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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318713 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 08, 2008, 04:57:54 pm »

Eugenio Scalfari.

Attualità di Moro


A trent'anni dal sequestro e dalla uccisione del leader democristiano il suo disegno politico mantiene ancora oggi, purtroppo, intera la sua validità  Aldo Moro a un ricevimento negli anni '60Saranno tra poco trent'anni dal rapimento e poi dall'uccisione di Aldo Moro, eppure a me sembra preistoria. Quei volti, quelle persone, quei destini: un museo delle cere, anche se molti sono ancora vivi e alcuni addirittura operanti. Ma remoti, provenienti da un'epoca lontana, come sopravvissuti.

L'uccisione di Moro segnò un displuvio nella vita italiana, chiuse alcuni sbocchi e ne aprì altri. Accelerò la deriva della corruzione pubblica che nel decennio degli anni Ottanta toccò il suo culmine e ancora oggi mantiene una pesante ipoteca sulla politica e sui suoi molteplici derivati. Chiuse la fase di predominio che la Democrazia cristiana aveva fin lì esercitato nel bene e nel male, provocando il contraccolpo del declino del Partito comunista di Berlinguer nonostante il distacco dalla sudditanza moscovita da lui avviato.

Il rapimento di Moro, le sue lettere dalla prigionia, infine il ritrovamento del suo cadavere nel bagagliaio di quella auto simbolicamente parcheggiata a mezza via tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, rispettivamente sedi del Pci e della Dc, coinvolsero tutti gli italiani e interpellarono la pubblica opinione con domande gravi: il valore della vita, delle leggi, dello Stato, l'impazzimento ideologico, il terrorismo e la sua spietatezza.

Ho detto che quell'epoca mi sembra remota, eppure ne conservo vivissimo ricordo, forse perché tutti quelli che in qualche modo ne furono coinvolti uscirono cambiati. Quando, alle otto di una livida mattina di marzo si diffuse come un lampo accecante la notizia del rapimento del presidente della Dc, la sua scorta massacrata, l'azione terroristica rivendicata dalle Brigate rosse, ci fu in tutto il Paese un attimo di vita sospesa, come in un film le immagini scorrono veloci e tutto ad un tratto vengono bloccate mostrando figure colte in posture strane nella loro improvvisa immobilità.

Il nuovo governo voluto da Moro e presieduto da Andreotti doveva presentarsi proprio quella mattina alle Camere. Avrebbe dovuto avere, per la prima volta nella storia italiana, il voto favorevole dei comunisti, a lungo voluto da Moro e da Berlinguer. Sul movente dell'attentato si è discusso moltissimo, ma una cosa è certa: l'attentato, la prigionia e infine l'uccisione dell'ostaggio furono la trave gettata sulla strada per impedire l'alternanza tra i due maggiori partiti, per bloccare i loro intenti riformatori e provocare invece una rivoluzione eversiva, vagheggiata in un vuoto e sanguinoso anacronismo.

Riprendendo un'immagine di Carlo Levi scrissi allora che il corpo esanime di Aldo Moro nel bagagliaio di quella macchina fu come un crisantemo gettato su un letamaio e questa è l'immagine che m'è rimasta nella memoria di quei cupi e tristissimi giorni.

Ma perché il leader democristiano aveva così tenacemente voluto l'incontro politico con il Pci, causa di gravi contrasti nel suo partito e infine della sua morte? La risposta l'ebbi dalla sua stessa voce due settimane prima del suo rapimento.

C'era stato un dissenso grave tra lui e me, che interruppe per dieci anni i nostri rapporti professionali che nel periodo precedente erano stati frequenti e anche amichevoli. Nel 1968 'L'Espresso' che allora dirigevo aveva rivelato l'intrigo tra il generale De Lorenzo, il presidente della Repubblica Antonio Segni e i servizi segreti del Sifar, per minacciare un colpo di forza che piegasse i socialisti a più miti consigli nella loro politica di riforme. Fu quello che allora Nenni chiamò 'rumore di sciabole' culminato nel Piano Solo, che 'L'Espresso' rivelò mettendo in subbuglio il centrosinistra. Ci fu un processo che ebbe uno svolgimento clamoroso e si concluse in primo grado con la nostra condanna nonostante il parere a noi favorevole del pubblico ministero Vittorio Occorsio.

La sentenza contro di noi fu dovuta ad una settantina di 'omissis' cioè di frasi tagliate da documenti portati dai nostri avvocati a difesa e cancellati nei loro passi salienti da Moro, allora presidente del Consiglio, invocando il segreto di Stato.

Dieci anni di rottura, interrotti nel febbraio del '78 da una iniziativa inattesa dello stesso Moro il quale, tramite il suo più fidato consigliere, mi fece sapere che desiderava incontrarmi. L'incontro si svolse nel suo studio in via Savoia alla presenza del suo consigliere, Guerzoni, e fu in quell'occasione che il leader della Dc mi spiegò la sua politica verso il Pci. Moro sapeva che, a causa della guerra fredda, il Pci non poteva costituire un'alternativa politicamente praticabile; per conseguenza la Dc era 'costretta a governare' e la democrazia italiana era incompiuta e bloccata.

Questa situazione (così riteneva Moro) non era più oltre accettabile perché causava una deformazione strutturale e involutiva del nostro sistema democratico. Di qui la necessità di associare il Pci al governo del Paese in compresenza con la Dc, affinché desse prova della sua maturità democratica per un periodo sufficiente a dare stabilità e a consentire un'alternanza. "Siamo ora", disse Moro, "a questo delicatissimo passaggio. Non so quanto durerà, probabilmente alcuni anni, durante i quali i due partiti popolari faranno insieme le riforme necessarie a modernizzare il Paese".

Qualche giorno dopo fu rapito; due mesi dopo fu ucciso. Da allora sono passati trent'anni. Questa storia va dunque ricordata. È remota, ma purtroppo attuale.

(29 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 09, 2008, 11:22:24 am »

POLITICA IL COMMENTO

Lo strappo del palalido la risposta del nord-est

di EUGENIO SCALFARI


AL PALALIDO di Milano, con la folla delle grandi occasioni, Silvio Berlusconi ha compiuto un gesto inaudito all'inizio del suo comizio elettorale: ha stracciato il documento che conteneva il programma del Partito democratico gettandone i pezzi in aria e definendolo carta straccia.

Non era mai accaduto un fatto simile in nessuna campagna elettorale. Quel gesto, quelle parole, quei pezzi di carta svolazzanti in aria fanno piazza pulita di ogni ipotesi di "fair play", di rispetto dell'avversario, di consapevolezza dei problemi del Paese e della loro gravità. Tradiscono un senso di paura per un risultato che ancora pochi giorni fa sembrava assegnare con certezza la vittoria alla destra e che invece comincia ad esser percepito come incerto.

Gli ultimi sondaggi segnalano una progressiva rimonta del Partito democratico, un aumento degli incerti, lo smottamento del blocco berlusconiano perfino in zone e in ceti sociali che sembravano inespugnabili. Nelle stesse ore, mentre il vecchio leader di Arcore si abbandonava alla demagogia del capopopolo, Veltroni riceveva accoglienze mai viste prima nelle roccaforti del berlusconismo e della Lega, a Rovigo, a Venezia, a Treviso.

Si è aperta una crepa profonda nel cuore del Nordest che mette in gioco la tenuta del consenso verso il Pdl con ripercussioni diffusive su tutta l'area padana. Lo scontro tra due visioni opposte del Paese e dei suoi problemi è insomma entrato nel vivo, alla compostezza dell'uno fa riscontro l'agitazione scomposta dell'altro, il vuoto delle sue proposte e soprattutto l'impossibilità di spiegare come mai, avendo governato per cinque anni con maggioranze parlamentari inattaccabili, nessuno degli impegni presi nel 2001 sia stato realizzato.

L'inadempienza è di tale evidenza da minare la credibilità di chi indica nel 2008 gli stessi obiettivi di sette anni fa. Resteranno molto spiazzati, dopo l'esibizione del Palalido, quanti si sono spesi fin qui ad evocare una sorta di patto d'alleanza tra i due maggiori partiti in lizza, una convergenza sospetta e trasformistica, un compromesso già negoziato per la spartizione del potere subito dopo il voto.

Veltrusconi: così è stato definito l'immaginato duopolio da chi pensa e crede che la politica non sia che accaparramento di potere e di risorse a danno del bene comune. Molti usano la politica in quella turpe direzione, ma molti altri si ribellano proponendo un'altra visione e opposti comportamenti. Lo scontro è questo e non è mai risultato tanto chiaro come nella giornata di sabato 8 marzo a 35 giorni di distanza dall'apertura delle urne elettorali.

* * *

Da un lato c'è una visione che continua a demonizzare l'avversario facendo leva sulle paure e le incertezze che agitano una parte consistente del paese e che hanno un fondamento nella realtà: paure per la propria sicurezza, paure per le difficoltà crescenti di far quadrare i conti familiari, paura per il futuro dei giovani. Alcuni di questi problemi derivano da una situazione internazionale gravida di pesanti nuvole, altri chiamano in causa le classi dirigenti italiane che hanno guidato la vita politica ed economica nell'ultimo trentennio, dalla fine degli anni Settanta ad oggi.
Un partito politico responsabile, nel momento in cui affronta una campagna elettorale decisiva dovrebbe proporre soluzioni idonee a risolvere i problemi, dissipando le paure che paralizzano e suscitando speranze e attiva partecipazione.

La premessa non può che essere un rinnovamento nelle idee e nel personale politico chiamato a tradurre in fatti concreti e plausibili. Rinnovamento facile ad esser promesso ma assai più difficile ad essere realizzato nei fatti. Dalla destra si è risposto finora puntando ad ingigantire quelle paure e proponendo un guazzabuglio di ricette che vanno dal protezionismo e dallo statalismo di Tremonti alla miscela demagogica di Berlusconi. Il costo del programma berlusconiano ammonta a 80 miliardi di euro; dove prendere le risorse per attuarlo rimane un inesplicabile mistero. Le cifre fin qui fornite si aggirano sui 20 miliardi. Quanto al protezionismo daziario di marca tremontiana, si tace sul fatto che una politica fondata sui dazi all'importazione non è più, da tempo, nella disponibilità dei governi nazionali ma dovrebbe essere adottata dall'Unione europea che non è affatto d'accordo (e con ragione) a inoltrarsi su una politica di chiusura delle frontiere.

Il Partito democratico dal canto suo ha accettato la sfida del rinnovamento e l'ha condotta con molta fermezza. Il programma economico punta sul sostegno del potere d'acquisto dei ceti più deboli, delle famiglie, del lavoro giovanile e precario. Il costo è di 27 miliardi, compatibile nel prossimo triennio con le risorse disponibili e con quelle che la crescita possibile dell'economia potrà generare.

E' stato costruito un partito del tutto diverso da quelli fin qui esistenti in Italia, radicato su tre idee forti: la libertà, l'eguaglianza, la solidarietà. Dopo il crollo delle ideologie totalizzanti, che hanno dominato gran parte del Novecento lasciando in eredità una catasta di milioni di morti ammazzati dalla guerra e dall'orrore degli stermini, quelle tre idee forti costituiscono il nerbo della civiltà occidentale. Abbiamo tutti la convinzione che nessuna di loro, da sola, può avviarci verso un equilibrio stabile e duraturo. Libertà senza eguaglianza o, viceversa, eguaglianza senza libertà conducono (e l'esperienza novecentesca ne è una tragica prova) a catastrofi terribili. Bisogna applicarle congiuntamente, sottolineando di volta in volta l'una o l'altra secondo i bisogni, i desideri, le speranze delle persone, dei ceti, della società.

Gli elettori e specialmente i giovani, le donne e gli anziani che sono i segmenti più esclusi dai circuiti della sicurezza e del benessere, sono in grado di scegliere. Senza la loro attiva partecipazione non c'è progetto che sia attuabile. Restare sulla riva a guardare ciò che avverrà come se in gioco non ci fosse il loro stesso destino, significa soltanto rinunciare a render possibile un progetto di futuro. Questo è il senso vero dello scontro in atto tra due proposte e questa è la posta in gioco: il nostro, il vostro destino di cittadini e di nazione.

(9 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 15, 2008, 12:25:10 pm »

Eugenio scalfari

Luci e ombre di un miracolo

Un libro scritto trent'anni fa con Guido Carli oggi viene ristampato.

Andrebbe riletto per conoscere il passato e potrebbe servire anche a preparare il futuro quando era governato di Bankitalia

Ho riletto in questi giorni un libro che fu scritto trent'anni fa.

Il titolo è 'Intervista sul capitalismo italiano' e gli autori sono due: Guido Carli ed io.

Ad esser più precisi l'autore è il primo; il secondo lo interroga, interloquisce, gli fa da spalla per 120 pagine.

Lavorammo parecchi giorni per realizzare quel colloquio, registrato su un magnetofono e poi messo in carta da me e rivisto da lui.

Infine l'editore Laterza lo stampò.


Per ricordare la memoria di un uomo che ebbe un peso rilevante nell'economia italiana e nel governo del paese, quel libro è stato ristampato dall'editore Boringhieri e sarà presentato il 21 aprile all'Università Luiss di cui Carli fu presidente.

Mi ha fatto uno strano effetto rileggere quelle pagine nelle quali c'è la storia economica d'un paese interpretata da uno dei suoi protagonisti: governatore della Banca d'Italia dal 1960 per quindici anni, poi presidente di Confindustria e infine ministro del Tesoro.

Il periodo che nel libro venne preso in considerazione fu il trentennio tra il 1945 e il 1975, ma le premesse più volte richiamate rimontano addirittura agli anni Trenta dello scorso secolo.

Carli racconta in qual modo, dopo la catastrofe della guerra, "un paese scalciante e urlante passò da una civiltà contadina a quella industriale sotto gli occhi impietosi della televisione, del cinema e dei mezzi di comunicazione di massa".

Quest'immagine mi è rimasta nella memoria e l'ho citata più volte nei tanti articoli che ho scritto su quell'argomento. Non era infatti mai accaduta una trasformazione economica e sociale così radicale "sotto gli occhi della televisione" cioè sotto gli occhi del paese che si stava trasformando. Nell'Inghilterra di fine Settecento, nella Francia e nella Germania di metà Ottocento come pure negli Stati Uniti d'America, la rivoluzione industriale si era verificata in modo assai più 'coperto'. Ne erano consapevoli solo quelli che ne furono direttamente coinvolti; tutti gli altri non ne conoscevano i costi sociali, le condizioni di partenza, le forze che l'avevano provocata, la crudeltà dell'attuazione, gli obiettivi e le speranze che l'avevano spinta avanti.

In Italia fu diverso e quella diversità costituì un costo aggiuntivo perché il paese cambiava e cambiando guardava e giudicava se stesso: uno psicodramma che non poteva non influire sui processi in corso.

Parlammo a lungo di quanto era avvenuto nei trent'anni che ci stavano alle spalle e di quella non silenziosa rivoluzione. Parlammo del miracolo italiano del 1960-63 che ebbe proprio Guido Carli come protagonista e che raggiunse per la prima volta la piena occupazione delle forze-lavoro, il pareggio del bilancio pubblico, un'economia robusta con una crescita del reddito nazionale ad un tasso che per molti anni fu di oltre il 5 per cento, un regime di prezzi stabili, consumi ed esportazioni in aumento.

