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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 319126 volte)
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« Risposta #585 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:44:46 pm »

Il Papa e Obama parlano al mondo, ascoltiamoli

Di EUGENIO SCALFARI
27 settembre 2015

LA POVERTA', la discriminazione, la corruzione: questi sono i mali del mondo e tutto il male restante è da questi che deriva. Così pensa e dice papa Francesco e questa è la sua predicazione che cominciò in Argentina quarant'anni fa ed è continuata con ben altra ampiezza di ascolto da quando siede sulla sedia di Pietro.

Non era però accaduto che questo tema, che con una sola parola onnicomprensiva si può definire disuguaglianza, fosse affrontato dinanzi al Congresso degli Stati Uniti d'America e poi all'Assemblea delle Nazioni Unite. La disuguaglianza è la causa e il suo più vistoso effetto è quello della migrazione, che riguarda centinaia di milioni di persone e interi popoli che si spostano da un Paese all'altro, da un continente all'altro, rivendicando i loro diritti di persone umane e la loro libertà.

Eguaglianza, libertà, fraternità: sono questi i tre valori che tre secoli fa l'Europa rivendicò ed è su di essi che si sta realizzando l'incontro tra la Chiesa di Francesco e la modernità laica. Un Papa dal linguaggio profetico e rivoluzionario come Lui non s'era mai visto prima: gesuita fino in fondo, francescano fino in fondo, che ha saputo unificare la parte migliore di questi due Ordini della Chiesa, in apparenza molto lontani tra loro. La loro storia è diversa, ma la loro ispirazione ha le medesime finalità della Chiesa missionaria di Francesco: ama il prossimo tuo come e più di te stesso.

Più volte mi sono posto la domanda del rapporto tra questo Papa e la politica. Lui esclude che questo rapporto vi sia ed infatti combatte il potere temporale della Chiesa cattolica.

 Proprio perché una Chiesa missionaria come Lui la concepisce non ha e non deve esser deturpata dal temporalismo, cioè dall'amore verso il potere. Gli effetti di questa lotta tuttavia si riverberano con inevitabile intensità sulla politica. Corruzione, discriminazione, povertà, sono alcuni dei connotati che caratterizzano il potere e deturpano la politica. Non a caso Francesco è stato accusato di simpatie "comuniste". È una accusa volutamente e ingiustamente aggressiva, alla quale Francesco ha risposto cristallinamente: "Io predico il Vangelo; se i comunisti dicono le stesse cose, sono loro che adottano il Vangelo".

Qualche amico mi ha chiesto chi sono a mio parere gli uomini più importanti e che maggiormente influenzano la situazione del mondo d'oggi. La mia risposta è: Francesco e Barack Obama. Operano in settori diversi ma le finalità sono affini. Purtroppo non avranno molto tempo a loro disposizione ed è assai improbabile che i loro successori siano alla stessa loro altezza. È addirittura possibile che abbiano finalità diverse dalle loro. La storia del resto non è coerente nel suo procedere, affidata più al caso che al destino; variano le passioni, le emozioni, gli interessi e quindi i valori e gli ideali. Ma i momenti culminanti e chi li rappresenta sia nel bene sia nel male rimangono nella memoria storica e aiutano le anime vigili e responsabili a tener conto del prossimo e della "polis", due parole che indicano la stessa realtà vista da due diverse angolazioni: il prossimo si configura in una convivenza tra liberi ed eguali. Così vorremmo che fosse.

***
Sarebbe altrettanto interessante capire chi sono le personalità più rimarchevoli in Europa e in Italia, luoghi geopolitici, sociali, economici e culturali che ci riguardano molto da vicino. Nel nostro continente Angela Merkel, Mario Draghi e anche Putin: la Russia è bi-continentale ma la sua parte politicamente essenziale è quella ad Ovest degli Urali o addirittura ad Ovest del Volga. Quindi Europa.

La Merkel nelle ultime settimane ha perso improvvisamente peso, anzitutto con quanto è accaduto e sta tuttora accadendo con le ondate di migranti e la reazione che hanno provocato nei Paesi dell'Est europeo e nella stessa Germania. Poi, ancor più recentemente, con lo scandalo Volkswagen che ha messo in crisi non soltanto una delle principali case automobilistiche del mondo intero, ma l'industria tedesca nel suo complesso, con possibili chiamate di correo perfino politiche.

La Germania è sulla difensiva su tutti i fronti: quello delle immigrazioni, quello dell'economia industriale, quello della dominanza europea. Questa crisi indebolisce l'Europa perché con una Germania incerta anche l'Europa diventa più incerta. Il futuro del nostro continente è strettamente legato alla costituzione degli Stati Uniti d'Europa. L'ultimo e più autorevole appello perché quest'evento si compia è stato di Giorgio Napolitano che al convegno sulla giustizia promosso a Piacenza ha avuto in proposito parole nettissime. Se quest'evento sfumasse verso un tempo indeterminato -  ha detto Napolitano -  l'Europa e tutti gli Stati nazionali che la compongono diventerebbero insignificanti nel panorama mondiale con effetti negativi di carattere economico sociale e di conseguenza politico. Una chiarezza di giudizio encomiabile, ma purtroppo Napolitano non dispone più di strumenti concreti per dare seguito a ciò che pensa e dice su questo tema. Per fortuna Mattarella la pensa allo stesso modo e lui qualche strumento di concreta pressione lo ha.

