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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 317742 volte)
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« Risposta #600 inserito:: Dicembre 30, 2015, 06:13:28 pm »

Misericordia: l'arma di Papa Francesco per la pace nel mondo
Le conclusioni del Sinodo e il Giubileo indicano che cosa il pontefice mette al centro della cristianità. È una vera rivoluzione per realizzare l'incontro con la modernità

Di EUGENIO SCALFARI
24 dicembre 2015
   
IL SINODO si è chiuso in questi giorni e contemporaneamente si sono aperte le porte delle cattedrali e delle chiese di tutto il mondo cattolico per il Giubileo della Misericordia. Questa parola, misericordia, è stata messa da papa Francesco al centro della vita cristiana. Lo è sempre stata, ma non con questa centralità. Cito le frasi usate in proposito da Francesco perché sono molto significative e, leggendole con la dovuta attenzione, ci fanno comprendere con esattezza il senso del suo pontificato.

"Gesù è la Misericordia fatta carne, cioè rende visibile ai nostri occhi il grande mistero dell'Amore trinitario di Dio. Gesù Cristo è il Dio misericordioso. Anche la necessaria opera di rinnovamento delle istituzioni e delle strutture della Chiesa è un mezzo che deve condurci a fare l'esperienza viva e vivificante della misericordia di Dio. Se dovessimo anche per un solo istante dimenticare la misericordia ogni nostro sforzo sarebbe vano perché diventeremmo schiavi delle nostre istituzioni e delle nostre strutture, per quanto rinnovate possano essere. Saremo sempre schiavi".

Il 10 dicembre scorso ebbi dal Papa un'inattesa telefonata. Era tornato il giorno prima dal suo viaggio in Africa dove aveva aperto la prima porta del Giubileo. La telefonata cominciò con queste sue parole: "Pronto, sono un rivoluzionario". Poi mi raccontò la sua esperienza nelle regioni africane che aveva appena visto e dei milioni di fedeli che l'avevano accolto, ma quella parola l'aveva presa da un mio articolo in cui lo designavo così e lui ci si era riconosciuto.

Rivoluzionario va ben oltre la parola riformista e lui lo è e lo spiega quando, nella frase sopra citata, disse che Cristo è il Dio dell'amore e della misericordia e più oltre che se ci scordiamo per un solo istante della misericordia diventeremo schiavi delle istituzioni quand'anche fossero state riformate e rinnovate. Questo insegnamento non è soltanto religioso, è anche culturale e perfino politico. Non a caso sono molte le persone, non solo nella nostra Italia ma in Europa e in tutto l'Occidente, che giudicano Francesco anche come uno spirito profetico che incide sulla politica, quella alta che si fonda sullo spirito civico e il bene di una Comunità. I tempi sono tempestosi, chiedono anzi reclamano l'amore verso il prossimo più che verso se stessi, respingono l'indifferenza, sanzionano l'egoismo che ci rende schiavi di noi stessi, del potere, del fondamentalismo e del terrorismo che può derivarne.

La misericordia, da questo punto di vista, è rivoluzionaria, è il perdono, è la carità, è l'amore. Si dovrebbe vivere dell'esperienza del passato, della speranza del futuro e si dovrebbe utilizzare il presente ed ogni suo attimo come momento per mettere in opera la misericordia. È un discorso che vale per tutti, credenti e non credenti. Viviamo una realtà d'un epoca assai critica. Se dovessi dire in che cosa si distingue dalle altre direi che abbiamo abolito i tempi verbali che descrivevano la nostra vita: ignoriamo e vogliamo ignorare il passato e non siamo in grado di progettare il futuro; il presente lo usiamo per distruggere l'esistente, rottamarlo senza attingere al deposito d'esperienza né alla progettazione del futuro.

Sono sentimenti che stanno prevalendo in Occidente che fu invece, fino ad una trentina d'anni fa, la culla dello storicismo e della progettazione del futuro, fosse liberale o marxista. Si dirà che si tratta di ideologie dando a questa parola un senso negativo che invece non ha: l'ideologia è una semplificazione culturale d'un valore o ideale che si voglia diffondere. Tutto è ideologia, perfino una religione, con la differenza che l'ideologia religiosa pone al vertice una Divinità trascendente mentre un'ideologia laica non pensa ad una trascendenza ma semmai all'immanenza che si esprime col motto di Spinoza "Deus, sive Natura".

Papa Francesco ha la fede e predica la trascendenza, ma la sua rivoluzione misericordiosa vale - ed anche lui lo pensa e lo dice - anche per i non credenti se fanno propria la misericordia. L'amore per se stessi è legittimo purché consideri ed applichi l'amore per gli altri e tanto più intenso è questo tanto più farà bene anche a quello. Un vescovo di Roma che arriva a questa forma di predicazione rivoluzionaria e incide sulle strutture della Chiesa, sulla cultura, sulle coscienze che cercano e vogliono il bene comune e incide, per conseguenza, anche sulla politica, è un evento rarissimo. La Chiesa ha avuto la fortuna di quattro Pontefici che si sono incamminati - pur con le differenze che hanno distinto l'uno dall'altro - sulla medesima strada: Giovanni XXIII che diede inizio al Concilio Vaticano II, Paolo VI che lo portò a termine e poi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che cercarono di attuarne le prescrizioni.

Purtroppo questa loro azione non dette molti frutti e il motivo è chiaro: gran parte della Curia fece barriera contro le conclusioni del Concilio, in particolare contro la più importante che incoraggiava la Chiesa a confrontarsi con la modernità, a comprenderla e ad ammodernare la Chiesa stessa. La lotta fu assai aspra e fu quella che costrinse Ratzinger a dimettersi: aveva ingaggiato quella battaglia ma era troppo debole fisicamente e psicologicamente per affrontarla. Francesco è proprio questo che vuole: applicare le prescrizioni del Vaticano II e realizzare l'incontro con la modernità. Questa è la sua rivoluzione: fare dell'Occidente secolarizzato il punto di confronto con la Chiesa della Misericordia. Il che comporta una rivoluzione dentro la Chiesa e proprio adesso, con la fine del Sinodo e l'inizio del Giubileo, ha raggiunto il punto massimo di tensione. Qui ci si gioca tutto e Francesco lo sa. Anche noi lo sappiamo. Vogliamo la stessa cosa, combattiamo per la stessa rivoluzione, anche se camminiamo su due strade parallele. Aldo Moro che la sapeva lunga in politica e anche in religione, aveva coniato il motto delle "convergenze parallele". Parlava di politica ma in certi casi riguarda tutto ciò che ha attinenza con la vita e quindi con l'azione, con il pensiero e con l'autocoscienza libera e consapevole.

***

Una delle differenze tra le persone, le culture, le civiltà, è il modo diverso di pensare. I cloni possono essere studiati nei laboratori ma per fortuna non esistono in natura. Noi siamo tutti diversi gli uni dagli altri e siamo altresì pieni di contraddizioni nell'interno di noi stessi. Se differenze e contraddizioni oltrepassano un certo limite, si scivola nella guerra con tutto ciò che ne segue. Ma poiché la diversità è insopprimibile bisogna "inculturare" le differenze.

Questa parola, "inculturare", l'ha usata papa Francesco quando ha rilevato le notevoli differenze tra i vescovi del Sinodo, dovute non soltanto ai diversi modi di pensare ma anche alle profonde diversità dei luoghi dove sono nati e dove svolgono la loro azione pastorale. Nel messaggio letto alla chiusura del Sinodo ai vescovi di tutto il mondo lì convenuti, Francesco ha detto: "Al di là delle questioni dogmatiche, abbiamo visto che quanto sembra normale ad un vescovo d'un continente può risultare strano e quasi scandaloso per il vescovo d'un altro continente. In realtà le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale definito dalla Chiesa ha bisogno di essere inculturato se vuole essere osservato e applicato. Si tratta insomma del radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane. L'inculturazione non indebolisce i valori perché essi si adattano senza scomparire, anzi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture". Qui è Francesco il gesuita che utilizza il metodo insegnato dal fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola: conoscere gli altri e costruire con loro un sistema per poter predicare e rafforzare la loro vocazione verso il Bene.

***

Ma c'è un altro aspetto specificatamente politico oltre che profondamente religioso, che Francesco porta avanti in nome del Dio unico che ispira profondamente il suo pensiero ed è l'affratellamento di tutte le religioni a cominciare dalle tre monoteistiche (ma non soltanto). Francesco affrontò questo tema nella riunione con gli esponenti delle tre religioni, l'ebraica, la musulmana e la cristiana, il 29 ottobre scorso ed elencò vari punti già indicati dal Vaticano II a proposito di quel tema: "La crescente interdipendenza tra i popoli. La ricerca continua di un senso della vita, della sofferenza umana, della morte. La comune origine e il comune destino dell'umanità. L'unicità della famiglia umana. Le religioni come ricerca di Dio all'interno delle vari etnie e culture. La Chiesa è aperta al dialogo con tutti e giudica con stima i credenti di tutte le religioni apprezzando il loro impegno culturale e morale. Possiamo camminare insieme prendendoci cura gli uni degli altri e del creato; insieme possiamo lodare il Creatore per averci dato il giardino del mondo da coltivare e custodire come un bene comune. Dio desidera e vuole che tutti gli uomini si riconoscano fratelli e vivano come tali formando la grande famiglia umana nell'armonia delle diversità".

Sono dichiarazioni e indicazioni che vedono il male nel fondamentalismo ed il bene nel procedere come fratelli, non credenti compresi, come Francesco ci tiene spesso a ricordarci. La lotta contro il terrorismo si può fare in tanti modi, con le armi, con il coraggio, con la preghiera. Ma l'approccio del Papa a camminare insieme come fratelli è quello che può avere più ampia rispondenza e più duraturi effetti politici.

***

Desidero concludere queste osservazioni sull'obiettivo di Francesco da applicare in nome della misericordia le conclusioni del Vaticano II che vuole e deve incontrarsi con la modernità, segnalando un'opera affascinante, condotta da una grande esperta di storia dell'arte, Chiara Frugoni, con un libro intitolato Quale Francesco? edito dalla Einaudi. La ricerca è effettuata sugli affreschi di Giotto nella chiesa di Assisi, dove si racconta quale sia la figura del santo. Una è quella del fraticello povero e umile tra confratelli altrettanto poveri ed umili; l'altra è d'un Francesco curiale, tra Pontefici, Cardinali e Cavalieri.

Due personaggi, un solo nome. Così è anche oggi: quale Francesco? Le figure giottesche sono magnifiche in entrambe le versioni, con profonde diversità tra loro. La storia del santo di Assisi però ci tramanda un personaggio unico che, dopo essersi pentito d'una giovinezza alquanto agitata e peccatrice, non cambia più: i poveri, la povertà, la debolezza, l'esclusione, sono i requisiti per passare da primi la porta del paradiso, ma anche la fratellanza. Non a caso Francesco aveva ordinato ai suoi frati di vivere anche tra non cristiani, senza liti e senza dispute, ritenendosi fratelli d'ogni creatura di Dio, quale che fosse il suo credo religioso a cominciare dai musulmani. La fratellanza, la misericordia. Del resto basta leggere il Cantico delle creature . Non è col suo primo verso che papa Francesco ha intitolato la sua prima enciclica?

Buon Natale e buon anno. E che la fratellanza e l'amore del prossimo, la libertà e la giustizia abbiano la meglio su tutto il resto.

© Riproduzione riservata
24 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2015/12/24/news/l_arma_di_francesco_per_la_pace_nel_mondo-130083879/?ref=HRER2-1
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« Risposta #601 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:10:26 pm »

Il plebiscito senza quorum nel paese dove regna Don Chisciotte
La mossa di Renzi di chiedere un referendum sulla sua riforma costituzionale potrebbe peggiorare la situazione. Una consultazione di tale importanza, che può essere valida senza un'affluenza minima di votanti, è molto pericolosa per la democrazia

Di EUGENIO SCALFARI
03 gennaio 2016

Il nuovo anno è cominciato politicamente con il messaggio agli italiani del presidente Mattarella trasmesso su tutte le reti televisive alle 20.30 del 31 dicembre scorso. Era il primo messaggio del nuovo Presidente ed è stato eccellente nella sostanza e nella forma. Non si è occupato di politica (così ha detto lui) che spetta al Parlamento e ai partiti rappresentanti del popolo sovrano; si è occupato delle regole costituzionali e soprattutto dei problemi che condizionano la vita degli italiani e qui è apparsa la sostanza di quel messaggio che sinteticamente riassumiamo. Ha detto: "Senza un Mezzogiorno risanato economicamente e socialmente l'Italia non esiste; senza un tasso d'occupazione nettamente maggiore di quello attuale l'Italia non esiste; senza il rispetto della condizione femminile l'Italia non esiste; senza un recupero sostanziale dell'evasione fiscale e la corruzione che l'accompagna e la determina l'Italia non esiste; e infine l'Italia non esiste senza che i giovani abbiano speranza nel futuro e adeguata educazione nel presente".

Non si potevano indicare con maggiore efficacia i problemi del Paese ai quali ha aggiunto quello dell'immigrazione, l'importanza di rafforzare l'Europa e la presenza italiana nelle istituzioni internazionali. Ha ricordato l'importanza della predicazione di papa Francesco che - ha detto - rappresenta il pilastro fondamentale della morale e della fraternità degli individui, delle comunità e dei popoli. Ha anche fornito cifre significative, la principale delle quali è stata quella dell'evasione fiscale che ammonta a 122 miliardi di euro. Basterebbe secondo lui recuperarne in breve tempo almeno la metà per ripianare la finanza dello Stato con essenziali ripercussioni sulle intollerabili diseguaglianze, sugli investimenti, sui consumi e sulla creazione di nuovi posti di lavoro.

Anche altri suoi predecessori inviarono analoghi messaggi a cominciare da quelli di Scalfaro, di Ciampi e di Napolitano e prima ancora di Sandro Pertini, ma questo di Mattarella è particolarmente utile perché fa chiarezza in una fase di tempi estremamente cupi, di guerra e d'un terrorismo che non si era mai visto di tale ampiezza da sconvolgere il mondo intero. Un messaggio tanto più necessario per accendere una luce di speranza e di fiducia.
***
Ma gli italiani come la pensano? Quali sono i loro timori e le loro speranze? Qual è il loro giudizio sulle istituzioni e sulle persone che le rappresentano? Un sondaggio di Ilvo Diamanti fornisce cifre estremamente significative. Ne ricordo qui alcune che bene inquadrano i sentimenti popolari che sono un elemento essenziale di una democrazia. Anzitutto i partiti e la democrazia: il 45 per cento degli interpellati pensa che senza i partiti la democrazia muore, ma il 48 per cento pensa esattamente il contrario. Ecco un giudizio che spiega l'ampia astensione e la crescente indifferenza dei cittadini verso la politica. Quanto alle istituzioni e alle persone che le rappresentano la classifica del 2015 è la seguente: al primo posto c'è papa Francesco con l'85 per cento dei voti; seguono le Forze dell'Ordine con il 68, la Scuola con il 56, il presidente della Repubblica col 49, la Magistratura con il 31, l'Unione europea col 30, lo Stato col 22, il Parlamento col 10, i partiti con il 5. Infine, richiesti se il 2016 sarà migliore o peggiore dell'anno appena concluso, il 41 per cento pensa che sarà migliore, il 42 che sarà eguale e il 15 per cento che sarà peggiore. C'è quindi un certo aumento della fiducia nel futuro, è ancora fragile questa fiducia ma c'è e questo è indubbiamente un dato positivo.
RAPPORTO DEMOS - LE TABELLE
***
Ci sarebbero ora molti altri argomenti da trattare: le banche, i risparmiatori, la riforma della Rai che contro il parere di ben tre sentenze della Corte costituzionale che affidano al Parlamento la responsabilità di guidare la politica radiotelevisiva, di fatto la mette invece nelle mani del governo; il contrasto tra Italia e Germania, le multinazionali che imboscano i loro profitti nei paradisi fiscali, le immigrazioni. Ed il referendum confermativo.
Su quest'ultimo tema i pareri degli esperti politologi sono alquanto diversi. Angelo Panebianco sostiene che in democrazia prevale la ricerca del meno peggio, cioè il compromesso che però è particolarmente difficile in una situazione politica tripolare se non addirittura quadripolare come è attualmente quella italiana. È proprio questo che spinge Renzi a trasformare il referendum confermativo in una sorta di plebiscito: se la maggioranza dei votanti voterà per lui tutto procederà verso il meglio, ma se sarà sconfitto non resterà al governo neppure un minuto di più. Secondo lui, in mancanza di valide alternative di Palazzo Chigi, sarà lui a vincere e allora potrà tranquillamente governare come ha già dato prova di poter fare con qualche successo all'insegna del cambiamento, parola fatata, unita all'altra altrettanto fascinosa della rottamazione.

Diverso il parere e le previsioni di Piero Ignazi. Secondo lui nei referendum confermativi chi detiene il potere ha sempre perduto, hanno vinto i no perché la gente comune che va a votare per il sì o per il no senza alcun vincolo di partito esprime sempre un voto negativo esprimendo in questo modo la sua antipatia per le caste, quali che siano gli interessi generali del Paese. Quindi, stando alle previsioni di Ignazi suffragate da tutte le precedenti esperienze a cominciare da quella sul divorzio e l'altra sul finanziamento pubblico dei partiti, potrebbe vincere il no. Sarebbe un no che esprime antipatia viscerale contro lo Stato, contro le istituzioni politiche, insomma contro il potere anche se talvolta (ma molto di rado) il potere non mira a rafforzare se stesso ma interpreta (una tantum) l'interesse dei cittadini. Perciò Renzi  -  secondo Ignazi  -  è molto a rischio e la trasformazione da lui tentata dal referendum in un plebiscito sulla sua persona non basta, anzi può perfino peggiorare la sua situazione.

Sia Angelo Panebianco sia Piero Ignazi (l'uno sul Corriere della Sera, l'altro su Repubblica di ieri) non considerano tuttavia un dato di fatto estremamente importante: i referendum confermativi non prevedono alcun "quorum" di votanti. Al limite, se andassero a votare soltanto tre elettori e il risultato fosse determinato da due di loro che votano allo stesso modo, il risultato sarebbe tecnicamente valido. Ovviamente non è mai così, ma non c'è dubbio che da tempo l'affluenza alle urne è drasticamente diminuita, sia nelle elezioni politiche e sia in quelle amministrative. È già da qualche anno che non sono stati indetti i referendum ma l'indifferenza degli elettori è enormemente aumentata, i partiti hanno negli ultimi sondaggi un tasso di adesione che arriva con difficoltà al 5 per cento degli interpellati. La gente comune insomma non esprime più né amore né odio ma semplicemente un totale distacco, salvo alcune frange innamorate del leader di turno o rabbiose contro lui, ma si tratta di una piccola parte del Paese. Il resto rimane a casa o va al mare o in montagna, ma alle urne no. Salvo se sono in gioco amicizie e interessi para-mafiosi.