Ma parlammo anche degli aspetti negativi di quel miracolo.
Esso era stato ottenuto senza che nulla fosse stato predisposto per ridurre gli inevitabili scompensi sociali che ne sarebbero derivati. Era caduto sulla testa e sulle spalle della classe politica, degli imprenditori, dei sindacati come una meteora venuta dal cielo all'improvviso.

Una popolazione di cinque milioni di italiani si era trasferita in meno di tre anni dal Sud al Nord, dalle campagne alle città, passando dall'autoconsumo, dall'isolamento, dall'analfabetismo, dalla famiglia tribale, da latifondi senza scuole, senza ospedali, senza tribunali, dalle case di paglia e dalle 'mammane': insomma da un paese contadino e arcaico alla civiltà moderna e industriale. Ma a Roma, a Bologna e soprattutto a Genova, Torino, Milano non aveva trovato nulla dei beni e dei servizi dei quali improvvisamente aveva assoluta e urgente necessità. Si cantava allora, nei lunghi convogli ferroviari che dal profondo Sud portavano verso il triangolo industriale, una canzone che diceva "Torino Milano le belle città/si mangia si beve e bene si sta". Ma la realtà non era esattamente quella: certo si stava molto meglio rispetto alle campagne dalle quali quel popolo di emigranti stava fuggendo, ma nello stesso tempo si stava assai peggio, si pativa uno sradicamento profondo, un altro tipo di isolamento anche più terribile. Soprattutto nasceva la coscienza dei diritti di cittadinanza che nel nuovo contesto erano per la prima volta percepiti e reclamati.

La mia sorpresa, rileggendo le pagine dell''Intervista', è stata la sincerità appassionata con la quale Carli ha ripercorso quelle vicende nei loro aspetti positivi e negativi, l'amarezza e l'autocritica per non aver avvertito il dramma di quella rivoluzione, l'insufficienza della classe dirigente italiana, impreparata a governare i processi dai quali tuttavia traeva profitto e benessere. Nel corso dei nostri colloqui io non mi ero accorto della passione e dell'amarezza del mio interlocutore; eravamo amici da molti anni, lo conoscevo bene, ma lo sapevo orgoglioso, solitario, lucido ma freddo, una grande mente ma una psicologia come rattrappita, una timidezza che gli impediva di aprirsi come forse avrebbe desiderato. Eppure nelle pagine di quel libro l'apertura c'è, è forte, in certi tratti perfino disperata per ciò che si poteva far meglio e non fu fatto.

Parlammo poi del Sessantotto e lì, anche lì, il suo linguaggio e la sua analisi mi stupirono: erano molto più avanti di come gli 'apparati', le oligarchie, l'Italia ufficiale, avessero recepito ciò che in quella fase stava accadendo.

Infine affrontò il tema delle 'arciconfraternite del potere' che a suo avviso erano una caratteristica della nostra società: le mafie, le logge segrete, le corporazioni, le clientele. L'egoismo e la poca solidarietà. I forti e gli esclusi. Il benessere parcellizzato. La libera concorrenza inesistente.

Questo libro andrebbe riletto oggi. Nelle scuole e nelle Università. Spiega molte cose che pochi conoscono. Racconta il passato. Fotografa il presente. Potrebbe servire a preparare il futuro se soltanto ritrovassimo la voglia di batterci e il sentimento morale per farlo.

(14 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 16, 2008, 07:37:29 pm »

POLITICA

Il drammatico errore dell'euro alle stelle

di EUGENIO SCALFARI


C'È ANCORA molto da dire sulla situazione economica italiana dopo gli ultimi dati dell'Istat, della Banca d'Italia e della "Relazione unificata sull'economia e la finanza pubblica" (Ruef) che sostituisce la vecchia "Trimestrale di cassa". Stando a quest'ultimo documento il nostro debito pubblico alla fine del 2007 era diminuito di 2,5 punti in rapporto al Pil scendendo dal 106,5 al 104. Ben oltre le previsioni dello stesso Padoa-Schioppa.

Non si è riflettuto abbastanza su questo dato. I tanti Soloni (e Catoni) che sdottoreggiano sui mancati tagli della spesa, sulla dissipazione delle risorse e sul cattivo impiego del "tesoretto" tirando la croce addosso al governo Prodi e ai suoi ministri economici, hanno pressoché ignorato la diminuzione del debito sottolineando invece il rallentamento del Pil previsto per il 2008 dall'1,5 allo 0,6 per cento.

Capisco che il dimezzamento di una crescita già fiacca fa più notizia, ma i due fenomeni sono profondamente diversi. Il secondo dipende infatti interamente dall'andamento pessimo della congiuntura internazionale che è fuori dal controllo dei governi nazionali. Il primo invece è opera nostra e riguarda uno degli aspetti più delicati della nostra finanza pubblica.

L'andamento virtuoso del debito ha infatti una sola causa: la diminuzione della spesa corrente e quindi del disavanzo del Tesoro. Nel quinquennio berlusconiano la spesa aumentò di 2,5 punti di Pil, in cifre assolute 35 miliardi di euro. Nel biennio prodiano l'aumento della spesa è stato invece dell'1,4 (inferiore alla crescita del Pil).

Ci si dovrebbe chiedere da che cosa sia stato causato un divario così rilevante tra la maggiore spesa del governo Berlusconi-Tremonti e quella molto minore del governo Prodi-Padoa-Schioppa. Forse il primo ha alleviato i redditi individuali, i salari, le pensioni?

Oppure ha intrapreso una politica di lavori pubblici e di infrastrutture particolarmente consistente? Ha sostenuto i giovani, le famiglie, gli anziani? Non risulta che vi siano stati miglioramenti consistenti in queste voci della spesa sociale. I pochi provvedimenti in favore di quei settori e di quelle categorie sono stati effettuati in gran parte con sgravi fiscali e quindi con minori entrate. Ma la spesa è nel frattempo cresciuta in cifre relative e in cifre assolute. Dove sono andati a finire quei soldi?

In gran parte nella spesa sanitaria, abbandonata a se stessa senza controlli; e poi nei cosiddetti consumi intermedi della pubblica amministrazione, acquisti di beni e servizi che rappresentano quasi la metà della spesa corrente. Lì c'è stata la dilapidazione delle risorse senza alcun beneficio né per la crescita dell'economia né per la riorganizzazione della pubblica amministrazione centrale e locale.

Stupisce che questi processi siano passati quasi inavvertiti dinanzi all'opinione pubblica e ai cosiddetti esperti. Oggi ne abbiamo ufficiale conferma, certificata anche dalle autorità internazionali: la spesa pubblica è tornata sotto controllo mentre la lotta contro l'evasione ha fornito un surplus di entrate di 20 miliardi.

Tra maggiori entrate e minori spese si tratta dunque di 40 miliardi di euro che, pur in mezzo alla tempesta internazionale cominciata dal giugno scorso, hanno fatto diminuire il deficit ereditato dalla precedente legislatura dal 4 all'1,9 per cento, hanno ridotto il debito pubblico di 2,5 punti rispetto al Pil, hanno portato il disavanzo dello Stato al punto più basso degli ultimi nove anni.

* * *

Purtroppo a questi buoni risultati nella pubblica finanza non hanno corrisposto analoghi segnali positivi nell'economia e nel benessere degli italiani. Anzi quel benessere è stato seriamente colpito, le condizioni degli individui e delle famiglie sono decisamente peggiorate, il costo della vita è aumentato, le retribuzioni (salari, stipendi, pensioni) sono sempre più insufficienti costringendo a diminuire i consumi sia in quantità sia in qualità.

L'Istat stima l'inflazione ufficiale intorno al 2,6 per cento ma quella dei generi di largo consumo ad oltre il 5. Particolarmente elevati i prezzi dei cereali, dell'energia, dei trasporti. Insomma l'ossatura del sistema, sia dal lato dei consumi sia da quello degli investimenti.

A che cosa si deve questa situazione di sofferenza e di precarietà economica e sociale? Aggravata da aspettative ancor più negative che si trasformano, come sempre avviene in questi casi, in ulteriori peggioramenti percepiti prima ancora di essere avvenuti?

La risposta è nei fatti: un miliardo di persone, soprattutto nei paesi asiatici, sta gradualmente entrando nel circuito dei consumi di qualità; quattro o cinque governi (India, Cina, Corea, Singapore, Indonesia) stanno investendo massicciamente nella modernizzazione dei rispettivi paesi.

Tutti questi elementi sono fuori dal controllo dei governi nazionali europei, dell'Europa nel suo insieme e perfino degli Stati Uniti d'America. È la nuova domanda a spingere in alto i prezzi dei cereali, del petrolio e dell'energia. Accrescere l'offerta di questi beni non è impossibile, ma procede con rapidità molto minore dell'irruente aumento di domanda dei nuovi consumatori. Per di più l'aumento dell'offerta non avverrà che in presenza di prezzi non inferiori al livello attualmente raggiunto.

Siamo così, in tutto l'Occidente, dinanzi ad un'inflazione importata dall'estero da paesi con sistemi economici diversi dai nostri, livelli retributivi decisamente più bassi, monete inconvertibili, Banche centrali non integrate con quelle occidentali. Da questo punto di vista la politica dei tassi d'interesse (e quindi il valore del cambio estero della moneta europea) attuata ormai da un anno dalla Banca europea è del tutto insensata. Per il rispetto dovuto a una grande istituzione la stampa si è finora astenuta dal prender di mira la Bce; i governi e l'Ecofin hanno fatto altrettanto. Ma ora l'errore e l'inspiegabile tenacia con cui la Banca mantiene un livello dei tassi sempre più squilibrato non può esser sottaciuto. Mantenere il tasso ufficiale dell'euro al 4 per cento con una forbice in continuo aumento rispetto al tasso della Fed che tra poco sarà la metà di quello europeo significa marciare ad occhi bendati verso il disastro.

Questa politica ha già spinto il cambio con il dollaro ad un'altezza insostenibile. Non soltanto con il dollaro ma anche con le altre monete che hanno cambi fissi con quella americana e quindi si svalutano con essa, a cominciare dallo yuan cinese. La conseguenza è quella di render difficilissime le esportazioni dell'Europa verso il resto del mondo, di bloccare il turismo diretto verso i nostri paesi e tra di essi di colpire soprattutto quelli come l'Italia le cui imprese operano principalmente in settori convenzionali con scarso valore aggiunto e bassa produttività.

Il futuro governo che uscirà tra un mese dalle urne dovrà dunque affrontare questi problemi in primissima battuta. L'indipendenza della Bce nella politica dei tassi d'interesse non può e non deve essere intaccata, ma la sua sovranità non si estende al cambio estero. Si tratta di due grandezze strettamente collegate ma che fanno capo ad istituzioni diverse. Perciò una dialettica tra il Consiglio dei ministri europei e la Banca centrale non è soltanto auspicabile ma a questo punto urgente e necessaria.

* * * *

I nostri due maggiori partiti che si fronteggiano in questa campagna elettorale dovranno comunque adottare provvedimenti rivolti a sostenere il potere d'acquisto dei ceti medi e inferiori della nostra società. Le tecnicalità sono diverse ma l'intento non può che esser comune: intervenire a sorreggere una domanda di consumi e di investimenti particolarmente calante e un flusso di esportazioni anch'esso in preoccupante ristagno.

Le risorse per finanziare questa strategia sono scarse sicché una politica anticiclica di "deficit spending" è diventata inevitabile. È la sola strada per sollevare il livello di crescita del Pil almeno fino al livello dell'1 per cento dall'attuale previsione dello 0,6. Ma poiché questa politica non potrà attuarsi prima del prossimo mese di maggio e avrà dunque dinanzi a sé soltanto il secondo semestre dell'anno, diventerà necessario adottare misure di impatto immediato sulla realtà economica. Soprattutto bisognerà iniettare nel sistema non solo risorse materiali ma anche fiducia per rovesciare le aspettative dei consumatori e delle imprese.

Si discute tra gli economisti se un'operazione di sostegno della domanda avrà gli effetti desiderati oppure - come in altre occasioni è accaduto - non sarà immobilizzata dai beneficiari in impegni liquidi anziché in un'espansione dell'economia. Ma l'attuale compressione della domanda è arrivata ad un punto tale da rendere impensabile la tesorizzazione della liquidità. Perciò l'effetto desiderato avrà sicuramente luogo.

Al timore che si possa determinare accanto all'inflazione importata un'ulteriore impennata dovuta al rilancio della domanda interna si dovrà rispondere aumentando il livello della libera concorrenza, spingendo avanti le liberalizzazioni e agganciando le retribuzioni non all'inflazione ma alla produttività del sistema.

Lo ripeto: non c'è altra via. Da questo punto di vista è stato un gravissimo errore quello del centrodestra di non aver risposto positivamente all'invito di Veltroni, ancora rinnovato in questi ultimi giorni, di render possibile da subito un accordo bipartisan sull'attuazione di provvedimenti di detassazione dei salari dei lavoratori dipendenti. Avremmo guadagnato mesi preziosi, riconciliato imprenditori e sindacati, diminuito la distanza tra società e istituzioni. Forze politiche che avessero a cuore gli interessi del paese avrebbero accettato quella proposta. Tanto più sbagliato e odioso appare il rifiuto che è stato opposto e l'egoismo elettorale che l'ha motivato.

Post Scriptum. Una parola sul "protezionismo" sostenuto da Tremonti nelle sue recenti sortite. Molti l'hanno preso sul serio e ne hanno fatt o motivo di polemica mostrandone gli aspetti perversi che avrebbe sull'economia.

Concordo sulla loro perversità ma debbo avvertire che un protezionismo nazionale è del tutto incompatibile con la nostra appartenenza all'Unione europea che è la sede esclusiva per poter decidere se le frontiere debbano restare aperte o invece presidiate da dazi e contingentamenti nei confronti del resto del mondo. Lo stesso Tremonti ne è del resto pienamente consapevole e l'ha scritto nel pamphlet che contiene quell'improvvida proposta.

La sua era dunque soltanto una provocazione, forse un "lanciare la palla in tribuna" per non affrontare argomenti assai più spinosi e realistici d'un protezionismo al di fuori della nostra portata. Poiché l'ex ministro dell'Economia berlusconiana conosce bene i problemi che abbiamo di fronte avrebbe potuto impegnare assai meglio il suo talento e la sua influenza inducendo il leader di Forza Italia ad accettare la proposta di Veltroni. Così pure avrebbe potuto spendersi per far accettare l'altra proposta del Partito democratico di tagliare fin da ora il costo del finanziamento pubblico dei partiti. Due segnali importanti che avrebbero potuto esser dati e che invece sono stati soffocati dall'assordante silenzio di chi parla nei momenti sbagliati e tace in quelli opportuni.

(16 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 23, 2008, 12:15:08 pm »

POLITICA


L'EDITORIALE

Alitalia, chi pagherà i conti della "cordata elettorale"

di EUGENIO SCALFARI


BERLUSCONI, per come racconta la cronaca e come lo ricordo io che fui anche testimone diretto, è stato l'inventore delle cordate fasulle.

La più celebre fu quella della Sme, passata anche sui tavoli della giustizia civile e penale. Per bloccare il contratto già firmato tra De Benedetti e l'Iri, s'inventò un'inesistente cordata guidata da un suo prestanome, certo Scalera, che rimise in gioco l'accordo per il tempo necessario a riaprire il gioco. Poi Scalera scomparve, scomparve fisicamente, e la cordata Fininvest-Ferrero-Barilla ne prese il posto, ma era fasulla anche quella. Alla fine lui si ritirò e Ferrero-Barilla si divisero le spoglie della Sme.

