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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 281190 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 23, 2007, 11:03:12 pm »

POLITICA

L'Italia non è triste ma è solo schifata

di EUGENIO SCALFARI


La discussione sulla legge elettorale non è molto popolare. Le tv quasi non ne parlano salvo che in qualche salotto televisivo riservato ai pochi appassionati del politichese. I giornali e gli editorialisti si accostano all'argomento con toni sopraccigliosi (con l'eccezione di Giovanni Sartori che è uno specialista in chiarezza sulla materia). Il Paese ha bisogno di ben altro, scrivono, e giù l'elenco dei bisogni insoddisfatti e delle speranze tradite, che sono tanti e anche tanto antichi.

Lo stesso presidente della Repubblica - che pure ha fatto della riforma delle legge elettorale uno dei temi principali della sua predicazione democratica - l'altro giorno ha manifestato il suo malcontento nei confronti del governo per i troppi voti di fiducia ai quali è stato costretto a ricorrere, del resto nel solco aperto dal governo che l'ha preceduto e che peraltro disponeva nelle due Camere di maggioranze numericamente imponenti.

Ma il presidente della Repubblica sa benissimo che il voto di fiducia più volte reiterato al Senato, non è altro che la risposta necessaria all'avvelenamento dei pozzi operato dalla legge-porcata, il "porcellum" proposto dal leghista Calderoli sullo scorcio della passata legislatura e approvato da tutto il centrodestra, Casini in prima fila. I due voti, anzi ormai uno soltanto, di maggioranza al netto dei senatori a vita, non consentono la sopravvivenza del governo senza il ricorso alla fiducia. Perciò è inutile prendersela col termometro, bisogna invece curare la febbre, i sintomi e soprattutto le cause.

È sicuramente vero che il Paese ha bisogno di ben altro, ma è altrettanto vero che una buona legge elettorale costituisce la premessa necessaria e indispensabile affinché quel "ben altro" abbia almeno un inizio. Se c'è bisogno di acqua serve un secchio per trasportarla, ma se il secchio è sfondato bisogna anzitutto ripararlo.

Come si vede, la discussione sulla legge elettorale è tutt'altro che oziosa. Allo stato dei fatti è anzi la questione da risolvere se si vuole che la democrazia italiana possa ancora sopravvivere alla crisi che la sta squassando.

* * *

Una riforma dunque. Ma poi bisogna anche dire quale riforma e perché. Non sono uno specialista, ma la sostanza delle cose è abbastanza semplice da spiegare e da capire.

Non abbiamo in Italia due soli partiti che si contendano il potere di governare. Il Partito democratico di due ne ha fatto uno, ma ne restano ancora troppi, a sinistra come a destra. A sinistra ce ne sono a dir poco sei (senza contare Dini e alcuni "cani sciolti"). A destra quattro (senza contare Storace). Forse ne dimentico qualcuno ma il quadro in sostanza è questo.

Gli elettori sono stufi di questa polverizzazione che accentua il distacco crescente tra l'opinione pubblica e le istituzioni. Sono stufi dei poteri di veto diffusi, delle risse continue, della continua ricerca di visibilità. Un accorpamento è quindi necessario ed è questo l'obiettivo principale della riforma elettorale.

Si può raggiungere in vari modi. Con una legge proporzionale con soglia di sbarramento di almeno il 5 per cento. Chi resta sotto a quella soglia è fuori dal Parlamento. Oppure con il doppio turno e i collegi uninominali. Oppure con una proporzionale con piccole correzioni che premino i partiti di maggiori dimensioni.
Il risultato comune a tutti questi diversi meccanismi è comunque di ridurre i partiti a non più di sei: a destra Berlusconi, Fini, Casini e Bossi; a sinistra il Pd e la sinistra radicale. Più alcune minoranze "linguistiche" come gli altoatesini. Sarebbe già un buon risultato.
Il proporzionale fotograferebbe i consensi ricevuti da ciascuno.

Il proporzionale corretto in senso maggioritario darebbe un premio aggiuntivo ai partiti maggiori: quello di Berlusconi da un lato, quello di Veltroni dall'altro. Rendendo tuttavia necessarie le alleanze dopo il voto poiché nessuno dei due da solo potrà raggiungere il 51 per cento dei seggi parlamentari.
Quali alleanze? Problema difficile da risolvere prima di conoscere dove andranno i voti degli elettori. Se i partiti maggiori supereranno ciascuno il 40 per cento dei voti sarà più facile comporre il "puzzle". Se si attesteranno intorno al 30-35 si rischia l'ingovernabilità.

Ecco la ragione che suggerisce un proporzionale con qualche elemento correttivo in senso maggioritario, visto che bisogna pure che un governo ci sia ed abbia la forza di governare e la capacità necessaria per affrontare pochi ma essenziali temi.

L'interesse del Paese richiede qualche sacrificio alle varie "ditte" partitiche. Gli elettori hanno comunque il potere di concentrare i voti se la governabilità è l'obiettivo per riparare il secchio sfondato. Lo usino, quale che sia il meccanismo della legge. Se non saranno capaci di usarlo non si lamentino poi di ciò che accadrà.

Per un giorno almeno il potere sarà nelle loro mani.

* * *

Quando arriverà quel giorno?
Molti danno per conclusa l'esperienza del governo Prodi. La previsione è che entro gennaio ci sarà la crisi. Provocata da un voto di sfiducia cui basterebbe la diserzione di Dini e gli altri senatori "extra-vagantes".
È possibile che ciò avvenga anche se non è affatto
certo.

Prodi si accinge a varare un pacchetto di iniziative in campo sociale che dovrebbe far aumentare in misura consistente il potere d'acquisto dei lavoratori e dei redditi più bassi. Non sembri strano, ma la copertura finanziaria di queste misure c'è ed è anche abbondante. La spesa pubblica infatti negli ultimi mesi ha rallentato il suo flusso. Il deficit è diminuito dal previsto 2,4 sul Pil niente meno che all'1,5. Nove punti in meno. Basterebbe darne un paio all'ulteriore rafforzamento dei parametri europei attestandoci sul 2,2; resterebbero comunque 7 punti per sostenere i salari e i redditi bassi.

Se il governo affronterà questo tema, reclamato perfino dal governatore della Banca d'Italia e dal presidente della Confindustria oltre che dai sindacati confederali, sarà difficile licenziarlo su due piedi. Tecnicamente può accadere, i cespugli del Senato sono in grado di farlo, ma senza alcuna apprezzabile motivazione di fronte al Paese. Tanto più che la permanenza in carica del governo non impedisce (anzi) il negoziato sulla riforma elettorale. Neppure la pronuncia della Corte costituzionale sul referendum la impedisce. Fino a marzo il Parlamento è in grado di approvare la riforma quale che sia e bloccare il referendum.

Ci sono perciò tutte le condizioni affinché il governo resti in carica e governi.

Un consiglio al presidente Prodi (da uno che è stato tra i pochi a ravvisare più i suoi meriti che i suoi difetti): non si occupi della legge elettorale. È un tema che riguarda il Parlamento e non il governo. Pensi a governare, ce n'è già abbastanza per occupare il suo tempo e quello dei suoi ministri, nessuno escluso a cominciare dai vice-presidenti del Consiglio.

"Lasci il mestiere a chi tocca, Vostra Signoria" disse il padre provinciale dei cappuccini al conte zio che reclamava il trasferimento di fra Cristoforo e suggeriva una sede molto lontana da Milano. Il mestiere in questo caso è dei partiti. I ministri facciano i ministri.

* * *

È chiaro che comunque resta il tema del disagio del Paese e del suo distacco profondo dalle istituzioni. Dalla sfera pubblica. Il suo chiudersi nel privato. Le sue incertezze, le sue paure. La sua indifferenza.
Non è vero che gli italiani siano improvvisamente diventati pigri e tristi. Non è vero che solo piccole minoranze siano ancora animate dalla voglia di intraprendere e di farsi largo nel mondo. Questa è una rappresentazione distorta della realtà, affidata alle rozze domande di rozzi sondaggi.

Gli italiani di provincia e di città hanno voglia di fare e anche di ridere e divertirsi. Di pensare con la propria testa e di non farsi imbonire.

Ce ne sono anche disposti ad essere manipolati, a ricevere passivamente gli slogan, le ideologie, perfino i lazzi dei tanti Dulcamara e dei tanti buffoni di corte che li attorniano. Ma quegli italiani, loro sì, sono minoranza. Tre, quattro, cinque milioni tra manipolati, furbetti, furboni. "Clientes". Non è questa la maggioranza del Paese.

Ma un punto resta fermo: la maggioranza del Paese ha rigetto per gli spettacoli che gli vengono inflitti da chi, maggioranza od opposizione, dovrebbe rappresentarli. Un rigetto crescente, che sta superando i limiti di guardia.

Una magistratura che ricama sgorbi sulle sue toghe aggrappandosi al cavillo della norma senza capacità né voglia di coglierne la sostanza. Magistratura pubblicitaria, così dovrebbe chiamarsi la parte ormai largamente diffusa che insegue la propria visibilità non meno dei Diliberto e dei Mastella.

La vicenda Forleo è il sintomo palese di questa devastazione pubblicitaria che sta sconvolgendo l'Ordine giudiziario e, con esso, il corretto esercizio della giurisdizione. Ho grande rispetto per Franco Cordero, nostro esimio collaboratore, e capisco anche le motivazioni giuridiche che l'hanno indotto a difendere il Gip milanese.

Secondo me quel Gip andrebbe censurato dal Csm non per la procedura che ha seguito ma per l'esibizione di volta in volta vittimistica e sguaiata, con la quale ha invaso teleschermi e giornali. Disdicevole. Aberrante per un magistrato. Falcone, tanto per dire, non ha mai usato quel metodo né lo usarono il magistrato Alessandrini, l'avvocato Giorgio Ambrosoli e tutti coloro che del mondo della giustizia caddero sotto il piombo del terrorismo o della mafia.

Ma la maggioranza degli italiani è anche schifata per la vergognosa commedia che si continua a recitare alla Rai, tra il capo di Mediaset e i suoi servi inseriti in servizio permanente nell'azienda pubblica.

Ha scritto ieri Giovanni Valentini su queste pagine commentando la telefonata tra Berlusconi e Agostino Saccà: "Così la Rai, già greppia e alcova di Stato, viene ridotta al rango d'una filiale di Mediaset, una società controllata, una "dependance" e un "pied a' terre" del Biscione".

Bisogna averla ascoltata oltre che letta quella telefonata, quelle due voci, la voce del padrone di volta in volta annoiata e imperativa, e quella del servo, omaggiante, inginocchiato, pronto ad anticipare i voleri del padrone cercando di riceverne qualche briciola e qualche osso per andarselo a rosicchiare in cucina. Disdicevole. Anzi stomachevole. Ma i politici, tutti senza quasi eccezione, hanno avuto come reazione quella di accelerare il decreto che bloccherà le intercettazioni e la loro pubblicazione. Sul merito, sui contenuti, hanno sorvolato come se fosse ininfluente che il pubblico li conoscesse. Solo Prodi, voglio dargliene atto, ha frenato lo zelo assai mal riposto del Guardasigilli.

Non parlerò del Tar del Lazio. Le sue pronunce parlano da sole. In una doppietta di sentenze ha stabilito nella prima il principio che l'azionista della Rai, che ha il diritto di nominare un solo membro del consiglio d'amministrazione dell'azienda su nove, non può revocarlo dopo averne messo alla prova per un anno intero l'obiettività o la partigianeria. E, secondo colpo della doppietta, aver stabilito l'altro incredibile principio che il ministro che ha la responsabilità politica della Guardia di Finanza non può revocarne il Comandante quando il rapporto fiduciario sia venuto meno per scorrettezze gravi e fondati elementi di negativo giudizio a carico del Comandante in questione.

Come si deve valutare un Tribunale che è una delle più importanti istituzioni giudiziarie e che sentenzia in modo anti-istituzionale? L'opinione pubblica che riceve questo tipo di esempi dai presidi dello Stato, come può riconoscersi nello Stato?

No, colleghi del "New York Times" il nostro non è un Paese né triste né inerte. Semmai è un Paese indignato che non si sente rappresentato oggi come ieri come l'altro ieri e più indietro ancora, fino ai Viceré di triste memoria. L'hanno fatto diventare un Paese anarcoide e allo stesso tempo pronto a farsi cavalcare dai potenti di turno. Ma ci sono ancora - e sono tanti - che rifiutano questi attributi e si aspettano un cambio di marcia e nuove speranze.
Noi siamo tra questi.


(23 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 28, 2007, 04:32:37 pm »

POLITICA COMMENTO

Non nominate il nome di Dio invano

di EUGENIO SCALFARI


MI HANNO molto colpito i pensieri e le parole scritte nei giorni scorsi dalla senatrice Paola Binetti e da lei affidate in una lettera al "Foglio" che, a quanto lei stessa scrive, è ormai il suo giornale di elezione. Il testo di quella lettera è stato poi integralmente ripubblicato dal "Corriere della Sera". E di nuovo la senatrice ha ripetuto e ancor più estesamente formulato i suoi pensieri in un dialogo sulla "Stampa" con Piergiorgio Odifreddi.

Il tema di questi interventi è singolare. Viene affrontato per la prima volta nel mondo e per la prima volta nella Chiesa cattolica da parte d'un cattolico militante che si riconosce in un partito ed ha un seggio nel Senato della Repubblica. Si tratta dell'intervento di Dio nella formulazione delle leggi, sollecitato dalle preghiere della senatrice devota.

Ricordo il caso per completezza di informazione. Si votò pochi giorni fa in Senato la conversione in legge del decreto sulla sicurezza. Tra le varie norme ce n'era una che configurava come reato di razzismo la discriminazione nei confronti degli omosessuali effettuata con atti o parole di istigazione a discriminare. La Chiesa si allarmò per timore che la sua predicazione che considera l'amore tra omosessuali una devianza contro natura venisse giudicata reato penalmente perseguibile. Reclamò la cancellazione di quella norma e invitò esplicitamente i parlamentari cattolici a votare contro di essa.

Si trattava con tutta evidenza d'un intervento e d'una interferenza che violavano in modo grave le disposizioni concordatarie. Talmente scoperta - quell'interferenza - da richiedere una protesta formale del governo nei confronti della Santa Sede. Protesta che invece e purtroppo non c'è stata.

Il governo però, a sua volta allarmato dai possibili effetti di quell'interferenza clericale, pose la fiducia sul decreto e sui singoli articoli. I molti parlamentari cattolici che fanno parte della maggioranza votarono la fiducia pur con qualche disagio di coscienza. La Binetti, anch'essa con qualche disagio di segno opposto, votò invece contro la fiducia, cioè contro il suo partito e il suo governo, in obbedienza al dettame della gerarchia ecclesiastica romana.
Il Partito democratico nel quale la senatrice milita decise di mostrare comprensione per il suo voto di dissenso e di non applicare nei suoi confronti alcuna censura politica.

Quanto alla norma concernente l'omofobia, essa fu approvata per un solo voto. Quello contrario della Binetti (e l'altro egualmente contrario del senatore a vita Giulio Andreotti) furono infatti compensati da altri voti. Forse ispirati, questi ultimi, dal demonio. Non si sa e non si saprà mai.

* * *

Fin qui il caso Binetti. Niente di speciale: un caso di coscienza che avrebbe potuto far cadere il governo il quale riuscì tuttavia ad ottenere la fiducia e passare ancora una volta indenne in mezzo a tante traversie.

Trasferitosi l'esame della legge alla Camera, dove il governo dispone d'una più solida maggioranza, si scoprì però che proprio quell'articolo sull'omofobia era affetto da un errore di redazione. Si menzionava infatti come punto di riferimento della norma una direttiva dell'Unione Europea contenuta in un trattato che risultò non essere quello citato ma un altro. Insomma una citazione sbagliata, un errore di sbaglio come si dice in casi analoghi con qualche ironia.
Per evitare che l'emendamento dovesse nuovamente implicare un voto del Senato, il governo decise alla fine di far cadere l'articolo in questione per poi ripresentarlo in altro modo e con altro strumento legislativo.
Normale gestione d'una situazione parlamentare complicata.

* * *

Ma ecco a questo punto insorgere un secondo caso Binetti. Ben più clamoroso del precedente, anche se per fortuna senza effetti parlamentari immediati. E sono appunto le lettere al "Foglio" e il dibattito sulla "Stampa" dove la senatrice sostiene la tesi del miracolo. L'errore di sbaglio, la citazione incomprensibilmente sbagliata non si può attribuire, secondo la Binetti, ad una trascuratezza umana. Quella trascuratezza c'è indubbiamente stata, ma non è né dolosa né colposa. E' talmente macroscopica e impensabile che non può che essere stata effetto d'un "intervento dall'Alto" - così testualmente scrive la Binetti - stimolato dalle sue preghiere.
La senatrice enumera altri casi di leggi e norme da lei ritenute indispensabili per il bene della comunità e della morale, che sono state approvate in Parlamento e da lei attribuite ad altri "interventi dall'Alto", anch'essi stimolati dalle sue preghiere.

Altre norme da lei desiderate e altre preghiere da lei elevate al cielo non hanno invece trovato ascolto (è sempre la senatrice che parla) ma ella non dispera che lo troveranno in un prossimo futuro.

Siamo di fronte ad un caso che, come ho prima accennato, non ha riscontro nella storia né parlamentare né religiosa di nessun Paese. Leggi e norme sull'approvazione delle quali si sarebbero verificati interventi di Dio in accoglienza di preghiere di parlamentari. Come giudicare simili affermazioni? Una presunzione inaudita? Un disturbo mentale? Una fede capace di muovere le montagne e quindi nel caso specifico di ottenere risultati parlamentari altrimenti inspiegabili? Una forma di fondamentalismo ideologico che può suscitare un anti-fondamentalismo di analoga natura ma di segno diverso?

* * *

Mi permetto di segnalare alla senatrice Binetti che il tipo di preghiere da lei elevate a Dio affinché intervenga nella legislazione italiana sono decisamente in contrasto con la costante dottrina della religione da lei professata.

E' curioso che la senatrice non se ne renda conto. È ancor più curioso che sia io a segnalarglielo. Ciò crea una situazione a dir poco comica. Divertente. Paradossale.

La dottrina cattolica infatti ha costantemente incoraggiato la preghiera dei suoi fedeli. La preghiera privata ma soprattutto quella liturgica, tanto meglio se effettuata pubblicamente e coralmente nelle chiese o in qualsiasi sede appropriata.