Supponiamo che su centomila elettori, sessantamila non vadano a votare, il che è assai probabile, e supponiamo che su quarantamila che voteranno, trentamila voteranno in un modo e diecimila in un altro. Questo significa che meno di un terzo del corpo elettorale determina l'andamento politico del Paese, confermando il leader in carica o buttandolo giù dall'arcione. Sembra piuttosto una scena del Don Chisciotte che l'esercizio della democrazia. La conclusione è quella di stabilire un "quorum" per i referendum confermativi che dovrebbe aggirarsi attorno ai due terzi del corpo elettorale. D'altronde, per i referendum abrogativi esiste il quorum del 50 per cento, tanto che molti sono caduti nel vuoto per mancanza di elettori. Il referendum confermativo non dovrebbe fare eccezione. Senza una variazione costituzionale di questo tipo la democrazia è morta; non è importante chi vince o chi perde; senza un "quorum" quale che sia il risultato, la democrazia non c'è più. Che cosa allora bisogna fare?

Secondo me occorre che la Corte costituzionale sia interpellata. Non credo che possa cambiare la Costituzione ma può esprimere il parere che su questo punto sia opportunamente meditato. In quel caso 150 membri del Parlamento o 5 Regioni o cinquecentomila firme di cittadini elettori potrebbero proporre un referendum che chieda un quorum di due terzi degli elettori affinché il referendum confermativo sia valido. Credo che questo sarebbe il solo rimedio disponibile. È comunque incredibile che un referendum o plebiscito che sia possa essere validamente deciso se anche soltanto tre, dico tre, cittadini vadano a votare e tutti gli altri se ne freghino. Un Paese così, carissimo presidente Mattarella e carissimi emeriti Ciampi e Napolitano, cessa di essere democratico e può oscillare soltanto tra la tirannide e l'anarchia. Allora è meglio emigrare o tapparsi in casa e lasciare il Paese in mano ai migranti, alla faccia di Salvini. Sarebbe comunque una soluzione.
 
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03 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/03/news/il_plebiscito_senza_quorum_nel_paese_dove_regna_don_chisciotte-130539249/
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« Risposta #602 inserito:: Gennaio 10, 2016, 04:21:11 pm »

L'Europa è a pezzi e l'Italia è tagliata a fettuccine

Di EUGENIO SCALFARI
10 gennaio 2016
   
L'Europa è a pezzi e l'Italia è tagliata a fettuccine
Cominciamo dall'Europa: è completamente a pezzi.

In Germania la Cancelliera Angela Merkel ha compiuto un errore dietro l'altro. Il primo sembrò - e probabilmente lo era - un atto che restituiva all'Europa la sua dignità di presidio della civiltà occidentale: aprì la porta ai rifugiati che fuggivano dalla guerra in Siria, dalla morte, dalla fame, dalla schiavitù. Un milione di immigrati arrivò in terra tedesca trovandovi sostegno e - almeno in parte - anche lavoro. Ma quella pacifica invasione non piacque affatto agli alleati bavaresi della Cdu, il partito della Cancelliera. La destra tedesca si manifestò contro la Merkel anche in Parlamento. Gran parte del ceto medio si schierò contro di lei ad un anno e mezzo dalle prossime elezioni politiche.

Per evitare il peggio la Merkel bloccò - temporaneamente - ogni ulteriore ingresso di immigrati e proclamò che avrebbe espulso tutti quelli che non avessero rispettato le leggi vigenti. Ma, come se tutto ciò non bastasse, ci furono le turpi notti di Colonia e di Amburgo, l'assalto di centinaia di facinorosi alle donne che passeggiavano nel pieno centro della città, a Colonia specialmente tra il duomo e la stazione ferroviaria centrale. Palpeggiamenti lubrichi, borseggio, stupri, con la polizia incapace di fronteggiare un episodio che dir turpe è dir poco. La Merkel in questo momento si trova nel punto più basso della sua popolarità, con ripercussioni inevitabili nei confronti delle Autorità di Bruxelles. Tutto ciò non fa che stimolare l'autonomia dei singoli Paesi membri dell'Ue con le conseguenze che questa situazione comporta.

Nel frattempo altri Paesi, per bilanciare il flusso inevitabile di immigranti, hanno eretto muraglie di cemento e di filo spinato nonché le polizie di frontiera e addirittura l'esercito: la Polonia, l'Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Romania, la Slovenia, la Danimarca, la Svezia e perfino la Francia. Il trattato di Schengen che aveva abolito i confini interni tra le Nazioni europee, di fatto non esiste più anche se Bruxelles proclama che è tuttora pienamente valido ma soltanto temporaneamente sospeso. Parole. Allo stato dei fatti non lo è, ma se l'ipotesi della sua piena ripresa non avrà luogo entro i prossimi tre o quattro mesi, l'Europa come Unione non esisterà più proprio nel momento in cui la buona stagione farà riprendere massicciamente i viaggi per mare. L'emigrazione, come più volte ha detto papa Francesco, non si fermerà, perché nella società globale tutto si muove a cominciare da interi popoli. Dalla fame e dalla schiavitù, gli individui, le famiglie e popoli interi vanno verso il benessere. Durerà almeno cinquant'anni questo fenomeno e nessuno potrà fermarlo. Ma il primo effetto non è quello dell'accoglienza, ma del respingimento, sicché la politica si sta spostando: emerge l'indifferenza e nel contempo reggono partiti e movimenti di destra con tutto quel che ne segue.

Immigrazione a parte, la Spagna non è riuscita a formare un governo dopo le elezioni e voterà di nuovo nei prossimi mesi. Portogallo e Irlanda si trovano in pessime acque. La Grecia è in grave difficoltà.

Questo è il panorama. Dire che è pessimo è ancora dir poco. E l'Italia?

***

Di fronte al peggio degli altri Paesi sembra a molti che l'Italia sia il meglio. Per certi aspetti è vero, per altri no.

È certamente meglio per quanto riguarda la flessibilità economica perché con un'Europa che è ormai incapace di esistere politicamente e soltanto con una burocrazia abbandonata da ogni lato a se stessa, l'Italia da sola decide ciò che le sembra più opportuno: politica economica keynesiana, mance e mancette a fini elettorali, aumento di potere del premier che marcia ormai con passo veloce e sicuro verso l'istituzione costituzionale di una premiership che è da sempre il suo obiettivo.

L'Italia è uscita da tempo dalla recessione, ma negli ultimi mesi sembra aver imboccato la crescita economica, sia pure a lenti passi e ancora con grande fragilità. Questa crescita tuttavia è in parte figurativa. La diminuzione della disoccupazione e l'aumento dell'occupazione riguardano la prima lavoro precario, la seconda lavoro a tempo indeterminato con un costo di decontribuzione notevole e comunque determinata dall'aumento di consumi e degli investimenti. I consumi qualche ampliamento l'hanno avuto, gli investimenti ancora no.

Tutto ciò avviene comunque in presenza di un debito pubblico che è tra i più alti del mondo e non accenna a diminuire se non nelle previsioni che da due anni ci assicurano del loro avverarsi entro tre mesi. Prevedere è facile ma due anni sono comunque passati e quei tre mesi non li abbiamo visti. I guai per l'Italia non sono solo questi; ci sono le banche, c'è una premiership faccendiera, c'è un Parlamento svuotato d'ogni potere, c'è alle viste un referendum costituzionale che quanto di peggio si possa concepire, c'è l'evasione e la corruzione che il presidente Mattarella ha stigmatizzato nel messaggio di fine anno come un elemento peggiore e largamente diffuso. E poi c'è la Libia, dove abbiamo rivendicato il nostro ruolo di protagonista che ci è stato riconosciuto dall'Europa e dalle Nazioni Unite, ma che almeno finora non siamo stati assolutamente in grado di attuare mentre il Califfato e i suoi uomini, valutati in circa diecimila, assaltano particolarmente la Tunisia, il governo di Tobruk, quello di Tripoli, l'oleodotto di petrolio e di gas e alimentano il traffico degli scafisti. Insomma, si sono ormai militarmente insediati di fronte all'Italia mentre noi continuiamo ad offrire alla diplomazia il nostro ormai risibile protagonismo in politica estera.

***

Le banche, specialmente quelle popolari e locali, non sono certo una cosetta da poco. I crediti in sofferenza hanno ormai toccato per l'intero sistema italiano oltre i 300 miliardi e poiché una cifra simile assai difficilmente può essere ceduta ad un'impresa di recuperi, deve essere ripianata con aumenti di capitali, diminuzione di personale, concentrazioni di agenzie e soprattutto acquisto di titoli pubblici. Con quale danaro? Con il Qe della Banca centrale, restringendo l'erogazione di crediti alla clientela. È vero che Draghi vincola almeno una parte della liquidità che fornisce alle banche a prestiti alla clientela, ma quest'ultima è ancora intorpidita e quando non lo è le banche violano l'impegno assunto con la Bce, specie quelle locali e popolari di piccole dimensioni.

Le quattro banche popolari in stato di completo dissesto sono state ispezionate dalla Banca d'Italia, con speciale attenzione alla Banca Etruria che è la principale tra loro. Le ispezioni sono iniziate nel 2013 e sono continuate fino alla fine del 2014. A quel punto la Banca d'Italia ha formulato vere e proprie "incolpazioni" ai dirigenti, la Procura di Arezzo ha aperto un'inchiesta ed ha mobilitato la Guardia di Finanza. L'insieme di questi documenti è stato reso pubblico. Il governo dal canto suo, col provvedimento sulla "Buona Banca", ha costituito quattro nuove banche riunendo il dissesto in una "bad bank" o banca cattiva che dir si voglia, addossandone il peso a coloro che sono incappati in obbligazioni e investimenti quanto mai insicuri.

Dai documenti resi pubblici dalla Banca d'Italia e dalla Guardia di Finanza per quanto riguarda Banca Etruria, le incolpazioni riguardano l'ex presidente Lorenzo Rosi, i due vicepresidenti Alfredo Berni e Pierluigi Boschi, più molti componenti del consiglio d'amministrazione tra i quali il più incolpato dalla Procura è Luciano Nataloni. Tra le società citate in affari scorretti o addirittura colpevoli c'è soprattutto la Castelnuovese guidata da Rosi e altre con intrecci e partecipazioni variamente incrociati tra le quali la Nikita Invest che pare detenga il 41 per cento della Party srl, la cui maggioranza appartiene a Tiziano Renzi, padre del nostro presidente del Consiglio.

Questo è il panorama, in attesa del giudizio della Procura aretina. Speriamo sulla Buona Banca e negli arbitrati di necessario approfondimento affidati a Raffaele Cantone. Per noi, testimoni di quanto accade, non c'è che turarsi il naso.

***

Debbo ora parlare di nuovo, come già feci domenica scorsa, del referendum costituzionale, detto correntemente confermativo, che Renzi ha deciso si svolga nel prossimo autunno. L'intera materia è disegnata dalla Costituzione negli articoli 75 e 138. Poiché su questo argomento si sono aperte vivaci polemiche, approfondiamo il tema che sembra a me di massima importanza.

L'articolo 75 dice: "È indetto referendum popolare per decidere l'abrogazione totale o parziale d'una legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta di referendum è approvata se ha partecipato alla sua votazione la maggioranza degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi" dunque per il referendum abrogativo ci vuole il quorum del 50,1 per cento degli aventi diritto.

I passi essenziali dell'articolo 138 sono i seguenti: "Le leggi sulla revisione della Costituzione sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e sono approvati a maggioranza assoluta di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne faranno domanda un quinto dei membri d'una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge stessa è stata approvata da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti". Quest'ultima parte del 138 spiega chiaramente il motivo per il quale Renzi ha chiesto il referendum: non avrebbe mai raggiunto al Senato e forse neppure alla Camera la maggioranza dei due terzi, e quindi non c'era che fare ricorso ad un referendum confermativo che a differenza dell'abrogativo non ha alcun quorum da rispettare. Basta che partecipino qualche centinaia di migliaia su un elettorato di circa 40 milioni di cittadini, affinché sia valido. La mia ipotesi di solo tre persone votanti, da me formulata domenica scorsa, è ovviamente un'iperbole, ma se si verificasse, il referendum confermativo avrebbe il suo effetto.

La domanda sulla quale fervono le polemiche è dunque questa: perché la Costituzione non ha previsto un quorum? Per l'abrogazione sì, l'ha previsto, ma per una legge costituzionale che non abbia ottenuto i due terzi da entrambe le Camere no, non c'è quorum.

Dicono i sostenitori di questa procedura costituzionale che, non prevedendo alcun quorum, si dà voce e potere ad una minoranza e questo è un bene per la democrazia.

Detto così il concetto è giusto: si dà un potere ad una minoranza, quindi la democrazia è tutelata. Ma non è affatto così. Senza il quorum il potere si dà, in assenza d'una maggioranza assoluta, ad una maggioranza relativa. Cioè si dà un premio alla maggioranza delle minoranze così come avviene nella legge elettorale con il premio non a chi ha il 50 più 1 dei voti ma a chi ha il 40. Si premia una minoranza? No, si premia la maggioranza relativa e la si rende schiacciante visto che non poteva avere i due terzi del Parlamento.

Quindi il referendum confermativo dev'essere osteggiato da un contro referendum propositivo che chieda un quorum. Oppure la maggioranza senza quorum può dire no bocciando il confermativo.

Personalmente non credo che avverrà. Crescerà l'astensione, questo è probabile, ed avremo un Paese guidato da una premiership di minoranza. Coi tempi bui nei quali viviamo può essere una soluzione, ma non certo democratica e tanto meno di sinistra. Andranno a votare gli elettori abbienti e le clientele dei vari emirati. Anche su questi ci vorrebbe una vigilanza.
Se vorrà assumerla la spettanza è di Sergio Mattarella che dovrà fischiare un fallo quando lo vede. Forse sarebbe bene che usasse una moviola, cioè la libera stampa quando documenta un qualcosa che metta in gioco i principi della Costituzione democratica e repubblicana.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/10/news/l_europa_e_a_pezzi_e_l_italia_e_tagliata_a_fettuccine-130935379/?ref=HRER2-1
   
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« Risposta #603 inserito:: Gennaio 17, 2016, 05:20:11 pm »

Una ventata nazionalista nel conflitto tra l'Italia e l'Europa

Di EUGENIO SCALFARI
17 gennaio 2016
   
Il tema dominante della settimana appena trascorsa è il contrasto tra il governo italiano e la Commissione europea che governa il nostro continente sotto lo sguardo vigile dei 28 Paesi che compongono l'Europa confederata. Il contrasto di cui parliamo avviene spesso tra un singolo Paese e l'Ue quando qualcuno di essi vìola le regole, ma qui il caso è diverso perché sono due politiche che si contrappongono sull'economia, sull'equità sociale, sull'immigrazione, sulla flessibilità, insomma su tutto. Renzi e Juncker hanno addirittura valicato il linguaggio diplomatico e allusivo che si usa in questi casi adottando frasi dirette e crude. "Siamo stati insultati da un governo che abbiamo sempre favorito. Dunque è l'ora di fare i conti": questo ha detto infuriato Juncker, che verrà a Roma a fine febbraio. "Non siamo di quelli che vanno a Bruxelles con il cappello in mano a impetrare favori e non ci faremo dettare ciò che dobbiamo fare per il bene del nostro Paese": ha detto Renzi.

Le ragioni del contrasto, che ormai è un vero e proprio conflitto, sono come abbiamo già detto numerose ma non è chiara la ragione della sua vera e propria esplosione. Qualcosa di altrettanto esplosivo era avvenuto tra Bruxelles e la Polonia, affiancata dall'Ungheria e da altri Paesi del nordest europeo, ma in quel caso il tema era uno soltanto: l'immigrazione. Tema enorme, che durerà a dir poco per cinquant'anni e forse più e richiede inevitabilmente una gestione europea poiché riguarda il continente intero.

Se l'Europa non riuscirà a gestirlo unitariamente, il patto di Schengen che ha abolito i confini intraeuropei salterà e l'Ue cesserà di esistere. Il conflitto Italia-Bruxelles non è tale da mettere in discussione l'Europa confederata. Impedisce però che progredisca dalla Confederazione alla Federazione. Renzi non vuole la Federazione, non vuole che i governi nazionali siano declassati, non vuole gli Stati Uniti d'Europa. E questa è la natura profonda del conflitto in corso a Bruxelles. Il governatore d'uno qualunque degli Stati americani non potrebbe dire la frase: "Non andrò a Washington con il cappello in mano", per la semplice ragione che quel cappello, che sia in mano o in testa, non esiste. Il governo degli Stati Uniti d'America sta a Washington e non altrove e il suo interlocutore politico è il Congresso, composto da una Camera di rappresentanti e da un Senato. I governi dei cinquanta Stati americani governano i loro territori come in Italia i presidenti regionali governano le Regioni e i sindaci i Comuni. La bandiera americana è unica, unico è l'Esercito, unica l'Aviazione e unica la Marina. Qui in Europa ogni Stato ha la sua bandiera, le sue Forze armate, le sue capitali, la sua lingua. Di comune c'è soltanto la moneta, l'euro, che però non è condivisa da tutti i 28 Stati dell'Ue ma solo da 19 e non c'è un ministro del Tesoro europeo che sia l'interlocutore della Banca centrale.

Perciò lo ripeto: se a causa dell'immigrazione saranno ripristinati i confini tra gli Stati membri dell'Ue, l'Ue cesserà di esistere; se i singoli Stati rivendicheranno la loro autonomia e la rafforzeranno mettendosi in contrasto con Bruxelles su questioni molto importanti, non si farà alcun passo verso gli Stati Uniti d'Europa ed anzi questa prospettiva salterà per sempre.  Sembrerebbe che Renzi sia il più verace cultore di questa politica. Ma perché?

***

Ci sono ragioni specifiche ma il problema non è quello. Il nostro presidente del Consiglio, il cui interesse sarebbe quello di rivendicare l'autonomia del nostro governo ma di farlo sottovoce e nei modi appropriati, ha adottato il tono quasi del comizio elettorale. E infatti è questa la vera ragione: colpire con una ventata di nazionalismo l'opinione pubblica italiana.

Le ragioni di questa ventata sono evidenti: l'Italia, come praticamente tutta l'Europa, registra una crescente indifferenza o addirittura disprezzo della politica; il partito degli astenuti, che rappresenta il 40 per cento, continua a crescere e tra i partiti che andranno a votare alcuni sono programmaticamente contrari all'Europa e all'euro: i 5Stelle, la Lega, i Fratelli d'Italia. Stando ai sondaggi la somma di questi tre partiti arriva al 45 per cento dei votanti (27 per cento del corpo elettorale). La somma tra chi non vota e chi, votando, denuncia l'Europa e la moneta unica, arriva quindi al 67 per cento del corpo elettorale. Chi vota entro il quadro dell'Ue e dell'euro non rappresenta più del 33 per cento del corpo elettorale. Questa è la situazione italiana ma lo stesso fenomeno di astensione e di voti contro l'Ue è presente in molti altri Paesi europei anche se le percentuali sono diverse, alcune addirittura maggiori delle nostre, altre minori. Esistono e tendono a crescere in Polonia, Ungheria, Romania, Slovacchia, Bulgaria, Macedonia, Grecia, Spagna, Francia, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Lituania, Estonia, Lettonia. Insomma ovunque.