In quel caso la Fininvest non aveva altro interesse che fare un favore politico a Craxi. Il compenso fu il famoso decreto soprannominato "decreto Berlusconi" con il quale il governo bloccò la sentenza della Corte Costituzionale autorizzando le televisioni Fininvest a trasmettere in barba alla sentenza della Corte e dei tribunali che le avevano emesse.

Non fu il solo caso. Ce n'erano stati altri all'epoca della guerra di Segrate, che vide ancora una volta opposti lui da un lato e la Cir di De Benedetti dall'altro e che culminarono nel famoso "lodo Mondadori" anch'esso transitato sui tavoli della giustizia civile e penale con esiti a volte a lui favorevoli a volte contrari, sepolti infine dalla prescrizione.

Il personaggio è dunque coniato in questo modo, se ne infischia dei conflitti d'interesse, se ne infischia delle leggi e se ne strainfischia delle norme europee. Guarda al sodo, al suo interesse, animato dall'istinto del combattente e dagli spiriti animali d'un capitalismo senza regole.

Però questa volta non gioca sul tavolo delle tre carte. Questa volta - credetemi - fa sul serio.
La cordata italiana lui la vuole veramente e riuscirà a farla decollare in un modo o in un altro, magari imbarcando per la strada i tedeschi o i fondi americani o qualche arabo di quelli che lui conosce.

Questa volta gioca da presidente del Consiglio "in pectore". L'Alitalia la considera cosa sua e considera cosa sua anche l'hub di Malpensa e quello di Fiumicino. Considera cosa sua i sindacati di Alitalia e quelli della Sea. Anche di Linate. Anche i dieci aeroporti che infiocchettano il lombardo-veneto da Bergamo a Treviso.

Si è calato interamente nella figura del leader autoritario preconizzato da Giulio Tremonti. Decide la politica, l'economia segue. Il mercato, se ostacola i suoi disegni, vada a farsi fottere. E se necessario vada a farsi fottere anche l'Europa tecnocratica.
Dio, Patria, Famiglia e ora anche Alitalia. Tremonti dixit.

* * *

È opportuno a questo punto valutare oggettivamente i costi dell'operazione cominciando dall'Alitalia e dal piano industriale presentato da Air France, che prevede un investimento immediato di due miliardi di euro.

Questa cifra è la somma di 150 milioni di esborso per gli azionisti di Alitalia, più 600 milioni di rimborso delle obbligazioni emesse da quella società, più l'assunzione dei debiti che figurano nel bilancio della Compagnia di bandiera. Air France si è anche impegnata a ricapitalizzare l'azienda con un miliardo di capitale. E fanno tre. Ci vogliono dunque tre miliardi per assumere il controllo di Alitalia e assicurarle il capitale di funzionamento. Ma resta che la Compagnia continuerà a perdere a dir poco 350 milioni l'anno se non sarà risanata e rilanciata.

Il corso Spinetta, che fa l'amore col progetto Alitalia ormai da quindici anni, prevede di portare la società al profitto entro cinque anni col taglio degli esuberi, il rinnovamento della flotta, l'abbandono di Malpensa e un investimento complessivo di 6,5 miliardi entro il 2013 nel quadro di un grande gruppo che comprende Air France, Klm, e la stessa Alitalia.
L'impegno totale dell'acquisto e del rilancio contempla dunque 10 miliardi di investimenti. Queste sono le cifre di partenza.

* * *

Ma per una cordata patriottica che abbia come obiettivo di rilanciare non solo Alitalia ma anche Malpensa tutelando i sindacati interni delle due aziende senza tuttavia smantellare Linate e tanto meno gli altri aeroporti padani, il costo dell'investimento non si ferma qui.

Senza eliminare gli esuberi non si risana un bel niente. Quanto a Malpensa le perdite attuali ammontano a 200 milioni annui. Per arrivare all'aeroporto partendo da Milano si impegna un'ora e venti minuti. Ci vogliono quindi altri investimenti indispensabili in strada e ferrovia. I diritti di traffico dell'Alitalia dovranno poi essere divisi tra i tre aeroporti di Malpensa, Fiumicino e Linate. La Sea non ha un soldo e deve essere ricapitalizzata.

Non si è dunque lontani dal vero ipotizzando che la cordata patriottica dovrà darsi carico di almeno altri 4 miliardi entro il 2013, da aggiungere ai 10 previsti da Air France. Totale quattordici. Ammesso che due hub siano un peso sostenibile.
Non mi sembra che Toto sia affidabile per un'impresa di queste dimensioni né mi sembra che Banca Intesa si possa accollare da sola una responsabilità di questo genere.

I nomi chiamati in causa e cioè Ligresti, Bracco, Soglia, Moratti, Fininvest, Della Valle, possono mobilitare l'un per l'altro 200 milioni a testa. Sapendo che nessuno di loro guiderà l'operazione. Cordata patriottica, appunto. Come la fede d'oro per finanziare la conquista dell'Impero.

Comunque un miliardo o giù di lì. Ne mancano almeno altri tredici. Ma il leader patriottico non bada a queste quisquilie. Lui guiderà il governo, su questo non ha dubbi. È in grado di compensare chi lo aiuta. Troverà il modo. E poi c'è lo Stato. Lo Stato pagherà. Il rischio e l'investimento saranno distribuiti sulle spalle dei contribuenti e dei risparmiatori. Sarà lanciato un prestito obbligazionario. Si formerà un consorzio di banche. Al Tesoro ci sarà Tremonti il creativo. Tremonti il protezionista. Tremonti il colbertiano. Che vuole la politica autoritaria alla testa dell'Europa e dell'Italia. Amico di Sarkozy.
La Cassa Depositi e Prestiti avrà un ruolo. Mediobanca anche.

Naturalmente le risorse che saranno gettate su Alitalia-Malpensa dovranno essere sottratte da altri impieghi. Ma la decisione è politica. Se il Capo è d'accordo, si va alla guerra e così sia.
Dio, naturalmente, è con noi e intanto ci farà vincere le elezioni, che è ciò che conta.

* * *

I sindacati incontreranno Spinetta il 25 prossimo, dopodomani. Forse sul cargo tratteranno (cinque vecchi aerei, 135 piloti per guidarli, 200 milioni di fatturato annuo, 70 milioni annui di perdita). Forse si aprirà uno spiraglio sugli esuberi di AZ Servizi e sul tempo di dismissione.

Se rompono la crisi sarà immediata. Se rompono si assumono i rischi della rottura perché Spinetta è stato chiaro su questo punto: senza l'accordo con i lavoratori mi ritiro. E' un ricatto? A me sembra un dato di fatto e un segno di considerazione. Ma ognuno decide con la sua testa.

Può darsi però che i sindacati non rompano, che il piano industriale francese li convinca, ma che abbiano bisogno di qualche giorno per perfezionarlo.
Può darsi che cinque giorni, dal 25 al 31 marzo, non bastino. Può darsi che ne vogliano dieci o giù di lì. Spinetta concederà quei pochi giorni fissando una data certa e accettata? Prodi e Padoa-Schioppa accetteranno una proroga breve con data prefissata e non superabile?

Esprimo un'opinione personale: una proroga di cinque o sei giorni oltre il 31 marzo sembra accettabile. Oltre quel limite non lo è.
Quanto al prestito che Berlusconi chiede al governo, Prodi ha già detto che non si può fare se non è garantito da un soggetto bancabile. La Ue vieta operazioni di prestito a rischio da parte di un governo ad una società per azioni.

Al di là di questo non ci sono altri orizzonti che l'amministrazione controllata. Significa congelamento dei debiti, nomina d'un commissario giudiziale, risanamento con vendita delle poche attività e concordato con i creditori. Esuberi? Da quel momento la controparte dei sindacati sarà il commissario. La flotta continuerà a volare? Così come Parmalat continuò a produrre il suo latte e i suoi yogurt?

C'è una differenza di fondo tra i due casi: la gestione di Parmalat era attiva ma il capitale finanziario non c'era più. Per Alitalia invece il capitale finanziario non c'è più e la gestione è in pesante passivo.
Affinché la flotta continui a volare occorre che i fornitori vendano il carburante a credito, la manutenzione e il personale di volo e di terra lavori senza sapere se a fine mese gli stipendi saranno pagati. Una situazione ovviamente impossibile quale che siano le opinioni in proposito di Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio.

Berlusconi strillerà e con lui Fini. E con loro Formigoni e la Moratti che sono tra i principali responsabili del flop di Malpensa. E gli elettori?
Nessuno può dire quale sarà l'effetto dell'affaire Alitalia-Malpensa sugli elettori del Nord. Forse la maggioranza se ne infischia o forse no. Quanto agli industriali, è un fatto che in quindici anni da quando dura quest'agonia sotto quattro diversi governi, gli industriali del Nord nessuno li ha visti. Avevano altri pensieri. Li vedremo oggi? Daranno oro alla Patria? In barba al mercato? Col solo vantaggio d'essere i finanziatori di Berlusconi?

Tutto è possibile. Nel 1921 finanziarono Mussolini pensando che sarebbe stato una marionetta nelle loro mani. Non fu così, ma quando se ne accorsero era troppo tardi. Dovettero aspettare vent'anni e una catastrofe epocale.
Qui se ne preparano altri cinque e siamo ancora alle prese con lo stesso leader, lo stesso personale politico, la stessa Lega, lo stesso Fini, gli stessi "ascari" con i cannoli o senza cannoli.

Ma il popolo è sovrano. A volte decide per il suo bene, a volte si dà il martello sui piedi, a volte resta a casa a guardare lo spettacolo dalla finestra. E questa è la cosa peggiore che possa accadere.


(23 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 30, 2008, 03:50:07 pm »

ECONOMIA L'EDITORIALE

Il Cavaliere liberale ha abolito il mercato

di EUGENIO SCALFARI


TEMPO fa, in uno dei miei articoli domenicali, citai una battuta di Petrolini raccontata da un suo scrupoloso biografo. La cito di nuovo perché si attaglia bene al caso presente. Il grande comico romano stava cantando la sua canzone intitolata "Gastone". Arrivato alla fine, uno spettatore del loggione fischiò sonoramente. Petrolini avanzò fino al bordo del palcoscenico, puntò il dito verso il fischiatore e nel silenzio generale disse: "Io nun ce l'ho cò te ma cò quelli che stanno intorno e che ancora nun t'hanno buttato de sotto". Seguì un piccolo parapiglia sopraffatto dagli applausi di tutto il teatro. Così si dovrebbe dire oggi a Berlusconi per il suo comportamento sull'Alitalia, oltre che per tante altre cose.

Pare che finalmente la Consob abbia acceso un faro su quel comportamento e così pure la Procura di Roma. Starebbero esaminando se nelle quotidiane esternazioni berlusconiane vi siano gli estremi del reato di "insider trading" e di turbativa del mercato.
Non voglio credere e non credo che il leader del centrodestra stia speculando in Borsa (altri certamente lo fanno e si saranno già arricchiti di parecchi milioni di euro) ma sulla turbativa di mercato non c'è da accender fari, basta affiancare ad ogni dichiarazione berlusconiana le oscillazioni del titolo Alitalia che sono dell'ordine di 30/40 punti all'insù o all'ingiù.

In qualunque mercato del mondo Berlusconi sarebbe già stato chiamato a render conto di quanto dice; l'Agenzia che tutela le contrattazioni di Borsa lo avrebbe ammonito e multato, la magistratura inquirente l'avrebbe già messo sotto processo. Ma soprattutto gli elettori ne avrebbero ricavato un giudizio di inaffidabilità e di non credibilità definitivo.
Voglio sperare che gli elettori ancora incerti su chi votare l'abbiano a questo punto escluso dal loro ventaglio di possibilità.

Affidare il governo del paese per i prossimi cinque anni a un personaggio che non si fa scrupolo di turbare il mercato con false notizie riportate e diffuse da tutto il sistema mediatico è uno di quegli spettacoli che purtroppo squalificano un paese intero almeno quanto l'immondizia napoletana.

Eccellono in questa gara soprattutto le emittenti televisive, quelle private e quelle pubbliche; in particolare - dispiace dirlo - il Tg1 il quale riferisce in presa diretta le sortite del Cavaliere senza che vi sia una voce che ne sottolinei gli effetti sul listino borsistico. Il risultato è che Berlusconi resta in video per il doppio del tempo del suo principale avversario turbando non solo i mercati borsistici ma anche l'andamento del negoziato tra Air France e sindacati tra lo stupore di tutti gli operatori internazionali.

Venerdì sera l'annunciatrice del Tg1 delle ore 20 si è addirittura lasciata andare ad una critica contro la legge della "par condicio", da lei ritenuta incivile, senza spiegare perché in Italia esista una legge del genere, dovuta ad un vergognoso conflitto di interessi che fa capo al proprietario delle reti Mediaset. Legge che peraltro nessuna delle emittenti televisive rispetta a cominciare dal Tg1, già ufficialmente ammonito dall'Agenzia delle comunicazioni.

Evidentemente direttori e conduttori danno per scontata la vittoria elettorale del centrodestra e sanno anche che se l'esito fosse diverso il vincitore di centrosinistra si guarderebbe bene dal praticare vendette. Perciò tanto vale scommettere in anticipo senza rischiare nulla se non la reputazione. Ma chi si preoccupa della reputazione nell'Italia dei cannoli alla siciliana.


* * *

Domenica scorsa, occupandomi dell'Alitalia e della fantomatica cordata patriottica berlusconiana, scrissi che a mio avviso quella cordata ci sarà davvero se Berlusconi vincerà. Per lui è un punto d'onore e i mezzi per realizzare l'obiettivo ci sono. Li ho anche enumerati ed è stato proprio il leader del centrodestra a confermarlo quando ha detto appena ieri che dopo la sua sicura vittoria chiamerà uno ad uno gli imprenditori italiani per chiedere l'obolo di san Silvio e "voglio vedere chi non ci starà".

Ci staranno tutti, non c'è dubbio alcuno, "chinati erba che passa il vento". Ci staranno i capi delle società pubbliche a cominciare dall'Eni e da Finmeccanica, in attesa di riconferma o di nuova nomina; ci staranno i capi di imprese private concessionarie dello Stato, ci staranno le banche desiderose di benefici; ci staranno le imprese medie che hanno già o ambiscono di avere rapporti fluidi con l'uomo che dovrebbe governare l'Italia per altri cinque anni in attesa di volare per altri sette sul più alto Colle di Roma.

Il mercato? Chissenefrega del mercato, contano i rapporti tra affari e politica e il Berlusca è imbattibile su quel terreno: tu dai una cosa a me e io do una cosa a te. Il mercato di Berlusconi si configura così e non saranno certo un Tremonti o un Letta ad impedirglielo, anzi. Quanto a Fini non è neppure il caso di scomodarsi a chiedere: lui aspetta l'eredità ed è d'accordo su tutto, sebbene non sia ancora certo dell'esito d'una così lunga attesa.