Ha anche indicato - la dottrina - quale debba essere l'oggetto della preghiera. Non già invocare Dio a compiere miracoli su casi concreti come la guarigione da una malattia o, peggio, un beneficio immediato, una promozione, una vincita alla lotteria, l'ottenimento d'un posto di lavoro e simili.

L'approvazione di un articolo o di un comma o la vittoria d'un quesito referendario non sono state mai contemplate in questa casistica, ma ritengo che possano logicamente rientrarvi. Impegnare il nome e l'intervento di Dio in questi "ex voto" avrebbe piuttosto l'aria d'una provocazione e sfiorerebbe la blasfemia violando il comandamento mosaico che fa divieto di "nominare il nome di Dio invano".

L'oggetto della preghiera deve essere solo quello di chiedere a Dio che la sua grazia discenda sull'orante, che lo aiuti a sopportare il dolore e la sofferenza, che non lo induca in tentazioni, che lo liberi dal Male (cioè dal peccato), che fortifichi il suo amore per il prossimo.
Perciò lei fa benissimo, senatrice Binetti, a pregare affinché la grazia discenda su Giuliano Ferrara (nella sua lettera al "Foglio" c'è scritto anche questo) volendo, potrebbe anche cimentarsi a chiedere che la grazia divina scenda su di me. Non me ne offenderei affatto e sarebbe carino da parte sua.

Ma coinvolgere Dio nella discussione parlamentare, questo, gentile senatrice, è una bestemmia di cui forse lei dovrebbe confessarsi. Però da un sacerdote scelto a caso. Se va da sua eminenza Ruini sarebbe sicuramente assolta in terra. In cielo non so.

Post scriptum. "Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore. Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a Dio, che cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non può pregare contro l'altro. Deve imparare che non può chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento, la piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze".

Queste parole si leggono nell'enciclica "Spe Salvi" di Benedetto XVI, a pagina 64 nell'edizione dell'"Osservatore Romano". Le rilegga, senatrice, e cerchi di capirne bene il senso. Soprattutto non si autogiustifichi: il Papa, nella pagina seguente, ne fa espresso divieto.

(27 dicembre 2007)
 
da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 30, 2007, 12:27:16 pm »

POLITICA

Adesso qualcuno dall'alto aiuti Lamberto Dini

di EUGENIO SCALFARI

 
ROMA - Il 2007 si chiude. E' stato l'anno del distacco. Se vogliamo sintetizzarne l'elemento dominante rispetto a tutti gli altri, questo si impone per la sua coralità, al Sud come al Nord, tra gli uomini e tra le donne, tra i giovani e i vecchi: distacco, indifferenza, riflusso. Insicurezza. Precarietà psicologica prima ancora che professionale. Sensazione di impoverimento, in basso come in alto. Perdita di senso.

Quando una società si ripiega su se stessa e si rifugia nel suo privato, scompare uno dei suoi requisiti essenziali che è appunto quello della socievolezza.
Subentra solitudine. La scelta di fare da sé alla lunga non paga se non c'è più lo sfondo pubblico entro il quale collocare il proprio talento e la propria intraprendenza. L'anno che sta per chiudersi è stato terribile da questo punto di vista, ma ci consegna almeno quest'insegnamento: la dimensione privata distaccata da quella pubblica non produce ricchezza morale né materiale. Siamo diventati amorali e asociali. Fiori finti invece che fiori freschi, senza profumo, senza polline, senza miele.

Penso e spero che nel nuovo anno la gente metta a frutto questa lezione; butti alle ortiche l'indifferenza, riacquisti l'impegno civile. Le nazioni prosperano quando hanno coscienza di sé, altrimenti declinano. Da questo stato larvale dobbiamo uscire. Sta a noi farlo, a ciascuno di noi, per ritrovare socievolezza, creatività, allegria. Fiducia in se stessi e negli altri. Amore di sé e amore del prossimo. Credetemi, non c'è altro modo per uscire dall'apatia della volontà, dalla bulimia delle richieste corporative, insomma dal pantano.

Ho ascoltato la conferenza di fine d'anno del presidente del Consiglio. Aveva la voce rauca per un'infreddatura di stagione. Che ha dato maggior risalto alla fermezza e al senso delle sue parole. Ha rivendicato i risultati raggiunti nell'anno e mezzo trascorso da quando il suo governo si è insediato.
Questi risultati ci sono, sul fronte dell'economia lo dimostrano le cifre che non sono opinioni ma fatti.
L'opposizione ripete ogni giorno che questo è stato il peggior governo dell'Italia repubblicana ma le cifre non dicono questo, dicono anzi il contrario. Il deficit che fu ereditato nel maggio 2006 era al 4,3 quando Prodi prese il posto di Berlusconi e Padoa-Schioppa quello di Tremonti; ci eravamo impegnati a portarlo quest'anno al 2,4 e siamo attualmente al 2, viaggiamo cioè con un anno di anticipo rispetto agli impegni presi con l'Europa.

Probabilmente il deficit nei prossimi mesi scenderà ancora. La spesa corrente è rallentata. La lotta all'evasione ha fruttato finora 20 miliardi di maggiori entrate. Questi miglioramenti hanno già consentito una Finanziaria che ha avviato un processo di ridistribuzione del reddito e di rilancio della crescita. Nei prossimi mesi bisognerà fare di più. L'8 gennaio ci sarà il primo incontro con le parti sociali. Riprende la concertazione a tre, con i sindacati e la Confindustria. Per stipulare un patto, accrescere la produttività e il reddito, sostenere il potere d'acquisto dei ceti in sofferenza, chiudere i contratti di lavoro. Eppure questi risultati non si sono tradotti in un ritorno di fiducia.

Il governo viaggia ancora con un consenso bassissimo, sotto al 30 per cento. E' esposto al rischio di crisi ogni giorno. Ma non cade malgrado i cupi vaticini dell'opposizione. Il prossimo appuntamento di questa "via crucis" lo avremo il 21 gennaio quando si voterà la mozione di sfiducia contro il ministro dell'Economia, colpito da due sentenze del Tar del Lazio, rispettivamente sulla revoca di un consigliere di amministrazione della Rai e del Comandante generale della Guardia di Finanza.

Ho già scritto domenica scorsa su queste inquietanti sentenze della giustizia amministrativa, ma voglio tornarci ancora perché esse sono rappresentative d'una palese distorsione d'un principio essenziale dello Stato di diritto e della divisione dei poteri. La giustizia amministrativa è nata centotrenta anni fa per tutelare gli interessi dei cittadini nei confronti di eventuali decisioni arbitrarie del governo. Ma negli anni più recenti la debolezza politica dei governi ha incoraggiato i tribunali amministrativi a proclamare la propria competenza anche sugli atti politici.
Quest'interpretazione estensiva da parte dei tribunali amministrativi non ha alcun riscontro né nella Costituzione né nell'ordinamento giudiziario e crea una situazione abnorme: si sottopone a giudizio un atto politico, si invade la sfera politica, si vieta ad un ministro politicamente responsabile dell'operato di un corpo militare posto alle sue dipendenze di esonerarne il Comandante pro tempore che ha perso la sua fiducia.
La cosa ancor più paradossale è che l'opposizione parlamentare, anziché unirsi alla maggioranza per riportare le competenze dei tribunali amministrativi nel loro alveo naturale, ne tragga invece spunto per sfiduciare quel ministro accettando e strumentalizzando un'invasione di campo molto grave.

So che il governo non ha ancora deciso se ricorrere in appello contro il Tar del Lazio al Consiglio di Stato. Ma non è il Consiglio di Stato, a mio avviso, a dover essere interpellato con un ricorso poiché qui non si tratta di rivedere ed eventualmente correggere una sentenza, bensì di mettere sotto esame uno sconfinamento della massima gravità da parte della giustizia amministrativa. E' dunque materia per un verso della Corte di Cassazione e per un altro della Corte Costituzionale per dirimere un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

* * *

Mi sono soffermato su questa inquietante vicenda perché essa è simbolicamente rappresentativa della devastazione avvenuta nella vita pubblica e nei rapporti tra i poteri costituzionali. Ma un altro esempio altrettanto simbolico lo si può ravvisare nel caso Alitalia. Sappiamo quali siano stati i torti e gli errori dei governi succedutisi negli ultimi dieci anni per quanto riguarda la nostra ex compagnia di bandiera. Dieci anni fa l'Alitalia poteva ancora essere rilanciata, poteva unirsi in condizioni di forza con altre compagnie europee, poteva esser venduta a privati in grado di gestirla meglio. Non fu fatto allora né negli anni e dai governi successivi. I sindacati dell'azienda dal canto loro fecero la loro brava parte per appesantire il bilancio. Le società di gestione dei servizi aeroportuali fecero il resto sulla pelle degli utenti. Adesso siamo arrivati al punto finale, il consiglio di amministrazione della società ha scelto all'unanimità l'Air France tra i contendenti rimasti in gara. Il governo dopo breve riflessione ha confermato quella scelta. Ci saranno ancora due mesi per metterne a punto le condizioni, ma la decisione è avvenuta e sembra la migliore. Air France è la più grande compagnia internazionale di trasporto aereo; l'Alitalia può trovare in quel quadro un suo ruolo, una sua vitalità e un suo rilancio.

A questo punto insorge la questione Malpensa che diventa una bandiera politica nelle mani di Bossi e di Formigoni. Il capo della Lega, con la brutalità lessicale che gli è propria, minaccia insorgenza armata, blocchi stradali, occupazione di aeroporti in nome della Padania mortificata e offesa. Il governatore della Lombardia appoggia quelle minacce e mette il suo veto alla decisione del governo in nome della difesa di Malpensa. Ma nessuno dei "protestanti" ricorda che il flop di Malpensa ha un nome ben preciso; si chiama Linate. L'aeroporto di Malpensa ha perso ruolo e possibilità di successo in due fasi: la decisione, tutta lombarda, di conservare a Linate la tratta più redditizia del traffico aereo italiano, cioè Milano-Roma e, seconda fase, l'apertura e il potenziamento di decine di nuovi aeroporti proprio nella Padania a cominciare da Bergamo, da Padova, da Verona. Da questi aeroporti i passeggeri di voli intercontinentali partono a migliaia saltando Malpensa e dirigendosi direttamente a Parigi, a Francoforte, a Zurigo, dove trovano coincidenze in vari orari della giornata verso tutti gli scali del pianeta. Chi ha vanificato gli investimenti fatti a Malpensa non è stata Roma, è stata Milano. Né Bossi né Formigoni misero un dito per contrastare quelle circostanze, a creare le quali hanno anzi collaborato per quanto stava in loro.

* * *

Dicevo che il governo ha dimostrato di voler rilanciare il proprio programma puntando sulla crescita senza abbandonare il rigore e discutendo questi suoi propositi con le parti sociali nei prossimi giorni. Ma si trova esposto continuamente al rischio d'esser battuto al Senato.Lamberto Dini e una cinquina di senatori hanno ora lanciato l'ultimatum definitivo: elaboreranno un loro programma alternativo e lo presenteranno a Prodi; se lo accetterà integralmente, bene, altrimenti lo sfiduceranno unendo i loro voti a quelli dell'opposizione. Qui si pone il tema (filosofico e psicologico), di interpretare il personaggio di Lamberto Dini.

E' stato da giovane un brillante direttore del Fondo monetario internazionale. Stanco di vivere a Washington tornò in Italia dove entrò nella Banca centrale diventandone il direttore generale. Quando Ciampi lasciò l'Istituto, chiamato da Scalfaro alla presidenza del governo, Dini avrebbe voluto prenderne il posto, al quale tuttavia Ciampi non lo ritenne idoneo. Le ragioni non si sono mai sapute, ma debbono essere state piuttosto serie per indurre un personaggio come Ciampi a pronunciare il suo veto.

Si aprì allora per Dini la carriera politica che non fu certo avara nei suoi confronti: ministro del Tesoro con Berlusconi, fu autore della migliore riforma pensionistica tuttora in atto; poi presidente del Consiglio per due anni guidando un governo appoggiato dal centrosinistra e dalla Lega, che guidò con efficacia e discrezione. Eletto al Senato nelle liste dell'Ulivo è attualmente presidente della commissione Esteri. Ha 77 anni. Non li dimostra, ma li ha. Che cosa vuole Lamberto Dini? Pare che aspiri alla presidenza del Senato. Oppure al Tesoro. Oppure, a tempo debito cioè tra cinque anni, alla presidenza della Repubblica.
Ripercorrere il "cursus honorum" di Ciampi ad un'età ancora più tarda di lui: questo sembra il desiderio di Dini.

Desiderio arduo e tuttavia legittimo. Solo che la strada imboccata non è moralmente e politicamente la migliore. Fabbricare a tavolino un programma quando si è stati eletti appena un anno e mezzo fa su un altro programma suffragato dal voto di molti milioni di elettori, è un comportamento bizzarro. Contrapporre il suo documento a quello che l'ha portato in Parlamento e che ha ottenuto risultati non disprezzabili, approvati anche dal Fondo monetario e dalle autorità europee, non dimostra doti di coerenza etica e logica, rivela anzi una subordinazione ai desideri berlusconiani. Subordinazione preoccupante dopo le notizie trapelate sulla compravendita di senatori da parte del Cavaliere.
Dini non fa parte (così si spera) della campagna acquisti di Berlusconi, ma dovrebbe preoccuparsi delle apparenze. Non dovrebbe favorirne la circolazione facendosi lui promotore d'una crisi di governo qualora non sia approvato un testo da lui redatto e approvato da due senatori suoi amici. E' ragionevole questo modo di procedere? Riapre la strada a cariche istituzionali?
Fossi in lui, manterrei più "aplomb", se mai cercherei di ottenere le preghiere della sua collega Binetti e l'intervento della Provvidenza per ascendere al Senato in una prossima legislatura.

Abbia pazienza, senatore Dini. Lei ha 77 anni ma, come ho già detto, non li dimostra. Vedrà che dall'Alto qualcuno si muoverà in suo favore se lei troverà gli intermediari giusti. Come lei ben sa, è sempre questione di maniglie...

(30 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 05, 2008, 04:34:27 pm »

Eugenio Scalfari.

Il sacro e il profano

Ieri il conformismo imperava. Oggi ha un segno diverso ma ce n'è a piene mani.

Con Babbo Natale e le renne in testa al corteo. È di Gesù bambino non si parla più


I miei primi ricordi delle Feste mi riportano ad abitudini molto diverse da quelle di oggi. È vero che sono trascorsi ottant'anni da allora e il mondo intorno a noi è molto cambiato, ma vale la pena di raccontarle, quelle abitudini e questa diversità, non fosse che per confrontarla col presente. Se siamo mutati in meglio o in peggio non so. Dico soltanto che sono un'altra cosa.

Le Feste con la effe maiuscola per noi bambini e per i nostri genitori erano le due settimane che vanno dal 23 dicembre fino all'Epifania che infatti (lo si dice ancora) tutte le feste le porta via. Allora non esisteva il 'week-end', il finesettimana. Il sabato e la domenica pochi si muovevano, la seconda casa era un lusso che le famiglie della piccola borghesia e degli operai non si potevano concedere. Ci si riposava, si passeggiava. Magari si andava al cinema e questo era tutto.

Dunque le Feste. Attese. Vagheggiate. Gioiose.

Cominciavano con le letterine, indirizzate ai genitori, cara mamma e caro papà, sempre le stesse con scarsa fantasia. Piene di buoni propositi: sarò buono, sarò obbediente, vi voglio bene, eccetera. Ne conservo ancora qualcuna insieme alle pagelle della prima e della seconda elementare.

L'apertura ufficiale arrivava la sera del 24 dicembre. Il cenone della vigilia. E il presepe. Anzi presepio. Ci avevano lavorato a lungo, bambini e genitori. Avevano raccolto la vellutina in campagna e nei giardini delle città. I personaggi del presepio venivano conservati da un anno all'altro e così le casette dei contadini, le pecore dei pastori, i tre Re magi, la Madonna col suo manto azzurro e San Giuseppe che non so perché risultava calvo, forse per dargli un sembiante da persona anziana e senza le tentazioni della carne. E il bambino. Il bambino Gesù, un corpicino nudo o appena velato per nascondere il sesso.

Da un anno all'altro il teatrino veniva arricchito con nuovi acquisti: un pozzo, un pastore in più, un'altra casupola.

Finita la cena, i bambini recitavano una poesiola o leggevano la letterina. Poi andavano a dormire e venivano svegliati pochi minuti prima della mezzanotte. Si formava un piccolo corteo col bimbo più piccolo in testa che portava il bambino Gesù e lo deponeva nella culla vigilata dalla mucca e dall'asino. La cerimonia finiva lì e si tornava a dormire, ma non era facile riprender sonno anche perché si sapeva che al risveglio avremmo trovato i regali.

I regali del Natale erano tuttavia leggeri. Una bambolina per le femmine, ai maschi un gioco dell'oca o il meccano che allora era in voga, abituava a una manualità molto incoraggiata dai maestri della scuola.

I grandi, genitori e altri parenti e amici, non si scambiavano regali tra loro, non era uso. L'albero di Natale ci era del tutto sconosciuto e lo stesso Babbo Natale - almeno nelle regioni del Centro e del Sud - non esisteva. Qualche vaga eco ce ne arrivava da conoscenti che abitavano a Milano e Torino. Da Roma in giù di papà Natale non si aveva notizia.

I giorni successivi della Festa i bambini giocavano alla guerra. Avevano, eccezionalmente, zona franca in gran parte della casa e ne approfittavano. Costruivano accampamenti con vecchie coperte fissate al muro e appoggiate sulle sedie e si sparavano fagioli e ceci con pistolette a molla. Le femmine, all'interno della tenda, reclamavano un loro spazio destinato alla cucina. Il gatto (c'era sempre un gatto) si tentava di introdurlo in tenda, ma lui non gradiva, graffiava e fuggiva mettendo in pericolo il fragile equilibrio di quella costruzione.

Poi si giocava all'oca. O al nascondino. O a moscacieca. Così passavano i giorni aspettando con impazienza la Befana perché era lei che portava i regali veri.

La sera del 5 gennaio l'attesa raggiungeva il culmine. La Befana sarebbe arrivata a notte fonda e non ci era permesso di aspettarla, ma i bambini erano all'erta, sorvegliavano ogni entrata e ogni uscita. I grandi mostravano un'aria insolitamente misteriosa. C'era un punto della casa con la porta chiusa a chiave. Lì, evidentemente, si nascondeva un mistero.

Alla fine ci addormentavamo ma il risveglio era anticipato da un rumore di coperchi e di pentole battute una con l'altra che ci buttava dal letto. I regali erano allineati davanti al presepio ma non era Gesù ad averceli fatti. Il sacro non veniva mescolato col profano.