Questa essendo la situazione europea e italiana, che cosa ha pensato Renzi? Il suo partito, il Pd e il governo da lui presieduto sono in linea di principio europeisti, come europeisti sono i partiti di centrodestra e tali intendono rimanere, ma la ventata di nazionalismo è comunque una novità, un cambiamento per usare una parola che a Renzi piace molto. Sembra una parola vecchia il nazionalismo, non si usa più dai tempi di Mussolini e dell'Msi del dopoguerra. Renzi l'ha rispolverata con l'obiettivo di scuotere gli indifferenti e di togliere voti ai partiti e movimenti che voteranno contro l'Ue e contro l'euro. Ci riuscirà? Lui pensa di sì, anch'io penso di sì o almeno riuscirà a non perder voti su quel terreno. Altri pensano invece il contrario: perderà i voti di quanti sono decisamente contrari al nazionalismo. Nel Pd ce ne sono molti, direi la maggioranza. Ma non credo che avvertirebbero quella ventata. Guarderanno semmai al merito economico del conflitto Italia-Europa e quel merito lo condivideranno perché è uno strumento in favore d'una politica economica di crescita, di post-keynesismo, di flessibilità tale da favorire sia gli imprenditori sia i lavoratori.

La ventata di nazionalismo va bene per i comizi, ma non toglie voti al Pd e forse gliene procura qualcun altro dal populismo anti-europeo. Esiste il rischio che il populismo inquini anche il Pd? Questo sì, quel rischio esiste, anzi se vogliamo dire tutta la verità quel rischio si è già in parte verificato, la Leopolda renziana è pieno populismo. Quando si dice che il Pd renziano è più un partito di centro che di sinistra, non si dice tutto, il partito democratico renziano è certamente di centro ma è anche populista perché Renzi ha l'intonazione populista. Non è un insulto ma una constatazione.

***

Questo fenomeno renziano-leopoldista lo vedremo dalla fine di gennaio all'opera fino ad ottobre, la data in cui dovrebbe svolgersi il referendum costituzionale-confermativo sulla legge che modifica la Costituzione a cominciare dall'abolizione del Senato, trasformato in organo di competenza territoriale.

Sono mesi che segnaliamo le storture del referendum confermativo che, a norma della Costituzione, è privo di un quorum. Chi va a votare e ne ha i requisiti, determina l'esito: che vinca il sì legalizzando in tal modo la legge di riforma, o che vinca il no con la conseguente cancellazione della suddetta legge, l'esito non dipende dal numero dei votanti; fosse pure un solo votante, è lui che sceglie per tutti gli italiani. Naturalmente non sarà uno solo, anche se il numero degli astenuti sarà molto alto. Renzi ha trasformato il referendum in un plebiscito perché ha detto e più volte ripetuto che se i no sopravanzano i sì lui abbandonerà la politica. Quindi, in realtà, non si vota soltanto per la legge di modifica della Costituzione ma si vota soprattutto pro o contro Renzi.

Questa posizione poteva anche esser passata sotto silenzio e poi decisa da Renzi ad esito avvenuto; invece è il tasto più battuto ed è questo che fa diventare il referendum un plebiscito. Aumenterà il numero dei votanti? Io credo di sì, lo aumenterà. Questo rende inutile o comunque accantona il problema del quorum? Sì, lo accantona ma non lo elimina. Se ne potrà, anzi se ne dovrà discutere a tempo debito. Per quanto mi riguarda continuo a dire che il quorum è necessario ma, ripeto, per questa volta trascuriamolo.

Il risultato per Renzi è scontato: vincerà, i no saranno assai meno dei sì. I primi sondaggi danno infatti i sì a oltre il doppio dei no. Se, come è probabile, andranno a votare una quarantina di milioni degli aventi diritto, i sondaggi ne danno trenta ai sì e dieci ai no con tendenza a lieve crescita dei no.

È tuttavia possibile che i no aumentino in modo più sostanziale, fino a diventare competitivi per la ragione che se un Renzi sconfitto abbandona non soltanto il governo ma la politica, allora il tema non è soltanto la legge in questione ma si estende anche al partito Pd e alla sua guida che in quel caso sarebbe probabilmente non renziana.

Comunque l'uscita di scena di Renzi non interessa solo il Pd e la sinistra ma anche il centro e anche la destra. Interessa tutte le forze politiche. Da questo punto di vista il comitato di sinistra che sta raccogliendo firme non ha molto peso. Non si tratta di raccogliere firme per chi propugna il no, ma per contrapporre ai sì che saranno certamente molti, un sostanziale numero di voti contrari. Personalmente voterò no perché sono contrario alla riforma del Senato, ma se si trattasse solo di Renzi, dovrei pensarci prima di decidere. Quel che è importante è che il referendum senza quorum dimostri l'esistenza di una vera democrazia e quindi di una contrapposizione tra chi approva e chi è contrario con dimensioni in qualche modo equivalenti. Una vera democrazia esiste perché ci sono idee contrapposte che si misurano e poi vinca il migliore.

***

Poche parole su un tema importante e scottante: la legge sulle unioni civili. Qui si tratta di diritti e i diritti che si riescono ad ottenere valgono in eguale misura per tutti i cittadini indipendentemente dall'età e dal sesso. Le unioni civili che danno diritto alla convivenza, all'assistenza reciproca, ai lasciti testamentari, alle pensioni reversibili, valgono per tutti. Qualche dubbio può sorgere per il cosiddetto utero in affitto, ma se l'embrione conservato in deposito e usabile su richiesta è accettato, allora anche l'utero in affitto è accettabile, sono due forme equivalenti di procreazione assistita.

Il tema controverso è quello dell'adozione di figli da parte di coppie del medesimo sesso. Per quel che vale dico il mio parere: per un bambino è meglio due madri o due padri piuttosto che un orfanotrofio. Meglio soli che male accompagnati vale per gli adulti ma non per i bambini.

© Riproduzione riservata
17 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/17/news/una_ventata_nazionalista_nel_conflitto_tra_l_italia_e_l_europa-131437660/?ref=HRER2-1
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« Risposta #604 inserito:: Gennaio 22, 2016, 08:49:36 pm »

Io, Scola e lo scontro tra l'amore e il potere
I film, i libri e la vita.
Storia del sodalizio con il grande regista: il poeta che amava la democrazia

21 gennaio 2016
   
Il ricordo che ho di Ettore Scola è di quelli che restano nella memoria e non sono fuggitivi, ti toccano nel profondo e fanno parte della tua vita. Da quando l'altra sera ebbi da Walter Veltroni notizia della sua morte quel ricordo mi è costantemente presente. Avevamo cenato insieme pochi giorni prima e poi ci eravamo ancora incontrati alla festa che ha celebrato i quarant'anni di Repubblica nella sala di Santa Cecilia all'Auditorium della musica. Ha avuto un improvviso malore domenica, tre giorni dopo quell'ultimo nostro incontro. Questa mattina andrò a salutare la sua salma alla Casa del Cinema di Roma. Scrivo queste personali notizie come testimonianza - condivisa da moltissimi amici - dell'importanza che ha avuto nel cinema italiano, che per suo merito, insieme e poi in anni successivi alla loro scomparsa, ha condiviso con Rossellini e con Fellini. Ha girato una quarantina di film, uno più bello dell'altro, da C'eravamo tanto amati a Una giornata particolare, La famiglia, La terrazza e infine quello che lui chiamava un documentario ma che in realtà - almeno per me - è stato uno dei suoi più grandi film se non addirittura il migliore: lo intitolò Che strano chiamarsi Federico ed è un racconto magico della vita di Fellini. Merita d'esser rivisto, quel film su Federico, perché trascende il protagonista del racconto, ne coglie l'anima, la fantasia, le emozioni e la fuga di Fellini da una realtà mediocre alla ricerca d'un mondo fantasticato dell'arte, della bellezza, della libertà, dell'invenzione. L'invenzione: è la facoltà che distingue la nostra specie da quella degli animali dai quali proveniamo. Quando il quadrupede scimmiesco delle origini si alzò da terra e rimirò il cielo stellato e riuscì a guardare se stesso con la mente, in quello stesso momento nacque in lui l'invenzione e insieme con essa nuovi desideri e nuovi bisogni da soddisfare. L'invenzione è il dono che la natura ci ha dato ed è questo che Ettore ha celebrato in tutti i suoi film, ma non soltanto; direi con la sua vita e i valori che l'hanno ispirata, le amicizie che ha avuto, la politica cui ha aderito.

Fu animato dall'amore verso la democrazia e verso la sinistra. Votava per il partito comunista soprattutto quando quel partito fece propri, non a parole ma con i fatti, i valori democratici. Berlinguer e Pietro Ingrao furono i suoi punti di riferimento; il fascismo il suo nemico costante, non più come antico ricordo ma come tentazione sempre presente della tirannide e della dittatura, che è una delle caratteristiche del potere e della presa che il potere ha sulla mente degli uomini. Bisogna vincerla, quella tentazione. Scola lo lascia intendere in tutti i suoi film con le forme cinematografiche le più diverse, da quella esplicita di Una giornata particolare a quelle implicite del gradasso, spesso impersonato da Vittorio Gassman. Nel film La famiglia lo scontro tra l'amore e il potere appare in una serie di scene dove quei due sentimenti contrapposti si intrecciano l'uno con l'altro e alimentano l'intensa contraddizione all'interno di tutti i personaggi del film, come nella realtà avviene in ciascuno di noi. Sono due caratteri essenziali nella vita e ciascuno di noi ne è pervaso. Anche Scola, perché non si può inventare senza contraddirsi e viceversa. Di queste cose parlavamo spesso, lui le raccontava nei suoi film, io nei miei libri e tutti e due, senza dircelo, ne eravamo pervasi. Per questo non scorderò Ettore finché vivrò: eravamo molto simili e quell'intreccio di sentimenti fece la nostra forza e la nostra debolezza insieme alla gioia di vivere e alla malinconia che sempre l'accompagna.

© Riproduzione riservata
21 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/01/21/news/io_scola_e_lo_scontro_tra_l_amore_e_il_potere-131704429/?ref=HRER2-1
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« Risposta #605 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:32:43 am »

Papa Francesco sulla famiglia non ha fatto nessun passo indietro
Bergoglio ha chiesto di non confondere unioni civili e matrimonio, ma nello stesso giorno ha parlato di amore misericordioso per quanti vivono situazioni diverse dalle nozze, per scelta o per circostanze della vita.
Sullo scontro di piazza, tra organizzatori del Family Day e associazioni laiche, non interviene.
E all'episcopato italiano già da tempo ha ricordato che non deve occuparsi di politica

Di EUGENIO SCALFARI
24 gennaio 2016
   
"La Chiesa ha indicato al mondo che non ci può essere confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione". Questo ha detto papa Francesco nel suo discorso di venerdì all'apertura dell'anno giudiziario del tribunale della Sacra Rota e questo avrebbe significato un passo indietro rispetto all'apertura verso la modernità contenuta nelle prescrizioni del Concilio Vaticano II la cui citazione finora Francesco ha sempre assunto come il maggior compito del suo pontificato. Ma non ha detto soltanto questo. Nel finale del suo intervento ha anche affrontato il tema dei mutamenti che possono verificarsi dentro e fuori della famiglia consacrata dal matrimonio religioso: "La famiglia fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo appartiene al sogno di Dio ma i responsabili dei processi matrimoniali non dovranno mai dimenticare il necessario amore misericordioso verso quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato obiettivo di errore".

Infatti, nello stesso giorno del suo intervento al tribunale rotale, il Papa ha inviato anche un messaggio ai partecipanti alla cinquantesima giornata mondiale della comunicazione in cui ha invitato a "esprimersi con gentilezza e comprensione anche nei confronti di quanti, in merito al matrimonio pensano e agiscono diversamente". Che questo sia il suo atteggiamento nei confronti delle cosiddette unioni civili tra persone sessualmente eterogenee o anche dello stesso sesso, è noto da tempo. Il Papa insomma distingue tra famiglie matrimoniali e unioni civili di qualunque tipo e non nega affatto che la stessa posizione sia riconosciuta legalmente.

Nel contrasto di piazza che si sta verificando tra associazioni cattoliche nel "Family Day" che avrà luogo il 30 prossimo e le molteplici associazioni laiche che andranno avanti fino a quando la legge presentata dal governo sarà discussa e, in forma emendata, approvata (dal 28 prossimo) Francesco non interviene; il compito spetta semmai all'episcopato italiano al quale tuttavia viene ricordato che non deve più occuparsi di politica ma chiarire la posizione pastorale sui problemi in discussione.

Il cosiddetto passo indietro di Francesco sul tema della famiglia non c'è dunque stato. Naturalmente Francesco, come già avvenuto nella discussione sinodale sul tema dell'accesso dei divorziati risposati che chiedono di esser riammessi ai sacramenti, deve cercare soluzioni di compromesso (temporaneo) per mantenere l'unità della Chiesa sinodale. Sul tema dei sacramenti ai divorziati risposati il compromesso è stato di affidare ai vescovi e ai confessori da essi delegati, di decidere se il richiedente può essere riaccolto oppure no. In questo modo l'uscio della riammissione è stato aperto per metà, caso per caso; ma è sempre possibile ai richiedenti della riammissione che abbiano ricevuto parere negativo dal confessore di ripresentarsi dopo qualche tempo penitenziale e formulare di nuovo la richiesta ed è altrettanto possibile, anzi è praticamente certo, che quella seconda richiesta sia accolta.

In questa fase - come sappiamo - la tensione tra il Papa e la Curia ha raggiunto il suo massimo, sicché Francesco deve tenere unita la più larga maggioranza possibile dell'episcopato che privilegia l'azione pastorale e rappresenta in questo modo la Chiesa missionaria voluta da Francesco. Questo spiega ampiamente il compromesso in materia di matrimonio e di unioni civili.

Del resto la parola famiglia è una parola pluri-significativa: designa una comunità di persone unite tra loro da vincoli di affetto o di amicizia o di semplice appartenenza ad una comunità. Nell'antica Grecia e nell'antica Roma la famiglia comprendeva uomo e donna, nonché figli e nipoti, ma anche parenti lontani nel grado di parentela e schiavi, giocolieri, buffoni. Quella insomma che nella Roma classica era chiamata "gens" e aveva anche un nome: la gens Giulia o Claudia o Scipia o Flavia. Ma in tempi attuali esistono anche in tutto il mondo le famiglie mafiose, che prendono il nome del loro capo. Sicché la famiglia matrimoniale non ha natura diversa da quella legalizzata delle unioni civili; sempre di famiglie si tratta, di unioni con analoghi contenuti ma diversi termini lessicali che li distinguono. Il Papa tutte queste varianti le conosce benissimo.

Del resto c'è un altro elemento che Francesco conosce altrettanto bene: la concezione musulmana della famiglia è completamente diversa da quella cattolica, a cominciare dalla supremazia del maschio e dalla poligamia. Ma anche la concezione ebraica è diversa perché la Bibbia dell'Antico Testamento prevede famiglie con due o anche tre mogli per un solo marito. Francesco predica il Dio unico, specialmente tra i tre monoteismi ma per tutte le forme di divinità trascendente. Un Dio unico con scritture e tradizioni diverse, ma unico comunque, sicché le diversità tra le scritture e le tradizioni hanno un impatto assai modesto e sono comunque soggetti a cambiamenti continui che incidono sulla lettera ma non sull'essenza spirituale delle religioni. E questo è tutto per quanto riguarda papa Francesco.

Ma ora c'è il côté laico da descrivere. Chi sono e che cosa pensano su questi problemi?

***

I laici si dicono tali indipendentemente dall'essere o non essere religiosi d'una qualunque religione. Di solito sono contrari alla trascendenza; una delle "bibbie" del pensiero laico è infatti Baruch Spinoza, che aveva teorizzato l'immanenza della divinità con il motto ormai famoso "Deus sive Natura". Comunque non si è laici e non ci si autodefinisce come tali se non per il fatto che ci s'identifica con i valori di libertà, eguaglianza, fraternità. Gustavo Zagrebelsky, su Repubblica di ieri, sostiene che il laico s'identifica con la democrazia, cioè con l'attribuzione del potere al cosiddetto popolo sovrano. Vero, ma fino ad un certo punto. Non sempre infatti il popolo sovrano sostiene con fatti e non solo con parole tutti e tre quei valori. L'Atene di Pericle era piena di schiavi e così pure la Roma repubblicana e poi imperiale. Ed anche la Galilea dove Gesù di Nazaret predicò duemila anni fa. Infine la democrazia borghese ha sempre puntato sulla libertà a spese dell'eguaglianza e la democrazia operaia pur d'ottenere l'uguaglianza ha messo molto spesso in soffitta la libertà.

Concludo su questo punto che i laici sono certamente democratici sempreché quei valori siano tutti e tre considerati con pari forza, il che vuol dire la difesa dei diritti e insieme ad essi dei doveri che ciascun diritto comporta come corrispettivo in favore di quella stessa comunità che riconosce i diritti.

Personalmente critico Renzi tutte le volte (e purtroppo sono parecchie) che deturpa sia i diritti che i doveri, sia sullo scacchiere nazionale che su quello internazionale; ma nel caso in questione che riguarda le unioni civili, l'appoggio che sta dando alla legge proposta dalla senatrice Cirinnà rappresenta un impegno del nostro presidente del Consiglio che merita piena lode. Lode che si accresce quando vediamo che gli si oppongono la Lega, Forza Italia e Grillo con motivazioni prive di senso, per nascondere quella vera di attacco antirenziano. Ci sono mille possibili motivazioni di antirenzismo, a cominciare dalla legge costituzionale e dal referendum che dovrebbe confermarla, ma questa contro la legge Cirinnà no, non regge per nessuna ragione da chi professa una libertà anarchica (Grillo) o un clericalismo da strage di San Bartolomeo.

Naturalmente anche Renzi, come papa Francesco, ha studiato qualche compromesso per superare l'ostilità dei cattolici del suo partito. Ma la Cirinnà, sia pure emendata ma sostanzialmente integra, è un passo avanti notevole, del quale si parla da trent'anni senza che nulla sia stato fatto finora. Nel frattempo la questione è stata legalizzata in tutti gli altri Paesi dell'Occidente, in modo ancor più integrale; si tratta in grande maggioranza di Paesi dove le religioni dominanti sono di carattere protestante e quindi con meno remore al contrario di quanto avviene da noi. L'Italia o è laica nel senso sopraddetto o è cattolica ma oggi con un Papa aperto all'incontro con la modernità. Perciò la legge Cirinnà si discuterà il 28 prossimo e si voterà. Il risultato favorevole non è sicuro, ma probabile. L'ho già detto: spero questa volta che Renzi vinca.