Dunque la cordata patriottica ci sarà. Ma che tipo di cordata? L'obolo di san Silvio versato dagli imprenditori non è sufficiente, se supererà il miliardo sarà già molto, ma diciamo pure che arrivi a due o a tre. Per rilanciare Alitalia e insieme Malpensa e la Sea ce ne vogliono almeno altri otto. E in più ci vuole un "know-how" che non si improvvisa. Forse i tedeschi di Lufthansa? Forse gli americani del Tpg? Forse l'Aeroflot di Putin? Air One non è decentemente presentabile come vettore di due hub con pretese internazionali.

Dunque la cordata patriottica non sarebbe patriottica se non nei fiocchi che impacchettano il torrone. Il torrone sarebbe straniero. L'organizzazione sarebbe straniera. Gli esuberi sarebbero trattati dal gestore straniero, esattamente come sta accadendo in queste ore con Air France, ma con una variante in più: la pratica richiede tempo e il tempo non c'è. Per allungarlo ci vuole un aiuto di Stato, vietato dall'Ue in mancanza di garanzie bancabili. Se questa norma fosse violata saremmo denunciati alla Corte di giustizia europea e multati pesantemente.

Oppure si va, volutamente, al fallimento come anche ora si rischia di fare. Allora tutto diventa più facile perché il fallimento significa congelamento dei debiti e interruzione dei contratti di lavoro. I nuovi padroni decideranno a tempo debito quali di quei contratti rinnovare e quali no, ripartendo comunque da zero.
Dov'è la vittoria? Si sciolga la chioma e se la lasci tagliare. La prospettiva, diciamolo, non è esaltante.


* * *

Nella stessa giornata di ieri il Cavaliere si è manifestato anche a proposito del cosiddetto voto disgiunto e ha tirato in ballo sua eminenza il cardinal Ruini. Eminence, come dice la Littizzetto. È stata una pagina da manuale. Per chi se la fosse persa raccontiamola perché ne vale la pena. E cominciamo dal voto disgiunto. Che cosa significa? Perché è venuta fuori questa ipotesi?

Normalmente un elettore vota per lo stesso partito nella scheda della Camera e in quella del Senato, specie ora con una legge come l'attuale che non prevede preferenze ai candidati. Nella sua assoluta certezza di vincere le elezioni alla Camera, nell'animo di Berlusconi si è però insinuato il dubbio di pareggiare o addirittura di perdere al Senato (aggiungo tra parentesi che questa ipotesi corrisponde esattamente alla realtà). Perciò suggerisce agli elettori centristi il cosiddetto voto disgiunto: votino pure per Casini Udc alla Camera, ma al Senato no, al Senato votino per il Pdl in modo da evitare il pareggio.

Che c'entra Eminence in questo pasticcio? Il Cavaliere ce lo fa entrare, gli chiede pubblicamente di entrarci e gli fa pubblicamente presenti i vantaggi che avrà se eseguirà il mandato o invece i danni che può subire se rifiuterà di adoperarsi in favore.

Convinca Casini a incoraggiare o almeno a subire senza strilli il voto disgiunto. In cambio (è il Cavaliere che parla) avrà l'impegno del nuovo governo ad adottare tutti i provvedimenti chiesti dalla Chiesa in tema di coppie di fatto (mai), di procreazione assistita (abolirla), di eutanasia (quod deus avertat), di testamento biologico (come sopra), di aborto (moratoria e radicale riforma), di Corano nelle scuole (divieto), di insegnamento religioso (anche all'Università). Se c'è altro chiedetelo e "aperietur".

Ma se rifiuterà, tutto diventerà problematico. In fondo (molto in fondo) lo Stato è laico e bisogna pur tenerne conto. Se lo ricordi, sua Eminenza, e non creda che la partita si giochi sul velluto. Del resto il Papa ha pur battezzato Magdi Allam. E dunque il Cavaliere ne adotterà il programma e magari farà in modo di fargli affidare la direzione del "Corriere della Sera", purché gli elettori dell'Udc votino per Berlusconi al Senato.
Ha sentito, Eminenza?


* * *

Una cosa risulta chiara: hanno ridotto la religione ad una partita di giro. Forse per la gerarchia ecclesiastica lo è sempre stata, per i cardinali e per molti vescovi. Ma non fino a questo punto. I credenti per primi dovrebbero esserne schifati e ribellarsi di fronte a questa vera e propria simonia. Gli opinionisti (esistono ancora?) dovrebbero spiegarla e indignarsene.
Ho un presentimento: il centrosinistra vincerà sia alla Camera sia al Senato. Fino a pochi giorni fa pensavo il contrario, che non ce l'avrebbe fatta. Ebbene ho cambiato idea. Ce la fa. Con avversari di questo livello non si può perdere. Gli elettori cominciano a capirlo. Io sono pronto a scommetterci.

(30 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 31, 2008, 07:10:45 pm »

Eugenio Scalfari

Una destra gotica e guelfa


L'ultimo libro di Tremonti descrive la crisi come farebbero Ruffolo o Reichlin. Ma quando indica la terapia va incontro a De Maistre  Giulio TremontiL'ultimo libro di Giulio Tremonti ('La paura e la speranza' editore Garzanti) è nelle librerie da pochi giorni ma è già diventato oggetto di pubbliche presentazioni e di private discussioni. L'autore stesso è molto attivo nel promuoverlo, al punto che i suoi detrattori non hanno mancato di far circolare la battuta di un ex ministro del Tesoro che tenta di riciclarsi come intellettuale in attesa di riprendere la carica perduta due anni fa se le urne elettorali saranno benevole con lui e con i suoi amici politici.

Mi astengo dal far mia quella battuta. Tremonti ha dimestichezza con le idee, spesso le maneggia come un giocoliere. Soprattutto è molto attento all'importanza del 'senso comune', allo 'spirito dei tempi' cui attribuisce un peso oggettivo assai forte.

Secondo me un intellettuale dovrebbe contrastare il senso comune e non assumerlo come canone cui ispirare i propri pensieri. E qui vedo una prima contraddizione che emerge da queste pagine: l'autore usa a piene mani il senso comune per diagnosticare il male che secondo lui corrode l'Europa e la cultura occidentale, ma la sua ricetta terapeutica per vincere quel male contrasta il senso comune in modo radicale. Disegna infatti una civiltà gotica, obbediente al dio medievale, alla 'Kultur' della legge e dell'ordine, della terra e del sangue, della famiglia e della comunità, in contrasto con la modernità secolarizzata, con il pluralismo e il relativismo delle verità.

C'è da aggiungere che il Tremonti uomo politico torna invece ad ispirarsi al senso comune: gli chiedevano meno tasse e lui se la cavò con i condoni, con l'aumento della spesa pubblica, con l'aumento del debito (palese e occulto). Ma questo è un altro discorso e non c'entra con le pagine del libro. Il quale è nettamente diviso nelle due parti preannunciate dal titolo, la paura (diagnosi della crisi) e la speranza (terapia per uscirne).

La prima parte stupisce per chi credeva di conoscere Tremonti giudicandolo dalla sua biografia professionale e politica. Un esperto nella conoscenza del fisco e dei modi per difendersene, un uomo politico di destra con marcate simpatie leghiste. Sedotto da Berlusconi e dalla sua capacità di sciamano e di venditore. Sicuro come pochi di possedere la verità in esclusiva.

Quest'ultimo tratto del suo carattere emerge riconfermato e ampliato nelle pagine del libro, soprattutto nello stile, quanto mai apodittico, assertivo, dilemmatico, icastico. Bisognerebbe stare attenti a non esagerare con quel tipo di stile; usato con parsimonia ha una sua efficacia, ma usato a piene mani diventa stucchevole e ripetitivo.

Nella prima pagina del libro per esempio l'autore dice che "siamo passati da Marx al marketing". È vero ed è ben detto con una battuta che descrive in tre parole una trasformazione epocale. Ma di battute, di dilemmi, di assiomi ce ne sono almeno una decina per pagina (non esagero). Non lascia spazio al lettore di riflettere, lo inchioda, lo stringe con le spalle al muro, lo obbliga a rincorse che tolgono il fiato. Insomma lo manipola per averlo alla fine esanime e domato nelle sue mani. Questo non va bene, l'eccesso di bravura va a detrimento della credibilità e dello spessore dei pensieri.

Ma dove nasce lo stupore del lettore? Dal fatto di scoprire, nella prima parte del libro, un Tremonti di sinistra. Contro il 'mercatismo'. Contro la globalizzazione. Contro le multinazionali. Contro il consumismo. Contro l'asservimento della pubblica opinione alle manipolazioni tecnologiche. Contro le disuguaglianze. Contro i veleni che deturpano l'ambiente e devastano il paesaggio. Contro il mito del Pil.

Beninteso, l'autore imputa alla sinistra la mostruosità del regime staliniano e conduce una serrata arringa contro gli intellettuali che imbonirono le masse con ilmito del paradiso comunista in terra. Ma per tutto il resto - in questa parte del suo scritto - la sua diagnosi non è lontana da quella che potrebbero fare un Giorgio Ruffolo o un Alfredo Reichlin e, con loro, anche molti liberali di sinistra tra i quali mi ascrivo. Non a caso l'autore esprime ammirazione per il Partito d'azione che commise però un errore di 'intellettualismo' e non tenne conto del senso comune. E quindi finì rapidamente in mille pezzi.

Tra le tante battute che gremiscono le pagine ne cito una che riassume il pensiero tremontiano: "Abbiamo creato un tipo umano che non solo consuma per esistere ma esiste per consumare". Sembra Pasolini se non addirittura Enrico Berlinguer. E allora sorge la domanda: quest'uomo è lo stesso che da tredici anni lavora spalla a spalla con Berlusconi ed è il fedele esecutore delle sue intuizioni e dei suoi umori? Il padrone delle televisioni incarna, proprio lui, quell'arcicapitalismo contro il quale l'intellettuale Tremonti bandisce la sua crociata?

La risposta arriva nella seconda parte del libro ed è, debbo dire, agghiacciante. L'ho definita una risposta gotica, medievalistica e l'autore del resto non ne fa mistero.

In un mondo dove la globalizzazione ha risvegliato le masse addormentate e le ha trasformate in 'campi di forza' che hanno lanciato una sfida senza precedenti all'Europa, all'Occidente, alla razza bianca, bisogna rispondere inalberando le nostre radici cattoliche, bisogna dotare l'Europa d'una visione politica e di un'autorità che la imponga, bisogna che quell'Europa divenga una fortezza capace di opporsi alle potenze emergenti, bisogna accogliere il flusso di emigranti soltanto se siano disponibili all'integrazione immediata fin dal primo giorno d'ingresso nel nostro territorio. Bisogna instaurare un sistema di doveri e vagliare attentamente i diritti col metro della morale cristiana. Bisogna canalizzare la pubblica opinione.

La sinistra non è in grado di attuare questa svolta, anzi questa rivoluzione. Può aiutarla se vuole, dare una mano. Ma si tratta d'un compito enorme, quello che la nuova destra gotica e guelfa di Giulio Tremonti deve assumersi; l'icona - pare a me - è quella di Sisifo che spinge il masso verso la cima. Una cima tuttavia dove incontreremo De Maistre. Prospettiva che può piacere a papa Ratzinger, al cardinale Ruini e a Roberto Formigoni, ma certo non è esaltante, almeno per me.

(28 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Aprile 06, 2008, 06:39:23 pm »

IL COMMENTO

Se scende a valle la montagna degli indecisi

di EUGENIO SCALFARI


TRENT'ANNI fa scrissi, avendo Guido Carli come interlocutore, un libro dal titolo "Intervista sul capitalismo", che sarà ripresentato dalla Luiss il 21 aprile prossimo. E' passato molto tempo da allora, e molte cose sono profondamente cambiate ma i pensieri e i giudizi di Carli sono a tal punto anteveggenti che quelle pagine sembrano scritte oggi, la loro attualità è stupefacente.

Cito una di quelle previsioni perché racchiude in una sola frase lo spirito di tutta l'intervista; si riferisce al Trattato di fondazione della Comunità europea firmato a Roma nel 1957, vent'anni prima di quando il libro venne alla luce. "Non fu un errore entrare nel gruppo dei fondatori della nuova Europa, era indispensabile, se ne fossimo rimasti fuori oggi l'Italia sarebbe regredita a livello d'un paese africano. Ma fu invece un grave errore pensare che potevamo stare in Europa senza cambiare i nostri comportamenti sia nell'economia sia nella politica. Un grave errore del quale misuriamo oggi i nefasti effetti; fu commesso da tutta la classe dirigente del Paese, dagli imprenditori, dai politici, dai sindacalisti, dai professionisti, dai docenti. Lo Stato, gli Enti locali, le imprese pubbliche e private, il mercato, rimasero quali erano con le stesse leggi, le stesse regole, la stessa arretratezza, la stessa arcaica visione. Inadatti all'Europa, accettammo di misurarci con i paesi più evoluti del nostro continente senza fare nulla per metterci alla loro altezza. Fidammo soltanto nelle svalutazioni della lira e nell'evasione fiscale. Partecipare alla gara in quelle condizioni era impossibile".

Così Guido Carli nel 1977. L'ultima e più clamorosa conferma l'abbiamo avuta in questi giorni dalla crisi dell'Alitalia, un'altra altrettanto clamorosa è venuta dalla crisi dei rifiuti in Campania, il Paese mezzo secolo dopo il Trattato di Roma e sette anni dopo la nascita della moneta unica europea è ancora inadeguato. La sua classe dirigente vive ancora aggrappata ai "totem" del nazionalismo economico, dell'assistenzialismo, dello scambio di favori tra affari e politica, delle arciconfraternite del potere e del diritto di veto in mano alle corporazioni e alle "lobbies".

* * *

Qual è stato l'ultimo e tragico errore commesso dai sindacati durante la trattativa con Air France per il salvataggio dell'Alitalia? Puntare sull'ingresso nella Compagnia di Fintecna, una società pubblica posseduta dal Tesoro, nella speranza che essa fosse in grado di pilotare Air France e rendere indolore il cambiamento di proprietà.

Qual è stato l'errore altrettanto tragico commesso da Berlusconi, da Formigoni e da Bertinotti? Puntare su una fantomatica cordata patriottica che, a carico dello Stato, mantenesse la Compagnia di bandiera con i soldi delle banche (cioè dei risparmiatori) e dei contribuenti.

Politici di destra, politici della sinistra radicale, sindacalisti, lobbisti padani, non si rassegnavano alla realtà di una società arrivata alla soglia del fallimento dopo aver dissipato 15 miliardi di euro con un miliardo e mezzo di debiti, il capitale azzerato, la cassa vuota e perdite di 400 milioni l'anno.

Così Air France ha abbandonato il tavolo del negoziato. La Borsa francese che temeva i rischi dell'operazione Alitalia ha premiato il titolo Air France dopo l'abbandono. Buona parte dei dipendenti di Alitalia protestano ora contro i sindacati. Questi a loro volta chiedono a Spinetta di tornare al tavolo del negoziato e si dicono pronti a ritirare le loro improvvide proposte. Il ministro Padoa Schioppa avvisa che per chiudere - sempre che i francesi tornino a Roma - ci sono solo pochi giorni e comunque prima delle elezioni.
Sapremo domani se Spinetta tornerà a negoziare. C'è ancora chi sostiene che il governo ha lasciato "nudi" i sindacati. Lo dice Berlusconi, lo dice Bertinotti, lo dicono Bonanni della Cisl ed Epifani della Cgil. Ancora non hanno capito che cosa è il mercato e quali sono gli standard europei. Ancora non hanno capito che Alitalia è finanziariamente ed economicamente un rottame e che Air France era e resta l'ultima sponda sulla quale si poteva approdare. Speriamo che lo si possa ancora fare ma speriamo soprattutto che questa durissima lezione serva a qualcosa.