In questo panorama di incertezza e indebolimento dell'Unione europea, chi dispone di strumenti importanti e concreti è Mario Draghi e li sta usando sempre più drasticamente: ha aumentato nel tempo e nella misura il "quantitative easing"; ha penalizzato la liquidità delle banche quando se ne servono per interessi propri anziché della clientela; sta estendendo le garanzie ai depositanti e alle banche e l'acquisto di titoli pubblici. Nella sua ultima dichiarazione pubblica ha chiesto alla Commissione di Bruxelles e al Parlamento di istituire un ministro del Tesoro europeo che sia il solo interlocutore politico della Banca centrale, responsabile d'un bilancio europeo molto più ampio di quello attuale, un debito pubblico sovrano con relativa emissione di titoli e una propria politica di investimenti. Il tutto con le necessarie cessioni di sovranità. Ha sollecitato infine l'Italia a varare leggi del lavoro e sgravi fiscali che abbiamo come obiettivo quello di incentivare gli investimenti e creare nuovi posti di lavoro. Quanto all'aumento dei tassi di interesse Usa, ormai deciso dalla Fed americana, produrrà un rafforzamento del tasso di cambio del dollaro con ulteriore deprezzamento dell'euro che favorirà ancor più le esportazioni di merci europee (e italiane) verso l'area del dollaro.

***
In Italia la personalità politica più importante è Matteo Renzi, per suo merito e per la debolezza degli altri. Personalità politicamente e moralmente più rilevanti della sua ce n'è più d'una ma sono persone, non forze politiche. Per di più una parte rilevante del popolo italiano lo segue con rassegnato entusiasmo, come fece in altri tempi con Berlusconi.

Quanto agli oppositori, il consenso che raccolgono è nettamente minore del suo: Il Movimento 5Stelle è l'inseguitore più prossimo ma il distacco è ampio e non pare destinato a diminuire. Quanto all'opposizione interna, alla resa dei conti ha mostrato la sua fragilità, maggiore di quanto si pensasse, negoziando e accordandosi con lui su dettagli e abbandonando l'obiettivo numero uno che loro stessi definivano il recupero di quei valori, ideali e concreti, d'una moderna sinistra. La realtà ha dimostrato che quei valori si sono persi per strada e assai difficilmente saranno recuperati.

Il problema dell'elezione diretta dei senatori -  che comunque è stato anch'esso di fatto abbandonato -  era uno strumento per recuperare quei valori. La battaglia sul Senato rappresenta un grimaldello per ottenere che il regime monocamerale non fosse subordinato al governo come di fatto sarà in una Camera di "nominati". Questo era l'obiettivo, smarrito per strada da senatori democratici che l'avevano indicato molte volte e poi l'hanno mandato in soffitta.

Può darsi che un Renzi che governa da solo in un Paese come il nostro sia una soluzione ottimale.
Va notato tuttavia che le leggi fin qui prodotte sono di modestissima qualità, le abbiamo su questo giornale esaminate con attenzione e ne abbiamo individuato pregi e difetti. Debbo dire che i difetti sono molto più numerosi dei pregi e lo dimostra un esperto come Gianluigi Pellegrino e perfino un "renziano" come D'Alimonte, sul Sole 24 Ore di venerdì. Civati sta raccogliendo firme per un referendum abrogativo. Vedremo domani se avrà ottenuto il numero previsto dalla legge ma se quel referendum si facesse la decisione passerebbe al popolo e forse sarebbe un fatto positivo.

Ma il modo più idoneo a recuperare valori costituzionali in gioco potrebbe essere la ripresentazione di quella proposta di legge che non ebbe la possibilità di essere votata, presentata nel 1995 con una settantina di firme tra le quali quelle di Mattarella, Napolitano, Walter Veltroni, Piero Fassino, Leopoldo Elia, Rosy Bindi. Il nucleo essenziale suonava così: "La democrazia parlamentare deve dispiegarsi appieno per quanto riguarda le scelte del governo, ma deve trovare un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali, delle regole democratiche, dei diritti e della libertà dei cittadini; principi, regole, diritti che non possono essere rimessi alle decisioni della maggioranza pro-tempore".

Ho ricordato questa proposta nel mio articolo di domenica scorsa. Oggi ne propongo la ripresentazione perché è il solo modo di rafforzare la fragile democrazia esistente senza con ciò impedire a Renzi di dare il meglio di sé evitandone il peggio.