Ci sarebbe ora da parlare dell'Europa. Lo faremo domenica prossima. Oggi posso solo dire che ci sono, in un'Europa divisa in mille pezzi, due sole posizioni positive: quella di Draghi che sta lottando con tutti i mezzi per uscire dal pericolo di un'altra recessione e quella di Schäuble che propone un piano Marshall europeo che aiuti i Paesi africani dove nasce l'emigrazione che ha l'Europa come obiettivo.

Mi sia consentito chiudere con un brano tratto da una poesia di Thomas S. Eliot che - mi sembra - coglie pienamente la transitorietà del tempo che ci attraversa: "Una dopo l'altra / case sorgono cadono crollano vengono ampliate vengono demolite distrutte restaurate... /C'è un tempo per costruire / e un tempo per vivere e generare / e un tempo perché il vento infranga il vetro sconnesso... / Dobbiamo muovere ancora e ancora / verso un'altra intensità/ per un'unione più compiuta, più profonda / attraverso il buio freddo e la vuota desolazione, / il grido dell'onda, il grido del vento, la vastità delle acque /della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio".

© Riproduzione riservata
24 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/24/news/papa_francesco_sulla_famiglia_non_ha_fatto_nessun_passo_indietro-131923450/?ref=HRER2-1
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« Risposta #606 inserito:: Gennaio 31, 2016, 04:44:55 pm »

Con sorriso e con rabbia Angela e Matteo fan buchi nella sabbia

Di EUGENIO SCALFARI
31 gennaio 2016
   
VOLEVO scrivere oggi sull'Europa e della crisi che la sta devastando nonostante l'indifferenza che ha pervaso le sue istituzioni e la cosiddetta classe dirigente che le amministra; una crisi che è apparsa ancor più chiaramente nell'incontro di venerdì scorso tra Angela Merkel e Matteo Renzi a Berlino.

Lo farò tra poco, ma prima debbo premettere alcune considerazioni sull'incontro in Vaticano tra papa Francesco e Hassan Rouhani, presidente dell'Iran, ed anche sulla preannunciata riunione che avverrà il prossimo 31 ottobre in Svezia tra Francesco e i rappresentanti delle Chiese protestanti di tutto il mondo per celebrare la riforma luterana di mezzo millennio fa in quello stesso giorno, quando Martin Lutero attaccò sulla porta della cattedrale di Wittenberg le sue tesi che spaccarono in due la religione cristiana.

Cinquecento anni, durante i quali si scatenarono guerre religiose, stragi, roghi, torture inflitte da ambo le parti e con l'appoggio dei diversi sovrani che utilizzavano a proprio vantaggio politico quelle tragiche guerre religiose. Uno soltanto tentò la via della riconciliazione nel 1541 e fu Carlo V d'Asburgo, imperatore di Germania e di Spagna, ma il tentativo fallì e le guerre religiose continuarono a insanguinare l'Europa.

Il culmine fu raggiunto nella notte di San Bartolomeo nel 1572 quando gli ugonotti (i protestanti francesi) guidati dal re di Navarra, dal principe di Condé e dall'ammiraglio de Coligny, furono massacrati dai soldati di Caterina de' Medici e da suo figlio Carlo IX di Valois. Furono ventitremila le vittime di quella mattanza a Parigi e poi continuarono per secoli.

Il 31 ottobre prossimo quella spaccatura in due della cattolicità sarà celebrata e superata. Francesco ha già chiesto perdono ai valdesi, che precedettero di molto la scissione luterana e chiederà perdono anche a Lutero e ai suoi discendenti e il perdono sarà reciproco perché i protestanti hanno anche loro responsabilità di tanto sangue sparso. L'obiettivo di entrambe le parti è di superare quelle divisioni affratellandosi di nuovo nel nome di Cristo. I riti e la liturgia resteranno distinti, ma l'affratellamento sarà aperto nell'ambito di una Chiesa pastorale e missionaria che con una svolta di queste proporzioni, alla quale sono da aggiungere gran parte degli anglicani e in un futuro prossimo anche gli ortodossi delle Chiese d'Oriente, sarà la religione numericamente più diffusa nelle due Americhe, in Europa, in Russia, in Africa, in Asia e in Australia.

Non dimentichiamo però la visita alla sinagoga di Roma di papa Francesco e l'incontro con Rouhani al Palazzo Apostolico il 26 scorso. Il comunicato emesso con l'accordo delle due parti dice così: «Durante il colloquio si sono evidenziati i valori spirituali comuni e si è poi fatto riferimento ai buoni rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica Islamica dell'Iran. Si è altresì rivelato l'importante ruolo che l'Iran svolge, insieme ad altri Paesi della Regione per promuovere adeguate soluzioni politiche ai problemi che affliggono il Medio Oriente contrastando la diffusione del terrorismo. Al riguardo è stata ricordata l'importanza del dialogo interreligioso e la responsabilità delle comunità religiose nel promuovere la tolleranza e la pace».

Due iniziative, con i protestanti luterani e con l'Iran islamico, dalle quali esce rafforzata la libertà religiosa, la convergenza umanitaria nonché le ripercussioni politiche di queste iniziative prese in gran parte da papa Francesco. Altre volte l'ho definito profetico e rivoluzionario. Alla base del suo pensiero e della sua azione c'è sempre la fede in un unico Dio che nessuno aveva proclamato con il vigore di Francesco e che rappresenta la scomunica dei fondamentalismi di ogni genere e dei terrorismi e delle guerre che quei fondamentalismi alimentano.

****

Ed ora l'Europa e l'incontro a Berlino tra Angela Merkel e Matteo Renzi che è in ordine temporale l'episodio più recente della politica europea. Ma c'è un altro episodio con il quale desidero aprire questo capitolo domenicale: il viaggio di Renzi all'isola di Ventotene, nei pressi di Ischia, per commemorare il "Manifesto per l'Europa" redatto in quell'isola dove erano confinati gli antifascisti ai tempi del regime mussoliniano, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

Sono stato amico di entrambi: Spinelli lo conobbi a casa della figlia Barbara che lavorò per molti anni con Repubblica; Ernesto lo conobbi al Mondo di Mario Pannunzio nel 1949 e lavorammo insieme giornalisticamente e politicamente da quell'anno fino al 1963. Lo dico perché conosco, al di là del Manifesto che peraltro è chiarissimo, il loro pensiero e l'azione che sostennero per l'unità democratica dell'Europa. Spinelli e Rossi puntavano agli Stati Uniti d'Europa sul modello istituzionale degli Stati Uniti d'America. Questo volevano e per questo lavorarono finché vissero, Altiero soprattutto.

Mi rallegro molto con Renzi per questa visita a Ventotene in ricordo ed omaggio all'europeismo di Spinelli (di Rossi non ha mai parlato come se quella firma fosse inesistente) ma forse Renzi non si è mai battuto per gli Stati Uniti d'Europa, cioè per un'Europa federata e non soltanto confederata. In questi ultimi tempi Renzi si è anzi distinto per il suo contrasto con la Commissione europea, battendo i pugni sul tavolo, tenendo in testa il cappello e riaffermando l'autonomia dei governi nazionali i quali, sia pure nel quadro delle regole europee, debbono avere piena libertà di applicarle nei tempi e nei modi decisi autonomamente dai rispettivi governi.

È vero che esistono temi che l'Europa ha finora lasciato nelle mani dei governi nazionali, ma è vero anche che le regole sono emesse dalla Commissione dopo l'approvazione del Consiglio dei ministri dei 28 Stati membri e dal Parlamento di Bruxelles. Rafforzare l'autonomia degli Stati nazionali, i quali detengono la sovranità collegiale della confederazione col voto spesso unanime e talvolta a maggioranza qualificata significa non già rafforzare l'Unione europea ma indebolirla ulteriormente.

Renzi si sta dunque muovendo su una strada di totale ma consapevole incoerenza, che è già stata negativamente giudicata anche da Giorgio Napolitano oltreché dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, ma che non pare sia stata adeguatamente sostenuta dall'opposizione interna del Pd che si definisce più a sinistra di Renzi.

Questa scarsa sensibilità della dissidenza ha purtroppo un solo significato: la sinistra non c'è più o almeno non si sa che cosa significhi oggi essere di sinistra. L'ha detto più volte Alfredo Reichlin, uno dei dirigenti dell'antico Partito comunista, tuttora presente nella battaglia politica. A Renzi oggi conviene dirsi alla guida d'un partito di sinistra. Questo lo distingue dalla Merkel che capeggia una democrazia moderata, ancorché alleata con il partito socialista tedesco che peraltro conta poco o niente nel determinare la politica della Cancelliera.

Dunque un Renzi di sinistra che si distingue così dalla Merkel moderata e tende a fare tandem con lei proponendosi come il capo di governo che fronteggia o si accorda volta per volta e problema per problema con la Germania. Insomma al posto del tandem Germania-Francia, un nuovo tandem Germania-Italia. Mica male come prospettiva renziana, politicamente parlando. Resta il contrasto economico tra crescita (Renzi) e austerità (Merkel). Ma questo è un contrasto fittizio perché non dipende da nessuno dei due. Dipende invece da quanto sta avvenendo nel mondo intero: in Usa, in Cina, in Giappone, in Russia, in Brasile, nel Medio Oriente. Dipende dall'andamento di alcune materie prime e da alcune attività economiche, a cominciare dall'industria manifatturiera e dalle fonti di energia, petrolio e gas. Dipende dall'andamento climatico e dal fattore demografico. Dipende dalle diseguaglianze sociali e territoriali.

Questo è lo scacchiere. Ma non pare che Renzi ne sia consapevole. O meglio: lo sa ma è più sensibile alla raccolta del consenso, tema a breve raggio temporale. Il consenso serve subito e bisogna farlo durare almeno un anno per poi recuperarlo con nuove ricette elettoralistiche. Il futuro è breve per mantenere il potere. Ce lo ha insegnato Giulio Andreotti, che fu il meglio del peggio nella storia del nostro Paese.

****

Dell'incontro Merkel-Renzi abbiamo già detto. Riassumendolo in queste ultime righe dirò che si sono scambiati alcuni biscottini ma nulla di più, né un bel piatto di fettuccine al ragù né una bistecca di manzo. L'appetito è rimasto intatto, non tanto per la Cancelliera che mangia poco, quanto per il nostro presidente del Consiglio che è molto più giovane ed ha una fame arretrata. Quella c'è ancora e non si sa se potrà saziarla, almeno in Europa.

In Italia sì e a volte con soddisfazione generale. Anche nostra, l'ho già scritto domenica scorsa e lo ripeto oggi per quanto riguarda la legge sulle unioni civili. La legge Cirinnà avrà qualche emendamento sull'utero in affitto e sulle adozioni volute da coppie omosessuali con figli non propri. Se altri emendamenti ci fossero ci sarebbe da preoccuparsi e quindi speriamo di no.

Chiuderò con alcuni versi, tratti da una vecchia poesia di Ernesto Ragazzoni scritta nel giugno 1914. Si intitola Ballata e descrive molto bene quello che spesso accade a chi non ama il potere e si contenta di quel poco che può fare per ingannare il tempo che passa e vola via. A volte poche rime chiariscono molte cose.

«Sento intorno sussurrarmi

che ci sono altri mestieri…

bravi, a voi! Scolpite marmi,

combattete il beri-beri,

allevate ostriche a Chioggia,

filugelli in Cadenabbia,

fabbricate parapioggia.

Io fo buchi nella sabbia.

O cogliete la cicoria

od allori, o voi, Dio v'abbia

tutti quanti in pace e gloria!

Io fo buchi nella sabbia».

© Riproduzione riservata
31 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/31/news/con_sorriso_e_con_rabbia_angela_e_matteo_fan_buchi_nella_sabbia-132390192/?ref=HRER2-1
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« Risposta #607 inserito:: Febbraio 05, 2016, 11:07:22 pm »

Boldrini: "L'Europa è a pezzi, rilanciamo l'utopia dei fondatori"
Il colloquio. "Le masse di migranti, la disoccupazione e le disuguaglianze crescenti rendono sempre più necessaria la nascita della Federazione europea"

Di EUGENIO SCALFARI
   
HO INCONTRATO il 2 febbraio scorso Laura Boldrini nella sua residenza alla Camera dei deputati da lei presieduta. Il tema che volevo discutere con lei era quello dell'Europa che da tempo è diventato dominante nella sua mente ed anche nella sua missione politica.

L'Europa è a pezzi mentre la situazione intorno a noi diventa sempre più drammatica: la transumanza di popoli interi, la civiltà globale che in questa forma così avanzata non era mai esistita e che le nuove tecnologie hanno reso ancor più operante nella circolazione delle merci, dei capitali, delle culture, dei linguaggi; le guerre locali sempre più diffuse e cruente; il fondamentalismo ideologico e religioso che ha dato luogo a forme di terrorismo efferate e mondializzate; infine la necessità di Stati di dimensioni continentali che abbiano la possibilità di confrontarsi tra loro pacificamente ma liberamente, dando vita ad una multipolarità indispensabile per agire in una società planetaria: Stati Uniti d'America, Cina, India, Brasile, Sudafrica.

Bisognerebbe aggiungere Europa poiché il nostro è uno dei continenti dotato d'una storia plurimillenaria, d'una cultura, d'una civiltà e di una ricchezza antica che ne farebbe uno dei continenti più potenti del pianeta. Bisognerebbe, ma purtroppo non si può perché l'Europa come Stato non esiste e dopo la caduta dell'Impero romano, non è mai esistito. E' un coacervo di Paesi, 28 per l'esattezza, 19 dei quali hanno creato una moneta comune, legati tra loro da vincoli confederali e guidati da istituzioni confederate, delle quali ci sono i capi dei 28 governi che deliberano sulle materie comuni se e quando decidono con voto unanime o con maggioranze qualificate.

Si può andare avanti così?, domando a Laura Boldrini.
"No, non si può andare avanti così, tanto più in una fase di crisi economica che dura ormai da un decennio e da un terrorismo atroce che si diffonde di giorno in giorno. Le masse di emigranti, la disoccupazione e la povertà, le diseguaglianze crescenti, rendono sempre più necessaria la nascita della Federazione europea, ma pochi passi sono stati compiuti in quella direzione. Uno di essi, tra i più appropriati, fu l'accordo di Schengen, una cittadina sulle rive della Mosella, quando furono aboliti i confini interni tra i principali Paesi europei. Ma ora, a causa dell'immigrazione di massa degli ultimi mesi, quei confini sono stati quasi ovunque ripristinati; in alcuni Paesi addirittura con la costruzione di muraglie e di reticolati non violabili".

Quegli Stati però, specialmente la Germania, dicono che tra qualche mese saranno di nuovo aboliti. Lei pensa che questo avverrà?
"Purtroppo mi sembra molto difficile, l'emigrazione continuerà e anziché accoglierla i Paesi europei cercano di arginarla; nel frattempo cresce il peso politico dei movimenti populisti e xenofobi, nazionalisti e contrari all'Europa e alla moneta comune".

Questo è il futuro che lei prevede?
"Purtroppo sì e prevedo anche che se questo futuro non sarà sostituito da un'opinione pubblica di tutt'altra intonazione, il sogno europeo si dissolverà. Temo che ciò avvenga e per quanto posso sto facendo tutto ciò che credo utile a invertire questa tendenza".

Finora lei ha tentato ed è parzialmente riuscita a mettere insieme quattro presidenti delle Camere con il dichiarato obiettivo degli Stati Uniti d'Europa. Questo avvenimento fu reso pubblico alcuni mesi fa, ma era appena un inizio. E' andata avanti su questa strada? Non le sembra un'utopia? L'Europa unita non pare che mobiliti l'opinione degli europei. Sono largamente indifferenti, semmai più sensibili alla propaganda xenofoba. Lei è ottimista? Spera che questa situazione si possa modificare in un lasso di tempo ragionevole?
"Lei ha parlato di utopia. E' vero. Io l'ho battezzata col nome di Eurotopia, cioè utopia dell'Unione europea. E mi riferisco al primo gruppo di persone che la pensò e poi lottò per realizzarla in una data molto lontana: 1941. In Italia c'era ancora Mussolini, la guerra infuriava in tutta Europa e nel mondo intero: Germania, Italia, Giappone, contro Francia, Inghilterra, Stati Uniti d'America e campi di sterminio, culminati con la Shoah. E voglio ricordare che l'utopia d'una Europa unita, federata, pacifica, fu lanciata da un gruppo di antifascisti confinato nell'isola di Ventotene: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann. Il loro motto era "La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve esser percorsa e lo sarà". Più tardi, quando la guerra era finalmente terminata e Spinelli già lavorava affinché il sogno europeo prendesse forma, disse un'altra frase che è diventata la mia guida: "Il valore di un'idea, più ancora del suo successo finale, è fatto dalla capacità di risorgere dalle proprie sconfitte"".

Lei sa che anche Matteo Renzi nei giorni scorsi è stato a Ventotene per rendere omaggio a Spinelli e al suo Manifesto?
"Lo so e ne sono stata molto contenta. Spero tuttavia che Renzi abbia ben chiaro che Spinelli voleva un'Europa federata e non confederata. Finora la politica italiana non ha manifestato e fatto proprio quest'obiettivo".

La differenza è forte?
"Molto forte".

Quali sono secondo lei le persone che hanno ereditato gli ideali di Ventotene?
"La storia lo dice: De Gasperi, Adenauer, Schuman. Furono loro a fondare la Comunità del carbone e dell'acciaio, il primo nocciolo di un'Europa unita e furono loro ad ispirare i trattati di Roma che dettero le prime indicazioni dell'Europa politica oltreché economica".

Ma oggi? Chi sono secondo lei le persone di alta levatura politica, economica, sociale che hanno ancora in mente l'obiettivo che lei persegue?
"Non sono molti, ma la loro importanza non è da poco: certamente il presidente Mattarella e i presidenti emeriti Ciampi e Napolitano. Aggiungo anche Mario Draghi che guida la Banca centrale europea".

Angela Merkel? Hollande?
"Lo spero, ma prove effettive da parte loro non sono ancora venute. Forse perché non esiste ancora una diffusa opinione pubblica europea che voglia gli Stati Uniti d'Europa. Questo è un punto essenziale: far sorgere un'opinione pubblica europea specie tra i giovani. Se i giovani guardano al futuro, al proprio futuro, il suo nome è Europa. Questo bisogna che la scuola gli insegni. Ma poi ci sono proposte concrete ed anche simboli. Non dimentichiamolo: i simboli sono molto importanti. Pensi alla bandiera tricolore che nacque nella Francia della rivoluzione e fu adottata in Italia da Mazzini e da Garibaldi".