Sull'identità della Befana non s'è mai fatta chiarezza. Escluso che fosse una strega. Altrettanto escluso che fosse una zia o comunque una parente della Madonna e di San Giuseppe. Faceva parte di un altro mondo, fiabesco e per noi piccoli più affascinante di quello religioso. Un mondo fatato, popolato di principi, cavalieri, fate benevole, folletti burloni, contadinelle, bestiole amorevoli.

Nessuno di loro ci imponeva comportamenti edificanti né richiedeva preghiere e fioretti. Semplicemente, animavano la nostra immaginazione. Credevamo anche che la notte, quando tutti dormivamo, gli oggetti della casa si animassero e vivessero una loro vita allegra e protettiva vegliando su di noi che dormivamo. E sognavamo.

Queste erano le Feste per noi. Purtroppo gran parte delle famiglie di allora non se le poteva permettere e le riduceva al minimo. Le famiglie d'altra parte non erano tutte così amorose come i bambini avrebbero voluto. Però le tradizioni erano rispettate e chi trasgrediva era cattivo.

Il conformismo imperava. Perché, oggi no? Avrà un segno diverso ma ce n'è a piene mani, con Babbo Natale e le sue renne in testa al corteo. Di Gesù bambino non si parla quasi più, ve lo dice un laico come me. Si direbbe che il trasgressivo sia diventato lui.

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 06, 2008, 04:18:02 pm »

CRONACA L'EDITORIALE

La montagna di "monnezza" che sfiora la luna

di EUGENIO SCALFARI


LA SETTIMANA che oggi si conclude con la festa (religiosa?) dell'Epifania offre alla nostra riflessione di cittadini italiani e cittadini d'un mondo globalizzato almeno cinque argomenti di primaria importanza: l'inizio delle primarie americane con il sorprendente sorpasso di Barack Obama su Hillary Clinton, il timore della recessione economica in tutti i paesi dell'Occidente, la "monnezza" napoletana, il tentativo di rilancio del governo Prodi sui temi della politica sociale, lo scontro intorno alla legge elettorale.

Per completare il quadro ci sarebbe anche da esaminare il dibattito sull'aborto, improvvisamente aperto dall'accoppiata Ruini-Giuliano Ferrara dietro ai quali si staglia la figura di papa Ratzinger con tutto il corteggio di cardinali e vescovi, la cosiddetta "gerarchia" al gran completo con zucchetti rossi e paramenti d'occasione.

Sei argomenti sono troppi per essere affrontati tutti insieme, anche se denotano un'effervescenza insolita in un mondo che pure in questi ultimi anni dà prova di crescente agitazione, frutto al tempo stesso di alacrità e ricerca del nuovo ma, insieme, di distacco, ripiegamento, declino.

Alcuni di questi temi hanno un fondamento autonomo. Ma altri sono profondamente interconnessi, specie se li guardiamo dalla nostra visuale domestica. Così la "monnezza" napoletana ci richiama al problema dell'incapacità decisionale nostrana e questa alle malformazioni delle nostre istituzioni. Infine la minaccia della recessione e della "stagflation" (inflazione-depressione) diffonde la sua ombra sul faticoso rilancio del governo Prodi e della sua politica sociale.

Perciò cerchiamo di chiarire qualche aspetto di queste sequenze e individuare il "trend" che configura la nostra pubblica opinione.

Comincio con la "monnezza" napoletana, non a caso seguita con foto e cronache dai principali giornali del mondo e perfino dalle autorità europee di Bruxelles allarmate da quanto accade.

Lo scrittore Roberto Saviano ne ha diffusamente scritto ieri sul nostro giornale con la conoscenza di "persona informata dei fatti", indicando i colpevoli, i profittatori, l'inerzia irresponsabile delle istituzioni locali, la pessima gestione tecnica e politica d'un fenomeno che resterebbe incomprensibile senza l'oggettiva congiura di tutte queste circostanze che configurano una serie di aggravanti e non di attenuanti come invece ci si vorrebbe far credere.

Il problema dello smaltimento dei rifiuti riguarda le città di tutto il pianeta ma ha trovato da tempo la sua normalizzazione. Se ne sono occupati gli amministratori, i tecnici e perfino i romanzieri. Don DeLillo gli ha dedicato uno dei suoi romanzi più significativi. I rifiuti hanno dato vita ad una delle industrie più prospere del capitalismo post-industriale, producono profitti ingenti e occupano milioni di persone.

Ma lo spettacolo di una grande città sepolta da tonnellate di schifezze con effetti gravi sulla salute degli abitanti si è visto e si continua a vedere soltanto a Napoli e in tutta la Campania. Nulla di simile è accaduto a New York, a Los Angeles, a Londra, a Parigi, a Berlino, a Tokyo, a Shanghai, al Cairo, a Rio de Janeiro e in nessun altro angolo del pianeta.
A Napoli sì. Da quindici anni. Non è e non può essere un problema antropologico. Semplicemente: le istituzioni non funzionano, la camorra ne approfitta, non funziona la Regione, non funziona il Comune, non funziona il Commissario ai rifiuti, non funzionano le imprese addette a quel servizio. Celentano avrebbe detto: non funziona il rubinetto di casa mia.

Dovevano puntare sui termovalorizzatori e sulla raccolta differenziata. Le discariche avrebbero dovuto essere una valvola "tattica" per ospitare alcune punte stagionali, come accade in tutte le altre regioni italiane e nel mondo intero. Invece le discariche sono diventate la soluzione preminente e permanente facendo la ricchezza dei proprietari di quei terreni e l'infelicità dei loro abitanti.

Solo adesso, con almeno dieci anni di ritardo, si è deciso di costruire un termovalorizzatore che - si dice - entrerà in funzione tra un anno, ma più probabilmente ce ne vorranno almeno tre. Dovrà smaltire l'accumulo di rifiuti che nel frattempo sarà stato stoccato nelle discariche riaperte con l'ausilio della forza pubblica in tenuta da sommossa.

Chi ha commesso questo macroscopico errore? Forse i Verdi hanno qualche responsabilità, ma i responsabili principali sono il governatore Bassolino e il sindaco di Napoli, Russo Iervolino.

Ho avuto in passato simpatia e stima per entrambi, ma adesso sia la stima che la simpatia si sono molto attenuate. Penso che dovrebbero andarsene. Scusarsi e andarsene. Mi auguro che il presidente del Consiglio glielo chieda. La loro uscita di scena non è certo la bacchetta magica per far sparire la montagna di rifiuti che ammorba la città e i paesi del circondario, ma rappresenta comunque la doverosa punizione dell'errore strategico compiuto e nel quale per anni hanno perseverato.

La disistima della gente per la politica si deve principalmente ad un sistema perdonatorio che premia l'insipienza e le clientele. Il contrario di una democrazia efficiente e trasparente.

* * *

La "monnezza" napoletana riflette le malformazioni più generali della nostra democrazia, in ritardo di molti decenni rispetto ai mutamenti nel frattempo avvenuti in tutti i Paesi equiparabili al nostro.

Noi abbiamo un Parlamento irretito dal voto di fiducia, senza alcun correttivo che vi ponga riparo. Crediamo anzi tentano di farci credere che la fiducia parlamentare rappresenti il culmine della sovranità popolare delegata ai rappresentanti del popolo che siedono (fin troppo numerosi) sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ma non è così, anzi è il contrario di così.

L'istituto della fiducia non rappresenta affatto un potere del Parlamento sull'Esecutivo ma piuttosto il guinzaglio con cui l'Esecutivo tiene il Parlamento per il collo.

Il presidente degli Stati Uniti non ha bisogno della fiducia del Congresso; in Usa non sanno neppure che cosa sia il voto di fiducia: il Presidente eletto dal popolo ha nelle sue mani tutto il potere esecutivo, nomina i ministri segretari di Stato e li revoca, propone disegni di legge, può mettere il veto a leggi non gradite. In compenso il Congresso, depositario del potere legislativo federale, ha poteri formidabili di controllo sull'operato dell'Amministrazione che li esercita senza scrupoli di sorta. Nessuna nomina può esser fatta senza la sua approvazione, i dirigenti e i ministri debbono riferire periodicamente alle commissioni del Congresso e del Senato.

Il potere non è acefalo ma bicefalo. Non è affatto indenne da errori e disfunzioni ma da più di duecento anni guida un Paese che ormai da tempo ha le dimensioni d'un impero mondiale.

In Europa le democrazie più solide hanno impianti diversi da quello americano ma il tema dell'efficienza decisionale è stato affrontato e risolto da tutti, in Francia in Gran Bretagna in Germania in Spagna.
In Italia no. Governo e Parlamento sono legati a doppia catena con le conseguenze d'una debolezza congenita e di una lentezza decisionale esasperante. La stessa che ha tolto dignità e peso alla magistratura. La "monnezza" è di casa a Napoli, i fascicoli accumulati nei Tribunali civili e penali sono di casa in tutti i Palazzi di giustizia italiani. E' la loro (e la nostra) monnezza.

Ho letto che se i rifiuti di Napoli fossero tutti accatastati con un base di trentamila metri quadrati, raggiungerebbero oggi un'altezza di quasi quindicimila metri, il doppio dell'Everest. Analoga e gigantesca montagna la si potrebbe costruire accatastando i fascicoli dei processi in attesa di sentenza; forse anche più alta.

Per risolvere almeno in parte la disfunzione democratica ci vuole una legge elettorale adeguata e alcune riforme costituzionali. Veltroni si è preso in carico la soluzione del problema che non è di forma ma di sostanza e non riguarda solo i politici ma tutti i cittadini, visto che siamo noi, almeno per un giorno, il popolo sovrano. Ci riguarda tutti; riguarda anche il tema della "monnezza" napoletana, anche la Tav in Val di Susa, anche il testamento biologico, anche i Dico o come diavolo si chiamano. Riguarda la legislazione, la giurisdizione, l'amministrazione e l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E anche l'aborto e la pillola RU 486.

Veltroni e i dirigenti del Partito democratico hanno indicato nelle elezioni uninominali con ballottaggio tra i candidati che al primo turno non abbiano raggiunto la maggioranza assoluta ed abbiano almeno ottenuto il 12 per cento dei voti, il sistema adatto purché combinato con l'elezione popolare del presidente della Repubblica e col rafforzamento dei suoi poteri in chiave presidenzialista.

Si tratta d'una riforma complessa che potrà rappresentare il tema dominante della futura campagna elettorale. Nella sua intervista di ieri al nostro giornale il segretario del Pd ha citato un passaggio importante che Cesare Salvi (sinistra radicale), allora relatore alla Bicamerale del 1997, scrisse proponendo il sistema presidenziale ed elettorale francese. Da allora, ha aggiunto Veltroni, questa è stata la posizione costante del riformismo italiano.

Ma per ora si tratta soltanto di una prospettiva. Per ora così Veltroni si deve andare verso un sistema elettorale a base proporzionale con un ragionevole correttivo maggioritario che dia più forza ai partiti di maggiori dimensioni e induca i minori a raggrupparsi tra loro.

Perché questo è l'obiettivo attuale? Perché è il solo capace di darci governabilità. Senza di esso non c'è che la cosiddetta Grande Coalizione: Pd e Forza Italia insieme.

Veltroni ha dichiarato (e non ce n'era neppure bisogno) che il Partito democratico non è disponibile a questa soluzione. Ma chi lavora per un proporzionale puro vuole in realtà arrivare a questo risultato. I numeri gli danno pienamente ragione.

Per il poco che possa valere, penso che Veltroni abbia scelto la posizione più adatta a risolvere i problemi della governabilità e penso anche che essa potrà passare soltanto se ci sarà l'accordo con Forza Italia e con Rifondazione, più tutti gli altri che vorranno uscire dal pantano attuale.

* * *

Per portare a termine questo primo blocco di riforme elettorali e costituzionali, comprensive del Senato federale e della riduzione del numero dei parlamentari nella prossima legislatura, Veltroni pensa ragionevolmente che ci voglia un anno di tempo. E la prosecuzione fattiva del governo attuale con l'obiettivo di ridare fiato ai ceti economicamente più deboli, insidiati sempre più dall'aumento dell'inflazione e da un probabile rallentamento nella crescita dei redditi.

In realtà in Usa si parla ormai esplicitamente di recessione. Molti economisti affermano che è già in atto da almeno tre mesi, accompagnata da un'inflazione che ha rialzato la testa e da un netto aumento della disoccupazione.

Pensare che l'Europa e l'Italia non risentano di quanto sta avvenendo nell'economia americana è pura illusione. Alla crisi devastante dell'industria e della finanza immobiliaristica si aggiunge ormai il ribasso di Wall Street e di tutte le Borse mondiali, l'indebolimento dei consumi, l'aumento dei tassi sui mutui e una liquidità più severa.

In queste condizioni il bilancio italiano si trova, una volta tanto, in migliori condizioni per quanto riguarda l'andamento delle entrate e la diminuzione del fabbisogno.

Ma abbiamo pur sempre la palla al piede del debito pubblico che ci mangia ogni anno 70 miliardi di interessi.

Per ridare fiato ai cittadini e ai lavoratori ci vorranno più o meno 8-10 miliardi di euro. In teoria la copertura c'è e non è esatto dire che il ministro dell'Economia si opponga a questa manovra che dovrebbe prender l'avvio tra il marzo e il giugno prossimi.

L'obiezione di Padoa-Schioppa non è tanto sui numeri ma sui modi. Probabilmente sarebbe d'accordo se quelle cifre fossero erogate con provvedimenti "una tantum" in attesa di vedere che cosa avverrà nel mondo e in Europa nel corso di un anno così incerto come questo. Se il buon tempo tornerà, nel 2009 e negli anni successivi i provvedimenti "una tantum" potranno diventare strutturali ed essere ulteriormente migliorati.

Queste diverse impostazioni saranno comunque l'oggetto della nuova concertazione tra governo e parti sociali, insieme al tema dei contratti di lavoro da chiudere.

La "stagflation" dev'essere tenuta ben presente perché configura l'imposta più iniqua sul potere d'acquisto dei lavoratori e dei pensionati. Una rincorsa tra salari nominali e costo della vita dev'essere dunque il primo argomento da esaminare tra le parti concertanti, insieme a quello della produttività.

* * *

Mi resta da parlare dell'aborto, sul quale tuttavia non c'è da dire se non ciò che è stato già detto da me domenica scorsa e da altri man mano che l'offensiva clericale si articolava con i vari interventi della "gerarchia".

I laici - credenti e non credenti che siano - sono favorevoli alla libera manifestazione di tutte le opinioni e a tutti quegli interventi legislativi, amministrativi e giurisdizionali che tutelino i diritti di libertà quando non ledano diritti altrui. Per quanto riguarda la legge sull'aborto i laici ritengono che essa tuteli la maternità consapevole e la libertà di scelta delle donne. Sono anche favorevoli ad aumentare il flusso di informazioni che debbono essere fornite alle donne sui possibili effetti dell'interruzione di gravidanza nonché sulla fecondazione assistita.

Tutto il resto, a cominciare dalla cosiddetta moratoria, è del tutto aberrante. E' un puro strumento propagandistico equiparare l'interruzione di gravidanza, consentita solo in determinati tempi e circostanze, alla pena di morte.

Si tratta in realtà di un'operazione mediatica con due precisi obiettivi. Uno, di carattere culturale, per stringere i laici alla difensiva e per preparare l'affondo vero e proprio contro la legge vigente. L'altro, temporalistico, di rilanciare la potestà della gerarchia ecclesiastica come unica e sacrale depositaria del pensiero e della dottrina della Chiesa, confiscando sempre di più al laicato cattolico la sua attiva partecipazione all'elaborazione della dottrina relegandolo in un ruolo di platea passivamente e silenziosamente consenziente, cinghia di trasmissione dei voleri dell'episcopato e del Vaticano fin nelle aule comunali, regionali e parlamentari. Proprio per questo suo contenuto temporalistico ho usato prima l'aggettivo "clericale": i chierici all'offensiva contro il laici. Di questo si tratta. A questo bisogna reagire. E' auspicabile che il Partito democratico non sottovaluti la questione. Penso e scrivo da molto tempo che libertà e laicità sono sinonimi vedo con piacere che la Bonino concorda su questa sinonimia, del resto non ne dubitavo.

Laicità e democrazia senza aggettivi. Non ne hanno alcun bisogno.

(6 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 14, 2008, 12:16:55 am »

POLITICA

IL COMMENTO

Una Chiesa che scambia il sacro col profano

di EUGENIO SCALFARI


E' durato ventiquattr'ore il gelo tra Vaticano e Campidoglio, tra il Papa e il sindaco di Roma. Poi c'è stata la marcia indietro guidata dal cardinal Bertone, Segretario di Stato, e Roma da città in "gravissimo degrado" come aveva affermato Benedetto XVI di fronte a Veltroni, Marrazzo e Gasbarra allibiti di tanta inattesa severità, è diventata di colpo una "città godibile e accogliente" e le istituzioni locali "alacremente impegnate a migliorare la socievolezza e il benessere diffuso".

Le due diplomazie parallele hanno lavorato sotto traccia senza risparmiarsi, ottenendo infine il risultato desiderato da entrambe (quella di Veltroni e quella di Bertone): correggere la "gaffe" di papa Ratzinger, ristabilire rapporti amichevolmente corretti tra le due sponde del Tevere, mettere allo scoperto l'ultimo colpo di coda di Ruini, autore del dossier cui si era ispirato il Papa per la sua improvvida sortita. Ruini sta facendo i bagagli, tra poco lascerà il Vicariato (per limiti d'età).
Al suo posto andrà il prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica, candidato del Segretario di Stato.

Quanto all'assalto antiveltroniano scaturito dopo l'intervento papale dell'altro giorno, la correzione effettuata dal cardinale Segretario di Stato ha avuto l'effetto di un "boomerang": per l'ennesima volta gli statisti del centrodestra - con la sola eccezione di Casini - si sono esposti con strepiti e sceneggiate clericaloidi per poi trovarsi spiazzati e beffati.
Una vittoria non trascurabile per Veltroni, derivante da un appuntamento che in condizioni diverse avrebbe avuto dai "media" l'attenzione di poche righe e che si è invece trasformato in una prova di forza del sindaco di Roma e leader del Partito democratico.
Tutto è bene quel che finisce bene, ma è proprio così?

Dipende dai punti di vista. Per i laici-laici (adesso si usa definirli così) restano molti punti interrogativi dopo questa vicenda, ma problemi ancora maggiori si pongono al laicato cattolico.

Non che siano nati dalla "gaffe" di Benedetto XVI; esistono da molto tempo e precedono di anni l'incoronazione dell'attuale pontefice. Ma quest'ultima sua sortita ha avuto l'effetto di riproporli tutti, insoluti e sempre più urticanti.

