo egli non propone come modello il sacerdote, ma l'eretico, il samaritano. Quando pende dalla croce accoglie in cielo il ladrone. Il migliore esempio è Caino: Dio segna Caino per proteggerlo. Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo tutti gli uomini. Gli uomini invece e anche la Chiesa, corrono sempre il rischio di porsi come assoluti".

"Non si può rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Egli non si lascia dominare o addomesticare. Se esaltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, andiamo verso di loro e li tocchiamo, Dio ci conduce fuori, nell'immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto".

"Paura e indifferenza sono entrambi presenti nella Chiesa. Gesù risveglierà e scuoterà gli indifferenti e incoraggerà i timorosi. Oggi è difficile far parte della Chiesa ed esserne soltanto un membro passivo. Ma chi agisce e assume responsabilità può cambiare molte cose. Da giovane ed anche da Vescovo il lavoro con i giovani è stato quello che mi ha più aiutato ad essere cristiano. Cristo non ha oggi altre mani e altra bocca che la tua e la mia".

"La Chiesa parla molto di peccato. È forse interessata a far apparire gli uomini più cattivi di quanto non siano? Di peccato la Chiesa ha parlato molto, a volte troppo. Da Gesù può imparare che è meglio incoraggiare gli uomini e stimolarli a lottare contro il peccato del mondo. Con 'peccato del mondo' la Bibbia non si riferisce solo alle nostre colpe personali bensì a tutte le ingiustizie e ai pesi che ereditiamo. Gesù ci chiama a collaborare alla guarigione laddove l'ordine divino del mondo è stato violato".

"Io voglio una Chiesa aperta, porte aperte alla gioventù, alle donne, una Chiesa che guardi lontano. Non saranno né il conformismo né timide proposte a rendere la Chiesa interessante. Io confido nella radicalità della parola di Gesù, nella buona novella che Gesù vuole portare".

"La giustizia è l'attributo fondamentale di Dio. Nel giudizio universale Gesù formula come criterio di distinzione tra il bene e il male la giustizia, l'impegno a favore dei piccoli, degli affamati, degli ignudi, dei carcerati, degli infermi. Il giusto lotta contro le disuguaglianze sociali".

"Quando si conducono guerre di aggressione in nome di Dio, quando il cristianesimo viene usato in modo populistico in campagne elettorali, sento suonare campane di allarme. È repugnante parlare di Dio e non esser fedeli alla sua caratteristica principale: la giustizia. Ci unisce ai musulmani e agli ebrei la fede nel Dio unico. Se si parla di Dio bisogna farlo con serietà altrimenti è meglio non avere il suo nome sulle labbra".

Ci sono molti altri passi di 'Conversazioni notturne' che meriterebbero d'esser citati. Rileggendolo ho notato che la parola Cristo è usata raramente mentre il nome Gesù ricorre più volte in tutte le pagine. Si direbbe che il Figlio dell'Uomo per Martini sia molto più pregnante del Figlio di Dio.

Concludo con un'ultima frase dell'autore: "Con i giovani abbiamo vissuto una Chiesa aperta. Essi lottano contro l'ingiustizia e vogliono imparare l'amore. Danno speranza ad un mondo difficile".

(05 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #104 inserito:: Dicembre 14, 2008, 10:37:48 pm »

ECONOMIA     

Campane d'allarme e trombe stonate

di EUGENIO SCALFARI


NON c'è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.

Due hanno dimensioni nazionali e sono l'allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell'economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.

La stampa americana parla ormai correntemente di "great depression, part 2" riferendosi a quella del '29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l'Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l'industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell'Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.

Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.

L'effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull'occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un'accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.

Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l'apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.

Tra tanti germi negativi che l'America ha già disseminato nel resto dell'Occidente, l'effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?

Joseph Stiglitz in un'intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.

Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all'opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.

Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all'interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.

Ricordo a chi non lo sapesse o l'avesse dimenticato che fu l'allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un'imposta unica basata sui consumi e un'imposta patrimoniale di successione che al di là d'una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un'aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?

* * *

Il nostro governo e il nostro ministro dell'Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici "sono in sicurezza". Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.

Quest'ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l'euro senza il quale staremmo da tempo sott'acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.

Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell'evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l'abolizione dell'Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l'anno; l'Alitalia tricolore è costata all'erario 3 miliardi (se basteranno).

Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un'elemosina di 6 miliardi "una tantum" alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all'Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).

Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po' meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).

Il peggio deve venire dice Tremonti e ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c'è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell'Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all'opposizione. Per Tremonti la via d'uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.

* * *

Tratterò insieme i due allarmi rossi nazionali: la crisi della giustizia e la questione morale.

Il presidente del Consiglio, in un comizio di ieri a Pescara, ha scandito che "nel Pd c'è una questione morale". Il Corriere della Sera con un articolo di fondo in prima pagina del vicedirettore Battista, ha inneggiato all'Espresso che ha pubblicato un'inchiesta sulle indagini giudiziarie di alcuni assessori del Comune di Firenze e alcune attendibili voci su una sorta di comitato d'affari sugli appalti in terra di Napoli. Il Tg1 di venerdì sera ha anch'esso registrato tra le primissime notizie l'inchiesta dell'Espresso ed ha intervistato in presa diretta il direttore di quel giornale, Daniela Hamaui.