Ha ragione quei tre colori rappresentavano tre valori: libertà, eguaglianza, fraternità. Sono stati i grandi valori della Rivoluzione e del Risorgimento italiano e sono al centro della nostra Costituzione repubblicana. Ma, a parte i simboli, lei ha in mente anche modifiche istituzionali per arrivare all'obiettivo dell'Europa federata?
"Alcune iniziative e proposte, sì, sto cercando di effettuarle. Per esempio un contributo a garanzia europea per tutti gli europei che debbano essere economicamente sostenuti. Non dovrebbe esser finanziato dai singoli Stati, ma dall'Europa con il proprio bilancio, alimentato da una tassa specifica. Insomma una forma di assistenza e di giustizia sociale che creerebbe di colpo un sentimento europeistico, soprattutto tra i giovani che oggi sono privi di speranze di futuro e afflitti da gravi disagi nel presente. Penso anche a creare una cittadinanza europea. Per ora c'è nelle parole ma non nei fatti. La cittadinanza vera è solo nazionale. E' questione procedurale ma è appunto sulle procedure che dobbiamo agire. Il cittadino europeo deve essere tale a tutti gli effetti del diritto e così anche per quanto riguarda il diritto di voto. Le procedure di voto oggi sono dissimili da Paese a Paese. Bisogna renderle eguali di modo che i candidati siano transnazionali ed anche il Parlamento di Bruxelles lo sia, nei fatti e non solo nelle parole. Prima parlavamo di simboli e di bandiere. La bandiera europea deve venire per prima; quella nazionale è importante ma viene dopo. E gli inni. Mameli va benissimo, nella nostra storia come la Marsigliese è la storia della Francia, ma l'Inno alla Gioia è l'Europa e deve essere suonato per primo in tutte le pubbliche circostanze".

***
Di queste cose abbiamo lungamente parlato. Laura Boldrini partirà nei prossimi giorni per l'isola di Lesbo dove migliaia di rifugiati arrivano e poi ripartono affrontando la morte del mare, come avviene anche dalla Libia. I rifugiati non possono essere respinti o immobilizzati da fili spinati. Poi da Lesbo andrà a Schengen nel battello ancorato sulle rive della Mosella. Anche questo sarà un viaggio simbolico.

Ma nel concreto - le ho chiesto - come vedrebbe un ministro del Tesoro europeo, unico interlocutore della Bce? E come vedrebbe la futura Europa federale: con un presidente del genere di quello che siede alla Casa Bianca?
"Il ministro del Tesoro unico lo vedo come un obiettivo fondamentale. Ricordo che è una proposta di Draghi. Nell'ambito delle mie competenze non spetta a me impegnarmi su questa materia, ma come cittadino speranzoso d'una futura Europa, trovo questa proposta della massima importanza. Dovrebbe disporre di un debito pubblico sovrano e quindi emettere titoli del Tesoro europei e promuovere adeguati investimenti e garanzie bancarie. Bisogna farlo. Dal canto mio proporrò che siano rese più numerose e vengano prese nella dovuta considerazione dal Parlamento di Bruxelles, le proposte di legge di iniziativa popolare. Sarebbe un passo avanti notevole".

E l'architettura presidenziale di tipo americano? Io credo che sia la migliore soluzione.
"Su questo punto la pensiamo diversamente: io credo in un regime democratico di quelli che i Paesi europei hanno sempre applicato salvo drammatiche eccezioni".

Lei dice sempre ma qui mi permetta di correggere: io dico quasi mai. La vera democrazia ha spesso ceduto il campo a formule di potere concentrato su un piccolo gruppo di consulenti di una sola persona. Penso alla Gran Bretagna, culla del liberalismo, il premier decide tutto e da solo. In America il presidente ha grandissimo potere e governa direttamente, ma il Congresso ha un potere di controllo e di freno molto democratico.

"Questo tema è di grande interesse, ma mi consenta di dire che è prematuro. Verrà il tempo. Intanto lavoriamo per l'Europa federata".

Le ho fatto i miei auguri. Anzi: li faccio a ciascuno di noi affinché questa utopia cominci a camminare per le strade di tutta Europa.

© Riproduzione riservata
05 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/05/news/boldrini_l_europa_e_a_pezzi_rilanciamo_l_utopia_dei_fondatori_-132751465/?ref=HRER2-2
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« Risposta #608 inserito:: Febbraio 07, 2016, 04:49:40 pm »

Ma Renzi vuole un ministro del tesoro europeo?
La proposta avanzata da Draghi sarebbe la novità-principe anche perché apre la strada a un’Europa federata e non più soltanto confederata

Di EUGENIO SCALFARI
07 febbraio 2016
   
ALCUNI amici che hanno letto la mia intervista di venerdì con la presidente della Camera, Laura Boldrini, si sono stupiti (positivamente) della fiducia da lei riposta nella politica monetaria di Mario Draghi e di molte previste ripercussioni che potrà avere sull'auspicabile rafforzamento dell'unità dell'Europa. Ho avuto modo di parlare telefonicamente l'altro ieri con Draghi, siamo vecchi amici e di tanto in tanto ci sentiamo. Anche lui aveva apprezzato le riflessioni della Boldrini sul significato della politica monetaria della Bce. Del resto, a questo punto della situazione in Europa e nel resto del mondo, anche Draghi non ne fa più mistero. E la situazione è questa: non c'è più tempo, se si vuole impedire che la crisi economica in corso ormai da otto anni, cui si è aggiunta da oltre un anno una drammatica caduta della domanda nei paesi emergenti, bisogna agire con immediatezza.

Ci sono almeno cinque aspetti da considerare. Il tasso demografico europeo è in netta diminuzione, particolarmente in Italia dove a metà del secolo in corso la "gens italica" sarà molto meno numerosa degli attuali 60 milioni di persone e più vecchia. La mobilità dei popoli da un continente all'altro: sembra un'emergenza dovuta alle guerre in corso e alla povertà insopportabile di alcune zone del mondo. Così sembra, ma non lo è, non passerà tra due o tre anni come molti sperano: è un movimento di interi popoli, che durerà a dir poco mezzo secolo e produrrà inevitabilmente un'integrazione di culture, di religioni e di sangue; un meticciato graduale ma inevitabile.

Un'economia mondiale che vedrà ridursi la domanda di beni manifatturieri ottenuta con l'uso di materie prime e di energie tradizionali. Al loro posto ci saranno beni e servizi prodotti con tecnologie specializzate e una diminuzione del lavoro materiale e dell'occupazione. Infine un aumento del tempo libero che sposterà le persone verso viaggi, turismo, cultura, processi di integrazione, ricerche scientifiche e applicazioni pratiche dei loro risultati.

Il quinto ed ultimo elemento riguarda il sistema finanziario che dovrà essere profondamente rivisto per adeguarsi ai predetti mutamenti e che già fin d'ora richiede un cambiamento di fondo dovuto alla mobilità dei capitali, alla dimensione delle imprese, all'andamento die mercati, alle garanzie dei depositi, alla creazione di monete internazionali che non si identifichino con quelle emesse e circolanti nei singoli Stati ma il cui valore abbia come base quello delle monete circolanti adeguatamente valutate. Questa riforma fu studiata dalla Commissione di Bretton Woods e sostenuta da Keynes, ma fu impedita dall'America che ravvisò nel dollaro la doppia funzione di moneta circolante e di punto di riferimento nei tassi di cambio di tutte le altre monete. Ma la società globale ormai in atto esige una appropriata riconsiderazione del "bancor" proposta più di settant'anni fa da Keynes. Questa, in sintesi, è la situazione in cui ci troviamo, le prospettive possibili e gli strumenti necessari a realizzarne gli obiettivi. Cioè la politica e i valori che debbono ispirarla. Difficilmente quei valori saranno dovunque gli stessi, la società globale proviene dalla comunicazione tra storie diverse, culture diverse e diverse condizioni di vita, di povertà, di benessere. Ma è globale nel senso delle comunicazioni e la libera e intensa comunicazione tende all'integrazione, anche dei valori. Un percorso che durerà secoli e configurerà il futuro.

Per quanto ci riguarda, i nostri valori sono, come ben sappiamo, tre: libertà, eguaglianza, fraternità. Non sono affatto realizzati, non dico nel mondo, ma neppure nell'Occidente che tuttavia ne ha fatto da oltre due secoli la sua bandiera. Saranno - dovrebbero essere - il nostro contributo alla società globale della quale facciamo parte.

***

Guardiamo ora più da vicino i fatti che sono in questi giorni accaduti. Non i fatti episodici, ma quelli che fanno parte del quadro evolutivo sopra accennato o lo contrastano. Avevamo cominciato con Draghi. A Francoforte, pochi giorni fa, ha parlato della politica della Bce da lui sostenuta e applicata ormai da un anno; ha enumerato i risultati raggiunti ma anche quelli finora mancati e delle nuove modalità che ne consentiranno la necessaria realizzazione. Le decisioni saranno prese dalla Bce in una riunione già prevista per il 10 marzo prossimo. Delle cause che hanno impedito il completo risultato desiderato, soprattutto per quanto riguarda il tasso di inflazione, abbiamo già riferito il pensiero di Draghi; ma la proposta essenziale e vorrei dire rivoluzionaria Draghi l'ha detta a Francoforte: ritiene indispensabile e quindi vuole la creazione d'un ministro del Tesoro unico, che sia l'interlocutore politico della Bce da lui guidata.

Non è la prima volta che Draghi ne segnala la necessità, ma per qualche tempo l'aveva accantonata. Ora l'ha ripresa con ancor più energia e urgenza di prima; per darle maggior forza ha specificato che dovrà essere ministro del Tesoro non di tutta la Ue ma soltanto dell'Eurozona; non rappresenterà dunque i 28 paesi membri ma soltanto i 19 che adottano la moneta comune. Il ministro del Tesoro può anche essere membro della Commissione di Bruxelles con questa specifica e territorialmente delineata funzione. È evidente che una novità del genere ha bisogno, per nascere, d'una cessione di sovranità di ciascuno dei 19 paesi in questione. A suo tempo il nostro ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, si disse favorevole alla proposta di Draghi. Renzi non ne parlò. Che cosa dicono ora? Padoan è sempre d'accordo? E Renzi? Per rinnovare e rafforzare l'Europa come Renzi dice motivando in questo modo i suoi dissensi con Bruxelles, questa del Tesoro unico sarebbe la novità- principe anche perché apre la strada ad un'Europa federata e non più soltanto confederata. Ecco il passo avanti che i sostenitori degli ideali del Manifesto di Ventotene chiedono a Renzi. Vorrà rispondere positivamente? Questo sì, gli darebbe un ruolo di altissimo livello. Isolato dagli altri 18 paesi dell'Eurozona? Forse sì, ma non necessariamente da tutti. Del resto, isolato lo è già.

Ma c'è un'ipotesi che mi permetto di formulare, può sembrare paradossale ma secondo me non lo è: forse non sarebbe ostacolato dalla Merkel. Tutti sappiamo che un'Europa federata si farà soltanto se la Germania si dichiarerà favorevole. È altrettanto chiaro che in un'Europa federata la Germania sarà la nazione di maggior rilievo, non per sempre ma certamente per un lungo periodo iniziale. È altrettanto chiaro - la storia d'Europa dell'ultimo secolo ce lo insegna - che la Francia ancora stregata dalla sua "grandeur", sarà contraria. Ma tutti gli altri paesi non possono che aderirvi, magari non entusiasti ma rassegnati, perché, come da tempo sappiamo, in una società globale contano gli Stati con dimensioni continentali; gli altri non contano niente. Questa è la realtà e forse Angela Merkel è in grado di percepirla e di compiere il primo passo accettando la richiesta di Draghi del ministro del Tesoro unico dell'Eurozona; richiesta motivata essenzialmente da ragioni economiche.

Lo status di Renzi, se si muovesse per primo su questo terreno, gli aprirebbe una vera e propria autostrada per quanto riguarda il suo ruolo futuro in Europa. Futuro ma anche attuale perché il suo principale interlocutore sulla politica economica sarebbe quel ministro del Tesoro, prima della Commissione. I democratici renziani ma anche ed anzi soprattutto i dem dissidenti, dovrebbero premere compattamente su questa strada come dovrebbe anche avvenire sulla legge per le unioni civili. Un Renzi laico ed europeista vincerà a mani basse il referendum. Ma se così non sarà, se continuerà ad essere contro l'Europa e con sulle spalle una riforma costituzionale che a molti non piace affatto, allora non è sicuro che il referendum confermativo passerà a larga maggioranza; potrebbe arrivare un testa a testa con esiti imprevedibili. Noi speriamo che se la cavi, alle condizioni sopra indicate perché quello è l'interesse del paese. Diversamente non speriamo niente.

Anzi: da laici non credenti (personalmente parlando) indichiamo in papa Francesco un simbolo che rappresenta più e meglio di ogni altro l'epoca globale in cui viviamo. Incontrerà tra pochi giorni a Cuba il Patriarca degli ortodossi di Russia per un futuro avvicinamento che probabilmente finirà con un sostanziale affratellamento tra quelle due Chiese cristiane. Poi visiterà il Messico, i poveri, i carcerati. Poi ci sarà un'altra riunione cui parteciperà anche il Patriarca ortodosso Bartolomeo che rappresenta gli ortodossi del Medio Oriente dalla sua sede di Costantinopoli. Infine, a fine ottobre, Francesco incontrerà in Svezia i rappresentanti di tutte le Chiese luterane sparse nel mondo a cinquecento anni di distanza dalla riforma di Martin Lutero, puntando da entrambe le parti a superare le differenze riconoscendosi fedeli
in Cristo. E noi balbettiamo sull'unità dell'Europa? E non smettiamo di riaffermare la nostra isolata autonomia? Ognuno per sé e Dio per tutti? Il vero slogan dovrebbe essere: poiché Dio è spiritualmente per tutti anche noi politicamente lo siamo.
 
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07 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/07/news/ma_renzi_vuole_un_ministro_del_tesoro_europeo_-132883337/?ref=HRER2-1

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« Risposta #609 inserito:: Febbraio 10, 2016, 12:07:47 pm »

A chi dà fastidio il superministro Ue

Di EUGENIO SCALFARI
10 febbraio 2016

Domenica scorsa avevo anticipato la notizia che i due governatori delle Banche centrali di Germania e Francia avevano proposto la creazione d'un ministro del Tesoro unico per i paesi dell'Eurozona, ipotesi già formulata da Mario Draghi e motivata dalla situazione di crisi economica e sociale non soltanto europea ma di tutto il mondo. Per l'Europa tuttavia quella proposta aveva ed ha una motivazione aggiuntiva e ancora più determinata: un ministro del Tesoro unico non è limitato a render più forte la politica di crescita ma rappresenta anche un passo avanti verso gli Stati Uniti d'Europa, obiettivo fondamentale per affrontare i problemi d'una società globale come quella nella quale ormai da tempo viviamo.

Quando ho anticipato la notizia del documento stilato e firmato da quei due governatori disponevo soltanto d'una sintesi dell'articolo da loro pubblicato sulla Süddeutsche Zeitung e su Le Monde, ma ora ne ho sottomano il testo integrale, ufficialmente tradotto anche in italiano ed anche nelle altre lingue dei principali paesi dell'Ue. Vale la pena dunque di ritornarvi poiché approfondisce, dal punto di vista dei due banchieri in questione, la nostra crisi in corso e le varie possibilità di porvi riparo.

È opportuna tuttavia un'osservazione preliminare: il governatore della Banca centrale tedesca (Bundesbank) non è affatto un fautore della politica monetariamente espansiva adottata da Draghi; nel Consiglio della Bce rappresenta la minoranza dissenziente. Quanto al banchiere francese, il suo Paese continua ad essere dominato da quel mito della "grandeur" ormai terribilmente invecchiato ma al quale la Francia non sa e non vuole rinunciare; nonostante quel mito, la Banque de France sponsorizza la creazione del ministro del Tesoro europeo che comporterebbe per il suo governo una rinuncia di sovranità mai pensata.

La cosa che mi ha stupito in questi ultimi tre giorni è il silenzio totale delle varie stazioni televisive su questo tema e così pure quella di quasi tutti i giornali. Siamo stati i primi e i soli a dare la notizia e ad esaminarla. Ci fa piacere ma è comunque stupefacente.

***

Il testo integrale dell'articolo firmato dai due governatori, pubblicato integralmente nel nostro giornale di ieri, esamina meticolosamente la natura e le cause della crisi che sta ormai dilagando non solo in Europa ma anche in Russia, in Cina, in Brasile, in India, in Giappone, in Indonesia. E poi lancia la proposta del Tesoro dell'eurozona.

La materia è molto complessa e la riassumo così: questo rafforzamento dell'eurozona consentirebbe una politica di crescita diffusa in tutti i paesi che ne fanno parte. Quella politica cioè che la Bundesbank e il governo della Merkel hanno fin qui avversato. Questo passo dell'articolo merita una citazione.

"Si tratta d'un programma ambizioso di unione dei finanziamenti e degli investimenti. Infatti una delle sfide principali riguarda il prodursi d'un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilitato per investimenti produttivi. L'Europa può fare di più per colmare questo divario. L'emissione di azioni come strumento di finanziamento delle imprese sembra l'evoluzione più promettente. Oggi è la metà degli Stati Uniti mentre il debito è il doppio... L'asimmetria tra sovranità nazionale e solidarietà comune costituisce una minaccia per la stabilità della nostra Unione monetaria. Una maggiore integrazione e una condivisione di sovranità e dei poteri a livello europeo dell'eurozona comporta una più grande responsabilità democratica".

I due firmatari della proposta in questione non si nascondono tuttavia che potrebbe non essere accettata dai diciannove governi dell'eurozona e ancor di più se fossero chiamati a valutarla anche i ventotto membri dell'Unione europea.

Qual è in tal caso l'alternativa? Eccola: "Un apparato decentralizzato, fondato sulla responsabilità individuale dei singoli Stati nazionali comporterebbe regole più stringenti, a cominciare dal fiscal compact e così pure il rischio delle esposizioni debitorie degli Stati... Andare in questa direzione consente di conservare la sovranità nazionale, con un livello di solidarietà inevitabilmente più basso e un riequilibrio tra responsabilità e controllo".

È un po' oscura la descrizione di questa alternativa al ministro del Tesoro unico, ma la sostanza comunque è chiarissima: se non si vuole rinunciare alla sovranità nazionale, allora le regole europee sui debiti sovrani e sulla flessibilità dovranno inevitabilmente diventare più rigide. Addio crescita diffusa, rigore e austerità torneranno ad imporsi.

Quale sarà la scelta tra queste due opzioni?