© Riproduzione riservata
27 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/27/news/il_papa_e_obama_parlano_al_mondo_ascoltiamoli-123762207/?ref=fbpr
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« Risposta #586 inserito:: Ottobre 08, 2015, 12:12:41 pm »


In Italia abbiamo un piacione e ci vuole innamorare

di EUGENIO SCALFARI
ore 4.20 del 4 ottobre 2015


PER me è molto noioso dovermi occupare ancora di Renzi ma chi esercita la professione di giornalista ha l'obbligo di capire e raccontare quel che fanno i protagonisti delle vicende politiche. Renzi è tra questi e se c'è un uomo politico che desidera comparire ogni giorno sui media d'ogni colore, questo è lui e non certo Romano Prodi da lui accusato di commettere abitualmente questo peccato. Nel merito Renzi attribuisce a Prodi una posizione che giudica totalmente sbagliata a proposito della guerra in Siria. Il tema è tra i principali e più drammatici di questo agitato periodo: guerre tribali, delitti orribili del Califfato, stragi effettuate da Assad e prima di lui da suo padre, incertezze dell'America e dell'Europa, spregiudicatezza estrema della Russia di Putin e dell'Iran e un intrico in tutto il Medio Oriente, descritto da Bernardo Valli ieri su questo giornale.

Sul tema Siria, nell'intervista rilasciata al nostro Claudio Tito, Renzi ha detto: "Dubito delle ricette scodellate in modo semplicistico: non sarà semplicemente aiutando Assad che debelleremo l'Is. Occorre un progetto pluriennale, una coalizione che non si limiti ad annunciare qualche raid aereo". Le ricette semplicistiche sarebbero quelle di Prodi, ma le sue, di Renzi, quali sarebbero? Non esclude affatto l'intervento delle truppe di Assad, ammette che i raid aerei non basteranno a debellare l'Is e auspica una coalizione delle grandi potenze. Un progetto pluriennale. Ma nel frattempo che cosa si fa?

Prodi a sua volta ha detto che "quella in Siria è un fatto determinante e il suo andamento dipende soprattutto dal rapporto tra Usa e Russia. Ma nessuna delle due potenze invierà truppe sul terreno. Aerei sì, truppe no. Quindi il malandato esercito di Assad va rafforzato perché quelle soltanto sono le truppe disponibili sul terreno. Putin appoggia Assad, Obama no, ma dovrà rassegnarsi perché con i soli bombardamenti aerei l'Is non sarà battuto" . Dunque, su questo problema Renzi e Prodi dicono cose molto analoghe. La sola differenza è che Renzi auspica una coalizione internazionale che di fatto già esiste, sia pure con tutte le contraddizioni che caratterizzano la storia dell'intero Medio Oriente. La differenza è che Prodi è soltanto un osservatore informato di prima mano, Renzi dovrebbe essere un attore ma non lo è perché su questo terreno il premier italiano non viene consultato né dall'America né dalla Russia né dall'Europa. A lui piacerebbe e anche a noi, ma le cose stanno esattamente così.

***

Il tema che desidero trattare oggi è quello dei rapporti tra la politica e l'informazione. La questione tra Renzi e Prodi ne è stata una necessaria premessa, ma il tema è molto più complesso e non si pone soltanto nel nostro paese ma dovunque. La politica cerca il consenso, l'informazione racconta i modi con i quali il consenso è ricercato e molte altre cose che con la politica hanno poco o nulla a che fare. Ma c'è di più: per ottenere il consenso la politica cerca di conquistare l'informazione e cioè i giornalisti e i loro editori. L'informazione a sua volta ambisce di influenzare la politica indicandole interessi da tutelare e valori ai quali ispirarsi. Entrambe si sentono depositarie di interessi generali dietro i quali tuttavia si celano spesso interessi particolari dei singoli politici e dei singoli addetti all'informazione.

Aggiungo un altro aspetto tutt'altro che secondario del problema che stiamo esaminando: spesso, in Italia soprattutto, gli editori proprietari di giornali e televisioni ricavano i loro profitti da altre attività economiche prevalenti rispetto a quelle dell'editoria. Il cosiddetto editore puro è una figura prevalente nei paesi occidentali, ma piuttosto rara in Italia, non oggi ma da sempre. Questa situazione caratterizza il rapporto tra politica e informazione, aggravandolo ancora di più se la politica possiede direttamente strumenti informativi di massa.

Per esser chiari ricorderò quanto accadde durante i vent'anni di regime fascista. Il "Popolo d'Italia" fondato da Mussolini, fin dai tempi dell'intervento nella guerra del 1915, era un giornale di partito; ma quando il Duce conquistò il governo instaurò il regime le sue mire furono d'impadronirsi dei grandi giornali d'opinione e della radio. Fondò l'Eiar, servizio pubblico monopolista, e affidò i grandi giornali a gruppi economici e famiglie che barattarono quel beneficio con una completa subordinazione politica al regime. Alla "Stampa" di Torino fu estromesso Frassati al quale subentrò la famiglia Agnelli; al "Corriere della Sera" fu estromesso Albertini e prese il suo posto la famiglia Crespi; al "Messaggero" di Roma la famiglia Perrone, proprietaria dell'Ansaldo e azionista della "Banca di sconto", si asservì a Mussolini e così accadde anche al "Mattino" di Napoli, alla "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari e al "Giornale di Palermo", al "Popolo di Roma", al "Resto del Carlino" di Bologna, alla "Nazione" di Firenze. Insomma l'intera stampa italiana, nazionale e regionale, fu in mano a famiglie succubi del regime e spesso titolari anche di altre attività economiche più redditizie dei giornali. Quindi editori "impuri" e politicizzati. Situazioni analoghe si verificarono nella Germania nazista, nella Spagna franchista, nel Portogallo salazariano. Dove esiste la dittatura o una democrazia fragile e anomala, il rapporto tra politica e informazione è assai poco confortante per la libertà.