* * *

Intanto la campagna elettorale si avvicina al termine, entriamo oggi nell'ultima settimana prima del voto. Si sa dagli ultimi sondaggi prima del divieto di diffusione che la partita decisiva si gioca sugli indecisi. Per la Camera si tratta degli indecisi di tutta Italia, per il Senato quelli soprattutto della Liguria, delle Marche, del Lazio, della Calabria, della Puglia, dell'Abruzzo. Il fatto più significativo rilevato dai sondaggi è che la maggior parte degli indecisi è formato da ex elettori dell'Ulivo delusi dalla coalizione che vinse di stretta misura nel maggio di due anni fa.

Le ragioni di questa delusione sono note e in buona parte condivisibili. Molti di loro sognavano una maggioranza capace di dire e di fare "cose di sinistra".
Molti altri speravano e sognavano una maggioranza ed un governo efficienti, capaci di modernizzare la pubblica amministrazione, le istituzioni e lo Stato.
Difficile dire (i sondaggi non lo rilevano) quale di questi due modi di sentire abbia maggior peso quantitativo tra i delusi. Probabilmente il secondo, quello dei modernizzatori, cioè dei riformisti, ma anche gli altri vanno considerati con attenzione.

Dicono i sondaggi, con un margine di errore che va sempre tenuto ben presente, che il complesso degli indecisi sia da valutare attorno al 10 per cento dei presumibili votanti.

Dicono anche che il 45 per cento di quel dieci sia orientato a votare Veltroni. E dicono infine che se quel 45 diventasse il 13 aprile il 60, alla Camera si potrebbe pareggiare, i due maggiori partiti si troverebbero spalla a spalla e uno dei due otterrebbe la vittoria con uno scarto minimo di voti.

Se poi il Partito democratico convogliasse su di sé il 75 per cento degli indecisi la vittoria alla Camera diventerebbe una quasi certa probabilità. Il Senato è una roulette e come tale va considerato, ma indubbiamente se alla Camera i risultati fossero quelli più favorevoli al Pd anche al Senato ci sarebbe vittoria.

Queste previsioni sono molto aleatorie. E' invece cosa certa che la partita si decide nei prossimi sette giorni.
Se la montagna degli indecisi smotterà a valle tutto può accadere.

* * *

Da parecchie settimane Silvio Berlusconi parla di possibili brogli elettorali ed è ancora tornato a parlarne ieri con un appello (improprio) al Capo dello Stato prendendo a pretesto un preteso errore nella redazione delle schede elettorali.

Questo continuo allarme contro i brogli (che già costituì il tema delle proteste berlusconiane dopo la sconfitta del 2006) è un segnale evidente di debolezza e timore di sconfitta in una gara che era data sicuramente per vinta dal centrodestra con uno scarto iniziale in suo favore del 20 per cento Nel testa a testa tra le due parti e in particolare tra i due leader sta emergendo un dato di fatto di giorno in giorno più evidente: Berlusconi sa di vecchio.

Non si tratta dell'anagrafe, che pure ha un suo peso in un'Europa nella quale i leader appartengono tutti alla generazione dei quaranta-cinquantenni. Ma si tratta della stucchevole ripetitività degli slogan, delle parole d'ordine, dei lazzi, delle gaffe. Quelle sulle casalinghe, quelle sui cardinali, sulle precarie, sugli omosessuali, sull'Alitalia, sulle tasse da evadere se sono troppo alte e tante altre ancora al ritmo di almeno un paio al giorno.

E si tratta anche del personale politico. Non c'è un solo nome nuovo e rappresentativo nelle liste berlusconiane se si eccettua una dozzina di ex veline e vallette che ringiovaniscono e ingraziosiscono la media.
Il tutto sa di vecchio, anche di vecchiume. Perfino Fini, intruppato e quasi scomparso in quella compagnia, dimostra più anni mentali di quanti ne ha. Ha fatto un salto all'indietro, a prima della curetta di Fiuggi che già sembra antidiluviana.

Secondo me la gente se ne accorge.

(6 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #53 inserito:: Aprile 12, 2008, 04:13:22 pm »

Eugenio Scalfari

Rivoluzione possibile


L'attualità dei classici come Valéry ci indica un percorso per riappropriarci della nostra libertà. E in questi giorni ci si offre l'occasione  Lo scrittore Paul ValéryDedicare ai classici le proprie ore di lettura (al netto dei tanti giornali da sfogliare, che è un altro genere d'impegno) sottrae tempo ad altre ricreazioni della mente, ai libri di recente pubblicazione, al cinematografo, alla televisione, alla navigazione nei siti di Internet. Forse non è una gran perdita, mi suggerisce una vocina intima e maliziosa. Ma io so che quella vocina esprime una pigrizia intellettuale che non mi piace, quella che induce le persone di età avanzata a lodare i tempi passati a scapito di quelli presenti. Perciò soffoco quella vocina e mi rammarico di trascurare il mio aggiornamento. È un danno per me e un'ingiustizia per gli artisti contemporanei che certo esistono e lavorano anche se non abbondano (così mi sembra).

L'effetto positivo di dedicarsi ai classici consiste invece nello scoprire la loro attualità e i suoi aspetti duraturi. Del resto chi legge e rilegge i classici è in cerca delle risonanze che essi ci inviano dal passato, tanto più preziose in quanto provengono da voci remote eppure incredibilmente moderne.

Io frugo spesso nella mia disordinata biblioteca in cerca di questi classici 'moderni'. Quando li trovo e ne rileggo le pagine ne resto spesso confortato e ristorato, ho la conferma che si può antivedere il futuro con gli occhi chiari della ragione e della saggezza. Non siamo dunque schiavi né del presente né del passato. Chi è capace di saper leggere il futuro, lui sì è un uomo in grado di esercitare la sua libertà di previsione e di giudizio.

Mi sono casualmente trovato tra le mani nei giorni scorsi uno dei classici più inaspettatamente attuali ed è Paul Valéry nel suo libro intitolato 'Regards sur le monde actuel et autres essais' pubblicato da Gallimard nel 1945 all'indomani della guerra (l'edizione italiana è di Adelphi 1994 con il titolo 'Sguardi sul mondo attuale'). Era il mondo attuale del '45, ma molti di quei saggi portano addirittura le date del 1932 e di altri anni precedenti lo scoppio della guerra. Se non è un secolo poco ci manca, eppure sembrano scritti oggi. Ne cito alcune frasi particolarmente significative perché sembrano descrivere il mondo in cui ora viviamo.

"La pace è una vittoria virtuale, muta, continua, delle forze possibili contro le bramosie probabili. Ci si vanta di poter imporre la propria volontà all'avversario. Ma può essere una volontà nefasta. Gli unici trattati che varrebbe la pena di concludere sarebbero quelli tra i pregiudizi. L'operato di pochi ha per milioni di uomini conseguenze paragonabili a quelle che per tutti gli esseri viventi derivano dai mutamenti del loro ambiente. Così come le cause naturali producono la grandine, il tifone, le epidemie, allo stesso modo le cause intelligenti agiscono su milioni di uomini la stragrande maggioranza dei quali le subisce così come subisce i capricci del cielo, del mare e della crosta terrestre. L'intelligenza e la volontà che colpiscono le masse come cause fisiche e cieche: ecco ciò che si definisce politica".

"Le nazioni sono estranee le une alle altre così come lo sono gli individui diversi per carattere, età, credenze, costumi, bisogni. Molte nazioni nutrono il convincimento di essere in sé e per sé la nazione per eccellenza, l'eletta dell'avvenire infinito. Nell'eterna partita che sono impegnate a giocare ognuna ha le sue carte, alcune sono reali e altre immaginarie. Vi sono nazioni che hanno in mano soltanto ricordi che risalgono al Medioevo o all'antichità, valori morti e sepolti. Altre contano sulle belle arti, i paesaggi, le canzoni, che gettano sul tappeto verde in mezzo agli autentici semi di fiori e di picche".

"I fenomeni politici della nostra epoca sono resi più complessi da un mutamento di scala senza precedenti. Il sistema delle cause che governa il destino di ognuno di noi estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa ad ogni scossa riecheggiare tutto quanto. Non esistono più questioni delimitate. Le grandezze, le superfici, le masse in conflitto, la prontezza delle ripercussioni e la loro connessione impongono sempre più una politica molto diversa dall'attuale".

"Un uomo si interrogava sul suo essere libero e si smarrì nei propri pensieri. 'Ah - disse - possiamo fare tutto ciò che vogliamo tutte le volte che non vogliamo fare nulla'. Attenti! Appena entriamo nell'azione vi troviamo un miscuglio orribile di determinismo e di casualità".

Infine: "Si sono visti schiavi soffrire per essere stati liberati e si vedono popoli disorientati di esser restituiti a se stessi che nel più breve tempo possibile tornano a darsi dei padroni. Accade anche che tali popoli siano tra i più colti e i più intelligenti della loro epoca".

Io trovo formidabili questi pensieri e tanti altri disseminati nel libro. In particolare l'ultimo tra quelli che ho citato, quello sulla libertà e sull'indipendenza che spingono molti popoli a cercarsi in fretta un padrone cui delegare il potere. Questo fenomeno è particolarmente visibile in tutta la storia italiana dopo la caduta dell'antico impero di Roma. La nostra è stata una lunghissima vicenda di secoli nel corso dei quali abbiamo sempre cercato o tollerato di esser servi pur di non fare la fatica di gestire la nostra libertà e le responsabilità che ne derivano. Forse è proprio questo desiderio di regredire ad una fanciullezza collettiva e collettivamente irresponsabile ad aver favorito la nascita d'una casta detentrice del potere in nome di tutti. Anzi di molte caste, di molte mafie, di molte confraternite, ciascuna con le proprie regole, il proprio codice, il proprio 'boss' e padrone.

Di tanto in tanto sentiamo anche la tentazione di riappropriarci della nostra libertà responsabile, ma finora questi conati sono durati breve tempo; subito dopo quel male antico ha ripreso possesso di noi.

In questi giorni siamo nuovamente di fronte ad una di quelle occasioni. Se fosse colta sarebbe non una svolta ma una rivoluzione.

(11 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 13, 2008, 02:43:15 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Oggi possiamo cambiare il Paese

di EUGENIO SCALFARI


SOLE e nuvole si alternano nei cieli d'Italia in questi giorni di un aprile che trattiene ancora una coda d'inverno ma preannuncia col verde dei prati e il profumo dei fiori la più dolce stagione dell'anno. Così ci auguriamo che sia anche per la società italiana, appesantita dai tanti fardelli del passato ma desiderosa di riprendere slancio e di lavorare per un futuro meno avaro di speranze e di risultati.

Vedo che la preoccupazione maggiore di molti osservatori delle vicende politiche, giunti alla scadenza della campagna elettorale, si appunta sul dopo elezioni. Quale che sia l'esito, vinca l'uno o l'altro dei due principali competitori, si teme che dalle urne non esca una netta vittoria e di conseguenza un governo più affannato a durare che capace di affrontare i problemi di fondo che incombono sull'Italia, sull'Europa e sul mondo intero.

Si ripropone a questo punto un tema con il quale siamo alle prese da quindici anni, cioè dall'irruzione di Silvio Berlusconi nella politica: quello della sua legittimità, quello dell'anomalia da lui introdotta nella democrazia italiana e della sua demonizzazione da parte di quella metà del Paese che non si riconosce in lui e lo considera a tutti gli effetti il nemico pubblico numero uno.

Questo diffuso sentimento di delegittimazione che provoca inevitabilmente un'analoga reazione, condizionerà la fase politica successiva al voto? Renderà ancora più arduo governare? Spingerà il vincitore a esercitare vendette e discriminazioni contro i perdenti? Trasformerà l'autorevolezza in autoritarismo seguendo uno schema purtroppo frequente nella nostra storia?

La maggior parte degli osservatori indipendenti riconosce a Walter Veltroni d'aver condotto una campagna elettorale misurata e responsabile, senza toni di rissa, senza attacchi scomposti all'avversario, innovativa ed equilibrata sugli impegni assunti con gli elettori. Il timore che si fa strada in queste ore di pausa e di attesa, anche di fronte alle frequenti incontinenze del leader di centrodestra, è che questo clima possa radicalmente cambiare.

L'esperienza dei due anni passati, durante i quali l'opposizione di centrodestra non ha fatto altro che puntare sulla "spallata" per sgominare l'esile maggioranza di Prodi al Senato pesa giustamente nel ricordo di quanti seguono con attenzione le vicende della politica. Non potendo chiedere a Berlusconi di correggere la sua natura, lo chiedono a Veltroni: quale che sarà la sua posizione post-elettorale, spetterebbe a lui e sopportare con inesauribile pazienza gli spiriti animali dell'avversario.

Doppio gravame per Veltroni e per quella metà del paese che non si riconosce in Berlusconi: blandirlo in caso di vittoria dei democratici, sopportarlo se fosse lui a prevalere di poco senza imitare quanto lui stesso fece. Chiedere che i democratici ed il loro leader si assumano questa duplice responsabilità significa considerarli come la parte politica più responsabile. Per certi aspetti suona come un titolo di merito, per altri somiglia ad una "mission impossible": fare da punching ball non piace a nessuno e non sta scritto in nessun luogo che sia sempre e comunque utile al Paese.

In realtà - chi lo conosce bene lo sa - non è un fascista e neppure un dittatore nel senso militaresco del termine. Non è spietato. Non è xenofobo. Non è razzista. Berlusconi è un pubblicitario. Un venditore. Venderebbe qualunque cosa. Sia detto senza offesa per i pubblicitari di professione: lui è pubblicitario nell'anima, venditore nell'anima.

Quando vende patacche (e gli accade spesso) si convince rapidamente che la sua patacca vale oro zecchino. Perciò è bugiardo con la ferma convinzione di dire sempre la verità. Come tutti i venditori bugiardi è un imbonitore. Come tutti gli imbonitori è un demagogo. Non ha il senso della misura. Strafà. Non rispetta nessuna regola perché le regole le fa solo lui. Guardate l'ultimo atto della sua campagna elettorale, venerdì sera. Pochi minuti alla mezzanotte. Matrix, cioè casa sua, Canale 5. Conduttore Enrico Mentana.

Prima di lui aveva parlato Veltroni per cinquanta minuti. Lui era stato brevemente intervistato da Mimun per il telegiornale delle 20. Poi si era ritirato nello studio del direttore e di lì aveva ascoltato il "récit" del suo avversario. Infine è arrivato il suo turno e ha impiegato gran parte del tempo a ribattere gli argomenti di chi l'aveva preceduto con molta enfasi e parecchi insulti.

Tanto Veltroni era stato pacato e raziocinante tanto lui ha mostrato i denti e la rabbia, ma fin qui niente di speciale, il bello, anzi il bruttissimo, è venuto dopo quando il suo show era terminato, Mentana aveva dichiarato chiusa la trasmissione e aveva cominciato ad illustrare il modo di votare correttamente con davanti un tabellone che riportava un facsimile di scheda elettorale.