***

Se facciamo funzionare la logica e una certa conoscenza della crisi che ci circonda e ci incalza, credo che il governo tedesco sia favorevole al Tesoro unico dell'eurozona. Gli consentirebbe di uscire dalla politica del rigore che attualmente la Germania non adotta per la propria economia ma di fatto impone alle altre nazioni.

Il governatore della Bundesbank lo fa capire nel finale del documento. Finora la Merkel gli ha lasciato carta bianca ma di fatto è stata d'accordo con Draghi. Adesso sta con tutti e due perché su questo punto hanno lo stesso obiettivo. Attenzione però: se l'obiettivo non sarà raggiunto, allora la diatriba tra Bundesbank e Draghi tornerà e in questo caso la Bundesbank sarà più forte e la cancelliera l'appoggerà.

E Renzi? Che cosa farà il nostro presidente del Consiglio finora è un mistero. È impegnato sulla legge per le unioni civili, materia anch'essa molto importante che lo mette alla testa del fronte laico. L'esito è incerto ma il Pd è compatto con lui. Il fatto è positivo e per quel che vale gli auguriamo piena vittoria. Verrà però il momento - subito dopo - d'affrontare il tema del Tesoro unico per i paesi membri dell'eurozona. Ci auguriamo che Renzi faccia proprie le proposte di Draghi e dei due capi della Bundesbank e della Banque de France, ma temiamo di no. Il presidente del gruppo socialista al Parlamento europeo, che è l'italiano Pittella, ci ha mandato una lunga lettera nella quale, apparentemente, plaude alla creazione del ministro del Tesoro unico. Ma la sostanza di quella lettera (probabilmente concordata con Palazzo Chigi) è del tutto diversa. Il ministro del Tesoro unico non riguarda l'eurozona ma tutta l'Unione e altro non è che uno dei commissari della Commissione che dovrebbe avere le mansioni di Moscovici lievemente rafforzate. I suoi poteri sarebbero comunque di competenza della Commissione, del Parlamento di Bruxelles e, ovviamente, dei 28 paesi che siedono nell'Ecofin. Il fatto che gli diano quel nome non conta niente. Sarebbe più o meno, in fatto di economia, quello che la Mogherini è in fatto di Difesa e politica estera: consulente, presente ad alcune riunioni dei ministri nazionali. Ma Gentiloni gestisce la politica estera italiana e non certo la Mogherini.

Insomma non volete perdere un grammo di sovranità. Piuttosto sia lui, quel finto ministro del Tesoro, ad aiutarvi per ottenere maggiore flessibilità.

Attento però, egregio premier: il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, è stato molto chiaro su questo punto: il rigore imposto dalla Germania aumenterà, il debito sovrano sarà più sorvegliato e le procedure contro le infrazioni aumenteranno. Pagheremo un prezzo alquanto salato per consentire che la sovranità italiana non venga minimamente toccata.

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10 febbraio 2016

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« Risposta #610 inserito:: Febbraio 14, 2016, 11:07:36 am »

Le onde di gravità cambiano da Einstein fino a Renzi

Di EUGENIO SCALFARI
14 febbraio 2016
   
Quella appena conclusa e quella che seguirà sono settimane mai vissute prima d'ora, almeno negli ultimi trent'anni. Credo sia dunque necessario un elenco per ordine di importanza e al primo posto credo si debba mettere la conferma ottenuta nei giorni scorsi da due équipe di ricercatori scienziati americani ed europei per quanto riguarda le onde gravitazionali, immaginate e predette cent'anni fa da Albert Einstein ma fino ad ora mai dimostrate.

I giornali hanno dato ampia notizia dell'avvenuta conferma ed anche hanno tentato di mettere in chiaro il suo significato; secondo me però in questo non sono riusciti. Personalmente ho avuto la fortuna di innamorarmi a diciott'anni dei libri di Einstein. Li ho letti quasi tutti e hanno contribuito alla mia formazione mentale. Perciò tenterò adesso di spiegare con brevità e chiarezza il significato di questa scoperta finalmente dimostrata.

La struttura gravitazionale è un equilibrio che cambia di continuo di attimo in attimo, quando i corpi celesti, ciascuno dei quali ha una sua propria densità, entrano in contatto e il corpo più denso attira quello più leggero fino a modificare le orbite della gravitazione e talvolta addirittura a inghiottirlo.

Questi fenomeni avvengono continuamente in ogni punto dell'universo e modificano la struttura gravitazionale ripercuotendone gli effetti sullo spazio che li circonda sia dal punto di vista della macrocosmica che da quello della microcosmica, dagli astri alle particelle elementari che viaggiano in tutto l'universo cambiando di continuo i loro rapporti specifici e quelli con la curvatura spazio-temporale.

Questo è quanto avviene e la conclusione è che l'universo è cangiante. Se vogliamo applicare queste verità scientifiche ai valori che interessano più da vicino la nostra specie, ne deduciamo che il potere domina l'universo intero, le sue densità, le sue gravitazioni, le sue velocità fino a quando quel potere passerà di mano ad altri corpi celesti, ad altri buchi neri, ad altre stelle e galassie. Ma la natura cangiante non avrà nessuna modifica: il cambiamento resta agganciato alle onde gravitazionali. A queste conclusioni Einstein era già arrivato nel 1915. Prima di lui Copernico e Galileo avevano dato inizio alla storia della scienza nuova che sta attualmente continuando.

Il secondo evento di questi giorni è stato l'abbraccio di papa Francesco con Kyril, il patriarca ortodosso di tutte le Russie. Sarà un percorso lungo ma finalmente è cominciato. E porterà prima o poi all'affratellamento di tutte le religioni cristiane all'insegna del Dio unico e del Cristo, sua incarnazione.

Ho già più volte ricordato che il prossimo 31 ottobre Francesco incontrerà i rappresentanti di tutta la Chiesa luterana per siglare la pace dopo mezzo millennio di guerre religiose. Ciò che penso di questo Papa è noto: un profeta, un rivoluzionario, un diplomatico, un politico, un gesuita e un devoto di Francesco d'Assisi. Il suo vero Vangelo è quello che dettò al Santo il "Cantico delle creature". La fede del santo era quella ed è quella che gli accomuna il Papa che ha preso il suo nome. Ama tutti, a cominciare dai poveri, dai deboli e dagli esclusi. Se c'è una persona che oggi rappresenta il cambiamento è lui. Tuttavia l'obiettivo di comprendere la modernità e avviare la Chiesa missionaria a predicare e incoraggiare la vocazione del bene rispetto a quella del male, accade talvolta che ci sia una retroguardia desiderosa di rallentare se non addirittura di fermare questa visione della Chiesa missionaria. Un segnale di questi problemi è avvenuto pochi giorni fa: la dichiarazione del cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, sulle modalità che il Senato deve adottare a suo avviso per impedire le adozioni alle coppie omosessuali.

Bagnasco ha provocato una reazione molto ferma e veramente giustificata dai rappresentati dello Stato laico italiano, Renzi e i presidenti del Senato e della Camera. Quanto a Francesco, per lui ha parlato l'arcivescovo Galantino, segretario della Cei, il quale ha preso con la necessaria diplomazia le distanze da Bagnasco. Era la voce di Francesco per interposta persona.

Così l'incidente è chiuso. È augurabile che Bagnasco privilegi la preghiera e tenga conto che se la retroguardia non solo cerca di rallentare i processi di cambiamento in corso nella Chiesa ma addirittura si inoltra su un percorso completamente diverso, allora volutamente esce da questa Chiesa missionaria e sinodale.

Il mio ultimo tema riguarda la politica e l'economia in Italia e in Europa. Riguarda soprattutto la lettera che Renzi ci ha inviato e che è uscita su questo giornale giovedì scorso. Nelle prime righe il presidente del Consiglio si rivolge a me e lo fa con gentilezza cortese. Lo ringrazio, ne sono onorato e - fatta questa premessa - vengo ai fatti e alle considerazioni che meritano di essere esposte.

***

Primo: la legge sulle Unioni civili, i diritti che vengono riconosciuti, le coppie omossessuali, le adozioni dei figli naturali del partner o di figli contrattati con donne che affittano l'utero in cambio di adeguate ricompense. Questa è la materia sulla quale si discute ma sull'ultimo punto il governo è decisamente contrario e anzi si propone di estendere la nostra posizione proponendone l'approvazione da parte dell'Onu.

A parte il tema dell'utero in affitto, su tutto il resto il governo è fermissimo e vuole ottenere al più presto l'approvazione di entrambe le Camere.

Ho detto il governo, ma debbo modificare: è Renzi che vuole e una parte rilevante del suo partito, con qualche voto in più proveniente da senatori e deputati di altri gruppi. Contro la legge Cirinnà, che è il testo base su cui si discute e su cui si voterà, ci sono invece riserve e contrasti con la componente cattolica del Pd, con la Nuova destra di Alfano e con le opposizioni di destra. Grillo è d'accordo su molte norme ma contrario su altre. E poi ci saranno alcune votazioni segrete che potrebbero capovolgere gli schieramenti emersi dai voti palesi.

Renzi per ora è fermo su tutto (salvo l'utero in affitto) ma ha preso qualche giorno in più di tempo per riflettere. È possibile che la settimana prossima conceda qualcosa che plachi sia Alfano sia i cattolici del Pd.

Personalmente ritengo che stia operando molto bene su questo tema e anche se farà qualche piccola concessione, sarà comprensibile. L'importanza viene dal fatto che con un ritardo di trent'anni da quando il tema delle Unioni civili si pose, ci sarà finalmente un governo che sarà stato capace di realizzare l'obiettivo. È una battaglia di civiltà e di modernità e questo merito a Renzi ed ai suoi collaboratori va riconosciuto.

***

Ed ora il secondo tema, che a differenza del primo riguarda l'assetto economico e politico dell'Europa e dell'Italia nell'ambito europeo. Il tema ha preso il via da una proposta di qualche tempo fa, formulata da Mario Draghi nella sua qualità di presidente della Bce e dalla pubblicazione avvenuta pochi giorni fa di un documento firmato dai governatori della Banca centrale tedesca e di quella francese, di cui il nostro giornale ha pubblicato il testo integrale, uscito sulla Süddeutsche Zeitung e su Le Monde.

La proposta di Draghi prevede la creazione di un ministro del Tesoro europeo, incardinato nell'Eurozona. I poteri sarebbero esattamente quelli di un ministro del Tesoro: un bilancio da amministrare, un debito sovrano da gestire, la facoltà di emettere titoli del Tesoro, facilitare l'emissione di azioni da parte delle imprese, il finanziamento di investimenti pubblici, una politica di crescita e di stretto coordinamento tra le economie dei 19 paesi dell'Eurozona. Ed anche d'essere l'interlocutore diretto della Bce che finalmente, come le Banche centrali di tutti gli Stati, avrebbe un solo riferimento e non 19 come finora avviene o addirittura 28 come alcune volte è già avvenuto.

Inutile dire che una riforma del genere è subordinata ad una cessione di sovranità dei 19 paesi dell'Eurozona e forse addirittura dei 28 dell'Ue ed è altrettanto inutile sottolineare che una novità del genere rappresenterebbe un passo della massima importanza per realizzare l'obiettivo degli Stati Uniti d'Europa che fu alla base dell'europeismo di Spinelli, Rossi, Colorni, con un principio d'attuazione che portò alla Comunità del carbone e dell'acciaio e poi ai Trattati di Roma e alla nascita della Comunità europea, poi Unione e infine, nel 2000, alla moneta comune.

Ebbene, a questa proposta, della quale mi ero permesso di incoraggiare Renzi di farla propria e a sostenerla, la risposta del presidente del Consiglio è stata negativa. Non ha escluso che in un lontano futuro possa diventare realizzabile, ma non ora. I problemi di oggi riguardano molti temi, primo tra tutti quelli degli immigrati e del Califfato terrorista. Ma riguardano anche soprattutto la politica di crescita e di flessibilità che ogni paese deve perseguire con i propri criteri, rispettando ma forzando in qualche modo le regole europee e sottolineando l'autonomia di ciascuno Stato nazionale. Di qui il dissenso con Juncker, con la Commissione di Bruxelles, con la Germania e il suo rigore che secondo Renzi può forse giovare alla Germania ma non certo agli altri paesi dell'Unione.

Bene. Anzi male. Personalmente sono rimasto deluso dall'atteggiamento di Renzi. Pensavo che capisse l'importanza politica della proposta Draghi, tanto più che nel frattempo era avvenuto un altro fatto, prevedibile e infatti previsto: i due firmatari del documento in favore della tesi Draghi avevano formulato nel documento suddetto una alternativa: qualora la creazione d'un ministro del Tesoro non fosse stata accettata, si sarebbe dovuti tornare ad una politica più meticolosa delle regole emanate dalla Commissione e approvate dal Parlamento, con un controllo più rigoroso delle politiche nazionali, nella gestione dei rispettivi debiti, nel deficit rispetto al Pil, nella produttività industriale e insomma ad una crescita abbinata al rigore.

Molti ritengono (ed io tra questi) che questa fosse la vera motivazione di quel documento. In realtà il governatore della Bundesbank, con l'aiuto del fraterno suo amico della Banque de France, aveva usato la mossa pro-Draghi perché sapeva che non sarebbe stata approvata proprio per l'opposizione degli Stati nazionali a cedere sovranità su un tema di quell'importanza. Questa mossa rafforzava la loro posizione diventando protagonisti di una politica del rigore.

Questo è il quadro. Che cosa dovrebbe fare Renzi? Forse non mi ero spiegato bene o forse lui non ha capito, perciò brevemente mi ripeterò.

***

Renzi sa che la proposta Draghi per ora non passerà perché i diciannove Stati dell'Eurozona diranno di no. Non solo: con loro ci sarà anche il governo di Gran Bretagna come ha già preannunciato Cameron il quale come condizione per aderire alle proposte di rafforzare i vincoli con l'Europa, chiede che il suo governo possa intervenire anche quando si discute dell'euro. Questa sua richiesta è ritenuta inconcepibile da un gruppo di grande autorevolezza in una denuncia pubblicata ieri da Repubblica e firmata da personaggi come Bini Smaghi, Saccomanni, Toniolo, Tosato, e parecchi altri. È concepibile che il governo inglese amministri la sterlina e la più grande Borsa del mondo insieme a Wall Street, ed abbia anche il potere di dettar legge sulla sorte dell'euro? Il vantaggio di Renzi a sostenere la proposta Draghi è evidente: il Tesoro dell'Eurozona per ora non si farà ma sostenere decisamente quell'ipotesi darebbe all'Italia un ruolo di ben altro livello che quello di rivendicare autonomia: ce la concederanno tutt'al più col contagocce. L'Italia diventerebbe l'alternativa europea e potrebbe rivendicare il ruolo di interlocutore col fascio di luce che le viene dal Manifesto di Ventotene, da un passato di avanzamento sia pur lento verso l'Europa federale, che prima o poi dovrà comunque essere realizzata in una società globale dominata da Stati di dimensioni continentali.

Ricordi, Matteo Renzi, la legge gravitazionale di Einstein e si comporti in conformità. Questo mi auguro e soprattutto gli auguro.


"Sull'orlo del precipizio / giochiamo danzando
sull'orlo del precipizio / giochiamo sorridendo 
e sull'orlo del precipizio / continua l'orizzonte / di chi continua a restare".

Fernando Pessoa, 1927.

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14 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/14/news/eugenio_scalfari_einstein_renzi-133389860/?ref=HRER2-1
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« Risposta #611 inserito:: Febbraio 28, 2016, 11:53:36 pm »

Se Renzi impugna la bandiera europea di Spinelli
Il premier prenda ora l'iniziativa di un'intesa dei Paesi che condividono l'obiettivo e consolidi l'identità di vedute con Mario Draghi

Di EUGENIO SCALFARI
28 febbraio 2016
   
IL DIBATTITO tuttora vivacemente in corso dopo l'approvazione in Senato della legge Cirinnà sulle unioni civili, era prevedibile: in Parlamento sono presenti numerose posizioni politiche e non più, come accadeva nel Novecento repubblicano, un centro democristiano con una spolverata di piccoli partitini laici, una destra fascistoide molto minoritaria e una sinistra comunista. Ora le posizioni sono molte, la politica è estremamente frazionata non solo in Italia ma in tutta Europa, come ha analizzato con meticolosa completezza Ezio Mauro su queste pagine venerdì scorso.

Non so fino a che punto questo dibattito interessi l'opinione pubblica italiana. Direi che interessa poco, eravamo in vergognoso ritardo rispetto a tutti gli altri Paesi d'Europa e d'America e il risultato ottenuto dal Pd di Renzi rimette finalmente a posto una situazione ormai insostenibile riconoscendole diritti finora ingiustamente ignorati. Renzi ha scelto, dopo qualche tentennamento, la via giusta per vincere con una larga maggioranza di voti: lo stralcio delle adozioni per far passare finalmente la legalizzazione delle coppie di fatto e unioni civili etero e omosessuali. Non poteva far meglio.

La discussione sulla fedeltà è ridicola. È evidente che non toglie assolutamente nulla alle coppie di fatto: la fedeltà c'è o non c'è e non esiste norma di legge che tenga se viene interrotta. Spesso l'interruzione è ignorata dall'altro coniuge o convivente che la subisce e il rapporto di coppia continua inalterato. Oppure è nota e il rapporto s'interrompe. Le coppie di fatto non possono ricorrere al divorzio ma questo è un regalo, si limitano ad informare l'autorità amministrativa che il loro rapporto ha cessato di esistere con le conseguenze amministrative che la cessazione comporta.

L'altro tema di discussione - che impegna soprattutto la sinistra del Pd - è il contributo di Verdini e del suo gruppo alla vittoria renziana. Ma anche questa critica mi sembra priva di fondamento. Se la sinistra ha accettato che Alfano facesse parte della maggioranza di governo, non si vede perché non possa accettare Verdini che è perfino più ragionevole di Alfano. Una nuova destra non populista e non berlusconiana è un tentativo ancora in una fase iniziale che sarebbe da incoraggiare, così come la Dc di Aldo Moro si alleò con i socialisti di Pietro Nenni e poi alcuni anni dopo addirittura con il Pci di Berlinguer, non solo per affrontare in forze tempi assai oscuri (quelli attuali non sono oscuri ma neri come l'inchiostro) ma anche per aiutare la nascita d'una destra moderna alla quale in un futuro auspicabilmente prossimo si fosse contrapposta una sinistra riformatrice. La separazione di Alfano da Forza Italia fu incoraggiata da Monti e da Enrico Letta, la cui tempra democratica di sinistra non è mai stata in discussione.

Dunque il preteso scandalo Verdini, a mio avviso, è inesistente e la discussione è oziosa. Il problema semmai è un altro: è di sinistra il Pd guidato da Renzi? E che cos'è la sinistra del ventunesimo secolo? Nell'Europa e nell'Italia di oggi? Questo dunque dovrebbe essere il tema da discutere. In questo chiassoso e confuso dibattito il termine più ricorrente è stato "famiglia", soprattutto da chi, dichiarandosi cattolico, avversava ogni riforma che in qualche modo intaccasse la solidità e l'unicità di quella tradizionale istituzione. È certamente vero che tutti noi usiamo il termine famiglia per designare la coppia di uomo e donna che ha celebrato il matrimonio e i figli che ne sono nati, ma quella parola non è appropriata né storicamente né religiosamente.