***
L'Italia per fortuna non è un regime, non lo fu ai tempi della Democrazia cristiana né a quelli di Berlusconi e neppure dopo Berlusconi. Renzi è al potere da appena due anni e non mi pare che abbia in mente una dittatura. Vuole comandare da solo, questo sì; vuole un Parlamento "dominato", questo anche, ma non più di tanto. Del resto siamo anche membri dell'Unione europea, che è ancora una confederazione e quindi sono gli Stati nazionali a decidere le mosse dell'Unione. Nessuno di loro ama l'eventuale prospettiva degli Stati Uniti d'Europa. Ma comunque l'Unione c'è e chi ha la leadership in Italia deve tenerne conto.

Ciò non toglie che Renzi vuole comandare da solo e non lo nasconde. Non con editti ma con la capacità di farsi amare. A Roma uno come lui lo chiamano "piacione". È un piacione, è questo che vuole e ci riesce abbastanza. Quando non ci riesce si arrabbia e molti, che non lo amano affatto, fanno finta di esserne innamorati; altri che sono invece incantati dalla sua piacioneria, fanno finta di non esserlo, di sentirsi neutrali, liberi di decidere pro o contro. Così facendo dicono no nelle questioni marginali ma lo appoggiano in quelle fondamentali. Insomma c'è grande confusione in questo paese, col risultato che molti e specialmente i giovani si allontano dalla politica, sono indifferenti, leggono poco i giornali, guardano sempre meno la televisione e i "talk show" in particolare, dove il tema pressoché unico è ormai diventato Renzi magari anche per criticarlo ma l'argomento che predomina è sempre lui. E la gente  -  i giovani soprattutto  -  cambia canale o spegne e passa a Internet dove la scelta degli argomenti e degli interlocutori è infinita.

Renzi  -  l'ho già detto  -  non vuole un regime. Vuole piacere. Vuole comandare da solo. Vuole ridurre il Senato ad un'agenzia territoriale con 74 eletti secondo le leggi regionali, 21 sindaci di grandi città e 5 nominati dal presidente della Repubblica. Vuole una Camera di "nominati" che si presentano in più circoscrizioni contemporaneamente. Vuole insomma che l'Esecutivo sia nettamente più forte del Legislativo, mentre in una democrazia forte dovrebbe avvenire il contrario. Vuole il cambiamento ma non dice quale. Vuole la sinistra purché sia moderna, alla moda di Tony Blair che ereditò e mantenne viva nella sua essenza la politica della Thatcher, non più di destra ma di centro.

Questo è Renzi. Quanto all'informazione, in Italia è ancora libera ma difficilmente riesce a vincere l'indifferenza, forse perché anche noi stiamo diventando indifferenti e un'informazione indifferente non esiste più.
Il rischio è di diventare una democrazia che interessa un 30-40 per cento del paese. Un'ampia maggioranza non se ne interessa più, vive per proprio conto e bada alla sua situazione economica. Il resto è chiacchiera, divertimento, tristezza e musica rock. Un tempo era l'età del jazz. Adesso anche il jazz è andato in soffitta.

Da - repubblica.it
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« Risposta #587 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:12:29 pm »

I protagonisti sono tre: Obama, Putin e Francesco
Renzi pensa che, con un impegno militare in Siria e un'iniziativa in Libia per distruggere i barconi degli scafisti, il ruolo dell'Italia cambierebbe di colpo.
Ma l'Europa è ai margini di questi eventi, non ha una politica estera comune.
L'Italia è soggetto passivo e potrebbe diventarlo ancora di più stimolando l'attuazione di attentati in un Paese che è sede del Pontefice

Di EUGENIO SCALFARI
11 ottobre 2015

L'ITALIA entrerà in guerra contro il Califfato musulmano utilizzando i suoi quattro aerei Tornado di stanza ad Abu Dhabi per bombardare le posizioni dell'Is in Iraq? O si tratta soltanto d'un cambiamento delle regole di ingaggio dei nostri avieri? Quale che sia il modo di gestire la questione, il nostro premier vuole che sia il Parlamento a decidere, quindi lui la vede come un atto di guerra vero e proprio perché questo gli torna utile. Se infatti l'Italia entra in guerra acquista con ciò il diritto di partecipare a pieno titolo alle riunioni dei Paesi che in quella guerra ci sono già, sia pure con ruoli diversi e talvolta conflittuali: Usa, Russia, Turchia, Francia, Siria, Iraq e dunque anche Italia. Renzi vuole un ruolo internazionale e in questo caso lo avrebbe.