Al di là della palese inconsistenza politica e culturale di papa Ratzinger, che da Ratisbona in qua si comporta come un allievo di questo o quel dignitario della sua corte spostando la barra del timone secondo i suggerimenti che gli vengono da chi di volta in volta lo consiglia, esiste più che mai un disagio profondo nella Chiesa e nel laicato cattolico. La Chiesa di Benedetto XVI, ma anche quella di Giovanni Paolo II, non riesce ad entrare in sintonia con la cultura moderna e con la moderna società. Questo è il vero tema che dovrebbero porsi tutti coloro che si occupano dei rapporti tra la società ecclesiale e la società civile all'inizio del XXI secolo.

La gerarchia ecclesiastica e quello che pomposamente viene definito il Magistero si sono da tempo e sempre più trasformati in una "lobby" che chiede e promette favori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole dall'attività pastorale e dall'approfondimento culturale. Il "popolo di Dio" soffre di questa trasformazione; i laici non trovano terreno adatto al dialogo se non sul piano miserevole di comportarsi anch'essi come una confraternita pronta a compromessi e patteggiamenti.
Quando un Papa arriva al punto di bacchettare un sindaco di Roma e un presidente di Regione e reclama maggiori aiuti finanziari per il Gemelli e il Gesù Bambino e per le scuole cattoliche; quando il Vicariato di Roma e il vertice della Conferenza episcopale intervengono direttamente sui membri del Parlamento e del Consiglio comunale romano per bloccare una legge o mandarne avanti un'altra; quando questa prassi va avanti da anni di fronte a problemi mondiali che chiamano in causa civiltà e culture, bisogna pur dire che siamo in presenza di spettacoli desolanti.

Aggiungo che si tratta di responsabilità condivise. La gerarchia cattolica baratta da anni (o da secoli?) il sacro con il profano; le istituzioni politiche l'accompagnano su questa strada di compromessi al ribasso per cavarne improbabili tornaconti elettorali; lo stuolo sempre più vociante degli atei devoti affianca o precede il corteo.
Verrebbe spontaneo di voltar la faccia dall'altra parte per non vedere.

* * *

Veltroni ha fatto bene a protestare sottotraccia e portare a casa la vistosa correzione di rotta vaticana.
Zapatero, in una situazione per molti versi analoga, ha scelto una strada diversa. L'Episcopato spagnolo guidato dal primate vescovo di Madrid aveva pochi giorni fa portato in piazza un milione di fedeli per protestare contro la legge sul matrimonio dei "gay"; la vicepresidente del governo, signora Fernandez de la Vega, ha ufficialmente commentato quella manifestazione con queste parole: "La società spagnola non è disposta a tornare ai tempi in cui una morale unica era imposta a tutto il Paese né ha bisogno di tutele morali. Tanto meno ne ha bisogno il governo che non le accetta".

Capisco che Madrid non è Roma e il vescovo di Madrid non è il Papa. Ma la Chiesa è la stessa in Spagna come in Italia. I laici-laici italiani avrebbero probabilmente preferito che la protesta del leader del partito democratico fosse stata simile a quella del suo collega spagnolo, ma in Italia non si può. L'Italia è una provincia papalina, Porta Pia è una data caduta in disuso, il Concordato fu voluto e firmato da un altro ateo devoto come Benito Mussolini e inserito nella Costituzione con il voto determinante di un altro ateo come Togliatti per ragioni esclusivamente politiche.
In Italia ci sono oggi due minoranze, quelle dei cattolici autentici e quella degli autentici laici. In mezzo c'è un corpaccione di laici e di cattolici "dimezzati", che ostentano virtù civiche e religiose che non praticano affatto. Quella è la maggioranza del paese. Il resto viene da sé.

Il guaio è che la gerarchia ecclesiastica e il Magistero non sono affatto turbati da questa situazione paganeggiante. La loro preoccupazione è l'otto per mille, i contributi pubblici agli oratori, la costruzione di nuove chiese e parrocchie, l'esenzione dall'Ici, l'insegnamento del catechismo nella scuola pubblica, il finanziamento di quella privata. E naturalmente la crociata antiabortista, la moratoria.

A loro interessa non già di usare lo spazio pubblico per propagandare la dottrina e il Vangelo ma entrare nelle istituzioni politiche per guidare il voto dei parlamentari e condizionare i partiti. L'attuale Segretario di Stato, che rimpiange il Togliatti dell'articolo 7 della Costituzione, è comunque un progresso rispetto al suo predecessore, cardinal Sodano che, alla vigilia di ogni elezione, esaminava i leader dei vari partiti per vedere chi offriva maggiori garanzie alla Santa Sede. E quelli si facevano esaminare, felici quando il "master" toccava ad uno di loro invece che all'altro.
Serve a qualche cosa una Chiesa così? Fa barriera contro le invasioni barbariche del terzo millennio o invece apre loro la porta?

* * *

Risponderò con una citazione quanto mai attuale: "La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un'altra forza politica; l'immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire ad una società inquieta e per tanti aspetti lacerata motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una Chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. E' legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti ma questo diritto dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. E' in questa complessa dinamica che si esprime la responsabilità dei cattolici nella vita politica. Urgente si è fatta l'esigenza della formazione del laicato cattolico alle responsabilità della democrazia. Perché mai l'Italia e i cattolici italiani debbono sempre esser trattati come "il giardino della Chiesa"?".

L'autore di questa pagina è Pietro Scoppola e la data è del febbraio 2001, nel pieno d'una campagna elettorale che si concluse con la vittoria di Berlusconi e del suo cattolicesimo ateo e paganeggiante. Ma potrebbe essere stata scritta anche oggi con la stessa attualità. Purtroppo l'autore è scomparso, la sua voce non parla più e la perdita è stata grave per i laici ma soprattutto per i cattolici.

Scoppola si rendeva conto che solo il dialogo tra la minoranza dei veri laici e la minoranza dei cattolici autentici avrebbe ridotto il peso di quell'indifferenziato corpaccione di finti devoti e di finti laici "appiattiti sullo scambio dei benefici e dei favori, impoveriti di slancio profetico e pastorale, dominati dalla gerarchia e dalle oligarchie".

Questo era il problema di allora ed è ancora quello di oggi. Di esso il Partito democratico, la sinistra radicale, i cattolici moderati, gli uomini e le donne di buona volontà, dovrebbero discutere; su di esso dovrebbero dialogare. La gerarchia occupi tutto lo spazio pubblico che vuole ma non interferisca nell'autonomia dei laici e delle istituzioni civili. I rappresentanti di queste ultime impediscano le interferenze anziché assecondarle o nel caso migliore tollerarle fingendo che non vi siano state. Queste finzioni non fanno bene né alla Chiesa popolo di Dio né alla democrazia.

Post scriptum. Molti lettori mi chiedono di intervenire a proposito della campagna per una moratoria sull'aborto.

L'ho già fatto nei miei due ultimi articoli domenicali e non mi sembra di dover aggiungere altro. Mi chiedono anche un'opinione sulla disponibilità di Veltroni a dialogare su questi temi con Giuliano Ferrara, l'ateo devoto che ha promosso quella moratoria. Non ho opinioni in proposito.

Anche a me capita talvolta di dialogare con il conduttore di "Otto e mezzo" in qualcuna delle sue trasmissioni. Certo Veltroni è un capo partito, ma questo non cambia molto le cose. Mi permetto semmai di incitare Veltroni a discuterne con le donne che sono le vere protagoniste, anzi le vere vittime di questa campagna di stampa regressiva. Il corpo delle donne, dal momento in cui è stato fecondato dal seme maschile e quali che siano le circostanze di quella fecondazione, dovrebbe diventare di proprietà della legge, cioè dello Stato? Questo sarebbe l'illuminismo cristiano di cui si scrive sul "Foglio"? Se questo è il tema, credo e spero che Veltroni avrà usi più utili per impiegare il suo tempo.

(13 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 20, 2008, 04:56:13 pm »

ESTERI IL COMMENTO

Atei devoti nel giardino del Papa

di EUGENIO SCALFARI


NON CI sarebbe, secondo me, alcun bisogno di tornar a scrivere sull'agitato rapporto tra laici e cattolici, tra laicità sana o malata, tra spazio pubblico e spazio privato.

Questi e altri temi strettamente connessi sono infatti della massima importanza per il rafforzamento delle regole di convivenza sociale in uno Stato democratico, ma si evolvono e maturano con il passo lento dei processi storici. È quindi, o almeno così sembra a me, inutile e forse dannoso dibattere quotidianamente temi che sono già chiari alla coscienza di molti anche se le risposte di una società complessa non sono univoche ma plurime.

Capisco la voglia di farle convergere, capisco anche il legittimo desiderio dei credenti e di chi li guida a spingere i non credenti verso le loro convinzioni di fede per guadagnar loro la salvezza, ma capisco meno la petulanza ripetitiva che talvolta accoppia lo slancio missionario con un'attività pedagogica fondata sulla ferma credenza di chi depositario della verità considera come inferiori intellettualmente e spiritualmente quanti dissentono dal suo zelo religioso o ne accettano alcuni principi ispiratori respingendone la precettistica che l'accompagna.

Il dibattito sulla presenza-assenza del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza ha rinfocolato alcune differenze sui modi di pensare e sui comportamenti pratici che ne derivano.
Il Vicario di Roma, cardinal Camillo Ruini, ha lanciato da giorni l'appello ad un'adunata di massa all'"Angelus" di oggi in piazza San Pietro. L'adunata ha preso inevitabilmente la forma politica che è propria delle manifestazioni di massa, dove è più il numero che la qualità a determinare gli esiti di una politica "muscolare".

Così bisogna di nuovo affrontare quei temi, precisare il significato di gesti e di parole, capire, se possibile, il senso di ciò che accade. La storia dello Stato italiano è fortemente intrecciata con quella della Chiesa. In nessun altro Paese questo intreccio è stato tanto condizionante e la ragione è evidente: siamo il luogo ospitante del Capo della cattolicità. Siamo stati e siamo il "giardino del Papa", ci piaccia o no. Questa condizione ha determinato in larga misura la nostra storia sociale e nazionale. Nel positivo e nel negativo, nelle azioni degli uni e nelle reazioni degli altri. Le persone ragionevoli non dovrebbero mai dimenticare queste condizioni di partenza, ma spesso purtroppo accade il contrario.

* * *

Metto al primo posto del mio ragionare l'incidente della Sapienza. Su di esso si è già espresso il nostro direttore ed io concordo interamente con lui: una laicità malata ha suggerito ad un gruppo di docenti e di studenti comportamenti di contestazione in sé legittimi ma divenuti oggettivamente provocatori. Di qui la necessità di garantire la sicurezza dell'insigne ospite, di qui la possibilità di tumulto tra opposte fazioni, di qui infine il fondato timore che Benedetto XVI dovesse parlare nell'aula magna mentre sotto a quelle finestre i lacrimogeni e i manganelli avrebbero potuto esser necessari: spettacolo certamente insopportabile per il "Pastor Angelicus" che predica pace e carità.

La contestazione "stupida", tuttavia, non è nata dal nulla ed è l'effetto di varie cause, anch'esse ricordate nell'articolo di Ezio Mauro: l'invito incauto del Rettore nel giorno, nell'ora e nel luogo dell'inaugurazione dell'anno accademico. Non dovrebbe essere un evento mondano e mediatico bensì l'indicazione delle linee-guida culturali e dei problemi concreti della docenza e degli studenti.

Il Rettore, evidentemente, ha un altro concetto, voleva l'evento. E l'ha avuto col risultato di dividere l'Università, la società, la cultura, le forze politiche, in una fase estremamente delicata della nostra vita pubblica.

Un esito catastrofico da ogni punto di vista, di cui il Rettore dovrebbe esser consapevole e trarne le conseguenze per quanto lo riguarda. Ci saranno tra breve le elezioni del nuovo Rettore. Quello attuale vinse la precedente tornata per una manciata di voti. Questa volta si presenterà come quello che voleva che il Papa parlasse alla Sapienza e ne è stato impedito. Un "asset" elettorale di notevole effetto.

Mi auguro che il Rettore non se ne renda conto, ma in tal caso la sua intelligenza risulterebbe assai modesta. Se se ne rende conto, il sospetto di un invito con motivazioni elettoralistiche acquisterebbe fondatezza.
Per fugarlo non c'è che un rimedio: protestare la sua ingenuità e non presentarsi in gara. I guelfi e i ghibellini nacquero anche così.

* * *

La risposta della gerarchia, guidata ancora da Ruini, è stata l'adunata di stamattina. Mentre scrivo non so ancora quale sarà l'esito quantitativo ma prevedo una piazza gremita e un mare di folla fino al bordo del Tevere. È un evento da salutare con piena soddisfazione? È una "serena manifestazione di affetto e di preghiera" per testimoniare l'amore dei fedeli al Santo Padre? Certamente è una manifestazione più che legittima.

Certamente le presenze spontanee saranno robustamente rinforzate dalle presenze organizzate, treni e pullman sono stati ampiamente mobilitati senza risparmio di mezzi dal Vicario del Vicario. La motivazione è esplicita: dimostrare al Papa l'amore del suo gregge dopo l'offesa subita.

Se questa non è una motivazione politica domando al Vicario del Vicario che cosa è. Se questo non avrà come effetto di acuire la tensione degli animi, la lacerazione d'un tessuto già usurato e logoro, ne deduco che il Vicario è privo di intelligenza politica. Ma siccome sappiamo che invece ne è ampiamente provvisto, ne consegue che il Vicariato di Roma si prefigge di accrescere la tensione degli animi e di annunciare venuta l'ora di rilanciare il partito guelfo che ha sempre avuto in cuore.

La Segreteria di Stato vaticana è dello stesso avviso? La Chiesa è unanime in questo obiettivo?

* * *

Abbiamo celebrato giovedì scorso in Senato il senatore, lo storico, il fervido credente Pietro Scoppola, da poco scomparso, alla presenza di molti cattolici che hanno condiviso il suo pensiero e la sua fede e si propongono di continuare nell'impegno da lui auspicato.

Scoppola aveva scavato a fondo nella storia dei cattolici italiani e nell'atteggiamento di volta in volta assunto dalla gerarchia e dal magistero papale. Distingueva il popolo di Dio dalla gerarchia; sosteneva che la gerarchia è al servizio del popolo di Dio e non viceversa.

Mi ha fatto molto senso vedere, proprio alla vigilia del mancato intervento del Papa alla Sapienza, la messa celebrata da Benedetto XVI nella Sistina col vecchio rito liturgico rinverdito a testimoniare la curva ad U rispetto al Concilio Vaticano II: il Papa con la schiena rivolta ai fedeli e la messa celebrata in latino.
Qual è il senso di questa scelta regressiva se non quello di ribadire che il mistero della trasformazione del vino e del pane in sangue e carne di Gesù Cristo viene amministrato dal celebrante senza che i fedeli possano seguire con gli occhi e in una lingua sconosciuta ai più? Il senso è chiarissimo: l'intermediazione dei sacerdoti non può essere sorpassata da un rapporto diretto tra i fedeli e Dio. Il laicato cattolico è agli ordini della gerarchia e non viceversa. Lo spazio pubblico è fruito dalla gerarchia e - paradosso dei paradossi - dagli atei devoti che hanno come fine dichiarato quello di utilizzare politicamente la Chiesa.

* * *

Si continua a dire, da parte della gerarchia e degli atei devoti, che i laici-laici (come vengono chiamati i credenti veramente laici e i non credenti che praticano la laicità democratica) vogliono relegare la religione nello spazio privato delle coscienze.

Questa affermazione è falsa. Chi pratica la laicità democratica sostiene che tutte le opinioni dispongono legittimamente di uno spazio pubblico per esporre e sostenere i loro modi di pensare.

La libertà religiosa è una, e direi la più importante, da tutelare sia nel foro della coscienza che in quello pubblico. Non mi pare che difetti quello spazio, mi sembra anzi che la gerarchia lo utilizzi pienamente anche a scapito di altre religioni e massimamente di chi non crede e potrebbe in teoria reclamare uno spazio più confacente.

Ma noi non abbiamo obiettivi di proselitismo. Facciamo, come si dice, quel che riteniamo di dover fare, accada quel che può. Tra l'altro cerchiamo di amare il prossimo e riteniamo che la predicazione evangelica contenga grande ricchezza pastorale quando non venga stravolta in strumento di potere, il che è accaduto purtroppo per gran parte della storia del Cristianesimo da parte non del popolo di Dio ma della gerarchia che l'ha guidato con l'obiettivo del temporalismo e del neo-temporalismo.

La lettura della storia dei Papi insegna molte cose e, quella sì, andrebbe fatta nelle scuole pubbliche. Papa Wojtyla ha chiesto perdono per alcuni di quegli episodi, ma non poteva certo chiederlo per tutti: avrebbe certificato che per secoli e secoli la gerarchia si è messa sul terreno della politica, della guerra ed anche purtroppo della simonia piuttosto che praticare nello specifico il messaggio di pace e di povertà della predicazione evangelica.

* * *

Ci saranno modi e occasioni per riprendere questo discorso che tende a chiarire ciò che non sempre è chiaro.

Mi restano due osservazioni da fare. Giornali di antica tradizione laica sembrano aver perso la bussola e si schierano apertamente accanto agli atei devoti.
Di atei devoti la storia d'Italia è purtroppo gremita.
L'ultimo nella fase dell'Italia monarchica fu Benito Mussolini. In tempi di storia repubblicana gli atei devoti fanno ressa e la faranno anche oggi alle transenne di piazza San Pietro.

Questa prima osservazione mi conduce alla seconda.
L'onorevole Mastella nella sua conferenza stampa di Benevento, mentre gli grandinavano addosso pesanti provvedimenti giudiziari, ha fatto come prima affermazione quella relativa alla sua presenza oggi a piazza San Pietro.

Dopo averla fatta si è guardato fieramente intorno con sguardo lampeggiante e ha scandito: "Io sono con il Papa e andrò a testimoniarlo in piazza".
Ne ha pieno diritto. Personalmente mi auguro che i pretesi reati di Mastella, di sua moglie, del suo clan, si rivelino per una montatura. Ma il problema è sul comportamento politico e morale di Mastella, di sua moglie del suo clan.

Un comportamento clientelare e ricattatorio che non ha scuse di sorta, rappresenta una deviazione molto grave dalla democrazia. Non è assolutamente valida la giustificazione proveniente dal fatto che si tratta di un male diffuso.