Storicamente il termine famiglia ha sempre designato non una ma molte più numerose comunità. Nella Roma classica la famiglia si identificava col nome del capo e comprendeva non soltanto i parenti anche lontani ma i "clientes", le persone che stabilmente lavoravano, i beni materiali che ne componevano il patrimonio, i servitori e gli schiavi. Quella famiglia aveva anche il nome, la gens Claudia o Giulia o Flavia o Marcia; insomma un'infinità di famiglie che costituivano la casta senatrice degli Ottimati. Ma ci sono anche le famiglie mafiose, anche quelle sono una casta che prende il nome del boss. Religione: Gesù odiava la famiglia e lo diceva pubblicamente fin dall'inizio della sua predicazione come raccontano almeno due dei vangeli sinottici. Infine anche un'unione di fatto, etero o omosessuale, può usare il termine di famiglia, lessicalmente è corretto, è una comunità di due persone ed i loro eventuali figli, naturali o adottivi.

Oltre ad avere ben meritato con la legislazione delle coppie di fatto e delle unioni civili, Renzi ha modificato in modo sorprendente la sua visione del futuro dell'Europa. Non posso nascondere che questo cambiamento mi fa molto piacere ed è venuto in modo assai repentino. Ancora l'11 febbraio scorso, in una lettera a me diretta e pubblicata su Repubblica, rispondendo alla proposta da me più volte sostenuta sulla necessità di istituire un ministro del Tesoro unico che gestisse le finanze dell'Eurozona, con un bilancio autonomo, un debito sovrano, il potere di emettere eurobond per finanziare investimenti pubblici e incentivare quelli privati, la lettera di Renzi dice: "La risposta ad una politica di rigore che fa soltanto danni, non è un superministro delle Finanze, ma la direzione della politica economica". Sono passati pochi giorni e Renzi ha presentato alle autorità europee un documento di nove pagine diviso in tre punti e una conclusione.

Il primo punto è intitolato: "A Fragile Recovery: Challenges and Opportunities " (è redatto in inglese). Il secondo punto è intitolato: "A Comprehensive Policy Mix". Dove si descrive un complesso di misure che realizzino una politica espansiva al posto di quella di austerità e rigore fin qui imposta dalla Commissione (e dalla Germania). Bisogna aumentare le capacità di crescita, sostenere la politica monetaria della Bce, varare una politica fiscale europea che tenda a riequilibrare le politiche nazionali aiutando la loro flessibilità in modo da ristabilire tra loro un equilibrio attualmente molto alterato. Completare l'Unione Bancaria ed estendere le garanzie in favore dei depositi bancari dei singoli Paesi. Fare intervenire l'Europa anche nelle politiche sociali e sindacali dei singoli Paesi, sempre al fine di rafforzare l'integrazione europea ed una politica di crescita e di equità. Rafforzare i confini europei verso il resto del mondo e smantellare al più presto possibile i confini interni ripristinati in molti Paesi violando il patto di Schengen. Dunque una politica comune dell'immigrazione più volte chiesta dall'Italia ma finora inesistente.

Infine il punto tre del documento che rappresenta, con un titolo altamente significativo, lo sbocco istituzionale della politica europeista delineata nelle pagine precedenti: "From the Short-term to the Long-term View" e così prosegue: "Una più forte comune politica monetaria ha bisogno di istituzioni comuni. Abbiamo bisogno d'una comune casa europea adottando un sistema comune. Queste funzioni debbono essere gestite da un ministro delle Finanze dell'Eurozona che persegua una comune politica fiscale. A questo scopo abbiamo bisogno d'un bilancio dell'Eurozona dotato delle risorse necessarie. Naturalmente questo ministro deve essere politicamente dotato di poteri per svolgere questo ruolo. Un ministro del genere deve far parte della Commissione europea e deve avere forti legami con il Parlamento di Bruxelles". Debbo dire: mi sono stropicciato gli occhi a leggere queste nove pagine del documento, la loro conclusione e il titolo che è tutto un programma. Bisogna passare da una politica a breve termine ad una visione a lungo termine: una frase nella quale c'è qualcosa che somiglia molto agli Stati Uniti d'Europa.

Sembrava che Renzi fosse andato inutilmente a Ventotene e invece il messaggio contenuto nel Manifesto firmato da Spinelli, Rossi e Colorni è stato, almeno così sembra, fatto proprio da Renzi che non si limita a invocare una politica di crescita e flessibilità economica, ma sceglie anche una bandiera che guidi l'opinione pubblica europeista e i governi che decidano di rappresentarla verso un radicale mutamento delle istituzioni: la visione di lungo termine, che però non può essere attesa senza darle subito un avvio. Bisognerà accendere una serie di motori e quello iniziale che dia inizio al percorso. Così accadde negli anni del dopoguerra con Adenauer, De Gasperi, Monnet, Schuman. Allora nacque la Comunità del carbone e dell'acciaio e furono firmati nel 1957 i Trattati di Roma. Assumere come guida politica quella bandiera dà all'Italia uno status politico completamente diverso da quello avuto finora. Non più un monello che chiede concessioni alla spicciolata, un miliardo per un progetto, un altro miliardo per un'iniziativa, alternando sorrisi e insulti alla maniera d'un questuante, ma rivendicando il progetto che fu fatto proprio dai fondatori dell'Europa ma che aspetta ancora d'essere attuato.

Se Renzi ha scelto sul serio questa strada, che non sarà certo di rapida attuazione, il suo compito è di prendere l'iniziativa di un'intesa dei Paesi che condividono l'obiettivo, consolidare l'identità di vedute con Mario Draghi affinché il motore politico si sposi a quello economico e monetario e ponga alla Germania il dilemma che quel Paese leader non può eludere. Aggiungo ancora che questo è anche il vero modo di rappresentare la sinistra. La domanda che prima ci siamo posti sulla vera natura della sinistra del ventunesimo secolo ha qui la sua risposta: la sinistra ha il compito di porsi l'obiettivo di costruire l'Europa federata che riformisti e moderati debbono far nascere insieme, come richiede una società globale governata da Stati di dimensioni continentali.

La sinistra italiana ed europea deve porsi alla testa di questo ideale e farne una concreta realtà dove le diseguaglianze siano rimosse e la produttività economica sia tutt'una con l'equità sociale, la comunione dei valori, il riconoscimento dei diritti e dei connessi doveri, la separazione dei poteri che garantiscano la nobiltà della politica e la democrazia. L'Inno alla gioia e la bandiera stellata europea, come ha proposto Laura Boldrini, divengano i simboli della Nazione Europa. Da questo punto di vista ben venga il Partito democratico se lotterà affinché la Nazione Europa diventi una realtà.

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28 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/28/news/se_renzi_impugna_la_bandiera_europea_di_spinelli-134401629/?ref=HRER2-1
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« Risposta #612 inserito:: Febbraio 29, 2016, 06:23:31 pm »

Quel padre fascista che non smise mai di credere nel mito del duce
Nel libro di Pierluigi Battista una vicenda familiare e politica


Di EUGENIO SCALFARI
29 febbraio 2016
   
Quando due mesi fa ricevetti dall'autore Pierluigi Battista il suo libro intitolato "Mio padre era fascista" con una dedica molto affettuosa (siamo amici da molti anni e seguo con interesse il suo lavoro di editorialista del "Corriere della sera") decisi di leggerlo e di recensirlo. Di solito non faccio questo mestiere, ma in questo caso il titolo mi intriga molto e poi dirò perché.

Sono passati due mesi, le celebrazioni prima dei sessant'anni dell'"Espresso" e poi dei quaranta di "Repubblica" mi hanno molto impegnato. Eventi dolorosi come la morte di Umberto Eco sono purtroppo sopravvenuti. Ma ora finalmente sono più sereno e posso adempiere al compito che mi ero proposto.

Il libro di Battista è edito da Mondadori, sviluppa 161 pagine e comincia con due esergo, uno dei quali di Ennio Flaiano merita di essere qui citato: "Famiglia romana con padre liberale e figlio maggiore comunista, minore fascista, zio prete, madre monarchica, figlia mantenuta: si sfidano tutti gli eventi (Frasario essenziale per passare inosservati in società)".

Ebbene, la vita di Pierluigi col padre fu esattamente l'opposto: un dramma psicologico profondo che dal padre fu trasmesso al figlio quando era ancora adolescente e che il padre aveva scelto come il solo cui confidare il proprio rovello, la propria rabbia, la propria disperazione contro l'Italia e gli italiani che erano stati (quasi) tutti fascisti durante il ventennio e poi si erano convertiti in massa all'antifascismo mettendo all'indice quei pochi, anzi pochissimi, che avevano mantenuto i loro ideali d'un tempo e per essi avevano pagato un altissimo costo sia negli anni in cui c'era il Duce a guidare il paese sia quando l'antifascismo era diventato una norma non solo delle leggi ma anche dei sentimenti popolari.

Scrive Pierluigi: "Mio padre erano due. C'era mio padre integrato. E c'era quello apocalittico. C'era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro e c'era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta risentimento e rabbia. C'era il conservatore e c'era il ribelle. C'era il professionista di successo, l'avvocato stimato nel mondo forense... e c'era l'uomo intimamente devastato da una storia che l'aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile... mangiato dentro da un'ossessione che non l'abbandonava mai... Io li ho conosciuti entrambi".


Queste parole scritte dall'autore nelle prime pagine del libro ne contengono la chiave. Pierluigi ha sofferto per anni di questa confidenza segreta col padre, che in famiglia gli altri figli probabilmente non conoscevano e che sua moglie (la madre di Pierluigi) credeva e sperava che il marito avesse abbandonato considerandola un errore di gioventù.

Pierluigi invece lo sapeva e il padre, per l'amore che aveva verso di lui, glielo aveva confidato e glielo ricordava quasi tutti i giorni. In più, Pierluigi scoprì, quando il padre era morto, un suo diario segreto dove erano raccolte frasi, slogan, brani di canzoni, aforismi, che emergevano casualmente dalla sua memoria e che annotava temendo di scordarsene.

Il padre continuò a confidarsi col figlio. Non cambiò neppure quando si accorse che Pierluigi, invece di condividere quella sua rabbia e condividerla con un'adesione intima, aveva invece tratto conseguenze del tutto opposte. Era diventato comunista e addirittura "gruppettaro". E poi, passata questa ventata di radicalismo di sinistra, era tuttavia un riformista democratico come del resto tutt'ora è e come anch'io l'ho conosciuto.

Suo padre - che conoscesse con esattezza queste sue posizioni politiche o le ignorasse perché Pierluigi non gliene aveva mai parlato - adottò comunque un altro modo di comunicare quella parte di sé che il figlio ha definito "apocalittica". Invece di proseguire con la rabbia e il desiderio di vendetta, cominciò ad additare al figlio le opere positive del regime: l'arte fascista e i grandi artisti che del fascismo si erano nutriti, a cominciare da Mario Sironi e dal futurismo in genere (lo stesso Giuseppe Bottai veniva dai futuristi e pubblicava la bellissima rivista Primato). E poi l'urbanistica e l'architettura, a cominciare dal caposcuola Marcello Piacentini e dalle sue opere. Lo portava a passeggio a via dell'Impero (lui la chiamava ancora col suo vecchio nome), in via della Conciliazione dove le casupole e i vicoli del Borgo erano state distrutte da un sontuoso accesso alla basilica di San Pietro; e poi la costruzione dell'Università dell'Urbe, del Foro Mussolini con il suo obelisco, di alcune grandi ville patrizie dentro e fuori Roma, a cominciare dall'unificazione tra il Pincio e Villa Borghese. E Littoria e le paludi pontine sostituite da terre fertili e da Sabaudia, fino ad Anzio e al Circeo.

Insomma l'aspetto positivo del fascismo. E le sue canzoni che di tanto in tanto canticchiava in casa: Roma rivendica l'impero, Le donne non ci vogliono più bene, Si và sul vasto mar e tante altre. La famiglia lo udiva cantare quelle canzoni ma non ne faceva un problema, erano ricordi piacevoli d'una piacevole gioventù.

In parte era così, ma soltanto in parte. Pierluigi sapeva che cosa c'era dentro quei ricordi: a 22 anni il padre era partito volontario per combattere una guerra nazionale; era stato fatto prigioniero in Grecia ed aveva scontato oltre un anno di prigionia.

Tornato in Italia s'era trovato dinanzi ad una guerra civile ed aveva scelto di parteciparvi; dopo due anni di battaglie contro i "resistenti" in difesa della patria fascista (la sola che per lui esisteva) era stato preso prigioniero a guerra finita e relegato nel campo di concentramento di Coltano, dopo aver rischiato la fucilazione. A Coltano due anni di inferno e infine la liberazione, disposta dal governo antifascista e appoggiata da Togliatti per pacificare gli animi in nome della nuova Italia democratica. Ma questa motivazione aveva gettato altro fiele nell'anima del ribelle che vi aveva visto un'ipocrisia tesa ad acquistar consenso.

Battista ha vissuto questo dramma fino in fondo e soltanto negli ultimi anni della vita del padre una maggiore tranquillità era entrata nell'anima sua. Aveva ormai una solida posizione professionale, una famiglia, una sua vita ed anche il padre nei suoi ultimi anni sembrava aver placato il suo dramma interno godendo il benessere conquistato col suo lavoro.

Anche questa storia, come molte altre, è sembrata esser finita bene, ma la scoperta del diario intimo del padre, con annotazioni scritte poco prima di morire, ha dato a Pierluigi il dolore che era scomparso o almeno attenuato. E così ha deciso di scrivere questo bellissimo libro che ho qui cercato di raccontare. Ma l'ho fatto anche per un'altra ragione: anch'io sono stato fascista, come del resto ho più volte raccontato. Sicché la lettura del libro di Pierluigi mi ha indotto a considerare quello stesso mondo cui ho partecipato per dodici anni di seguito, da quando sono andato alla scuola elementare e sono automaticamente entrato a far parte come balilla delle organizzazioni giovanili fasciste, fino a quando fui espulso dal Guf per un articolo scritto su Roma fascista, settimanale del Guf dell'Urbe al quale collaborai per due anni.

Il libro di Pierluigi mi ha fatto di nuovo tornare in mente quei miei anni di fascismo che vennero poco dopo quelli del Battista padre. Lui partì per la guerra, nel 1940; io fui espulso dal partito fascista nel '43 e vi ero entrato nel 1931.

Non starò qui a raccontare come vissi quel periodo, negli anni in cui frequentavo il ginnasio a Roma, poi a Sanremo, poi di nuovo a Roma quando entrai all'Università nel '41. Dirò soltanto che la mia appartenenza al fascismo non era minimamente turbata da dubbi. Il Duce era il Duce, le canzoni che Battista padre canticchiava a casa ed aveva cantato a squarciagola negli anni del fascismo imperante e poi di Salò, anch'io le ho cantate e di tanto in tanto capita anche a me di ricanticchiarle adesso. Ma c'è una differenza di fondo tra la mia storia e quella del Battista padre.

Ai tempi miei c'erano già, ma forse c'erano sempre state, due o tre diverse "correnti" nel partito ed anche nei Guf e nei giornali che rappresentavano la voce studentesca dei giovani fascisti universitari.

C'era una corrente di "fascismo muscolare" rappresentata da Roberto Farinacci, una più moderata rappresentata da Galeazzo Ciano ed infine un'altra culturalmente frondista rappresentata da Giuseppe Bottai. Io ero fascista nel modo di Bottai, ma molti nel giornale universitario su cui scrivevamo erano per Farinacci a cominciare da Tedeschi che poi, dopo la caduta di Salò e l'arrivo della democrazia in Italia, diresse Il Borghese.

Quando fui espulso dal Guf, attraversai tre o quattro giorni di grande sconforto, ma poi mi ripresi perché prevalse dentro di me questa considerazione: se Carlo Scorza, segretario generale nazionale del partito, mi ha espulso, segno è che non mi considera fascista ma antifascista. Lui in questa materia ne sa più di me. Quindi ha ragione lui: io sono antifascista, altrimenti non avrei scritto quell'articolo.

Così diventai sinceramente antifascista, fondammo con alcuni amici un'apposita organizzazione clandestina ed esordimmo con una scazzottata collettiva alla facoltà di giurisprudenza contro i giovani del Guf. Insomma, per merito di Carlo Scorza che nel colloquio terminato con la mia espulsione mi aveva strappato le spalline della divisa che indossavo e se l'era messe sotto i piedi calpestandole, la mia uscita e la mia "conversione" durarono quattro giorni e non l'intera vita.

© Riproduzione riservata
29 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/02/29/news/nel_libro_di_pierluigi_battista_una_vicenda_familiare_e_politica-134454294/?ref=HRER2-1
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« Risposta #613 inserito:: Marzo 06, 2016, 07:17:27 pm »

Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere

Di EUGENIO SCALFARI
06 marzo 2016

Ricordo ancora quando nell'autunno del 1975 feci una sorta di tour nelle sale teatrali delle principali città italiane per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano "la Repubblica" che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976. "Dall'alpi alle Piramidi", scrisse il poeta. Più modestamente io andai da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma.

Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l'Italia un'assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l'abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue. Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l'obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il "Corriere della Sera"? Sì, anche il Corriere, anzi l'obiettivo è proprio quello.

Il pubblico accoglieva quest'ultima risposta da un lato ridendo e dall'altro applaudendo. E poi, giù il sipario.

L'inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite.

E nonostante avesse adottato una politica di neutralità nei confronti del partito comunista che fin lì era stato la bestia nera del giornale di via Solferino, da custodire ideologicamente in una gabbia del giardino zoologico o in un ghetto dal quale non si può né entrare né soprattutto uscire.

Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent'anni quando Repubblica vide la luce.

L'altro ieri il Corriere della Sera ha giustamente celebrato i suoi 140 anni pubblicando un supplemento molto interessante che contiene l'elenco di tutti i direttori. Innumerevoli, a cominciare dal fondatore che si chiamava Eugenio Torelli Viollier e soffermandosi soprattutto su Luigi Albertini che di fatto lo rifondò nel 1900 e lo diresse fino al 1921 quando, nominato senatore del Regno, ne lasciò la guida al fratello continuando però a scriverci articoli di un coraggioso antifascismo, ancorché lui, Luigi Albertini, fosse un liberal-conservatore di un antisocialismo a prova di bomba e quindi, dal '19 al '22, sostanzialmente non ostile alle squadre che incutevano timore alle "Case del popolo", così come era stato un fiero interventista nella guerra del '15, appoggiando D'Annunzio che ne era la bandiera.