Gli basta? No, non gli basta. Lo vuole anche in Libia. Non più come negoziatore dell'accordo tra Tobruk e Tripoli, ormai realizzato dall'incaricato dell'Onu che ha lavorato per cinque mesi al fine di ottenerlo; ma come protettore, una sorta di Lord Protector in posizione dominante per la distruzione dei pescherecci e dei barconi utilizzati dagli scafisti e dai mercanti di uomini, l'allestimento di centri di raccolta in territorio libero e l'eventuale intervento nei Paesi di partenza dei migranti nell'Africa sub-sahariana.

Se questi sono gli obiettivi, il ruolo dell'Italia cambierebbe di colpo, sia all'Onu, sia in Europa, sia nella Nato; i rapporti con Obama si farebbero più stretti, altrettanto quelli con Juncker, presidente della Commissione europea, e con Putin. Insomma: uno statista di livello mondiale che del resto -  pensa lui - l'Italia merita essendo stata una dei cinque fondatori della Comunità europea che nacque col Trattato di Roma del 1957 dal quale l'Unione prese l'avvio. Naturalmente queste varie iniziative con le quali Matteo Renzi sta costruendo il suo podio costano soldi. Non pochi. Ma di quest'aspetto finora non si è parlato.

Avranno un peso reale sulla situazione migratoria e sul Califfato? Nessuno. Le dimensioni di quella guerra aumentano di giorno in giorno e si diffondono in tutto il mondo. Giorni fa ci furono attentati in Bangladesh, a migliaia di chilometri dal Califfato, Stato islamico. Ma ieri due kamikaze si sono fatti esplodere nella stazione centrale di Ankara provocando una strage di almeno cento morti e centinaia di feriti, il massacro più grande che sia avvenuto in questi anni e in un Paese appartenente al tempo stesso al mondo islamico, all'Europa, governato da un presidente autoritario, impegnato in una guerra civile che data da decenni con i curdi. Per ora la strage non è stata ancora rivendicata, ma Erdogan e i curdi si rimpallano le accuse.

Questa è la vera guerra che si intreccia con quella siriana mentre nel frattempo si è riaperto il conflitto tra Israele e Hamas, sempre più cruento da Gaza alle rive del Giordano.

L'Europa è al margine di questi eventi, non ha forze armate proprie, non ha una politica estera comune, quindi non è un soggetto attivo, ma dal punto di vista di soggetto passivo è fortemente sotto schiaffo. E l'Italia è anch'essa soggetto passivo. Potrebbe diventarlo ancora di più perché Roma è Roma. Le iniziative puramente figurative del nostro presidente del Consiglio valgono ben poco sul terreno ma possono - se passeranno in Parlamento - stimolare l'attuazione di attentati in un Paese che è la sede del Pontefice.

Naturalmente sono stati già presi in proposito opportuni provvedimenti di sicurezza ma il progetto di Renzi va avanti perché egli coltiva il disegno di essere un nuovo Cavour, quello che mandò i soldati piemontesi a combattere in Crimea per guadagnarsi la stima dell'Europa e della Francia di Napoleone III, con il fine di portare avanti l'obiettivo dello Stato italiano.

Renzi è dunque il successore di Cavour? Forse lo è di Berlusconi e nel frattempo ha adottato Verdini. Siamo alquanto lontani da Camillo Benso, da Garibaldi e da Mazzini.

***

Nelle pagine del nostro giornale ci sono oggi servizi approfonditi sui vari aspetti della situazione in Medio Oriente, di Bernardo Valli, Adriano Sofri, Marco Ansaldo ed altri colleghi in varie zone collocati. Non ho quindi nulla da aggiungere salvo una considerazione sui protagonisti di questa vicenda che impegna il mondo intero per le sue ripercussioni non soltanto politiche ma anche sociali ed economiche, sulle materie prime, sui flussi migratori, sulle religioni.

Ebbene, esaminando tutti questi intrecci di interessi, valori, fedi religiose, fondamentalismi, cupidigie di potere ma anche desideri di libertà, di eguaglianza, di diritti, di solidarietà, a me sembra che i protagonisti siano tre: Obama, Putin, papa Francesco.

Il Presidente Usa ha in animo un obiettivo: in un mondo multipolare vuole che l'America indichi qual è la musica da suonare e il suo ritmo, ed è l'America il direttore d'orchestra che coordina i vari strumenti. È chiaro che gli strumenti sono diversi tra loro, alcuni più importanti di altri e c'è lo spazio anche per i solisti di importanza tale da essere equiparati al direttore dell'orchestra, ma è sempre lui a dare l'avvio perfino al solista e a guidare con la sua bacchetta il gran finale. Questa è la funzione che Obama assegna agli Stati Uniti e la missione affidatale è quella della pacificazione, del progresso civile e ovviamente del ruolo americano.