Negli stessi giorni della "mastelleide" abbiamo assistito anche alla "cuffareide": il popolo non di Dio ma di Totò Cuffaro si è radunato in preghiera nelle chiese della Sicilia; il "governatore" ha pianto di gioia e si è fatto il segno della croce quando ha ascoltato la lettura della sentenza dalla quale è stato condannato a cinque anni di reclusione (che non farà) e all'interdizione dai pubblici uffici che non rispetterà.

Il capo del suo partito, Casini, e il capo della coalizione di centrodestra, Berlusconi, si sono immediatamente complimentati con lui.

Che cos'ha di cattolico il comportamento di Clemente Mastella e di Totò Cuffaro? Nulla. Anzi è il contrario dello spirito cristiano.

Fossi nei panni del Vicario del Vicario farei discretamente e con mitezza sapere a Mastella, a Cuffaro, a Berlusconi, a Casini, che i loro comportamenti sono a dir poco imbarazzanti per la Chiesa e forse farebbero bene a non presenziare manifestazioni di testimonianza cristiana. Ma se poi si venisse a sapere che anche Camillo Ruini è un ateo devoto? Del resto sarebbe l'ultimo in ordine di tempo di un'interminabile sfilata di papi, cardinali, vescovi, abati, che tradirono - devotamente - il messaggio celeste del Figlio dell'uomo, da essi rappresentato.

(20 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 22, 2008, 04:22:49 pm »

Quanto briga Tony Blair

Mi piaceva poco prima, ma da quando non è più a Downing Street l'ex premier inglese mi piace ancora meno.

Con Sarkozy fa un tandem perfetto. Con Berlusconi avremmo la più famosa terzina 

DI EUGENIO SCALFARI

Mi è capitato più volte, nel corso del suo lungo periodo trascorso come 'premier' alla guida del governo britannico, di scrivere su Tony Blair.
Un personaggio certamente notevole per intelligenza politica, gusto dell'innovazione, tenacia, pragmatismo.

In Italia per molto tempo c'è stata simpatia nei suoi confronti, sia da parte della sinistra riformista sia da parte del centrodestra.
Il suo 'new labour' è stato preso come esempio dagli uni e dagli altri. Per i riformisti del centrosinistra la simpatia ha sconfinato addirittura nell'entusiasmo almeno fino allo scoppio della guerra irachena di cui Blair fu uno dei più convinti sostenitori e partecipi.

Dal canto mio ho apprezzato parecchie delle sue iniziative politiche. Anzitutto la tenacia con cui riuscì a mettere la parola fine sotto all'interminabile e drammatica guerra irlandese tra cattolici intransigenti e protestanti. Poi per la politica economica di liberalizzazione e nel contempo di sostegno sociale. Infine per l'azione di rinnovamento del partito laburista che lo riportò alla vittoria e al potere.

Mi insospettiva però l'eccessiva flessibilità del suo modo di governare. Passava con estrema naturalezza da una posizione al suo opposto se questi mutamenti di rotta servivano a rafforzare la sua popolarità interna e internazionale e poiché era dotato d'una grande capacità mediatica, le sue 'trasformazioni' riuscivano ad essere accettate come esempi di coerenza oltre che di fiuto politico.

So benissimo che la prontezza decisionale, la facoltà di comunicare e il pragmatismo costituiscono elementi essenziali dell'uomo politico. Ma anche la misura è un ingrediente dal quale un leader non può prescindere. La misura è anzi il requisito che fa di un uomo politico uno statista.

Le mie riserve su Blair riguardavano proprio questo punto: la misura gli faceva difetto, i cambiamenti di linea erano repentini, bruschi e clamorosi, la tenacia diventava spesso testardaggine, l'amore del potere per il potere fin troppo evidente.

Ricordo che queste mie riserve determinarono un certo disagio professionale tra me, che ero allora direttore di 'Repubblica', e il nostro corrispondente da Londra Antonio Polito. Lui era tra quelli che avevano preso una vera e propria cotta per Tony Blair di cui non faceva mistero nelle sue corrispondenze.
Io ovviamente le pubblicavo senza alcuna censura ma non mancavo di esprimergli le mie valutazioni spesso divergenti dalle sue.

Blair non è più a Downing Street ormai da parecchi mesi. Ha lasciato la 'premiership', la guida del partito e la vita politica pur essendo ancora molto giovane, come è tradizione per chi ha esercitato il massimo potere per molti anni. Era stato abbandonato dal consenso della pubblica opinione e la situazione, da questo punto di vista, è ulteriormente peggiorata con il suo successore Gordon Brown.

Debbo dire che il Blair che abbiamo visto dopo la sua uscita dalla scena politica sembra più scadente del Blair precedente: ha brigato scopertamente per ottenere dall'Onu un incarico di visibilità internazionale; sta brigando altrettanto esplicitamente - a destra e a sinistra - per essere nominato 'mister Europa' dall'Unione europea; contemporaneamente ha messo in vendita al miglior offerente la sua consulenza finanziaria e bancaria nel mondo delle banche d'affari anglo-americane ed ha ottenuto un incarico assai ben pagato da una di esse. Infine, avendo evidentemente altre valenze vitali scoperte, ha accettato di affiancare ed aiutare Sarkozy nella sua politica 'bipartisan', per averne l'appoggio per le sue aspirazioni europee.

Il tandem Sarkozy-Blair è perfetto: sono i più flessibili al mondo, i più capaci di comunicare, i più capaci di incantare, i più bravi a vendere la patacca dell'innovazione politica, i più esperti nel conquistare il potere e tenerselo con tutti i mezzi democraticamente possibili.

Blair ha detto: se fossi stato francese, mi avrebbero scelto al posto di Sarkozy. Qui in Italia, li avrebbero scelti tutti e due in accoppiata. Forse facendoli coordinare da Berlusconi che tanto ce l'abbiamo già. Invece di un ambo avremmo avuto la più famosa terzina.

(21 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 28, 2008, 11:17:47 am »

POLITICA

La rotta per salvare il paese dei naufragi

di EUGENIO SCALFARI


IL GIORNO in cui ha deciso di staccare la spina e mandare a casa il governo e forse la legislatura, Clemente Mastella ha recitato la poesia d'una poetessa brasiliana che concludeva con il verso "Lentamente muore" riferito ovviamente al destino politico di Romano Prodi. Una civetteria letteraria? Un modo elegante di annunciare il suo voto negativo da parte d'un personaggio nei cui comportamenti l'eleganza è piuttosto rara?

Direi soprattutto una citazione sbagliata. E' vero che l'esperienza politica del governo Prodi si è conclusa esattamente in quella seduta del Senato, non molto lentamente poiché la sua vita è stata abbastanza breve. Ma non è stata soltanto l'esistenza del governo Prodi a concludersi. E' terminato un ciclo e sono di colpo invecchiati tutti i protagonisti e i comprimari che lo hanno animato, quale che sia la loro età anagrafica e professionale. Tra di essi anche Mastella.

Traslocando al centrodestra forse avrà i collegi pattuiti con Berlusconi, ma non avrà più (per nostra fortuna di italiani) quei poteri di interdizione che il suo uno per cento gli dava in una maggioranza friabile e microscopica. Il Mastella degli ultimatum manterrà la signoria di Ceppaloni rientrando nel rango dei vassalli di paese dal quale era inopinatamente uscito in forza di una legge elettorale ("la porcata" votata dal centrodestra nello scorcio della scorsa legislatura) che ha reso il suo uno per cento essenziale come altrettanto essenziali sono diventati gli altri microscopici per cento dei Diliberto, dei Pecoraro, dei socialisti e perfino i voti individuali dei Dini, dei Turigliatto, dei De Gregorio.

La citazione giusta doveva dunque essere un'altra. Sta in "Allegria di naufragi" di Ungaretti e suona così: "Si sta come d'autunno/sugli alberi le foglie". Riguarda tutti, insigne Mastella, non soltanto Prodi.

Adesso si discute sulle vere cause della crisi. Giuliano Ferrara sostiene che sia il contrasto pluridecennale tra magistratura e classe politica; altri ne fanno carico alla nascita del Partito democratico; altri ancora al bombardamento mediatico o al cardinal Ruini e ai vescovi italiani o al fatto che il governo mancava di una missione, a differenza del Prodi del '96 che si propose di portare l'Italia nell'Eurolandia e ci riuscì.

La tesi di Ferrara non ha alcun riscontro probatorio: Prodi non cadde nel '98 per cause di giustizia, né il centrosinistra cadde nel 2001 per contrasti con la magistratura, né Berlusconi nel 2006. Il bombardamento mediatico c'è stato (e molto intenso) contro Prodi ma ci fu anche, sia pure assai più ridotto, contro il Berlusconi della precedente legislatura; comunque non basta a spiegare una crisi di queste proporzioni.

Quanto alla mancanza di una missione, che Angelo Panebianco gli imputa sul "Corriere della Sera" di ieri, si tratta di un argomento a mio avviso inesistente. La missione era duplice e fu dichiarata esplicitamente durante la campagna elettorale: risanamento dei conti pubblici, ereditati in pessime condizioni dal governo Berlusconi/Tremonti; rilancio della crescita economica e perequazione delle intollerabili disuguaglianze sociali in essere. Il primo punto è stato realizzato con la Finanziaria del 2007, il secondo aveva preso l'avvio con quella del 2008 e aveva già dato frutti importanti.

Restano le pretese responsabilità del Partito democratico, delle quali manca tuttavia qualunque traccia. Veltroni e il gruppo dirigente del Pd hanno concordato e appoggiato completamente l'azione del governo. Il dissenso c'è stato non con il governo ma con la maggioranza su un punto soltanto anche se essenziale: il rifiuto del frazionamento insopportabile dei partiti, dei veti, della rissa continua, delle estenuanti mediazioni, del rallentamento esasperante di ogni decisione, dell'immagine desolante che rimbalzava su un'opinione pubblica insicura, impaurita dalla globalizzazione, frustrata dalla Babele che i "media" non potevano non registrare e che la potenza mediatica berlusconiana esasperava con ogni mezzo.

Il Pd ha denunciato questo stato di cose e si è impegnato per quanto stava in lui di porvi riparo. Ha creato una nuova forma-partito basata sulle primarie. Ha annunciato che alle future elezioni si sarebbe presentato da solo e che le alleanze le avrebbe stipulate sulla base d'un programma semplice, abbandonando la prassi universalmente diffusa di programmi che hanno il solo scopo di metter d'accordo sulle parole ma non nella sostanza il diavolo con l'acqua santa.

Su questo punto, è vero, il Pd di Veltroni è stato netto. Sarebbe possibile rivedere sullo stesso palcoscenico affratellati per sole due ore Mastella, Pecoraro, Boselli, Giordano, Ferrero, Padoa-Schioppa, Dini, Diliberto? Sarebbe possibile, senza che quelle presenze e quelle persone fossero non solo fischiate ma disprezzate sia dalla destra sia dalla sinistra sia dall'antipolitica becera sia dagli italiani responsabili e maturi?

Questo ha detto il Partito democratico e su questo ha promesso di tener ferma la barra del suo timone. Speriamo che mantenga l'impegno. Se perderà, sarà con onore e potrà continuare la sua battaglia. Ma solo a queste condizioni potrà giocare la sua partita con molte speranze.

* * *

Dopo la sconfitta di Prodi al Senato Ezio Mauro ha scritto che questo governo è stato assai migliore di quanto apparisse, "ha razzolato bene e predicato male".
Sono anch'io del suo stesso parere e cominciano a dirlo anche quelli che finora l'hanno avuto come bersaglio fisso sul quale sparare. L'ha biascicato a mezza bocca perfino Berlusconi, che è tutto dire.

Mi ha dato un senso di sincera tristezza assistere dagli schermi televisivi a quella seduta che non esito a definire drammatica, anzi tragica per la sguaiataggine da bordello in cui è precipitata l'aula del Senato al momento delle votazioni. Le aggressioni fisiche, la rissa, gli sputi, gli svenimenti e quello spregevole buffone che dai banchi missini, col pullover rosso annodato al collo, gli occhiali neri e una bottiglia di spumante in mano, lanciava sconcezze e innaffiava di spuma i banchi e i senatori che vi erano seduti. Ha fatto il giro del mondo quell'immagine.

Non so se e quando il Senato riaprirà le porte, ma a quel guitto da due soldi dovrebbe esser comminata dalla presidenza la sanzione massima. Quanto al suo partito, dovrebbe espellerlo su due piedi, ma sono certissimo che non lo farà. C'è una parte (non tutta per fortuna) della classe politica che si diverte e festeggia personaggi come Strano e come Cuffaro, "vasa-vasa", che festeggia con i cannoli una condanna a cinque anni di reclusione. Quella politica ha i Beppe Grillo che si merita. Purtroppo su questi lazzi e questa vergognosa giungla di clientele affonda lo Stato, ciò che ne resta.

* * *

Si dice da parte di alcuni che Prodi avrebbe forse fatto meglio a dimettersi senza formalizzare la sua sconfitta al Senato. Si attribuiscono analoghe riflessioni al Presidente della Repubblica ma senza un minimo di riscontri verificabili.

Credo invece (e ancora una volta sono con lui) che Prodi abbia fatto pienamente il suo dovere interpellando entrambi i rami del Parlamento. La sconfitta a Palazzo Madama era più che certa ma doveva essere certificata dal voto e il voto doveva avere la firma di chi lo dava. L'assunzione di responsabilità di chi votava il sì o il no.

Così è stato ed ora almeno questo punto è chiaro. L'ombra d'un eventuale reincarico avrebbe accresciuto tensioni e confusioni. Personalmente ho visto con amarezza la caduta di un uomo forte delle sue convinzioni che ha accettato il voto contrario con dignità repubblicana. Senza quel passaggio senatoriale, senza la sofferenza di quella sconfitta, le dimissioni date dopo la fiducia ottenuta alla Camera avrebbero avuto l'aria d'un sotterfugio. Così prevede la Costituzione e Prodi ad essa si è attenuto semplificando per quanto stava in lui il fardello pesantissimo che ora è sulle spalle del Capo dello Stato.

* * *

Il Presidente si è preso oggi una giornata di riflessione dopo aver iniziato le consultazioni che entreranno nel vivo domani e si concluderanno con l'incontro con i partiti maggiori dopodomani. Si parla anche di possibili incarichi esplorativi nel tentativo di convincere Berlusconi, Fini e Bossi all'idea di un governo "di scopo" che abbia il compito di varare la legge elettorale e gli altri adempimenti connessi e nel frattempo sia in grado di fronteggiare l'emergenza economica e finanziaria che sta scuotendo il pianeta.
Ho la sensazione che gli incarichi esplorativi abbiano poco senso. Non c'è niente di recondito da scoprire.

Quanto alla "moral suasion" nessuno ha maggior titolo per usarla del Capo dello Stato. Ci si domanda quante divisioni (nel senso militaresco del termine) abbia a sua disposizione il Presidente della Repubblica, di quali strumenti operativi disponga per realizzare quello che è il suo dichiarato convincimento: andare al voto dopo aver cambiato il sistema elettorale e non prima. E a questa domanda la risposta è pressoché unanime: pochissime divisioni, pochissimi strumenti, forse soltanto l'opera di convincimento da esercitare su chi non è del suo stesso parere.

Ebbene, uno strumento il Presidente ce l'ha, deriva direttamente dal dettato costituzionale ed ha anche a suo sostegno qualche importante precedente. La Costituzione prevede che il Presidente, in presenza d'una crisi di governo, "dopo avere ascoltato le opinioni dei presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio dei ministri e su sua proposta i ministri. Il governo, dopo aver prestato giuramento, si presenta entro quindici giorni alle Camere per ottenerne la fiducia".

Fin qui la Costituzione. Tutte le altre formalità sono state introdotte dalla prassi ma non sono scritte negli articoli della Carta. Nulla vieta, anzi così è prescritto, che mercoledì o quando egli decida, il Presidente convochi la persona da lui scelta e la nomini senza altri indugi alla guida del governo e che entro poche ore riceva dal nominato i nomi dei ministri. Firmati i decreti, i ministri giurano e il governo entra nel pieno possesso dei suoi poteri in attesa di ricevere la fiducia dalle due assemblee parlamentari.

Due settimane dopo vi sarà il voto di fiducia. Se sarà positivo il governo avrà adempiuto a tutte le condizioni previste, se sarà negativo il governo si dimetterà e il Capo dello Stato avrà motivo di sciogliere il Parlamento.

Quali vantaggi possono venire da questa correttissima procedura? Non sarebbe il governo presieduto da Prodi ad "accompagnare" le elezioni, ma un nuovo governo istituzionale. Berlusconi e Fini preferiscono avere Prodi ancora in carica per poter scaricare pugni a volontà su un "punching ball" che non ha titolo né mezzi per rispondere. I pugni sferrati su Prodi colpirebbero inevitabilmente il Partito democratico che anziché presentarsi come l'unica novità in campo verrebbe incastrato sotto il patronimico prodiano.

L'arrivo in campo d'un governo composto interamente da personalità indipendenti e tecnicamente competenti metterebbe il Parlamento nelle condizioni migliori per votare o negare la fiducia, senza doversi far carico di proporre questa o quella soluzione. Al governo del Presidente i partiti e i singoli parlamentari debbono solo rispondere sì, no, astenuto, o disertare la riunione.
Nessuna forza politica rinuncerebbe a nulla. La conta non si fa in piazza ma in Parlamento dove ognuno risponde di sé "senza vincolo di mandato".

* * *

Conosco la possibile obiezione: se attorno ad un simile governo si formasse una inedita maggioranza, saremmo in presenza di un ribaltone. Obiezione che non ha alcun sostegno. Infatti il ribaltone, o cambiamento di maggioranza, non è previsto né vietato in nessun articolo della nostra Costituzione ed è in palese contrasto con la libertà del singolo parlamentare di comportarsi come meglio ritiene nell'interesse del paese.

Del resto di ribaltoni e ribaltini è piena la storia della nostra Repubblica parlamentare. Il governo berlusconiano del '94 esordì con il ribaltino di Tremonti che passò dal centro al centrodestra a pochi giorni di distanza dalla sua elezione. Pochi mesi dopo fu la Lega a lasciare l'alleanza di centrodestra determinando la crisi e la nascita del governo Dini. Nel '98, caduto Prodi, D'Alema incassò i voti di Mastella rimpiazzando con lui quelli perduti di Rifondazione. Adesso è Mastella che abbandona la coalizione in cui è stato eletto e passa dall'altra parte. Chi vituperava i ribaltoni applaude oggi i ribaltati. Perciò questo tipo di obiezione non ha senso alcuno con la legislazione vigente.