Lui non se n'era andato dallo studio, era sempre lì ma fuoricampo. A un certo punto, nello stupore generale, è rientrato in campo, si è sostituito a Mentana ed ha indicato lui il modo di mettere la crocetta sulle schede. Prima che accadesse il peggio, che in realtà stava già accadendo, Mentana ha chiamato la pubblicità e l'indebito spettacolo è stato oscurato. Quest'episodio rivela meglio di qualunque discorso la natura del personaggio e dei suoi spiriti animali.

L'Economist ha scritto che Berlusconi è inadatto a governare una nazione. "Unfit". Non è un insulto e neppure una demonizzazione. Semplicemente una constatazione. "Unfit". Inadatto. Metà degli italiani, da Casini fino a Bertinotti passando per i democratici, la pensano esattamente allo stesso modo e così pure i governi e il Parlamento europei.
Si dirà: contano i voti che usciranno dalle urne. Giustissimo, contano i voti e solo i voti. Resta un Paese diviso in due non soltanto per differenze politiche ma anche da un giudizio sulla persona: "unfit", inadatto, imbonitore, demagogo, venditore di patacche. Metà del Paese pensa questo, ne ha conferma tutti i giorni e sarà molto difficile che cambi idea.

Ci sono infinite altre prove della sua "unfitness" oltre alla miseranda scenetta a Matrix. La più rivoltante è la proclamazione di Mangano, il finto stalliere di Arcore ad eroe. Non si capisce quale tipo di eroismo sia stato il suo, ma sappiamo che è stato condannato a tre ergastoli per associazione mafiosa.

Sappiamo anche che Dell'Utri è in qualche modo connesso a un tentativo di taroccare le schede degli italiani all'estero: un mafioso latitante in Argentina gli ha telefonato proponendogli quell'imbroglio ma Dell'Utri ha risposto di non esser lui la persona adatta e l'ha indirizzato al responsabile del suo partito per gli elettori all'estero, senza però informare di quel contatto né la magistratura né il ministero dell'Interno. Mentre brogli veri si preparano, il leader già ora, in via preventiva, manda in scena una campagna contro i brogli supposti per precostituirsi un alibi in caso di sconfitta elettorale come già fece per tutti i due anni del governo Prodi. "Unfit".

Sostiene di aver lasciato nel 2006 i conti pubblici in perfetto ordine. La controprova sta nelle cifre a causa delle quali siamo stati per due anni messi sotto processo dall'Europa e ne siamo usciti solo dopo le leggi finanziarie di Paoda-Schioppa.

Sostiene anche di aver realizzato il suo "contratto con gli italiani" per l'85 per cento durante gli anni del suo governo, ma in realtà non ha realizzato se non il 15 perché nessuna delle proposte è diventata legge pur disponendo di 100 voti di maggioranza alla Camera e 50 al Senato. Quei voti servivano ad approvare le leggi a suo personale beneficio, dall'abolizione del falso in bilancio alle norme giudiziarie che accorciavano i tempi di prescrizione dei processi, alla Gasparri che ha mantenuto in vita Retequattro contro le reiterate sentenze della Corte.

"Unfit". Si potrebbe e forse si dovrebbe continuare, ma a che pro? L'altro giorno ho ricevuto una lettera da un lettore che mi rimprovera perché - dice lui - ho un pregiudizio contro. Io non ho pregiudizi contro e neppure a favore. Esamino la realtà e conosco le persone. Lui è inadatto.

Venderebbe la Cupola di San Pietro al primo che ci creda. Purtroppo molti ci credono. Forse gli inadatti sono adatti ad una parte di questo Paese il quale, non a caso, è in declino. L'altro ieri l'Ocse ha dimostrato che il nostro declino ha toccato il culmine nel quinquennio 2001-2006. È proprio il quinquennio del suo governo. Sarà magari un caso ma è un dato di fatto e coi dati di fatto non si può polemizzare.

Il pareggio elettorale non ci sarà, o vince uno o vince l'altro. Ma al Senato questa regola vale di meno. Può accadere che uno vinca con una maggioranza relativa e non assoluta. Oppure con una maggioranza di pochissimi voti come fu per Prodi. Tuttavia chi vince anche per un solo voto dovrà governare perché questa è la regola in democrazia.

Veltroni ha proposto un patto di "lealtà repubblicana" che significa un'opposizione che controlla, propone alternative, ma non paralizza l'azione del governo votato dalla maggioranza. Berlusconi ha rifiutato questa proposta.

Questo è lo stato dei fatti. Voglio ancora una volta ricordare la frase di Petrolini a chi l'aveva fischiato.
Disse: "Io nun ce l'ho cò te ma cò quelli che te stanno vicino e nun t'hanno buttato de sotto". È la terza volta che la cito perché descrive splendidamente la situazione e mi sembra una buona chiusura nel giorno in cui andiamo a votare.

Si è creato in queste ultime ore un sommovimento nella pubblica opinione che ricorda quanto avvenne nel 1991 con il referendum di Mario Segni: un voto corale che fece saltare la Prima Repubblica ormai logora e dominata da una logora casta. Questo stesso sentimento può prevalere domani. Domani si può voltar pagina e aprire un ciclo nuovo che rimetta la politica al livello di un'Italia desiderosa di cambiare. Non sprecate questa grande occasione. Siate popolo sovrano perché è questo il vostro giorno.

(13 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 20, 2008, 03:36:44 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Per chi suonano le campane di Bossi

di EUGENIO SCALFARI


ROMA - Io non credo che chi ha sperato nella vittoria del Partito democratico abbia confuso i suoi sogni con la realtà e un paese immaginario con quello esistente. Credo che esistano due paesi reali, due contrapposte visioni della politica e del bene comune come sempre accade in tutti i luoghi dove è assicurata la libera espressione delle idee e la libera formazione di maggioranze che governano e di minoranze che controllano il rispetto della legalità e preparano le alternative future. Molti amici mi hanno chiesto nei giorni scorsi come mai chi si è battuto per la vittoria dei democratici (ed io sono tra questi) non ha percepito che essa era impossibile.

Ma non è vero. Sapevamo e abbiamo detto e scritto che sarebbe stato miracoloso riagguantare nelle urne elettorali un avversario che nel novembre del 2007, quando si è aperta la gara, aveva nei sondaggi un vantaggio di oltre 20 punti e c'erano soltanto quattro mesi di tempo prima del voto. Se l'avverarsi di un'ipotesi viene definita miracolosa ciò significa che le dimensioni dell'ostacolo da superare non sono state sottovalutate ma esattamente pesate per quello che realmente erano. Tuttavia un errore è stato certamente commesso: non è stata avvertita l'onda di piena della Lega.

Non se n'è accorto nessuno, gli stessi dirigenti di quel movimento ne sono rimasti felicemente stupiti. Fino alle ore 16 del lunedì elettorale la Lega veniva data nei sondaggi attorno al 6 per cento. Nessuno le attribuiva di più e i leghisti sarebbero stati soddisfatti di quel risultato. Stavano marciando verso il 9 per cento su scala nazionale con punte fino al 30 nel lombardo-veneto e successi consistenti in tutta la Padania anche sulla riva destra del Po, e non lo sapevano.

Se si confrontano i risultati elettorali tra il partito di Veltroni e quello guidato da Berlusconi e Fini, la differenza è più o meno di 4 punti, tra il novembre e l'aprile il recupero è stato dunque di 16 punti percentuali.

La vittoria della Lega in quelle dimensioni è stata la sorpresa e qui va approfondita l'indagine, scoperte le cause dell'errore e la natura profonda di ciò che è avvenuto senza trascurare la Lega siciliana di Lombardo e del suo alleato Cuffaro, che anch'essa merita la massima attenzione.

* * *

Si dice sempre più frequentemente che i termini di Sinistra e Destra non esprimono più la natura politica della realtà. Probabilmente è vero e non da poco tempo. Il crollo delle ideologie ha accelerato la rivelazione di un fenomeno già presente da anni.
Del resto quelle due parole sono nate e sono entrate nell'uso comune nel corso dell'Ottocento. All'epoca della Rivoluzione dell'Ottantanove non si parlava di Destra e di Sinistra, si parlava di monarchici e repubblicani e poi di montagnardi e di girondini, in Inghilterra di conservatori e di liberali. Al tempo d'oggi in una società come la nostra si può correttamente parlare di riformisti che puntano sulla modernizzazione del paese, dell'economia e dello Stato, ai quali si contrappongono coloro che vogliono recuperare l'identità e la sicurezza. In un certo senso sono anch'essi riformisti. Per realizzare modernità e innovazione ci vogliono profonde riforme, ma anche per recuperare sicurezza identitaria ce ne vogliono. Riforme in un senso, riforme in un altro. Due contrapposte visioni di Paese e di ruoli.

E' fin troppo ovvio dire che nell'una e nell'altra di queste visioni esistono elementi della visione opposta. E' diverso il dosaggio e questo fa una differenza non da poco che si estende ben oltre la politica, determina diversità di costume, di stili di vita, di impegno del tempo libero, di letture, di sentimenti, di scelte.
C'è infatti un altro elemento che entra in questo complesso incastro di messaggi e di dosaggi ed è un elemento tipicamente culturale. Si può definire come rapporto tra il tempo e la felicità.

Le generazioni più giovani sono state schiacciate sul tempo presente, la memoria del passato interessa loro poco o nulla, non sembrano disposte a condividere quel tanto di felicità attuale con le generazioni che le seguiranno. Questo rapporto tra felicità e tempo è un fenomeno relativamente recente e ha prodotto una serie di effetti non sempre positivi. Per esempio lo scarso tasso di nuove nascite e la richiesta sempre più pressante di protezione sociale ed economica. Un altro effetto lo si vede nel localismo degli insediamenti più produttivi e più ricchi: contrariamente a quanto finora era accaduto sono proprio le comunità più agiate ad aver perso di vista i cosiddetti interessi nazionali dando invece schiacciante prevalenza a quelli del territorio dove essi risiedono. Si tratta di un aspetto essenziale per capire la vittoria leghista di così ampie dimensioni. La Pianura Padana è un pezzo dell'Europa agiata; l'Italia peninsulare comincia a sud-est delle Alpi Marittime e a sud dell'Appennino Tosco-Emiliano, all'incirca seguendo la vecchia linea gotica d'infausta memoria.

Questo luogo sociale e politico considera, da trent'anni in qua, l'Italia peninsulare come un fardello da portare sulle spalle senza ricavarne alcun vantaggio. Perciò è ormai convinta della necessità di un federalismo fiscale che si riassume così: il peso delle tasse deve diminuire per tutti e almeno i due terzi del gettito dovrà rimanere sul territorio dove viene generato.
L'altro terzo andrà allo Stato centrale per i suoi bisogni primari cioè per il funzionamento dei servizi pubblici indivisibili.

Da questa concezione l'idea di una redistribuzione del reddito con criteri sociali e geografici è del tutto assente. Lo slogan per definire lo spirito di questa filosofia potrebbe essere "chi fa da sé fa per tre". Ognuno pensi ai suoi poveri, ai suoi bambini, alle sue famiglie, ai suoi artigiani, alle sue partite Iva. E vedrete che anche i "terroni" si troveranno meglio di adesso.

* * *

In un mondo globale questa visione significa costruire compartimenti stagni che separano le comunità locali dall'insieme. Significa dare vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e con dislivelli crescenti all'interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati e con contraddizioni mai viste prima.

Ne cito alcune. Le imposte pagate da imprese delle dimensioni di una Fiat, di una Telecom, di un Enel, di un Eni, di una Finmeccanica così come le grandi banche o le grandi compagnie d'assicurazione presenti in tutto il Paese, dove saranno incassate e da chi? Si scorporerà il loro reddito stabilimento per stabilimento, il valore del gas e del petrolio importati e altre grandezze economiche difficilmente divisibili sul territorio? Oppure per dare attuazione a questo tipo di federalismo fiscale si prenderà in considerazione la natura delle varie imposte e tasse? L'Iva resterà nei luoghi dove viene pagata? E le imposte sui consumi? E quelle sui redditi personali o aziendali? Un ginepraio. E' possibile che la creatività di Giulio Tremonti ne venga a capo, ma non sarà certo una facile impresa.
Segnalo tuttavia una contraddizione difficilmente risolvibile. La maggioranza relativa dei pensionati vive nelle regioni del Nord; in esse infatti c'è stato e c'è maggior lavoro e quindi maggiori pensioni. Nel Nord vive anche gran parte dei possessori di titoli pubblici.
L'erogazione delle pensioni e il pagamento delle cedole sui titoli di Stato costituiscono una fonte imponente di uscite dalle casse dello Stato verso le regioni del Settentrione.

Come verrà valutato in un'Italia a compartimenti stagni questo flusso imponente di spesa pubblica?
La verità è che l'idea di trattenere due terzi delle entrate sui territori locali è pura demagogia inapplicabile in quelle proporzioni. Ma intanto la gente ci crede così come crede anche che la sicurezza pubblica sarà migliorata se una parte dei poteri che oggi incombono all'autorità centrale sarà attribuita ai sindaci e ai vigili urbani.

* * *

Qui viene a proposito meditare sulla Sicilia autonomista di Lombardo e Cuffaro.
Si tratta di province potenzialmente ricche ma attualmente povere. Province deturpate da secoli di lontananza dal mercato e dalla presenza del racket, di poteri criminali, di traffici illegali e mafiosi.
Oggi è in atto, per merito di industriali e commercianti coraggiosi, una nuova forma di lotta contro il racket che ha già avuto le sue vittime e i suoi morti. La politica centrale e soprattutto quella locale avrebbero dovuto precedere o quantomeno affiancare questa battaglia ma non pare che ciò sia avvenuto, anzi sembra esattamente il contrario per quanto riguarda i poteri locali, molti dei quali infiltrati da illegalità e mafioseria.

Tra le istituzioni e la criminalità organizzata esiste da tempo e si allarga sempre più un'ampia zona grigia, un impasto di indifferenza, contiguità, tolleranza, collusione. Il confine tra la zona grigia e i mercati illegali non è affatto blindato anzi è largamente permeabile. Si svolge un continuo andirivieni da quelle parti, gente che va e gente che viene. Si attenuano le asprezze dell'ordine pubblico in proporzione diretta all'andirivieni sul confine tra zona grigia e poteri criminali. Più il potere criminale riesce a legalizzare i suoi membri, i loro figli, i loro nipoti, più diminuisce la crudeltà della lupara. Ricordate il Padrino? La dinamica è quella.

Ma torniamo alla Sicilia di Lombardo. Aumenteranno le richieste di denaro pubblico e di autonomia locale della loro gestione. Non dimentichiamo che i padri dei Lombardo e dei Cuffaro volevano il separatismo, così come il Bossi di vent'anni fa voleva la secessione. Adesso sia gli uni che gli altri hanno capito che una forte autonomia abbinata a un altrettanto forte separatismo fiscale configurano una secessione dolce e duratura.

I due separatismi del Nord e del Sud hanno come obiettivo primario le casse dello Stato e come conseguenza la competizione tra loro a chi riuscirà meglio nell'impresa.

E' infine evidente che per fronteggiare una situazione di questo genere i poteri di quanto resta dell'autorità centrale dovranno essere rafforzati da robuste dosi di autoritarismo per tenere insieme le forze centrifughe operanti in tutto il sistema.


* * *

Questo quadro è qui descritto al nero ma può anche essere raccontato in rosa anzi in azzurro: un'autorità centrale forte ma democratica, un'articolazione regionale rappresentata dal Senato federale non diversamente da quanto accade nel sistema tedesco.
Ma sta di fatto che la Germania dispone di elementi centripeti molto robusti mentre in Italia la centrifugazione localistica è una costante secolare, anzi millenaria.