Putin è consapevole che dirigere l'intera orchestra e scegliere il testo da suonare non è compito suo. Perfino ai tempi dell'Urss e del mondo diviso in due da contrapposte ideologie, l'impero americano era molto più vasto di quello sovietico che non poteva far blocco neppure con lo Stato comunista cinese.

Putin non ha più una ideologia da usare come strumento politico, né un'economia potente che lo sostenga, anzi versa in condizioni economiche estremamente agitate. Non ha neppure una forza militare importante come quella che gli Usa sarebbero in grado di allestire in caso di necessità. E tuttavia gioca con coraggio e grande abilità la sua partita in Europa e in Medio Oriente.

In Europa vuole circondare le sue frontiere con una cintura di Stati neutrali che corrisponde più o meno a quelli dominati (con fatica) dall'Urss. Il caso ucraino è il più significativo, ma non è il solo.

In Medio Oriente lo "zar" vuole potersi affacciare sulla sponda mediterranea ed aver voce economica e politica anche su quello scacchiere. La Crimea era fondamentale per la presenza russa nel Mar Nero, ma il Mediterraneo è ancora più importante per ovvie ragioni e la presenza dei russi in Siria è motivata soprattutto da questo scopo: attrezzare nel Mediterraneo una base che non sia soltanto – come già è – un porto d'attracco, ma una presenza economica del genere di quelle che ebbero nel Rinascimento le basi commerciali delle Repubbliche marinare italiane e di Venezia in particolare.

Questo vuole Putin, che sa tuttavia di dover stipulare un accordo con gli Usa e con Obama in particolare perché chi tra un anno gli succederà non è detto che conceda alla Russia il ruolo di comprimario che Obama, pur cercando di limitarlo, è comunque disposto a riconoscergli. L'accordo tra i due sarà raggiunto nei prossimi giorni e non sarà certo un intralcio la posizione di Assad che di fatto rappresenta un punto di passaggio d'una mediazione quanto mai necessaria.

Il terzo protagonista, papa Francesco, si muove su tutt'altre dimensioni, non politiche ma religiose. La sua visione religiosa tuttavia è talmente rivoluzionaria da esercitare effetti politici rilevanti dei quali Francesco è perfettamente consapevole.

La dichiarazione - il nocciolo della predicazione papale - che Dio è unico in tutto il mondo anche se viene descritto e declinato dalle varie confessioni attraverso le sacre scritture diverse tra loro, è un punto di fondo con conseguenze politiche estremamente importanti. Il Dio unico esclude ogni fondamentalismo e punta invece su un proprio Dio e lo contrappone a quello degli altri. Il terrorismo del Califfato musulmano con i suoi kamikaze che sacrificano le loro giovani vite pur di ammazzarne altre, è una mostruosa derivazione del fondamentalismo del quale il Dio unico di Francesco è la più assoluta negazione.

Il Papa nella sua visione moderna della Chiesa esercita anche molti altri effetti positivi sull'orientamento politico dei popoli e delle loro classi dirigenti, ma quello principale a tutti gli effetti è appunto la religione dell'unico Dio. La platea di Francesco è il mondo intero ma soprattutto l‘America del Sud, l'Africa, il Medio Oriente, le isole indonesiane, la Polinesia, le Filippine. India e Cina sono continenti più remoti rispetto ad un Papa cristiano che infatti punta a mano tesa anche su quegli Stati continentali. Nell'India meridionale ha già messo piede entrando in contatto con milioni di persone.

Senza Francesco, comunque, il nostro mondo e la nostra modernità sarebbero estremamente più poveri. Per tutti, non credenti compresi. Lui, pur essendo portatore della fede che interamente lo possiede, è il Papa più laico della storia cristiana. Lo sa e non se ne duole. Una massa di credenti è anche laica poiché è consapevole del libero arbitrio e lo usa con responsabilità così come allo stesso modo lo usa il laico non credente.

Purtroppo accade anche che credenti e non credenti usino il libero arbitrio nel modo peggiore. Ne abbiamo sotto gli occhi gli esempi più efferati o più stupidi e francamente non saprei dire quale dei due esempi è più faticoso da combattere e da sopportare.

© Riproduzione riservata
11 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/11/news/i_protagonisti_sono_tre_obama_putin_e_francesco-124804296/?ref=HRER2-1
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« Risposta #588 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:23:36 pm »

Scalfari, colloquio con Prodi: "L'Is non si batte solo con i bombardamenti.
Obama rafforzi l'esercito di Assad"
Dallo strapotere americano sul web, al ruolo dell’Europa e della Bce nei nuovi equilibri geopolitici
E sulla guerra al Califfato l’ex premier dà ragione a Putin

Di EUGENIO SCALFARI
02 ottobre 2015

PARLARE, anche per chi gli è amico da oltre trent'anni, con Romano Prodi equivale a consultare un atlante storico e geografico del mondo intero, un mappamondo che gira mari, monti e paludi. A me capita spesso questo privilegio e due giorni fa si è ripetuto. Ne riferisco a sua insaputa perché so che aiuterà i nostri lettori ad orientarsi sull'agitata realtà che ci circonda con maggiori informazioni, tutte di prima mano.