Per quanto riguarda i precedenti governi istituzionali, ne ricordo i tre più clamorosi: quello di Pella del 1953, nominato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi senza che il suo nome fosse stato indicato da alcun gruppo parlamentare e meno che mai dalla Dc; quello del sesto governo Fanfani, nominato da Cossiga nell'aprile del 1987, sfiduciato dalle Camere e in particolare dal suo partito, che portò alle elezioni anticipate nel giugno dello stesso anno. Infine il governo Dini del '95, nominato da Scalfaro, che trovò in Parlamento il consenso del centrosinistra e della Lega.

Una procedura del genere ha dunque dalla sua cospicui precedenti oltre che le norme della Costituzione. Aggiungo per quel che vale - e vale molto - che anche ha dalla sua l'appoggio di tutte le parti sociali, dai sindacati ai commercianti e alla Confindustria. Cioè dall'insieme del paese che produce, lavora e consuma. Forse quel paese non ama i politici, ma sa che della politica nessuna società può fare a meno, salvo i paesi (e i paesetti) tribali.


(27 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 02, 2008, 09:59:29 am »

Eugenio Scalfari

Il complesso mazzafionda

Ne sono afflitti un bel po' di politici: da Turigliatto a Rotondi, da Pecoraro a Diliberto. Ma non solo loro. Anche intellettuali come Ferrara e Galli della Loggia  Franco TurigliattoAlcuni anni fa andava di moda la barzelletta della mazzafionda, che metteva in burla un disturbo mentale purtroppo abbastanza diffuso: quello dell'idea fissa, ossessiva, che cancella tutte le altre possibili idee, speranze, obiettivi, riducendo il soggetto che ne è affetto ad un monomaniaco. Un giovane - così raccontava quella barzelletta - era ammalato di monomania della mazzafionda: voleva a tutti i costi costruirsene o procurarsene una e non appena ci riusciva ne voleva un'altra e poi un'altra ancora per arricchire la sua collezione. I genitori erano disperati, il ragazzo aveva abbandonato gli studi e non aveva altro impegno che quello di realizzare il suo maniacale obiettivo. Fu indotto infine a consultare uno psichiatra che cercò di prenderlo per il verso giusto e scoprire le vere intenzioni del giovane.

"Facciamo l'ipotesi", esordì il medico, "che io le presenti una bella ragazza e che a lei piaccia. Che cosa farà?". "L'inviterò a cena", rispose il paziente. "Benissimo", disse il medico, incoraggiato da quell'esordio. "E poi?". "Ceneremo insieme e l'inviterò a prendere un caffè in casa mia". "Bravissimo. E poi?". "Poi le dirò parole dolci e cercherò di baciarla". "Magnifico, e poi?". "Se lei sarà d'accordo l'aiuterò a spogliarsi". "Ma bravo! E infine?". "Infine prenderò le sue giarrettiere e ci costruirò una mazzafionda". Qui finiva la barzelletta tra le risate degli astanti.

L'ho raccontata perché ho la sensazione che buona parte degli uomini politici siano profondamente disturbati dal complesso della mazzafionda. Prendete il senatore Turigliatto, eletto nelle liste di Rifondazione e poi espulso da quel partito quando, infrangendone le direttive, votò contro un provvedimento del governo. Turigliatto dopo quella vicenda ha fondato un partito del quale è un dei 'venticinque' iscritti, che ha come obiettivo la rivoluzione comunista mondiale. Per muovere i primi passi in quella luminosa direzione ha pensato bene di votare, insieme a Fini, Storace e Berlusconi, contro la fiducia a Prodi, contribuendo col suo voto alla caduta del governo. D'ora in poi Turigliatto potrà concentrarsi sulla prossima rivoluzione mondiale di cui questo è solo il primo passo.

Ma sono molti i politici ispirati dal complesso della mazzafionda. Per esempio il leader dei Verdi, Pecoraro Scanio. Il suo problema è quello di poter esser presente per almeno 15 secondi ogni sera sul Tg1 delle ore 20. Farebbe qualunque cosa per non mancare a quell'appuntamento durante il quale non ha mai nulla da dire che sia di qualche rilievo. Non importa, non è quello che dice il suo problema ma quello di esserci. La cosa incredibile è che il redattore che compila il palinsesto del Tg1 gli dia regolarmente ogni sera accesso diretto al video. Le ragioni di questa apparizione non si conoscono ma devono ben esserci.

Lo stesso complesso e la stessa facilitazione nel palinsesto riguardano un certo Rotondi, il quale non rappresenta neppure un partito ma semplicemente un marchio e cioè lo scudo crociato della vecchia Dc. Ricostruire le vicende attraverso le quali quel marchio, dopo mezzo secolo di vita che coinvolse nel bene e nel male l'intera Italia, sia diventato proprietà del Rotondi, non ci è stato possibile, ma resta il fatto che anche lui, come Pecoraro, appare ogni sera sui teleschermi per commentare con parole sue quanto è accaduto in Italia in quel giorno. La mano d'un buon samaritano impiegato al Tg1 compie questa buona azione e noi ascoltatori ne godiamo.

Analogo è il caso dell'onorevole Diliberto, segretario del partito dei Comunisti italiani. Diliberto vuole superare e 'far succhiare la ruota' come si dice in gergo ciclistico, ai suoi rivali di Rifondazione comunista. La sua presenza quotidiana sui teleschermi ha questa sola motivazione. Le sorti del Paese, del comunismo, della classe operaia, per lui sono obiettivi del tutto secondari; conta il suo duello personale con i 'rifondaroli'. Quelli vogliono dieci e lui rilancia 50, quelli vogliono la luna e lui vuole il sole, quelli sono riformisti e lui è per la rivoluzione, ma sei poi quelli sono tentati dal messaggio della rivoluzione, allora lui si sposta verso il riformismo. La sua mazzafionda è questa e Diliberto fa un lavoro da facchino per costruirsela tutti i giorni.

La politica italiana è piena di mazzafiondisti e questo è il nostro punto di eccellenza nei confronti del mondo intero. Ma non sono soltanto i politici ad essere affetti da monomania. Anche nella categoria dei 'petits maîtres' vi sono casi degni di segnalazione. Giuliano Ferrara, per dire, vede nei magistrati l'origine di tutti i mali della nazione e destina buona parte del suo tempo a denunciarne i complotti permanenti contro tutti e contro tutto. Ernesto Galli della Loggia è invece posseduto da un'altra mania: non c'è articolo o saggio da lui pubblicato in cui tutti i mali d'Italia sono dovuti al mancato o insufficiente pentimento di quelli che in tempi ormai lontani aderirono al Pci. Questo mancato o parziale autodafé spiega tutto e della Loggia lo vede come causa esclusiva anche dell'immondizia napoletana e della mancata visita del papa alla Sapienza.

Per me anche questo è un caso tipico di mazzafiondismo.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Febbraio 03, 2008, 03:50:30 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Battetevi bene e buona fortuna

di EUGENIO SCALFARI


ZAPATERO e i Vescovi di Spagna.
Anche lì sono imminenti le elezioni dopo un quadriennio di ininterrotto governo. Le faranno all'inizio di marzo, un mese prima di noi che andremo a votare a metà aprile se come sembra tra lunedì e martedì Marini tornerà al Quirinale per comunicare al Presidente che non c'è altra via al di fuori del voto anticipato con questa schifosa legge elettorale.

Perciò Zapatero e i vescovi di Spagna possono essere utili come esempio.
In Spagna votarono quattro anni fa con una buona legge che ha dato maggioranze solide e stabilità di governo. Zapatero prese impegni con gli elettori e li mantenne rigorosamente, dal ritiro del corpo di spedizione in Iraq ai matrimoni omosessuali, dalle trattative con l'Eta all'educazione civile nelle scuole, alla struttura federale dello Stato, a provvedimenti economici di stimolo alla crescita del Paese. Adesso presenta il suo bilancio per essere riconfermato o sostituito.

I vescovi di Spagna, dopo aver mobilitato la piazza, nei giorni scorsi hanno diffuso una sorta di manifesto politico nel quale, dopo aver premesso che i programmi elettorali non sono neutrali rispetto ai problemi della fede e della morale e che quindi la Chiesa è autorizzata a giudicarli, hanno elencato uno per uno tutti i punti di dissenso da quanto il governo ha realizzato e da quanto si propone di fare nella prossima legislatura. A conclusione di questo severissimo esame hanno invitato i cattolici a votare contro quei partiti e quei candidati che condividano quello "scempio" delle coscienze cristiane.

La risposta di Zapatero è stata al tempo stesso sobria, rispettosa e fermissima.

Ha detto che i vescovi hanno diritto e libertà di parola, ha ribadito il suo rispetto verso la Chiesa ed ha concluso con la riaffermazione di tutto quanto ha fatto e si propone di fare se vincerà, ricordando che le leggi approvate dal governo e dalle Cortes sono vincolanti per tutti indipendentemente dalla fede religiosa e da altre differenze di genere e di luogo. Il popolo sovrano deciderà perché questa è la democrazia.

Presumo che sua eminenza Ruini si sia congratulato con i suoi colleghi di Spagna che sono entrati a piede dritto nella politica del loro Paese dando indicazioni esplicite di voto. Presumo che anche il Papa si sia compiaciuto della combattività dell'episcopato di Spagna; infatti la Santa Sede non ha manifestato alcuna riserva sulle sue iniziative.

In Italia il linguaggio dell'episcopato è stato appena più cauto. Le interferenze politiche non sono mancate, abbiamo anzi assistito al loro moltiplicarsi anche se non siamo ancora arrivati ad una vera e propria dichiarazione di voto elettorale. Non ancora. E la ragione è facilmente spiegabile. Qui da noi la classe politica è molto più malleabile in confronto alla nettezza del governo socialista spagnolo. Qui basta ed avanza che la Cei aggrotti il sopracciglio per indurre all'obbedienza il laicato, cattolico e non cattolico. Ma si può stare certi che se ci fosse alla testa di un governo e di una maggioranza uno Zapatero italiano, sarebbe guerra aperta con la gerarchia vescovile assai più acerba di quanto oggi non avvenga.

Mi domando se sia un bene od un male. Abbiamo già tanti problemi e tante anomalie da sconsigliare un fronte caldo con la Chiesa. Ma per converso mi domando anche se i compromessi al ribasso con le pretese della gerarchia ecclesiastica non indeboliscano la coscienza democratica lasciando che i diritti civili abbiano una protezione così limitata e precaria quando non siano semplicemente impediti e negati. Sono anche convinto che i cattolici debbano sentirsi a casa loro nella democrazia italiana a condizione che i laici non ne divengano estranei e marginali.

La democrazia senza i cattolici sarebbe impensabile in un Paese come il nostro, ma senza i laici cesserebbe di esistere se è vero che laicità e democrazia sono sinonimi.

Incito perciò i laici ad affermare e sostenere a testa alta e a piena voce i propri valori e le proprie ragioni e le forze democratiche a non vergognarsi di esserlo. Anche questo è un modo di porsi nella campagna elettorale che sta per cominciare.


* * *

La campagna elettorale di Berlusconi e dei suoi soci avrà i toni consueti e la consueta distribuzione delle parti. La voce dominante sarà, come sempre è avvenuto e come è giusto che sia, quella del Capo. Gli argomenti sono scontati: il disastro del governo Prodi (utilissimo per loro il fatto che Prodi sia ancora e fino a dopo il voto il titolare di Palazzo Chigi), le tasse da abbattere a cominciare dall'Ici, i comunisti da espellere dal circuito politico, la Chiesa da soddisfare in tutte le sue richieste, l'economia da rilanciare.

Ma ci sarà un tema nuovo sul quale sia Berlusconi sia Casini (gli altri non so) batteranno molto; un tema seduttivo: la nuova legislatura guidata dal centrodestra avrà caratteristiche "costituenti". Farà le riforme istituzionali, farà una nuova legge elettorale, assocerà l'opposizione sul modello Sarkozy-Attali. Chiamerà a collaborare i cervelli migliori e le migliori energie senza badare ai colori di bandiera. Gianni Letta come vessillo.

Il programma è questo. I soci maggiori si sono già spartiti le cariche: Fini alla presidenza della Camera, Casini agli Esteri. Letta dove la sua presenza "pacificatrice" sarà più utile. Alla presidenza della Rai un uomo "morbido" di centrosinistra con maggioranza targata centrodestra. Tutto come prima, ma in clima "bipartisan".

C'è da credere? Me l'hanno chiesto l'altro giorno anche i colleghi del New York Times che stavano lavorando proprio su questo tema: un Berlusconi nuovo di zecca, ravveduto, mite, senza vendette, dedito una volta tanto all'interesse del Paese prima che alle leggi "ad personam". Un Berlusconi liberale nei fatti e non solo nella parole. Ci credete? Ci crediamo? Vorrei accantonare le antipatie e le simpatie e rispondere sulla base di analisi dei fatti e dell'esperienza.

E' difficile che un uomo di settant'anni cambi carattere. Difficile anche se non impossibile. Berlusconi vuole essere amato, questo è sempre stato il tratto distintivo del suo carattere. Lui si ama molto ma l'amore degli altri gli è indispensabile. Il suo populismo e la sua innata demagogia sono nutriti dall'amore verso di sé e dal bisogno di conquistare gli altri. E' anche molto furbo e perciò consapevole di questi suoi istinti che sa guidare e mettere a frutto. Perciò non prenderà mai provvedimenti impopolari.

Volete i fatti? Eccone qualcuno. L'immondizia a Napoli è esplosa durante i diciotto mesi del governo Prodi ma ha radici più antiche che risalgono al quinquennio berlusconiano. La Tav e l'insorgenza in Val d'Aosta è tutta nata sotto il governo 2001-2006; la stessa cosa per la base Usa a Vicenza. Stessa cosa per la crisi dell'Alitalia. Non parliamo delle liberalizzazioni: non ne ha fatta nemmeno mezza. E non parliamo della finanza pubblica: è andato avanti a botte di condoni. La Banca d'Italia una settimana fa ha esaminato il risultato di quei condoni e la sentenza di Draghi è stata questa: nel periodo considerato il reddito dei lavoratori autonomi è aumentato il doppio di quello dei lavoratori dipendenti. Inutile dire il perché di questo colossale spostamento di risorse.

Riformare questo stato di cose è difficile, suscita malcontento e quindi impopolarità. Ecco perché queste riforme Berlusconi non le farà se vincerà nel 2008 come non le ha fatte nel quinquennio 2001-2006.
Neppure Sarkozy le farà, che per alcuni rilevanti aspetti gli somiglia anche se il suo potere è molto più ampio e solido di quello di Berlusconi.

Sarkozy ha nominato una commissione di studio presieduta da un uomo intellettualmente fascinoso e socialista. La commissione Attali ha presentato pochi giorni fa il suo dossier al presidente della Repubblica francese. Le farà quelle riforme? Seguirà quei suggerimenti? Tra di essi campeggia quello di abolire la "funzione pubblica", che significa abbattere uno dei cardini dello Stato francese e della pubblica amministrazione. Non sarà una passeggiata perché anche Sarkozy come Berlusconi vuole essere amato. E non soltanto da Carla Bruni.


* * *

Ho ascoltato l'altra sera nella trasmissione del Tg1 il mio amico Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera in un dibattito con Pisanu, Rutelli e Casini. Solite schermaglie sul governo Prodi e sulle elezioni ad aprile oppure a giugno.

Non entrerò in questa ormai stucchevole disputa della quale tutto è stato detto salvo una cosa peraltro evidente: al centrodestra conviene votare al più presto, quando ancora l'emozione "liberatoria" suscitata dalla caduta del governo Prodi è intensa. Tre mesi di più sembrano pochi ma possono far sbollire quell'emozione e fare emergere una realtà ancora nascosta: che quel governo ha operato molto meglio di quanto non sia apparso. Il commissario europeo Almunia ha già cominciato ad ammetterlo.

Il tempo è galantuomo e anche tre mesi in più rappresentano in questo momento un rischio per Berlusconi.

Comunque non è di questo che voglio occuparmi ma di un'opinione del direttore del Corriere su una questione molto importante: quella della continuità della politica economica e finanziaria.

Ha detto Mieli che i risultati in questo essenziale settore realizzati da Prodi e da Padoa-Schioppa (bisognerebbe aggiungere il nome di Vincenzo Visco che è l'autore di interventi tecnici decisivi) sono stati molto positivi; ha citato anche lui il favorevole giudizio della Commissione europea; ha aggiunto che questi risultati si sono anche giovati di quanto aveva fatto in precedenza il ministro del Tesoro Tremonti conducendo una politica economica e finanziaria analoga a quella poi attuata da Padoa-Schioppa ed ha continuato infine affermando che ci sarà piena continuità tra Padoa-Schioppa e il futuro Tremonti così come ci fu continuità tra il Tremonti della precedente legislatura e il Padoa-Schioppa che seguì.

Caro Mieli, amico mio, la continuità si può auspicare ma non inventare.

Se c'è un settore dove la discontinuità è stata pressoché totale è proprio quello tra Prodi e Berlusconi, tra Padoa-Schioppa e Tremonti. Le consegne del maggio 2006 furono un avanzo delle partite correnti azzerato, un'evasione fiscale al massimo livello, un debito pubblico accresciuto, un deficit rispetto ai parametri di Maastricht del 4,1 per cento, una crescita del Pil a livello zero.

Le consegne che Padoa-Schioppa farà, se Berlusconi vincerà, saranno: una diminuzione del debito pubblico e del fabbisogno finanziario, la ricostruzione dell'avanzo delle partite correnti, il deficit ridotto dal 4,1 al 2 per cento (attualmente siamo addirittura scesi all'1,3), una pacificazione mai raggiunta finora tra il fisco e alcuni milioni di piccoli e medi contribuenti con nuovi studi di settore e nuove semplificazioni burocratiche; infine una riduzione cospicua dell'evasione fiscale. Le tasse? Il gettito è aumentato senza una sola nuova imposta né modifica e rialzo di aliquote, anzi con sei miliardi di euro in favore delle imprese con l'abbattimento dell'Irap e dell'Ires.

Come vedi, caro Mieli, la discontinuità è stata totale nella politica economica dei due governi. Non so se Tremonti si sia convertito alla linea Padoa-Schioppa-Visco. Non mi pare, purtroppo. Tremonti è uno di quelli che crede di avere sempre ragione e lo spiega in ogni occasione. Anche lui si ama moltissimo ma non riesce ad essere amato per mancanza di umiltà.


* * *

Domani o al massimo dopodomani Marini rinuncerà. Le Camere saranno sciolte. La vittoria del centrodestra ad aprile è già scritta.