Quella che un tempo si chiamava sinistra trovava la sua identità nell'ideologia della classe. Ma la classe ormai non c'è più e perciò la sinistra è affondata. E' curioso che per spiegare la sparizione della sinistra dal Parlamento del 2008 si cerchino motivazioni di carattere elettorale.

Eppure, specie da parte di chi ancora pensa marxista, la spiegazione è evidente: quando una certa struttura delle forze produttive viene meno, l'effetto inevitabile è che scompaia anche la sovrastruttura che quelle forze avevano prodotto e configurato. Questi fenomeni erano già presenti da anni nella società italiana; i nodi sono arrivati al pettine in questa campagna elettorale.
Il popolo sovrano che si è manifestato nelle urne elettorali del 14 aprile è, con una maggioranza di oltre tre milioni di voti, più localistico che nazionale, vive più il presente che il futuro, è più identitario che innovatore e più protezionista che liberale. Questi sono dati di fatto con i quali è difficile anzi inutile polemizzare. Il Partito democratico ha conservato per fortuna la memoria del passato ma ha cambiato posizione e linguaggio diventando la maggiore forza politica a sostegno dell'innovazione e della modernizzazione delle istituzioni e della società.
Per spostare su questa strada le scelte future del popolo sovrano ci vorrà però uno sforzo senza risparmio soprattutto in due settori: la presenza sul territorio e una progettazione culturale che capovolga quella esistente. Soprattutto nel rapporto tra il tempo e la felicità, che deve includere anche gli esclusi e i nipoti. Non è compito da poco, significa recuperare nello stesso tempo il valore del passato e la creatività del futuro. Perciò basta con le condoglianze e buon lavoro per la democrazia italiana.

(20 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 26, 2008, 10:04:44 am »

Eugenio Scalfari

Tsunami Leghe


Giornalisti, ma anche opinionisti e sondaggisti non avevano colto l'ondata leghista del nord e quella siciliana. E ora c'è molto da raccontare e da capire  Molti amici mi domandano: come ti senti dopo questa batosta elettorale? Rispondo: non sono contento. Perché dovrei esserlo? Ho un'altra visione e un altro sogno per l'Italia, anch'io ho il diritto, come ogni cittadino di questo Paese, d'avere un sogno e una mia visione.

Mi domandano anche: come mai non avevi percepito ciò che sarebbe accaduto? Tu sei un giornalista e vivi in mezzo a giornali che hanno redazioni e inviati in tutta Italia. I vostri contatti sono dunque imperfetti? Va bene sognare, ma la realtà l'avete persa di vista?

Queste osservazioni, anzi questo rimprovero, lo leggo anche su molti giornali. Editorialisti e osservatori di spicco che fino a l'altro ieri raccontavano le vicende politiche italiane senza accorgersi dell'ondata di piena leghista né di quella siciliana di Lombardo e Cuffaro, adesso si domandano come mai i loro stessi giornali non abbiano 'sentito' lo tsunami che stava arrivando. E loro, quegli stessi editorialisti e osservatori, l'avevano sentito? I sondaggisti (non tutti ma una larga maggioranza) si erano accorti che la Lega marciava verso il 10 per cento e Lombardo verso il 65 dei voti siciliani?

Ma voglio parlare di me, che faccio, spero non indegnamente, questo mestiere da 60 anni, non nascondo (non l'ho mai fatto) le mie preferenze politiche ma cerco (ho sempre cercato) di raccontare i fatti così come riesco a percepirli.

Ero convinto che il Partito Democratico avesse dato un avvio profondamente innovativo alla campagna elettorale. Di questo avvio tutti gli hanno riconosciuto il merito, lo stesso Berlusconi l'ha ammesso e venendo da lui non è un riconoscimento da poco. Portare il PD da solo nell'arena elettorale ha messo in moto un sommovimento sistemico e gli effetti si sono visti: il partito del riformismo di centrosinistra ha per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana una consistenza reale e può, se saprà farlo, dare vita ad un'alternativa permanente con una destra ancora gremita di non risolte contraddizioni.


Poteva vincere o almeno pareggiare il risultato elettorale questo partito nato appena sei mesi fa dopo tre anni di travagliata incubazione?

Ricordano tutti che quando Veltroni accettò la leadership del PD i sondaggi davano la sua consistenza al 22 per cento. Confrontare i voti raccolti il 14 aprile con quelli dell'Ulivo del 2006 non tiene conto che tra il maggio 2006 e l'ottobre 2007 ci sono stati diciotto mesi di impopolarità crescente intorno al governo Prodi, una rissa continua dentro la sua maggioranza e dentro lo stesso governo, un aumento del costo della vita proveniente dall'estero, ma che comunque faceva percepire ai ceti del lavoro, ai pensionati, alle casalinghe, un taglio del reddito reale difficile da sopportare.

Tutti pensavano - ed io tra questi - che vittoria o pareggio del PD sarebbero stati un miracolo. Lo stesso Veltroni l'ha così definito più di una volta. La parola miracolo definisce un evento di cui la ragione esclude la realizzazione, un'ipotesi impossibile di terzo grado se non, appunto, vi sarà un intervento miracoloso.

Di tutto ciò eravamo dunque tutti ben consapevoli. Che cos'è dunque che non avevamo capito?

L'ho già detto: non avevamo capito l'ondata leghista e quella siciliana. La Lega è stata valutata, fino alle ore sedici del lunedì elettorale, intorno al 6 per cento su scala nazionale. I siciliani di Lombardo erano accreditati dello zero virgola, nel confronto regionale attorno al 50 per cento. La sconfitta del PD per le dimensioni che ha avuto è venuta da lì, dalle due Leghe, quella del nord e quella siciliana. Aggiungo che il divario tra il PD senza Di Pietro e il PDL senza le Leghe è stato di quattro punti e non di nove.

Non è questa la sede per esaminare i flussi elettorali verificatisi il 14 aprile, ma una cosa va detta: sono stati flussi imponenti che hanno cambiato la geografia politica del Paese. Lo zoccolo duro di Forza Italia si è dimostrato il più resistente poiché quel partito è stato rivotato dall'82 per cento di coloro che l'avevano scelto nel 2006. Dunque non è più il partito di plastica di dieci anni fa. L'altro consistente zoccolo duro se lo accredita il PD con il 63 per cento di elettori che avevano votato Ulivo due anni prima. Ma gli altri partiti sono stati teatro di veri e propri terremoti. La Sinistra Arcobaleno è scesa dall'11 al 3 per cento. L' elettorato di Casini è rimasto stabile per poco più di un terzo, ma il resto dei consensi raccolti provengono dal centrodestra e dal centrosinistra ai quali cede a sua volta percentuali importanti. Ma anche la Lega ha avuto il suo sisma e non da poco. E anche Di Pietro. Sismi positivi per entrambi.

La Lega ha tolto a Forza Italia e ad An 800 mila voti nel Lombardo Veneto. Lombardo in Sicilia ha drenato 7 punti percentuali ai due partiti uniti nel PDL: ebbero il 40 per cento nel 2006, ne hanno avuto il 33 per cento il 14 aprile.

Una mobilità elettorale estrema: questo abbiamo visto. C'è molto da capire ancora e, per noi giornalisti, molto da raccontare. Questa, per chi fa con impegno il nostro mestiere, è una buona notizia.

(24 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Aprile 27, 2008, 11:08:17 am »

POLITICA

La nazione è più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente di una minoranza e la speranza di recuperarne l'unità è diventato un pallido miraggio

Lo specchio d'Italia è sempre più rotto

La secessione del Nord è un altro segnale di indebolimento del paese e la conseguenza più vistosa è l'affondamento di Alitalia

di EUGENIO SCALFARI


HO ascoltato venerdì sera Alemanno e Rutelli a "Matrix" come li avevo ascoltati pochi giorni prima da "Ballarò". Più o meno ripetevano le stesse cose come in tanti altri comizi e trasmissioni. Del resto sarebbe ingeneroso pretendere che ogni sera cambino battute e repertorio, accade anche in teatro, se vai a vedere una commedia, una tragedia, un "musical", il copione è quello, non può subire variazioni di rilievo.
Alemanno ha battuto e ribattuto sull'insicurezza e la paura della gente e ce l'ha messa tutta per farla aumentare.

Rutelli ha denunciato quella tecnica allarmistica e ha descritto i modi per risolvere un problema che affligge le metropoli di tutto il mondo da New York a Parigi, da Londra a Rio, da Amburgo a Canton, a Shanghai, a Mosca, a Washington e naturalmente a Milano e a Roma.

Ma venerdì sera Alemanno ad un certo punto un'improvvisazione l'ha fatta: ha detto che in sedici anni di centrosinistra al Campidoglio, Rutelli prima e Veltroni poi non sono riusciti a cambiare il volto della città come invece hanno fatto i francesi a Parigi e i tedeschi a Berlino. "Berlino - ha detto Alemanno - era ancora pochi anni fa una città di rovine, oggi è splendidamente risorta diventando una grande metropoli moderna. Perché voi non siete riusciti a cambiare Roma?".

Rutelli gli ha risposto mostrando fotografie di lavori importanti che sia lui sia Veltroni hanno promosso, il piano regolatore che hanno varato, le brutture che hanno eliminato, ma il suo contraddittore continuava a scuotere la testa e a denunciare l'assenza d'una nuova identità della nostra "caput mundi".
Per fortuna, dico io, che Roma non è stata cambiata. Per fortuna. E come poteva esserlo?

A Roma convivono almeno cinque diverse metropoli: quella dei ruderi e delle rovine dell'impero di Cesare e di Adriano, quella rinascimentale e papalina, quella barocca, quella dei quartieri piemontesi del nuovo regno, quella moderna da Piacentini all'"Ara Pacis" di Meier. Queste città si sono aggiunte e intrecciate l'una con l'altra.

Certo hanno creato problemi: di traffico, di adattabilità, di struttura urbanistica, ma hanno creato e mantenuto un esempio irripetibile di storia, di estetica, di multipresenza che non ha eguali nel mondo, dai Fori Imperiali all'Auditorium, lungo venti secoli di continua evoluzione.

Ad Alemanno non piace? Vorrebbe metterci le mani? In nome del cemento palazzinaro?

* * *

Oggi e domani si concluderà questa lunghissima gara elettorale con gli ultimi ballottaggi. Sei milioni di elettori ancora alle urne, ma il senso e il risultato politico ci sono già stati due settimane fa: Berlusconi ha vinto, la Lega soprattutto tiene in mano la partita e ha posto il suo sigillo sui prossimi cinque anni.
Molti hanno scritto e detto che dalle urne del 14 aprile è uscito un elemento apprezzabile di maggiore semplificazione parlamentare e di più solida stabilità. Lo specchio rotto è stato almeno in parte ricomposto e ne emerge una visione del paese che può piacere ad alcuni e dispiacere ad altri ma è comunque percepibile e meno magmatica di prima.

L'ho detto anch'io ma sono bastati quindici giorni per smentire quest'unica e timida speranza: lo specchio in cui il paese dovrebbe riflettersi è più frammentato e sconnesso di prima, la riduzione da trenta a quattro o cinque partiti è una chimera, la nazione italiana è più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente d'una minoranza e la speranza di recuperarne l'unità è diventata un pallido e lontano miraggio.

Lo si vede da molti segnali: la secessione del Nord ne è il dato più appariscente, l'affondamento dell'Alitalia ne è la conseguenza più vistosa, la regressione missina del centrodestra ne rappresenta l'inevitabile contraccolpo cui fa da controcanto il sussulto identitario dell'estrema sinistra.

Le rauche invettive di Beppe Grillo completano il quadro d'una società che sembra avere smarrito ogni bussola, ogni orientamento, ogni immagine di sé, ogni memoria del suo passato ed ogni progettualità del suo futuro. Si va avanti alla giornata senza timone e senza stelle.

* * *

Berlusconi - non il governo Prodi che non c'è più - ha buttato nella fornace Alitalia 300 milioni presi dalle casse pubbliche per guadagnare tre o quattro mesi di tempo.

In attesa di chi e di che cosa? Alitalia non può esser rimessa in piedi da sola. Non è una questione di soldi ma di imprenditorialità e di dimensioni. Non esiste neppure una remota probabilità di una compagnia aerea italiana che abbia da sola un ruolo internazionale.

Aeroflot è una compagnia regionale e statale ancor più piccola del rottame Alitalia. Lufthansa pone condizioni ancora più severe di quelle di Air France.

Gli italiani chiamati da Berlusconi a contribuire alla cordata patriottica si riducono a Ligresti e forse a Tronchetti Provera. Se tra tutti e due metteranno insieme 150 milioni sarà un miracolo. Le banche tireranno fuori un finanziamento solo se ci sarà un piano industriale.

Bruxelles non accetterà mai un aiuto di Stato per rianimare un moribondo, l'ha già concesso una volta e non è servito a niente. Londra, Berlino, Parigi son lì a vigilare perché una violazione delle regole europee in un settore strategico come l'aeronautica non avvenga.
Tutta questa incredibile storia è la degna inaugurazione del Berlusconi-ter. Bossi se ne frega, il Nord secessionista vola benissimo con i suoi aeroporti padani.

Da lui Berlusconi non avrà nessun aiuto per Alitalia ladrona.

* * *

Ho letto con interesse l'intervista alla "Stampa" di Veronica Lario in Berlusconi. Abbiamo scoperto che la signora è leghista nell'animo anche se il 14 aprile ha votato, come era logico, per il marito. Abbiamo anche appreso che il figlio Luigi se ne infischia della politica, si occupa di finanza e gli basta. La politica è solo imbroglio. Valeva la pena, signora Berlusconi, di mandarlo alla scuola steineriana? Che la politica fosse solo imbroglio poteva tranquillamente impararlo in famiglia, gli esempi domestici erano ampiamente sufficienti. Almeno, così ci sembra ed è lei stessa che più d'una volta ce l'ha fatto capire.

* * *

La signora Marcegaglia, nuovo presidente di Confindustra, si è già guadagnata diversi Oscar: è donna, è tosta, anzi virile, ha le idee chiare in tema di rapporti con i sindacati con il governo e soprattutto con i suoi associati.

Non mi ha affatto scandalizzato la sua colazione a Palazzo Grazioli con il futuro presidente del Consiglio insieme a Luca Montezemolo officiato per un ministero. Perché no? Non c'è niente di male che un industriale diventi ministro, in Usa accade spesso ed anche in Europa. L'ipotesi non piacerebbe affatto ai colonnelli di Forza Italia e di An. A Bossi invece, anche su questo terreno, non gliene importa niente: lui i suoi ministri li avrà e nessuno glieli può levare.

C'è una sola cosa che non mi è piaciuta della Marcegaglia: ha dichiarato che la Confindustria non si occuperà più di legge elettorale né di altre questioni istituzionali, ma soltanto della sua missione di sindacato degli industriali.

Mi sbaglierò, ma è una dichiarazione grave per chi, come me, ha sperato che prima o poi gli imprenditori italiani diventassero una borghesia.

Diventare borghesia significa avere un'idea di Paese entro la quale collocare i propri legittimi interessi di azienda e di categoria.