Un'attenzione simile, del resto più che meritata dall'amica e collega che dirige il settimanale del nostro gruppo e dai suoi collaboratori, è del tutto insolita da parte d'un giornale che scia a slalom sui fatti e i misfatti e di un telegiornale che si fa giusto vanto di essere "super partes" anche se molti dei suoi ascoltatori non se ne accorgono.


Non ho mai letto un editoriale del Corriere e mai visto sugli schermi del Tg1 un collega di Repubblica o dell'Espresso complimentato o chiamato ad illustrare i servizi pubblicati, quando quei servizi documentavano la questione morale nei partiti e nei personaggi del centrodestra a cominciare dallo stesso Berlusconi. Non parlo di giudizi politici, parlo di inchieste sul malaffare. In questi anni ne abbiamo scritti a centinaia ma nessuno di essi ha avuto la possibilità di imporsi alla pubblica opinione al di fuori di quanti ci leggono (che per fortuna sono tanti).

È un vanto dei giornalisti del nostro gruppo di non guardare in faccia ai colori di bandiera di questo o di quello quando si parla di malaffare.

Giuseppe D'Avanzo è un nome per tutti. Ma è sospetto e sospettabile il rilievo che viene dato dalla stampa cosiddetta indipendente e dal servizio pubblico televisivo solo quando le inchieste riguardano la sinistra riformista e mai quando riguardano i personaggi del centrodestra.

Quanto ai giornali e ai giornalisti di centrodestra è inutile cercare qualche loro articolo che metta sotto esame i colori della propria parte. Non sono certo pagati per questo dai loro padroni.

C'è una questione morale che riguarda alcune persone del Pd che rivestono cariche pubbliche. Personalmente non ritengo che riguardi il sindaco di Firenze che per protestare la sua innocenza si è voluto incatenare davanti al cancello d'ingresso dell'edificio dove lavorano tutti i giornalisti del nostro gruppo. Incatenarsi mi sembra un gesto che sa di retorica ma capisco la sua sofferenza e le sue motivazioni. Ciò detto, sentenzieranno i magistrati la loro verità.

Il partito cui gli indagati appartengono non ha sovranità sugli incarichi istituzionali elettivi, non può obbligare alle dimissioni un governatore di Regione o un sindaco che derivano dagli elettori i propri poteri. Ma può (secondo me deve) sospendere dal partito in attesa di accertamenti le persone inquisite. A Firenze dovrebbe sospendere gli inquisiti dalle elezioni primarie alla carica di sindaco. A Napoli dovrebbe sospendere gli inquisiti, se e quando ne conosceremo i nomi, di un'inchiesta giudiziaria in corso. Così pure dovrebbe sospendere il governatore della Campania, anche lui da tempo sotto inchiesta.

Di quanto bolle in pentola alla Procura napoletana per ora non si sa molto. D'Avanzo ne ha ampiamente parlato in due recenti articoli dai quali deduco che ci sarebbe una sorta di "comitato d'affari" formato da politici tra i quali importanti nomi di centrodestra e di centrosinistra in combutta tra loro e, come referente napoletano, Antonio Saladino, che non ha niente a che vedere con il feroce Saladino delle gloriose figurine del cioccolato Perugina, ma è stato dal 1995 al 2006 (cioè per undici anni) il presidente per il Mezzogiorno della Società delle Opere, filiazione in affari di Comunione e Liberazione. Dove si vede che le (supposte) mele marce ci sono dovunque e quando si avvistano vanno messe da parte affinché non contagino le buone. Questo ci si aspetta da un partito guidato da persone perbene. Questo, anzi lo si reclama.

Dall'altra parte politica ci si aspetta poco o niente perché lì il malaffare sta al vertice il quale ovviamente non può bonificare gli altri suoi compagni di viaggio visto che, per definizione, non può bonificare se stesso.

* * *

Delle Procure di Salerno e di Catanzaro e della crisi della giurisdizione che in quelle Procure ha avuto in questi giorni la sua immagine più inquietante, ha detto tutto con parole tanto sobrie quanto severe il presidente della Repubblica. Sembra che ci sia stata in quegli ambienti una sorta di ventata di follia, di vanità, di ripicca, di megalomania che ha fatto crollare in poche ore la credibilità dell'intero ordine giudiziario e del suo potere diffuso.

Il ministro Guardasigilli Alfano chiede ora una riforma costituzionale bipartisan. Vedremo come si condurrà nelle prossime settimane. Sarebbe auspicabile che l'aggettivo "bipartisan" non venisse confuso con l'incitamento all'opposizione di approvare un manufatto della maggioranza con la sola facoltà di cambiare un paio di virgole e qualche punto esclamativo. Finora è stato così e questo spiega la risposta sempre negativa dell'opposizione.

C'è un punto che non richiede modifiche costituzionali e che a mio avviso dovrebbe essere affrontato: riportare in capo al procuratore del tribunale e al procuratore della corte d'appello l'esercizio dell'azione penale oggi diffusa in capo ai sostituti. Buona parte delle discrasie in corso nella magistratura inquirente derivano da questa parcellizzazione estremamente pericolosa che va a mio avviso abolita.

(7 dicembre 2008)
da repubblica.it
Registrato
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 47
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!