Prodi ha ricoperto vari ruoli nella sua vita, che è ancora lontana dalla vecchiaia. È stato ministro, presidente dell'Iri, presidente del Consiglio, presidente della Commissione europea ed ora ha incarichi dall'Onu. Conosce la Cina, la Russia di Putin, il Medio Oriente, l'Africa maghrebina e quella subequatoriale. E soprattutto conosce l'Europa. Nel nostro incontro ci siamo ripassati tutte queste realtà: cambiano ogni giorno nella crisi di epoca che stiamo attraversando e quindi è utile aggiornarsi con frequenza per non perdere il contatto con la realtà.

"Una crisi d'epoca - mi ha detto - hai ragione. Una crisi d'epoca globale ed è la prima volta che accade perché è la prima volta che investe una società globale. In essa il potere dominante è nelle mani delle grandi reti d'informazione, quelle che di fatto monopolizzano Internet. Sono queste le vere multinazionali: arrivano dappertutto e influenzano largamente l'utenza mondiale, i giovani soprattutto. Ma l'elemento da non perdere di vista è che sono tutte americane, senza eccezione alcuna. Questo non significa che siano influenzate dal governo americano, ma riflettono inevitabilmente la società di quel paese-continente, il suo modo di vivere e le sue contraddizioni, i suoi pregi e i suoi difetti".

È possibile che le multinazionali dell'informazione nascano anche in altri Paesi? L'Europa è un continente che ha una ricchezza notevole, una cultura non certo inferiore a quella americana. Sarebbe dunque perfettamente in grado di creare multinazionali informative. Perché non lo fa?
"Perché i Paesi che la compongono sono disuniti e gli Stati che ne fanno parte se agiscono da soli non sono in grado".

Tu pensi e ti auguri che nascano gli Stati Uniti d'Europa?
"Lo penso e me lo auguro, sì, ma penso anche che difficilmente avverrà".

Hai ragione, finora è stato così, ma potrebbe cambiare.
"Ci vorrebbe un Paese forte o un gruppo di Paesi forti che fossero decisi ad agire in quella direzione e una pubblica opinione che li aiutasse a imboccare quella strada. Ma non si vede traccia di tutto ciò".

Germania. È il Paese più forte e più popoloso del nostro continente ed ha anche fedeli alleati che la seguono sempre.
"Ma ha anche molti avversari".

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E REPUBBLICA+

© Riproduzione riservata
02 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/10/02/news/_l_is_non_si_batte_solo_con_i_bombardamenti_anche_obama_rafforzi_l_esercito_di_assad_-124123428/?ref=HREC1-4
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« Risposta #589 inserito:: Ottobre 25, 2015, 12:03:31 pm »

Conservatori e temporalisti lo frenano ma Francesco non si fermerà

Di EUGENIO SCALFARI
25 ottobre 2015
   
IL PAPA non ha un tumore, sia pur benigno, al cervello né altre malattie. Se ne avesse lo direbbe. Jorge Bergoglio è un uomo le cui passioni sono state e sono la verità e la fede. La verità per lui è un valore assoluto; accetta il relativismo di tutti gli altri valori ma lo respinge fermamente per quanto riguarda la verità. Dico queste cose perché di esse abbiamo più volte discusso nei nostri incontri. E poiché io non credo nella verità assoluta, lui ha colto quale fosse la differenza che ci divideva: per lui la verità assoluta coincide con Dio, per un credente la verità propria è assoluta, ma soltanto la propria, ben sapendo che può non coincidere con quella degli altri.

Ricordo queste conversazioni perché mi danno la certezza che se fosse ammalato il Papa lo direbbe. Del resto alcuni mesi fa fu proprio lui a dire pubblicamente: "Non avrò molto tempo per portare a termine il lavoro cui debbo attendere, che è la realizzazione degli obiettivi prescritti dal Vaticano II e in particolare quello dell'incontro della Chiesa con la modernità". Questa dichiarazione per la parte che riguarda il "poco tempo disponibile" destò una grande sorpresa ed anche una forte preoccupazione tra quelli che ritengono essenziale il suo pontificato per un rinnovato messaggio della Chiesa. La sua pubblica risposta fu questa: "Non ho per mia fortuna alcun male, ma sono entrato in un'età nella quale le possibilità di vita diventano sempre minori man mano che il tempo corre. Spero soltanto che il trapasso non sia fisicamente doloroso. Ma detto questo è tutto nelle mani di Dio".

Quindi papa Francesco oggi non è malato. Resta da capire perché "gli avvoltoi volano su di lui" come ha scritto efficacemente Vito Mancuso giovedì scorso sul nostro giornale. Avvoltoi, che lanciano falsità contro Francesco sperando che diventi pontificalmente cadavere, che il Sinodo sulla famiglia e il Giubileo sulla misericordia siano due fallimenti così pure la sua politica religiosa nei confronti dell'incontro con la modernità e della decostruzione -  secondo loro -  della Chiesa.