Ne siete sicuri? Per la terza volta la maggioranza degli italiani sarà con lui? E' vero che il centrosinistra ha fatto il possibile e l'impossibile per rimetterlo in sella, ma nonostante tutto non sono così convinto che vincerà.

Credo che il Partito democratico e Veltroni siano pienamente in partita sul terreno di gara ed abbiano carte forti da giocare. Si presentino da soli con un programma di pochi punti, concreti e precisi. Procedano con coraggio, onestà, trasparenza. Facce giovani e nuove senza rinunciare all'esperienza dei vecchi quando sia stata positiva.

Se saranno sconfitti cadano in piedi e lavorino per il futuro. E buona fortuna.

(3 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 15, 2008, 09:35:36 pm »

Eugenio Scalfari

Quando Casini fa rima con Ruini


Dall'avvento di Benedetto XVI sono cadute le cautele della Chiesa nell'interferire sulla politica italiana. Dal referendum sulla fecondazione assistita all'annunciata lista di Ferrara per la moratoria sull'aborto  Pierferdinando CasiniDue settimane fa ho raccontato su questa pagina la barzelletta della mazzafionda per sviluppare, partendo da quella, un ragionamento su alcuni 'tic' che affliggono molti politici e alcuni giornalisti. A giudicare dalle tante lettere che ho ricevuto, i lettori hanno gradito, perciò ne racconterò altre due e su di esse ragionerò.

La prima. La santissima Trinità decide di fare un viaggio sulla terra per vedere come vanno le cose quaggiù. Il Padreterno propone agli altri due di andare a Gerusalemme, culla della cristianità, ma Gesù è perplesso. "Io ci sono già stato una volta - dice - e non mi sono trovato bene". "Hai ragione - ammette il Padreterno - cerchiamo un posto migliore. Potremmo andare a Roma, è una città splendida e ci abita il nostro Vicario. Ci accoglierà benissimo. Andiamo a Roma". "Meravigliosa idea - interviene lo Spirito Santo. Mi fa un gran piacere a andare a Roma perché io non ci sono mai stato".

Forse è un po' dissacratoria ma rende l'idea perché in effetti, dopo due millenni di storia cattolica, a Roma città papale non si può proprio dire che lo Spirito Santo si sia sentito spesso.

Anche la seconda barzelletta riguarda tangenzialmente un analogo argomento. Questa volta il protagonista è Giuliano Ferrara, l'ateo devoto per eccellenza. Il quale è sempre stato credente. Quando era giovane credeva in Stalin e in Togliatti; poi col passar degli anni e delle esperienze credette in Craxi, poi in Berlusconi. Infine, ormai deluso da tutti, ora crede in Dio. È vero, no?

Faccio una prima osservazione: si stanno moltiplicando le barzellette su temi religiosi. Di solito questa forma di satira prende di mira poteri consolidati. Si sono sprecate barzellette e vignette (clandestine) su Mussolini ai tempi del Regime; poi sulla Dc; poi sul Pci e su Berlinguer. Adesso è il turno della Chiesa e dei Vescovi. Evidentemente sono sempre più considerati come un potere mondano più che religioso e per questo vengono messi alla berlina.

L'argomento merita tuttavia una più seria considerazione. Finora la Chiesa e in modo particolare il papa Benedetto XVI hanno occupato con crescente vigore il cosiddetto spazio pubblico, cioè la pubblica manifestazione delle idee e nel caso specifico della dottrina cattolica, della morale e delle implicazioni politiche che questi temi comportano.

La democrazia garantisce, perché questa è la sua essenza, che tutte le opinioni possano esprimersi liberamente e la Chiesa ha utilizzato questo diritto. L'ha utilizzato molto ampiamente: i media italiani sono diventati una vera e propria cassa di risonanza del pensiero della Chiesa, cosa che non accade in questa misura in nessun'altra democrazia occidentale.

Fino a qualche tempo fa tuttavia la Chiesa stava attenta a salvare le forme, agiva sulla politica ma di sbieco, mai direttamente. Dall'avvento di Benedetto XVI tuttavia queste cautele stanno cadendo una ad una. La prima grave interferenza e la violazione palese del principio "date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" avvenne in occasione del referendum sulla legge delle fecondazioni assistite, quando l'allora presidente della Cei, Camillo Ruini, predicò l'astensione dal voto facendo così fallire i quesiti referendari. Poi ci fu la vicenda dell'articolo di legge sull'omofobia e la telefonata del segretario della Cei ad una senatrice cattolica di cui i Vescovi si vollero assicurare il voto che infatti fu conforme ai loro desideri nonostante che il governo avesse messo la fiducia su quel passaggio parlamentare.

Nei giorni scorsi le residue cautele sono interamente cadute. Casini, maltrattato politicamente da Berlusconi, è ricorso al consiglio e all'aiuto del cardinale Ruini; quest'ultimo è intervenuto tramite Gianni Letta affinché Berlusconi scendesse a più miti consigli poiché era interesse della Chiesa che nel raggruppamento berlusconiano vi fosse - come finora è stato - il partito cattolico di Casini con il proprio simbolo e la propria autonomia.

Su un altro ma analogo versante Giuliano Ferrara sta promuovendo una lista che abbia come obiettivo la moratoria sull'aborto. La lista rappresenta scopertamente la proiezione elettorale della Cei e il pensiero del Papa che ha pubblicamente ringraziato Ferrara per la sua campagna sulla moratoria. Non si sa se quella lista si farà, i rischi sono più dei vantaggi. Ma se ne parla e la Cei non l'ha sconfessata, anzi.

A me sembra chiaro, vedendo simili dissennatezze, che lo Spirito Santo a Roma non c'è mai venuto.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Febbraio 17, 2008, 03:48:28 pm »

Walter, il Cavaliere e l'Italia al bivio

di EUGENIO SCALFARI
 

Walter Veltroni all'Assemblea costituente al Palafiera di Roma
Mancano 56 giorni da oggi al 13 aprile, quando gli elettori andranno a deporre il loro voto nelle urne. Nei paesi democratici quello è un momento importante: il popolo esprime la propria sovranità, sceglie chi dovrà guidarlo, gli delega la sua rappresentanza, gli affida per qualche tempo il suo destino.

In tempi di ideologie dominanti e totalizzanti le elezioni non producevano grandi cambiamenti, i confini tra le parti politiche erano netti, i flussi elettorali tra un partito e l'altro impercettibili, ma nonostante questa stabilità di superficie la società era in perenne cambiamento. Così nei primi vent'anni della Repubblica scomparve la società contadina e prese corpo quella industriale; nei secondi vent'anni emerse la consapevolezza dei diritti civili; nella terza fase avvennero fenomeni regressivi: prevalsero gli interessi di corporazione e di clientela, le forze politiche si chiusero in se stesse perdendo la capacità di rappresentanza, la corruttela pubblica diventò sistema, le istituzioni furono occupate dai partiti, l'esercizio della democrazia fu deturpato e svuotato dei suoi contenuti, sentimenti antipolitici latenti emersero impetuosamente, specie tra le generazioni più giovani.
Ora siamo arrivati al capolinea e forse sta per cominciare un'altra storia.

Dico forse perché pesano ancora i gravami del recente passato di declino e di regressione. Ma qualche cosa di nuovo si intravede ed è questo che sta dando il tono alla campagna elettorale appena iniziata. Cinquantasei giorni per capire da che parte stiamo andando e per decidere come ci comporteremo in quel breve ma decisivo momento della nostra sovranità popolare.

Ci sono due slogan o meglio due immagini lanciate dai due candidati principali ai nastri di partenza della gara.
Quello di Berlusconi è: "Alzati Italia", e quello di Veltroni: "L'Italia è in piedi ma la politica si deve alzare". Sembrano abbastanza simili, invece sono profondamente diversi.

Berlusconi chiede che gli italiani si alzino fino a lui, lo raggiungano e seguano il suo sogno e il suo carisma nel mondo dei miracoli, come avvenne nel '94, nel 2001, nel 2006 quando mancò per un soffio l'obiettivo.
Veltroni pensa invece che gli italiani siano più avanti dei politici e che spetti a questi di rinnovarsi, rompere il muro dietro il quale si sono rinserrati, abbandonare i privilegi che difendono la loro separatezza e raggiungano il Paese che anela soltanto a rimettersi in movimento. Dietro queste due diverse immagini ci sono due diversissimi approcci.

Berlusconi propone il ritorno al già visto, Veltroni vuole che tutto cambi nei programmi e nelle persone. Cambia il candidato "premier", cambiano i suoi più diretti collaboratori, cambiano i candidati al Parlamento. Berlusconi ripresenta tutti i parlamentari uscenti, Veltroni ne lascia a terra la metà ed apre la porta alle donne, ai giovani, agli imprenditori, agli operai, a volti nuovi e sconosciuti. Il partito di Berlusconi è quello di sempre, il partito di Fini allinea i soliti Gasparri, La Russa, Alemanno, Matteoli.

Il partito di Veltroni è nato dalle primarie di pochi mesi fa, dal voto di tre milioni e mezzo di persone e gli iscritti hanno già superato il milione in appena un mese dall'apertura dei "circoli", un fenomeno mai visto prima. Berlusconi ha dalla sua i sondaggi con uno scarto del 10 per cento, ma il recupero del Pd procede con una velocità notevole. Da quando ha deciso di presentarsi da solo ha guadagnato due punti. Gli ultimi sondaggi lo danno entro una forchetta tra il 33 e il 35 per cento dei consensi; l'alleanza con Di Pietro potrebbe portare quella forchetta al 37-39.
 
Silvio Berlusconi

Il bacino potenziale dei due maggiori contendenti copre il 90 per cento dei consensi. Il restante 10 per cento dovrebbe andare alla sinistra radicale ed altri raggruppamenti minori. Ma in quel 90 per cento di potenziali elettori dei due partiti principali, quasi il 12 sta ancora sulla linea di confine, è disponibile a votare sia l'uno che l'altro e non ha ancora deciso tra i due.
L'esito finale sta tutto lì, in quel 12 per cento ancora combattuto tra l'astensione o il voto per l'uno o l'altro dei contendenti. Quattro milioni, in gran parte giovani e donne, il cui voto determinerà l'esito della gara.
Questo è lo stato della situazione ai blocchi di partenza.

* * *

Fuori dal recinto di gioco infuria nel mondo una tempesta economica di notevole gravità. Calano le Borse, rallenta la produzione e la domanda, la liquidità ristagna nei depositi e in impieghi a breve durata e si restringono i prestiti e i mutui. I prezzi aumentano falcidiando i redditi reali, specie quelli dei pensionati e dei lavoratori dipendenti, per conseguenza sale il livello dell'inflazione, soprattutto per quanto riguarda le materie prime e le derrate della catena alimentare.
Il 2008 sarà un anno difficile per l'economia mondiale, per l'Europa e per noi. Bisognerà preservare il discreto andamento dei conti pubblici ma contemporaneamente adottare coraggiose misure di rifinanziamento della domanda e degli investimenti trovando il giusto equilibrio tra i due pedali del freno e dell'acceleratore.

Giulio Tremonti è diventato strenuo sostenitore d'un governo di larghe intese, chiunque sia il vincitore della competizione elettorale. Secondo lui una politica economica così difficile non può esser intrapresa se non con la condivisione delle responsabilità da parte dei due partiti maggiori. Il personaggio non è tra i più gradevoli e porta sulle spalle un pesante carico di errori precedentemente compiuti, ma la sua visione del futuro è purtroppo realistica. Non altrettanto la terapia da lui proposta.

Egli è sicuro che la vittoria arriderà alla sua parte; il suo appello alla condivisione del potere sconta un futuro di difficoltà che una alleanza di governo diluirebbe. L'ordine delle priorità e la distribuzione dei carichi trova tuttavia discordi i due partiti contrapposti, sicché la gestione comune potrebbe risultare paralizzante anziché incisiva.

Il tema è comunque prematuro, specie se proposto da chi, volendo profittare d'un vantaggio elettorale, ha imposto il ricorso immediato alle elezioni facendo perdere almeno quattro mesi proprio nel momento più delicato della crisi economica internazionale.

Ormai non c'è che da aspettare i risultati del voto ma è giusto tenere sott'occhio il tema della recessione. Una cosa si può dire fin d'ora: quel tema ha sempre accresciuto il ruolo che incombe alla politica e alla mano pubblica; così è sempre avvenuto in tutto il mondo in fasi analoghe del ciclo economico. Lo tengano ben presente i dirigenti del Partito democratico che non a caso hanno Franklin Delano Roosevelt nel pantheon degli spiriti fondatori.

* * *

C'è un altro tema che sovrasta la competizione elettorale ed è quello della laicità. È cosa saggia evitarne le asprezze e respingere le provocazioni miranti a farne uno strumento incendiario con l'intento di inferocire il confronto. Se fosse soltanto questo, sarebbe facile disinnescare le bombe-carta della moratoria anti-aborto e procedere oltre misurandosi con argomenti e problemi di ben maggior peso.
Purtroppo c'è dell'altro.

Le iniziative provocatorie fungono da avanguardia ad una "reconquista" condotta dalla gerarchia ecclesiastica "versus" le istituzioni per condizionarne il funzionamento e la legislazione che ne ispira i comportamenti.

La gerarchia alterna momenti di moderazione a momenti di intervento diretto sul delicatissimo terreno della politica, dettando alleanze tra partiti, comportamenti dei parlamentari cattolici, sentenze inappellabili sulle questioni definite "indisponibili", lusinghe e minacce spesso implicite ma in misura crescente pubblicamente esplicitate.

Questo alternarsi di fasi dipende spesso dal fatto che a guidare sia il Segretario di Stato, cardinal Bertone, o il Vicario di Roma, cardinal Ruini, il primo in veste di diplomatico, il secondo di guerriero delle armate (spirituali naturalmente) pontificie. Benedetto XVI dal canto suo sembra lasciar mano libera all'uno e all'altro anche se nei documenti e nelle dichiarazioni da lui direttamente emanati appare assai più vicino al dio degli eserciti che a quello della misericordia.

Aldo Schiavone ha efficacemente descritto su questo giornale quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi come una sorta di "ondata guelfa" che starebbe rinascendo nel nostro Paese. Stefano Rodotà ha segnalato un'offensiva clericale in atto contro i diritti civili, Francesco Merlo, Edmondo Berselli e Natalia Aspesi sono intervenuti prendendo lo spunto dal vergognoso episodio avvenuto giorni fa a Napoli, con la polizia nelle corsie ospedaliere e una donna che aveva praticato un aborto terapeutico pienamente legale, sotto interrogatorio mentre si era appena risvegliata dalla narcosi.

Le ragioni per preoccuparsi di questa deriva clericale purtroppo ci sono tutte. Bisogna certamente guardarsi dal cadere nelle trappole della provocazione ma al tempo stesso non è sopportabile che la Chiesa occupi un terreno che non le è proprio e anzi le è esplicitamente vietato, nella politica, nelle istituzioni e addirittura all'interno dei partiti.

Se il cardinal Ruini ha voglia di cimentarsi politicamente la strada è molto semplice e nessuno gliela vieterà: lasci le sue cariche ecclesiali e concorra alle elezioni con un proprio partito o dentro un partito che lo accolga. Una soluzione del genere avrebbe il pregio della chiarezza, pregio che dovrebbe essere prezioso per un cattolico e per un sacerdote.

* * *

Attendevamo da molti giorni che finisse la telenovela Berlusconi-Casini, canticchiata dai due protagonisti sui versetti di "Vengo anch'io? No tu no. Ma perché? Perché no". Adesso si è conclusa: andranno alle elezioni separati.

Il Cavaliere ostenta calma e disprezzo, si sente più sicuro senza l'Udc in casa. Fini se l'è mangiato in un boccone, operazione facile perché i colonnelli di An erano già tutti al suo servizio. Con Casini era più difficile per via di Ruini.

L'Udc ha davanti a sé una strada in salita. Forse ha aspettato troppo, forse il buon momento sarebbe stato quello scelto da Follini quando si dimise da segretario e se ne andò dal partito. Un anno fa tutto era diverso e molte cose sarebbero andate in altro modo, ma con i se e i forse non si fa storia. D'ora in avanti Casini navigherà in mare aperto e sarà la prima volta nella sua vita. Può darsi che gli piaccia. Magari senza Mastella, che sarà pure credente e ruiniano come lui, ma non sembra un "asset" appropriato al rinnovamento della politica italiana.

(17 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Febbraio 24, 2008, 11:54:22 am »

POLITICA

L'inseguitore accelera l'inseguito perde colpi

di EUGENIO SCALFARI


IL 2 MARZO si concluderà l'inevitabile giostra delle candidature e delle alleanze e la campagna elettorale entrerà nel suo pieno, ma i suoi lineamenti sono già chiari e profilati: Berlusconi conduce nei sondaggi, Veltroni insegue accelerando il recupero. Per la prima volta in questa settimana il recupero dell'inseguitore ha prodotto un regresso nello "share" dell'inseguito. Se i sondaggi rispecchiassero l'effettiva realtà questa novità sarebbe della massima importanza; significherebbe infatti il profilarsi d'un deflusso dal Popolo della libertà verso il Partito democratico e quindi il dimezzamento aritmetico del distacco tra l'inseguito e l'inseguitore.

Sin d'ora comunque si va diffondendo nella pubblica opinione e nei "media" la sensazione del dinamismo di Veltroni e della staticità del suo avversario. In un paese bloccato da decenni che aspira a liberarsi dalle bende e a rinnovarsi, questa sensazione può tradursi in un capovolgimento di tutti i pronostici che fin qui sembravano certi: il Partito democratico, già ora, non ha più come obiettivo massimo quello di pareggiare al Senato, ma addirittura quello di vincere nelle elezioni per la Camera incassando così il premio di maggioranza che la legge elettorale prevede. Chi l'avrebbe mai immaginato appena un mese fa? Naturalmente questi ragionamenti simulano una realtà virtuale e vanno quindi presi con molta cautela.

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I temi dell'economia mordono invece più da vicino la vita quotidiana dei cittadini, lavoratori, consumatori, famiglie, imprese e sono ormai balzati in primissima fila. I prezzi soprattutto perché è con essi che tutti abbiamo a che fare ogni giorno. E di conseguenza i salari e le retribuzioni. L'occupazione, la cui tenuta comincia a suscitare preoccupazioni. L'inflazione. Il livello ufficiale che registra una media si colloca in questo momento al 2,9 per cento, ma l'ultima notizia di due giorni fa indica nel 4,8 l'aumento dei prezzi relativi a generi di larga diffusione.