Centoquarant'anni da un lato e quaranta dall'altro; una miriade di direttori da un lato e tre (il terzo dei quali è però arrivato da poche settimane) dall'altro. Che cosa è accaduto nel periodo di convivenza e di concorrenza tra le due testate? Come è cambiato il paese, l'opinione pubblica, il costume e quale è stata la funzione dei due giornali nell'influenzare quell'opinione ed esserne al tempo stesso influenzati?

***

Il Corriere della Sera è sempre stato il giornale del capitalismo lombardo: produttività, profitto da reinvestire, "fordismo" come allora si diceva, salari soddisfacenti e aggrappati alla produttività della manodopera che alimentava la domanda, dialettica severa con i sindacati, antisocialismo e soprattutto anticomunismo, atteggiamento filogovernativo sempreché i governi in carica aiutassero gli investimenti privati con appositi e tangibili incentivi che facessero funzionare a dovere i servizi pubblici; fiscalità proporzionale e non progressiva, commercio con l'estero libero nei settori nei quali la nostra economia era in grado di competere ma protezionismo e dazi dove eravamo ancora in fase immatura. Laicismo ma con misura perché la religione e la famiglia rappresentavano i pilastri della società. In politica estera Francia, Inghilterra e America erano i punti di riferimento. Governi, sia in Italia sia all'estero, preferibilmente liberal-conservatori.

Questo il quadro generale, che aveva il vantaggio d'esser condiviso dalle classi dirigenti non solo lombarde ma italiane. Infatti il Corriere vendeva metà della tiratura in Lombardia e soprattutto a Milano e provincia dove la sua cronaca locale ne aumentava la diffusione; l'altra metà nel resto d'Italia e soprattutto nelle città dove una parte della classe dirigente si sentiva adeguatamente rappresentata da quel giornale.

Questa struttura al tempo stesso economica, politica e culturale era stata creata da Luigi Albertini che non era soltanto un giornalista ma anche organizzatore, uomo di vasta cultura e di vaste conoscenze sociali, comproprietario di maggioranza nella società che editava il Corriere, avendo con sé come soci di minoranza alcuni famiglie industriali, proprietarie di imprese soprattutto tessili.

Proprio per queste caratteristiche Albertini era molto più che un direttore nominato da una proprietà, era direttore e proprietario, quindi assolutamente indipendente. Condivideva pienamente gli ideali e gli interessi del capitalismo lombardo, ma gli dava una vivacità ed una modernità sua propria con il risultato di influenzare la pubblica opinione di stampo liberal-conservatore senza peraltro che lui e il Corriere che era casa sua ne fossero condizionati. Era molto patriottico Luigi Albertini. Non amava la guerra ma le imprese coloniali sì, anche per mettere l'Italia a livello delle altre potenze europee.

Giudicava il governo italiano dal colore politico che aveva, ma anche dall'efficienza. E metteva gli interessi del Corriere ed i valori del giornale al centro della sua attenzione. Di fatto il Corriere era un partito di cui il suo direttore era il capo. Infatti parlava con i presidenti del Consiglio direttamente. Al prefetto di Milano parlava quasi come un suo superiore e lo stesso faceva con il direttore della Banca d'Italia, specie quello che dirigeva la sede milanese dell'Istituto.

Queste notizie sono in gran parte rese esplicite dalle sue memorie, fonti di grande ricchezza per ricostruire il passato.

Questa situazione proseguì quando Albertini dovette cedere la proprietà del giornale perché Mussolini non sopportava che i grandi quotidiani italiani fossero posseduti da giornalisti-direttori. Così accadde al proprietario-direttore de La Stampa, Alfredo Frassati, così accadde anche alla Serao che dirigeva e possedeva Il Mattino di Napoli ed ad altri quotidiani importanti e così accadde anche a lui, che dovette cedere la proprietà alla famiglia Crespi, fortemente impegnata nell'industria tessile e già azionista di minoranza nella società del Corsera.

I direttori nominati dai Crespi dovevano naturalmente essere graditi a Mussolini, che come primo mestiere era stato direttore prima dell'Avanti e poi del Popolo d'Italia da lui fondato. Al Corriere, come negli altri giornali che erano ormai ossequienti al regime fascista, voleva giornalisti bravi che però adottassero la linea del governo, sia pure adattandola al tipo di lettori ai quali quel giornali si dirigeva. Dunque propaganda capillare attraverso testate di prestigio che quel prestigio dovevano conservarlo e addirittura accrescerlo. Il Corriere della Sera si conformò a quelle direttive come tutti gli altri. Con un minimo di fronda? Direi di no. Del resto la fronda non era possibile.

Le cose naturalmente cambiarono quando il fascismo cadde e il Corriere diventò come tutti gli altri un giornale antifascista, famiglia Crespi consenziente.

Il primo direttore della nuova situazione fu Mario Borsa che non era soltanto antifascista ma anche repubblicano. Su questo punto i Crespi non erano d'accordo, tant'è che Borsa, a Repubblica già proclamata, si ritirò. Ma poi la qualità professionale dei direttori che si avvicendarono a via Solferino fu sempre notevole e culminò con Missiroli, con Spadolini e infine con Piero Ottone del quale ho già fatto cenno.

Quando nacque Repubblica c'era appunto lui alla direzione del Corriere; ma vent'anni prima era già nato l'Espresso, il settimanale "genitore" del quotidiano. E l'Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l'influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant'anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza.

Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono.

***

Come avvenne e di quali valori diversi il gruppo Espresso-Repubblica fosse portatore l'ho già accennato all'inizio di quest'articolo, ma ora mi soffermerò su qualche punto che merita d'essere approfondito.

La parola liberale anzitutto. Nella lingua inglese si chiama "liberal" che serve a designare chiunque non sia asservito ad una ideologia. Non riflettono abbastanza, secondo me, sull'uso ed il senso della parola "ideologia" che lessicalmente significa adesione ad un'idea e perciò anche sostenere che "liberal" è colui che non si sente asservito ad una qualsiasi ideologia configura in questo modo proprio un'ideologia.

Comunque il significato reale della parola "liberal" consiste nel rifiuto del totalitarismo. I liberal cioè possono cambiare idea secondo l'andamento dei fatti che modificano il luogo in cui essi vivono. Basta lessicalmente aggiungere una aggettivo a quella parola: c'è il liberal conservatore, il liberal moderato, il liberal progressista. Al di là non si va, il liberal radicale non è concepibile. Il liberal vive in uno spazio che politicamente è definibile di destra o di centro, ma non di sinistra. Aggiungo che dal punto di vista economico è liberista.

Da noi, nel linguaggio politico italiano, questi aggettivi sono applicabili ma esistono anche altre e più approfondite spiegazioni.

Anzitutto quegli aggettivi possono diventare sostantivi: reazionari, conservatori, moderati, progressisti. Inoltre c'è la parola liberale ma c'è anche liberista, libertario, libertino.

A mio parere il Corriere della Sera, sia pure con i mutamenti portati dai vari direttori nelle varie stagioni della loro direzione, ha sempre avuto un sottofondo liberale-liberista e conservatore o moderato.

Noi, di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l'ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell'eguaglianza dei punti di partenza, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita.

Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l'accento a volte più sulla libertà e a volte sull'eguaglianza, purché l'altro valore sia sempre presente e mai dimenticato.

Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l'appartenenza all'uno o all'altro.

Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento.

Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d'Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita.

Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio.

Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale.

© Riproduzione riservata 06 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/03/06/news/repubblica_corriere_della_sera-134860729/?ref=HRER2-1
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« Risposta #614 inserito:: Marzo 28, 2016, 07:25:20 pm »

Un ministro dell'Interno europeo per battere il terrorismo
"Per rispondere politicamente ai boia del Califfato e all'Europa come nemico, l'unificazione politica del nostro continente è il solo modo di reagire, avendo una piena coscienza che l'architettura dell'Europa confederata, così com'è, non è in grado di sostenere lo scontro"

Di EUGENIO SCALFARI
27 marzo 2016
   
IL DIBATTITO in corso sul terrorismo orribile dell'Is tocca un'infinità di argomenti: il nostro modo di comportarci per vincere la paura, il tema dei rifugiati e dei migranti, le moschee da chiudere o da aprire, l'integrazione dei musulmani o la loro cacciata, la guerra guerreggiata in Siria, in Iraq e in Libia. Insomma una selva di problemi che si intrecciano l'uno con l'altro creando una sorta di labirinto pieno di contraddizioni difficilissime da risolvere senza però affrontare il punto-chiave perché non viene formulata la vera domanda che dovremmo porci.

La domanda è questa: perché i terroristi manovrati ed istruiti dal Califfato si uccidono per uccidere gli altri, innocenti e incolpevoli?

Nella storia del mondo moderno non esistono altri esempi del genere, salvo i kamikaze giapponesi che, alla guida di aerei carichi di bombe, si lanciavano contro le navi da battaglia americane nell'ultima guerra mondiale.

Anche loro si uccidevano per uccidere il nemico, ma una differenza c'è rispetto ai kamikaze dei terroristi dell'Is: i piloti giapponesi combattevano una guerra e si uccidevano per uccidere il nemico, quel nemico. I terroristi dell'Is uccidono un nemico creato da loro, persone di qualunque razza, qualunque religione (o nessuna), qualunque nazionalità, qualunque età, bambini compresi, qualunque luogo purché affollato: uno stadio sportivo, un teatro, un bar, un aeroporto, una stazione, una metropolitana. Sono quindi molto diversi dai kamikaze giapponesi.

Qualcuno li ha paragonati ai nazisti, ma è un esempio sbagliato: i nazisti uccidevano gli ebrei, gli zingari, i diversi dalla loro razza ariana e comunque non uccidevano se stessi.

Altri portano come analogo esempio quei soldati che in una guerra vengono incaricati di missioni che li porteranno alla morte, ma anche questo è sbagliato: quei soldati hanno un x per cento molto elevato di lasciarci la pelle ma una possibilità di salvarsi comunque esiste, anche se si trattasse dell'1 per cento. Il rischio è altissimo ma non sono loro ad uccidersi.

Per concludere su questo punto: i kamikaze dell'Is sono un caso unico al mondo e agiscono dovunque, dal Medio all'Estremo Oriente, in Africa, in America e soprattutto in Europa. Però l'Europa e il Medio Oriente sono i loro principali teatri d'operazione.

Questo è il quadro da decifrare e in questo quadro stanno i nostri comportamenti per annientare l'Is e le sue cellule impazzite.

***

Quanti sono i kamikaze e le loro cellule universalmente diffuse? E qual è la centrale di comando che le guida?

La centrale di comando era fino a un paio di mesi fa unica: il territorio dominato dall'Is, assurto ormai a livello di uno Stato, con le sue gerarchie: un Capo, la sua squadra di collaboratori, le sue milizie combattenti come un vero e proprio esercito, i suoi organi di informazione e di efficace propaganda, i suoi reparti che istruiscono i kamikaze e li convincono a diventare tali.

Il territorio è triconfinario: confina con la Siria, con l'Iraq, con la Turchia ed anche con il Kurdistan. Ma negli ultimi tempi ha creato comandi dislocati e in parte autonomi. Uno di essi opera nel Sinai, un altro in Cirenaica.

Su questo terreno è in corso una guerra vera e propria con alterne vicende, salvo in Libia, dove questa guerra non c'è.

Le cellule sono sparse ovunque; la loro consistenza numerica può sembrare assai scarsa rispetto all'estensione del territorio sul quale operano, ma è molto elevata se paragonata ai compiti ad essa affidati: il personale delle cellule è valutato intorno a 20-30 mila persone, ma i possibili kamikaze sono più o meno la metà: 10-15 mila. Sono pochi? No, per quel che debbono fare è un numero molto elevato. In Francia e in Belgio sono stati impiegati una sessantina di terroristi; i kamikaze erano una ventina, ma quelli che hanno operato anche meno, creando tuttavia danni materiali molto elevati e danni psicologici e politici elevatissimi.

Somigliano al terrorismo delle Brigate rosse o di altre analoghe organizzazioni che operarono negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Assolutamente no. Nessuno di quei terroristi fece mai il kamikaze e comunque operavano avendo in mente un programma politico, l'aspirazione religiosa non c'entrava in nessun modo.

E noi, noi europei e noi italiani, che cosa possiamo e dobbiamo fare?

***

Convincerli a desistere dal fare i boia a prezzo della loro vita? Tentar non nuoce, dice il proverbio, ma in gran parte sarà tempo sprecato.

Dedicarci a mantener neutrali o meglio ancora a schierare contro l'Is e le sue cellule operative i musulmani residenti in Europa? Questo sì, è un compito incombente e non può significare altro che un processo di integrazione con tutto ciò che comporta in termini di occupazione professionale. Non vale soltanto per i musulmani ma anche per le periferie cittadine, le banlieue trasformate in ghetti, dove con la rabbia, la protesta, la violenza predispongono alcuni alla seduzione del Califfato.

Infine c'è l'obiettivo principale da realizzare: costruire l'unità, la vera e propria unificazione dell'Europa. Economica e insieme politica. Creare una nuova architettura e al tempo stesso risvegliare un sentimento europeista che negli ultimi anni si è molto indebolito o addirittura del tutto scomparso, sostituito da un sentimento opposto, antieuropeista, antidemocratico, antimigranti, nazionalista vecchia maniera.

Ho scritto più e più volte su questo obiettivo da perseguire risollevando la vecchia bandiera di Altiero Spinelli, di De Gasperi, di Adenauer e di Schuman; ma oggi essa è diventata una necessità. Per rispondere politicamente ai boia del Califfato e all'Europa come nemico, l'unificazione politica del nostro continente è il solo modo di reagire, avendo una piena coscienza che l'architettura dell'Europa confederata, così com'è, non è in grado di sostenere lo scontro.

Fino a qualche settimana fa personalmente ritenevo che un ministro delle Finanze unico, installato nell'eurozona, fosse il primo passo da compiere per avviare una politica di crescita sociale ed economica con le conseguenze politiche che quest'innovazione avrebbe comportato.

Gli ultimi avvenimenti non indeboliscono affatto quell'obiettivo che Mario Draghi da tempo chiede e che ha per ora parzialmente sostituito con la politica economico-monetaria adottata dalla Bce. Ma ora occorre affiancare all'obiettivo economico-monetario un altro che mi permetto di indicare alla politica europeista: la creazione di un ministro dell'Interno unico per tutta l'Unione europea ed anche un ministro della Difesa e degli Esteri.

Quello dell'Interno è il primo e il più necessario: significa una sorta di polizia federale (l'Fbi) con competenze sull'unificazione dei Servizi segreti, l'abolizione dell'autonomia nazionale per quanto riguarda i confini interni, il ripristino immediato del patto di Schengen.

So che su questa strada ci sono già da tempo il presidente Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano e Laura Boldrini. Sono certo che sarebbe favorevole anche Mario Draghi sebbene si tratti di un'innovazione che non riguarda direttamente le sue competenze. E penso che lo sia anche Matteo Renzi, sulla cui politica europea desidero spendere qualche parola.

***

Matteo Renzi ha scritto qualche settimana fa un documento del quale in queste pagine si è ampiamente parlato, nel quale si descrive dettagliatamente il rafforzamento necessario dell'Unione europea, con un'ipotesi di federazione e, tanto per cominciare, con la creazione di un ministro delle Finanze unico nell'eurozona. Il documento è di nove cartelle, divise in vari settori che concludono appunto col ministro delle Finanze europeo. È stato inviato a tutte le Autorità europee, nessuna esclusa e, per illustrarlo anche alla parte politica che Renzi guida nella sua funzione di segretario del Pd, ha convocato a Parigi il Partito socialista europeo cui ha illustrato il documento in questione.

Non è stato, quest'impegnativo documento, un segno di continuità; Renzi era stato per quasi due anni il fautore di una autonomia nazionale piuttosto spinta e la sua dialettica sia verso la Commissione europea, sia verso la potenza egemone della Germania, era stata l'accentuazione dell'autonomia dei governi nazionali.

Ad un certo punto, probabilmente dopo una più attenta considerazione dei fatti, la sua politica europea ha cambiato profondamente direzione ed è quella che abbiamo descritto. Non credo che dipenda da quanto sostiene il nostro giornale, ma ho preso atto con legittima soddisfazione che ora le nostre posizioni coincidono e voglio sperare che coincideranno anche ora sulla proposta di un ministro dell'Interno unico e di un'unica polizia federale.

Apro metaforicamente una parentesi per dire che questa concordanza non piace affatto al mio comico d'elezione, Maurizio Crozza. Mi dispiace molto, ma pazienza, non manco mai alle sue trasmissioni e così continuerò a fare ogni venerdì sera anche se ora ripete troppo spesso vecchi sketch già visti. Chiusa parentesi.

***

Concludo. Accettare (sotto ricatto) che la Turchia di Erdogan entri nell'Unione europea sarebbe un fatto di inaudita gravità. Una dittatura sanguinaria, con una storia di secoli alle spalle, che hanno visto quella nazione in guerra contro l'Europa, è un fatto inaccettabile.

Le armate turche nel Cinquecento si lanciarono alla conquista dell'Europa incominciando dalla Grecia e poi dai Balcani, dall'Ungheria e dall'Austria ed arrivarono addirittura a Vienna. Lì ci fu una battaglia campale, dove l'Europa era difesa da una coalizione piuttosto male armata, con un solo esercito valido, composto da truppe polacche e guidato dal re di Polonia.

Per fortuna i turchi furono sconfitti e arretrarono ma la loro presenza nell'Europa balcanica e in tutto il Maghreb africano durò ancora per secoli, sempre e comunque contro l'Europa.

Capisco che col tempo i Paesi cambiano, ma la Turchia di Erdogan è purtroppo la peggior Turchia e con l'Europa ha poco anzi nulla da spartire.

***

Ricordando venerdì santo l'insegnamento di Gesù, papa Francesco ha ancora una volta ripetuto che c'è, per i credenti di tutto il mondo e di tutte le religioni, un unico Dio che ha creato tutto e crea in permanenza. Tutte le persone umane sono state da lui create e tutti dunque debbono essere tra di loro fratelli.

Ha anche nominato le varie religioni: i cristiani, gli ebrei, i musulmani, Buddha, le divinità induiste, quelle cinesi e giapponesi. Il Dio è sempre unico anche se i suoi nomi sono diversi, diverse le Scritture, le dottrine e la catechesi. Diversi, ma affratellati.

Questa è la grande lezione di Francesco, interprete di un Dio che dispensa la misericordia come il suo dono principale, anzi unico, a tutta l'umanità senza distinzione alcuna.

Questa voce insegna il bene e come tale tutti sono chiamati ad ascoltarla.

Grazie Francesco, le tue parole sono essenziali per uscire dal labirinto in cui versa il mondo.

© Riproduzione riservata
27 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/27/news/terrorismo_ministro_interno_ue-136372524/?ref=HRER2-1
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