Bossi ha una sua idea di Paese nord e di tutto il resto si disinteressa. Ma gli industriali italiani non sono solo al Nord. La Confindustria di Montezemolo sembrò avere una sua idea di Paese e si interessò di legge elettorale e di altre questioni istituzionali.

La signora Marcegaglia cambia rotta? Vuol dire che non ha un'idea di Paese o quanto meno non ce l'ha come presidente di Confindustria. Non crede che sia una questione riguardante la rappresentanza degli industriali.

Il suo dirimpettaio Bonanni, segretario della Cisl, la pensa allo stesso modo. Quelli della Fiom anche. Epifani sembra di no, lui un'idea di Paese ce l'ha come tutti i suoi predecessori da Di Vittorio a Trentin a Lama e a Cofferati. Ma anche la Cgil sta diventando una minoranza, la sua gente nel Nord le preferisce Maroni e Calderoli.

Ecco perché dico che lo specchio è più rotto di prima.

(27 aprile 2008)
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 04, 2008, 11:23:26 am »

POLITICA

Il potere blindato della destra

di EUGENIO SCALFARI

CIRCA mezzo secolo fa - forse qualcuno ancora se lo ricorda - Mina lanciò una canzone che diceva così: "Renato Renato Renato/così carino così educato". Mi è tornata in mente ascoltando il discorso del neo-presidente del Senato, Renato Schifani, che fino a pochi giorni fa era soprannominato "iena ridens" per la sua capacità di ripetere i voleri del Capo e i suoi truculenti insulti al popolo di sinistra con un ghigno sul volto che non presagiva nulla di buono. Oggi si è trasformato: così carino così educato. La canzone di Mina gli si attaglia perfettamente.

E si attaglia anche a Gianfranco Fini, neo-presidente della Camera, e a Gianni Alemanno, neo-sindaco di Roma. Le loro movenze sono diverse da quelle di Schifani, hanno un pizzico di volontà di potenza in più e un maggior orgoglio di sé. Non sono - oggi come ieri - lo scendiletto del Capo, hanno un loro partito, una loro provenienza, una loro storia (anche se poco commendevole) dietro le spalle. Ma anche loro "governano per tutti i cittadini" anche se non per conto e in nome di tutti. Anche loro promuoveranno i talenti al di sopra degli steccati partigiani. Anche loro insomma non sono più politici politicanti ma statisti governanti. C'è da credervi?

Io penso di sì, c'è da crederci. Del resto non si è mai visto in democrazia qualcuno che, arrivato al potere sulla base del libero voto popolare, si metta a proclamare che lo userà per favorire la sua parte. Non lo fece neppure Mussolini dall'ottobre del '22 al gennaio del '25. Aveva vinto le elezioni, sia pure con una porcata di legge, e aveva formato un governo di coalizione con dentro vecchi cattolici e ancor più vecchi moderati.

Poteva fare, come disse, dell'aula sorda e grigia di Montecitorio un bivacco di manipoli, ma lo fece soltanto due anni dopo sulla scia del delitto Matteotti. La dittatura rompe le regole della democrazia e rende inutile l'ipocrisia. Il Parlamento fu abolito, i partiti dissolti salvo il suo che fu identificato con lo Stato, la libera stampa mandata in soffitta, come ha auspicato Beppe Grillo e le centinaia di migliaia dei suoi seguaci paganti nel "Vaffa-day" del 25 aprile.

Questa volta le cose non andranno così per molte ragioni. Il mondo è globale, l'economia è globale, la cultura è globale, le informazioni sono globali e anche il commercio è globale. L'Italia è una regione dell'Europa. La nostra moneta è quella europea. Una dittatura totalitaria oggi è impensabile in Europa e in Occidente. E poi la classe dirigente del centrodestra non ha alcuna somiglianza con lo squadrismo diciannovista.

Perciò quel pericolo non c'è. Ce ne sono altri che possono suscitare serie preoccupazioni.

* * *

I marxisti spiegavano la storia dei popoli attraverso il rapporto tra le forze produttive e le istituzioni chiamando le prime "struttura" e le seconde "sovrastruttura". Lo ricorda Giorgio Ruffolo nel suo bellissimo libro "Il capitalismo ha i secoli contati" che è la più lucida ricostruzione della globalizzazione che stiamo vivendo e dei fenomeni che l'hanno preceduta.

Tra la struttura e la sovrastruttura non esiste un rapporto di automatica determinazione come pensavano rozzamente i marxisti militanti del secolo scorso. C'è invece una continua interazione, un reciproco condizionamento. Io credo che l'emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi strutturale delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione.

Questo mutamento strutturale spiega anche la nascita del partito "liquido" dei democratici, la sconfitta del partito cattolico come arbitro centrista che era nel disegno di Casini, infine l'affondamento della sinistra massimalista.

Il comportamento più strano, ai confini dell'assurdo, è stato proprio quello della sinistra radical-massimalista, che ha attribuito a Veltroni la sua scomparsa e ha punito con il voto e con l'astensione Rutelli per castigare il leader democratico. Per gli ultimi marxisti militanti è un errore squalificante non rendersi conto che le strutture negli ultimi quindici anni sono completamente cambiate ed hanno determinato una rivoluzione sovrastrutturale. La sinistra radicale, le sue ideologie, i suoi slogan, la sua organizzazione politica galleggiavano sul vuoto che essa stessa aveva ulteriormente aggravato segando l'ultimo ramo che ancora la sosteneva e cioè l'operatività del governo Prodi.

Il loro stupore per la scomparsa del loro mondo, quello sì, è stupefacente e direi senza appello: chi ha smesso di pensare smette di vivere. Questo è accaduto, con buona pace di Sansonetti, direttore del più assurdo (e come tale utile) giornale oggi in circolazione.

* * *

L'ascesa al potere del triumvirato Berlusconi, Bossi, Fini-Alemanno, che si completa in quadrumvirato con l'inevitabile cooptazione del siciliano Lombardo, si fonda su una precisa ideologia, sì, riemerge l'ideologia, è un fatto nuovo del quale è bene prendere atto. Chi l'ha declinata meglio di tutti è stato Fini nel suo discorso alla Camera dei deputati.

Si basa sulle radici cristiane, anzi cattoliche, sulla condanna del relativismo, sull'esistenza d'una verità assoluta e sulla morale che ne deriva. Sulla tolleranza (relativa) delle altre culture a discrezione del Principe. Sulla protezione e la sicurezza dei cittadini per mettere in fuga la loro insicurezza. Sulla convivenza tra il potere forte dello Stato e la società federale.

Berlusconi rappresenta il vertice del Triumvirato-Quadrumvirato: un tavolo a tre gambe, un triangolo retto che è sempre uguale a se stesso su qualunque lato venga poggiato perché il bello del populismo consiste nella ubiquità di Berlusconi, leghista, statalista, liberista, per naturale e plurima vocazione.

Perciò, salvo errori o malasorte, puntare su laceranti contrasti tra i triumviri è sbagliato: c'è trippa per tutti e anche per Grillo che dissoda il terreno dove i triumviri semineranno e raccoglieranno. Così saranno i cinque anni che ci aspettano. Buon pro ci faccia.
Ma dunque non c'è niente da fare? Al contrario, penso che ci sia moltissimo.

* * *

Una volta tanto provo a descrivere il Partito democratico in negativo, cioè per quello che non è. Un modo come un altro per disegnarne un profilo identitario.

Non è il partito dell'ideologia assolutista. Non è un partito con radici cattoliche o comunque religiose. Non è un partito liberista. Non è un partito classista. Non è il partito dello Stato forte. Non è un partito protezionista.

Quindi: è un partito laico e non ideologico, liberal-democratico, costituzionale di questa Costituzione e dei suoi principi fondativi. Non trasformista ma disponibile a partecipare - se potrà - all'elaborazione delle riforme istituzionali. Vuole un libero mercato nutrito di libera concorrenza, con regole efficaci e istituzioni capaci di farle rispettare. Un partito con una sua visione nazionale nel quadro di un'Europa federale.

Così sembra a me che debba essere.

Nell'idea originaria Veltroni ha puntato su una forma che fu definita "liquida", poggiata sul popolo delle primarie. Questa formula, che anche a me sembrava utilmente innovativa rispetto alla tradizionale forma-partito, si è invece rivelata inefficace. L'esperienza della campagna elettorale ha dimostrato che le primarie sono uno strumento selettivo utile ma non l'ossatura di un partito che deve vivere sul radicamento territoriale. C'è bisogno d'una struttura militante e identificata con gli interessi del territorio e di un vertice solido e plurimo che indichi le priorità e i mezzi disponibili per attuarle. Che non sia casta ma rappresentanza. Locale ma con visione nazionale.

Il Partito democratico rappresenta il solo sbocco politico possibile della sinistra italiana e deve perseguire quest'obiettivo. Rappresenta il solo sblocco possibile dei cattolici adulti, che abbiano intensi sentimenti di fede e non di idolatrie o di calcoli politicanti. Questi cattolici sono minoranza tra i tanti battezzati indifferenti e ruiniani? Ma i cattolici veri, quelli di fede e di responsabilità personale, sono sempre stati minoritari, quello è il loro vanto e la loro dignità religiosa così come lo è per i laici non credenti ma rispettosi del sacro e delle sue non idolatriche manifestazioni.

Ricordo qui una lezione di Ugo La Malfa: impegnò la sua vita politica per cambiare la sinistra di cui si sentiva parte, per cambiare la Democrazia cristiana con la quale fu alleato e per cambiare il capitalismo italiano trasformando gli imprenditori in una consapevole borghesia.

Secondo il mio modo di vedere il Partito democratico deve farsi portatore di analoghe e alte ambizioni che sono al tempo stesso culturali sociali e politiche.

Il riformismo di centrosinistra in un paese come il nostro è minoritario. Lo è sempre stato ma ha, deve avere, vocazione maggioritaria. Del resto le grandi trasformazioni sono sempre state - e non solo in Italia - realizzate da minoranze che seppero operare nel senso della storia programmando il futuro, rappresentando il paese vitale e responsabile, consapevole dei difetti, dei limiti e delle virtù degli italiani.

Un gruppo dirigente coeso e non castale può e dev'essere animato da una grande ambizione. La sconfitta è stata dura, gli errori ci sono stati. Ambizione, non vanità. Dialogo, non trasformismo. Pragmatismo, non improvvisazione.

C'è molto da fare.


(4 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 12, 2008, 09:55:13 pm »

Eugenio Scalfari

Grillo l'arcitaliano

L'ultima impresa di questo scarmigliato profeta ha preso di mira Visco e l'Agenzia delle entrate rei di avere pubblicato i redditi su Internet. Compreso il suo: 4 milioni e 200 mila euro. In edicola da venerdì  Beppe GrilloDiscutendo con amici della situazione presente, che certo non è tra le più semplici da interpretare e delle più liete da vivere per chi la pensa come me, qualcuno ha posto la domanda di chi sia il personaggio che più da vicino rappresenti i difetti degli italiani. Chi sia insomma l'arcitaliano del peggio.

Ci sono state varie risposte. C'è chi ha fatto il nome di Mussolini. Chi ha proposto Giulio Andreotti. Chi Berlusconi. Personaggi, come si vede, molto diversi l'uno dall'altro, con ciascuno dei quali tuttavia una larga maggioranza di italiani si è di volta in volta identificata per un lungo tratto di anni: vent'anni per Mussolini, altrettanti per Andreotti e già una quindicina per Berlusconi.

Ma uno degli amici con i quali si faceva chiacchiera su questo argomento più per passatempo che per analisi seria, alla fine se n'è uscito col nome di Beppe Grillo. E allora la chiacchiera svagata si è riscaldata e le opinioni si sono divise. Grillo - a suo modo - denuncia la casta politica e la licenzia ogni sera con il suo 'Vaffa' che non risparmia nessuno: destra e sinistra, politici e magistrati, imprenditori e sindacati, banchieri e giornalisti. Una condanna generale di tutta la classe dirigente, dal Capo dello Stato all'ultimo dei portaborse, con l'intenzione che scompaiano dalla scena e non tornino mai più e con l'invito al popolo di prendere nelle sue mani il destino del Paese e di rivoltarlo sottosopra.

Questa condanna generale, che ha trovato nel libro di due valenti colleghi il suo vangelo, è ampiamente condivisa dal medio ceto e anche dai ceti popolari, operai, artigiani. Ma non soltanto: quelli che un tempo militavano all'estrema sinistra sono animati da sentimenti di rigetto analoghi, sicché intorno ai 'Vaffa' che la voce rauca e urlante dell'ex comico autopromossosi a tribuno della plebe lancia puntualmente si è raccolta una vasta platea di italiani.

Se Beppe Grillo è il personaggio che meglio incarna i difetti degli italiani ma, nello stesso tempo, è il leader di tutti coloro che avversano la casta dei potenti e dei privilegiati, si dovrebbe arrivare alla paradossale conclusione che se Grillo rappresenta il peggio la casta rappresenterebbe il meglio del Paese. Paradosso certamente inaccettabile.

Ecco perché la discussione su Grillo incattivisce gli animi, divide opinioni un tempo concordi ed ha contribuito in modo non marginale alla vittoria elettorale del 'Popolo della Libertà'.

Ho scritto domenica scorsa su 'Repubblica' che Grillo dissoda il terreno sul quale Berlusconi e Bossi gettano i semi e raccolgono i frutti; se guardate al fondo delle cose vi accorgerete che esse stanno esattamente in questa maniera.

L'ultima impresa di questo scarmigliato profeta ha preso di mira Vincenzo Visco e l'Agenzia delle entrate, rei di aver pubblicato sul sito Internet della stessa agenzia le dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti, già rese pubbliche da una legge vigente fin dal 1973 (ministro delle Finanze Rino Formica). La legge non prevede che le dichiarazioni siano rese note on line poiché all'epoca Internet non esisteva, ma successivamente alcuni giornali utilizzarono questa nuova tecnologia senza che l'Agenzia della privacy avesse nulla da eccepire.

Ma il Grillo di oggi ha da eccepire (e con lui il Codacons) e paragona la diffusione dei 740 ad una sorta di crocifissione, un martirio che deve esser pagato severamente dagli aguzzini e cioè da Visco. A sua volta l'Agenzia della privacy è entrata in fibrillazione e così pure la Procura di Roma che ha aperto un'indagine contro ignoti.

Ma perché Grillo si agita? La risposta è semplice: nell'elenco dei contribuenti c'è ovviamente anche il suo nome (ed anche il nostro); risulta che nell'anno in questione il Profeta abbia dichiarato un reddito di 4 milioni e 200 mila euro. In questa notizia non c'è nulla di scandaloso se non un aspetto: Grillo non ha un lavoro retribuito, la sua esclusiva attività già da molti anni è appunto quella del Profeta politico che 'giudica e manda'. Naturalmente alle sue adunate in teatro i partecipanti pagano un biglietto di ingresso, i più entusiasti versano contributi per finanziare i raduni e acquistano i Dvd dove sono raccolte le parole del tribuno. Questi incassi - ripetiamolo - dovrebbero servire a preparare e diffondere nuove iniziative ma evidentemente c'è un sovrappiù che Grillo considera come proprio reddito personale e che nell'anno in questione ha lasciato nelle sue mani l'equivalente di 8 miliardi di vecchie lire.

Il Nostro, come molti, predica bene e razzola malissimo. Perciò mi sembra giusto annoverarlo tra i personaggi emblematici dell'Italia peggiore.

(08 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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