Non è una sorpresa, l'inflazione infatti è la peggiore delle imposte perché ha carattere regressivo, colpisce i redditi più bassi in misura nettamente maggiore di quelli più elevati, risparmia i ricchi e deruba i poveri, falcidia i percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) consentendo qualche recupero ai lavoratori autonomi, ai professionisti, ai settori che operano su mercati protetti rispetto alla concorrenza. Ecco, la situazione dell'economia occidentale e quindi anche dell'Europa e in particolare dell'Italia si trova a questo punto. Gli Usa sono in piena recessione.

L'Europa registra un sensibile rallentamento e l'Italia è il fanale di coda. Le previsioni delle agenzie internazionali danno il nostro prodotto interno lordo allo 0,7 per cento nell'anno in corso con una tendenza ad appiattirsi ancora.

In queste condizioni la politica economica dovrebbe reagire adottando misure anticicliche. La teoria suggerisce infatti che, quando la congiuntura rallenta e addirittura volge verso lo zero, la domanda venga sostenuta con acconci interventi di spesa. In questo senso si muovono i programmi presentati dai partiti nei giorni scorsi; le differenze riguardano le modalità ma non la sostanza. Tutti infatti hanno in animo di sostenere i salari, i giovani, le famiglie, gli investimenti in infrastrutture.

Il problema è quello della copertura finanziaria e reale di queste politiche: dove trovare le risorse necessarie? Dove concentrare lo sforzo? Come evitare ricaschi dannosi sull'inflazione? Come impedire contraccolpi sul deficit? Infine, a quanto deve ammontare il complesso dei provvedimenti di sostegno per esercitare un effetto sensibile sulla domanda interna e sulla crescita reale?

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Comincio da quest'ultima domanda: a quanto ammontano le risorse da mobilitare per ottenere risultati apprezzabili? Direi: non meno di un punto del Pil, cioè in cifra tonda 15 miliardi di euro da investire entro e non oltre l'esercizio in corso e dei quali almeno un terzo entro il prossimo giugno.

Da questo punto di vista è grave il rifiuto di Berlusconi di inserire i provvedimenti a favore dei salari nel decreto definito "mille proroghe" che sarà approvato dal Parlamento entro il 29 febbraio prossimo. Se avesse accettato, quelle misure valutate a circa 2 miliardi, avrebbero potuto beneficiare i salari fin dal prossimo aprile dando un sensibile sollievo ai redditi medio - inferiori e sostenendo il consumo.

L'autore di quel provvedimento era il famigerato governo Prodi e questa è la sola ragione per cui il leader del centrodestra ha opposto il suo rifiuto. Così tutta la politica destinata alla crescita viene spostata in avanti di almeno quattro mesi se non di più, con effetti negativi che è difficile sottovalutare. Il governo (quale che sia) che uscirà dalle urne il 14 aprile, sarà operativo al più presto ai primi di maggio.

Anche se i leader dei due maggiori partiti si sono impegnati a far partire la propria politica fin dal primo Consiglio dei ministri, gli effetti richiederanno un tempo tecnico di almeno due mesi per farsi sentire. Se ne parlerà dunque ai primi di luglio per le misure di più pronto impiego. Il danno di questo scriteriato comportamento è evidente e dispiace che l'ottimo Mentana, che ha lungamente intervistato a Matrix dell'altro ieri il principale azionista di Mediaset, non gli abbia posto questa elementare domanda.

Resta comunque il problema di dove reperire risorse da destinare alla crescita per un ammontare pari a 15 miliardi. Ebbene, ci sono spese in attesa di copertura già previste entro il 2008, pari a 7 miliardi. Gli stanziamenti sono già stati indicati da Padoa-Schioppa. Una parte delle destinazioni sono coerenti con il sostegno della crescita; quelle che non lo sono possono esser rinviate e il loro ammontare utilizzato diversamente.

Le risorse restanti vanno, a mio avviso, mobilitate lasciando lievitare il deficit dal 2,2 preventivato dal governo Prodi al 2,8. Il commissario europeo Joaquin Almunia manderà alti lai, poiché una politica del genere allontana inevitabilmente il pareggio del nostro bilancio che Padoa-Schioppa aveva previsto per il 2010. Resteremmo tuttavia al di sotto della fatidica soglia del 3 per cento.

L'obiezione, lo so bene, riguarda gli effetti negativi sullo stock del debito pubblico. A questo riguardo però si potrebbe (a mio parere si dovrà) mettere in pista una robusta operazione di vendita del patrimonio mobiliare posseduto dallo Stato. Il Tesoro detiene ancora un largo pacco di partecipazioni mobiliari che possono essere collocate dal sistema bancario gradualmente sul mercato quando esso sarà uscito dalle attuali difficoltà.

Le partecipazioni in mano al Tesoro riguardano aziende di prim'ordine che fruttano anche cospicui dividendi. La loro privatizzazione rientra nei progetti dei due maggiori partiti. Del resto l'operazione potrebbe essere contenuta entro i limiti richiesti dai maggiori oneri sul debito pubblico derivanti dall'aumento del disavanzo. In pratica: un "deficit spending" neutralizzato da alienazioni di patrimonio, con l'obiettivo di imprimere uno scatto anti - recessivo che potrebbe fruttare almeno mezzo punto di Pil dal previsto 0,7 a qualche decimale al di sopra dell'1 per cento. Freno e acceleratore, appunto.

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Dove concentrare lo sforzo. Capisco la necessità sociale di un piano per gli asili nido. Capisco e condivido i maggiori investimenti per la ricerca, indispensabili per riqualificare le Università. Capisco i fondi per la scuola superiore, punto nero anzi nerissimo del nostro sistema scolastico. Qui necessitano piani di riforma che si estendono su un arco di tempo pluriannuale. Si tratta di mettere in moto i processi che esulano però da interventi anticiclici di immediato impiego.

A mio avviso il grosso del "deficit spending" ipotizzato dovrà esser destinato al potere d'acquisto delle fasce deboli, allo stipendio minimo del lavoro a tempo determinato e alle infrastrutture. Lo Stato si deve far carico d'un piano di investimenti pubblici che inneschi processi virtuosi di collaborazione con il capitale privato, superi le lentezze burocratiche, riduca al minimo il tempo delle gare d'appalto.

Questo tipo di investimento rappresenta un braccio di leva o meglio un motore d'avviamento con un elevato moltiplicatore; sostiene l'occupazione, accresce le dotazioni infrastrutturali e migliora per questa via la produttività di tutto il sistema.

Berlusconi, che anche lui ha formulato alcune proposte, ha indicato un programma informatico a vasto raggio per snellire e ridurre i costi della pubblica amministrazione. Credo sia una strada da seguire con l'avvertenza però che anche questo è un intervento che richiede un arco di tempo per dare frutti concreti.

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Insomma "si può fare". La crisi internazionale è purtroppo fuori dal controllo dei singoli governi nazionali, ognuno dei quali tuttavia ha la possibilità anzi il dovere di attivare tutte le risorse disponibili per migliorare la propria economia e contribuire per questa via al rilancio complessivo del ciclo.

Larghe intese? Berlusconi le propone in caso di parità elettorale. Veltroni ne ha delineato rigorosamente il campo. La maggioranza, quella che uscirà dalle urne, deve avere il diritto e la responsabilità di governare. D'altra parte, per quanto riguarda la Camera, basta un solo voto elettorale in più per far scattare il premio di maggioranza. Quanto al Senato, una maggioranza comunque ci sarà e sarebbe sufficiente che l'opposizione avesse il "fair play" di non perseguire la politica delle "spallate" voluta da Berlusconi per tutta la durata del governo Prodi e nel frattempo varasse le riforme costituzionali, queste sì "bipartisan", tra le quali la nuova legge del Senato regionale. L'obiettivo si sposta dunque su chi si aggiudicherà un voto in più alla Camera. "Si può fare".

Post scriptum. Ancora una volta voglio dare lode a Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, Pier Luigi Bersani, Vincenzo Visco, per il positivo lavoro sui conti pubblici e sul programma di rilancio di cui la loro politica ha posto le necessarie premesse. Tre di loro hanno passato la mano in obbedienza ai propositi di rinnovamento da essi stessi condivisi. Ma meritano di essere salutati con onore. Gli aspetti negativi non sono dipesi dalla loro azione ma da una coalizione discorde e rissosa che Veltroni ha il merito d'aver finalmente e definitivamente liquidato.

(24 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Marzo 02, 2008, 11:15:33 am »

POLITICA

Il dollaro ha perso il dominio del mondo

di EUGENIO SCALFARI


Alcuni "guru" della finanza americana fanno previsioni catastrofiche sull'evoluzione della crisi scatenata dai "subprime" immobiliari; altri, in America e in Europa, usano toni meno drammatici e prevedono che al massimo entro un anno la tempesta si placherà e rivedremo il sereno.

Nessuno può giurare sull'una o sull'altra tesi, le scommesse fanno parte del gioco e del funzionamento del mercato, ma bisogna esser ben consapevoli che si gioca a testa o croce, o al rosso e nero: cinquanta per cento di probabilità di vincere o di perdere.

Ciò premesso, ribadirò quanto scrissi nel giugno dell'anno scorso di fronte ai primi segnali dell'uragano: questa non è una crisi come le altre, non si limita ad un settore geografico del pianeta ma lo coinvolge tutto, non ha soltanto carattere finanziario ma dilaga nell'economia reale e intacca inevitabilmente i cosiddetti "fondamentali", cioè gli elementi di fondo che sorreggono l'economia. Merita quindi d'esser chiamata "grande crisi", definizione fin qui riservata a designare quella che cominciò a Wall Street nel 1929, si diffuse in Europa nel 1931 e non cessò di incombere sull'intero pianeta fino allo scoppio della guerra del 1939, nonostante che nel frattempo ci fosse stato il "New Deal" rooseveltiano e i fascismi europei.
Siamo dunque di fronte ad una grande crisi. Forse sbollirà tra un anno, forse si aggraverà ancora di più e si prolungherà. Forse intaccherà le strutture portanti del capitalismo e della democrazia oppure - a tempesta passata - tutto tornerà come prima. Ma a quest'ultima ipotesi, francamente non credo.

Mario Deaglio in un bell'articolo sulla "Stampa" di qualche giorno fa, ha spiegato quali sono i mutamenti più che mai reali che stanno fin d'ora modificando le strutture del sistema economico mondiale. Concordo completamente con la sua analisi che segnala i tre fattori della mutazione in corso.

Primo: una massa sterminata di nuovi consumatori si sta affacciando sul mercato delle derrate alimentari di base, soprattutto i cereali e il grano in particolare. Quantitativamente si tratta di almeno un miliardo di persone e nei prossimi anni questa cifra è destinata a raddoppiare a parità di abitanti del pianeta; ma sappiamo già che il tasso demografico è destinato ad aumentare di molto la popolazione mondiale con gli effetti nutrizionali che ne deriveranno.

Secondo: le nazioni emergenti (Cina, India, America Latina) hanno fame di energia e premono sulle risorse esistenti, in particolare sul petrolio. La ricerca di nuovi giacimenti e di nuove fonti sarà certamente stimolata, ma non abbastanza da ridurre l'effetto della domanda sui prezzi.

Terzo: il dollaro sta perdendo una parte del suo ruolo di moneta esclusiva sia per quanto riguarda le transazioni commerciali sia come unica moneta di riserva del valore.

La grande crisi non è responsabile di queste mutazioni, ma funziona come acceleratore. Spinge avanti i tre fenomeni in atto e li diffonde ovunque rendendo più difficile il contenimento e la gradualità.

* * *

Nouriel Roubini, il maggior catastrofista tra gli economisti che disegnano gli scenari del prossimo futuro, valuta a mille miliardi di dollari le perdite causate dai "subprime" immobiliari, dai debiti dei proprietari di case, dai debiti "in sofferenza" causati dagli strumenti finanziari "derivati", dai debiti dei titolari di carte di credito, dai debiti delle imprese fallite o minacciate da fallimento, dalle perdite che le banche e le compagnie d'assicurazione non hanno ancora iscritto nei loro bilanci e, infine, dall'andamento negativo delle Borse mondiali e dall'andamento altrettanto negativo dei margini di copertura degli operatori finanziari.

Mille miliardi di perdite sono una cifra enorme. Anche se non tutti i ragionamenti di Roubini sono condivisibili, la sua valutazione delle perdite complessive sembra abbastanza ragionevole. Essa incide soprattutto sul terzo degli elementi di mutazione del sistema e cioè sul ruolo del dollaro e sulla tenuta del "dollar standard" in vigore fin dai primi anni Settanta.

Le istituzioni monetarie internazionali e cioè il Fondo monetario, le Banche centrali (comprese quelle di Pechino, di New Delhi, di Brasilia, di Buenos Aires e di Città del Messico) e i rispettivi governi dovrebbero prendere l'iniziativa di una riforma del sistema monetario mondiale.

Capisco che una proposta del genere ha il sapore di un'ipotesi priva di fattibilità politica, ma in mancanza di un tentativo convinto in quella direzione tra pochi anni saranno i governi e le Banche centrali asiatiche a dettare la legge. Il grosso del finanziamento del Tesoro americano e delle attività finanziarie denominate in dollari è da tempo nelle mani di Cina, India e Giappone. Per cifre minori ma altrettanto cospicue, a quelle attività finanziarie monetarie dei tre grandi paesi asiatici vanno aggiunti i petrodollari in mano ai paesi arabi e alla Russia.

Una situazione del genere è estremamente squilibrata, può creare oscillazioni dei cambi molto gravi, delle quali l'attuale apprezzamento dell'euro rappresenta soltanto una pallida anticipazione. Una riforma del sistema non può che andare verso meccanismi di ridistribuzione dei valori monetari e dei tassi di cambio che ne sono l'espressione, connessa con il reddito reale delle varie aree economiche del pianeta, con le rispettive quote di commercio internazionale e con la stabilità dei bilanci dei singoli paesi.

Nel 1945 problemi analoghi furono esaminati da esperti e governi dei paesi vincitori, soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna. Sulla visione più equilibrata suggerita da Keynes prevalse il "dollar exchange standard" sostenuto dal governo americano. Mi azzardo a dire che una rilettura aggiornata e politica del piano Keynes potrebbe fornire idee di attuale interesse. Non varrebbe la pena di promuovere un'iniziativa di questa natura?

* * *

Su scala infinitamente minore ma per noi molto più vicina alla nostra vita quotidiana, si pone il tema della politica economica italiana nell'ambito della campagna elettorale in corso, delle proposte avanzate dalle forze politiche e di ciò che potrà avvenire quando dalle urne uscirà una nuova maggioranza e nuove opposizioni.
In proposito non ho che da ribadire quanto già scritto nelle scorse settimane: credo necessario mirare - nei limiti del possibile - ad una strategia anticiclica che sostenga una crescita purtroppo appiattita e in progressivo rallentamento. I margini per una linea di questa natura esistono. Si tratta a mio avviso di mobilitare risorse pari ad un punto di Pil (1.500 miliardi in cifra tonda) concentrando l'azione sul rifinanziamento della domanda interna di consumi e di investimenti, capace di contenere il rallentamento del Pil creando nuove risorse cui attingere negli esercizi 2009-2010.

Per non girare intorno e chiamare invece le cose con il loro nome, credo sia possibile attuare una calcolata politica di "deficit spending" senza oltrepassare la soglia europea del 3 per cento e coordinando quest'operazione con alienazioni di patrimonio da destinare interamente ad un abbassamento del debito pubblico e quindi degli oneri che ne derivano al bilancio dello Stato.

L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, mi ha cortesemente inviato il testo della sua "deposizione" dinanzi alle competenti commissioni parlamentari. Lo ringrazio di quest'attenzione anche se conoscevo già quel documento. Esso rappresenta una ricostruzione difensiva della politica attuata dal ministro dell'Economia durante il quinquennio del governo Berlusconi.

Non interessa in questa sede discutere il merito di quella difesa, convincente su alcuni aspetti e non convincente affatto su altri non marginali. Salvo un punto che merita risposta. Tremonti ritiene (con ragione) che il cambio di moneta dalle valute nazionali all'euro, effettuato nel 2000, abbia prodotto consistenti mutamenti nella distribuzione della ricchezza e della povertà tra le varie classi sociali, alimentando un malcontento largamente maggioritario nella popolazione europea e in quella italiana in particolare nei confronti dell'euro e dell'Europa.
L'ex ministro dell'Economia ritiene che l'errore dei governi dell'Eurozona sia stato quello di effettuare in un colpo solo il cambio della moneta. Le cose sarebbero andate diversamente se per tre-quattro anni ci fosse stata nei paesi di Eurolandia una doppia circolazione, quella dell'euro affiancata dalle monete nazionali.

Tremonti pensa che la doppia circolazione avrebbe evitato i massicci spostamenti di ricchezza e di povertà e le massicce speculazioni che li hanno prodotti. Penso che abbia ragione in teoria, ma torto politicamente: la doppia circolazione era impossibile; il passaggio dalle monete nazionali all'euro avvenne dopo una durissima battaglia soprattutto tra tedeschi e francesi, che fu vinta dal cancelliere Kohl quando riuscì a convincere Mitterrand, pur in contrasto con il parere delle rispettive Banche centrali. Una tergiversazione era a quel punto impossibile; la doppia circolazione, per di più, non avrebbe reso irreversibile il cambio di moneta e avrebbe alimentato innumerevoli speculazioni contro le monete più deboli, a cominciare dalla nostra, polverizzando l'operazione e agitando quotidianamente il mercato dei cambi.

Tremonti è un buon avvocato difensore di se stesso "ex post", ma sostituisce in questo caso la sua soggettiva visione alla dura realtà. Sta di fatto che il "money exchange" non fu seguito dal governo con gli opportuni controlli e infatti gli effetti sulla società italiana furono decisamente peggiori di quanto avvenne contemporaneamente negli altri maggiori paesi di Eurolandia.

Su un punto mi dichiaro del tutto d'accordo con l'ex ministro dell'Economia: egli ricorda d'esser stato favorevole al piano Delors di finanziare un grande programma di opere pubbliche europee con l'emissione di Eurobond sul mercato finanziario internazionale. Aveva ragione. Posso dire che il suo appoggio a quella proposta non fu così energico come avrebbe potuto e dovuto? Il governo Berlusconi-Tremonti pose le sue priorità su altri obiettivi politici ed economici.

L'appoggio al piano Delors fu puramente accademico e non sortì infatti alcun effetto.

Domando a mia volta: qual è l'opinione di Tremonti su una politica anticiclica da adottare subito dopo il 14 aprile, quale che sia la maggioranza che uscirà dalle urne? Questo sì, sarebbe interessante saperlo. Grazie se vorrà dircelo.


(2 marzo 2008)

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