Gli avvoltoi sono costruiti a tutto questo e carichi di conseguenze. Nei nostri articoli dei giorni scorsi i loro interventi sono stati esaminati e collegati ad una logica perversa l'uno all'altro. Ragioni di potere religioso e temporalistico li animano e una visione completamente diversa della Chiesa. Loro non vogliono una Chiesa aperta come vuole Francesco; non vogliono la sua Chiesa missionaria, non vogliono la fine del temporalismo. Considerano Francesco un intruso, una specie di alieno, di rivoluzionario incompatibile con la tradizione. Perciò combattono, gettano fango, diffondono notizie false, rivelano pretesi documenti, svelano posizioni interne nel vescovato cattolico. Una guerra vera e propria. Francesco la vincerà o la perderà? E quali sono i pilastri della sua predicazione e quali le sue armi (se di armi si può parlare) in questo scontro tra chiesa temporalistica e chiesa missionaria?

***

Il vero pilastro che tutto regge della politica religiosa di papa Francesco è il Dio unico, un'unica Divinità, sorretta dalla ragione e dalla fede. Dio che tutto regge e tutto ha creato a continua a creare incessantemente. Non esiste e non può esistere un Dio proprio di ciascuna religione: se Dio è tutto e tutto ha creato, Egli è di tutti e di ciascuno e continua a creare perché se si fermasse sarebbe una Divinità che si è fermata e rimane spettatrice d'una realtà in continuo movimento, un Dio che si è ritirato nell'alto dei cieli non più creatore ma testimone del continuo evolversi della società. Dunque un Dio creatore che le sue creature sentono dentro di loro perché una scintilla divina c'è in tutti e non importa se ne sono consapevoli o no. Quella scintilla divina opera nelle creature attraverso gli istinti e quegli istinti sono la vita, lo spazio che occupano, il tempo creativo delle particelle elementari che vorticosamente si aggirano nell'universo e le leggi alle quali obbediscono. L'Universo e gli Universi si modificano in continuazione e quelle modifiche è il Dio che le guida.

Tutto ciò è infatti eterno e la scintilla di Divinità dà a ciascuna creatura le sue leggi: gli atomi hanno le loro leggi, gli astri, le galassie, i campi magnetici, le stelle. Tutte queste forme nascono e muoiono ed è il tempo che le logora.

Questa è la visione della realtà che noi, animali pensanti, siamo in grado di percepire. Noi abbiamo un pianeta che ruota intorno ad una stella. La nostra scintilla divina ci ha dato una mente che sta dentro un corpo; abbiamo pensieri che scaturiscono dalla mente, a sua volta creata dal corpo e questo corpo ha una sua vita e una sua morte. Queste realtà visibili descrivono le leggi evolutive che noi, animali che vedono se stessi, abbiamo immaginato e scoperto. Dio è ben oltre da come noi lo pensiamo, ma per quelli di noi che sono credenti questa è la visione che hanno. Per quelli non credenti la visione è diversa solo su un punto: non credono a un Dio personalizzato. Pensano ad un Essere che genera Enti, cioè forme, ciascuna con proprie leggi. Tra le leggi che guidano le creature non c'è quella di interpretarsi e l'interrogazione primaria è di sapere chi siamo e da dove veniamo. Una delle risposte è la religione, cioè la credenza in un Dio e in un eventuale aldilà oltre la morte.

Il Dio unico di papa Francesco è la versione più alta e anche più consona per chi aderisce alle conclusioni che la sua fede gli ispira. Ma operare in modo che tutte le religioni arrivino a queste conclusioni non è né facile né rapido. Cozza contro credenze diverse, valori diversi, interessi contrapposti. Non a caso Francesco è anticlericale e lo dice. È un percorso, quello di convincere tutte le religioni, quella cattolica compresa, alla fede nel Dio unico, estremamente accidentato. Non c'è bacchetta magica che possa risolverlo. Francesco lo sa e procede passo dopo passo. Il primo punta ad una sorta di confederazione delle varie Confessioni cristiane che in un secondo tempo dovrebbe portare alla riacquistata unità religiosa. Nel frattempo amicizia con le altre religioni monoteiste e avvicinamento a quelle non monoteiste. Questo è lo scenario. È escluso che papa Francesco possa portarlo a termine anche perché dovrebbe avere alle spalle una Chiesa cattolica che fosse strettamente unita verso questo scenario, ma neppure questa unità è completa. Lo scontro interno è su varie questioni, ma la vera causa è quella: Dio unico, religioni affratellate, sia pure ciascuna con la propria storia, proprie tradizioni, propri canoni e proprie Scritture. Per quanto riguarda le gerarchie cattoliche, cioè i Vescovi discendenti dagli Apostoli, la situazione attuale la stanno vivendo sul tema della famiglia e la sede è il Sinodo che è entrato ormai nella sua fase finale e si è concluso con la "relatio finalis" presentata ieri sera a papa Francesco che del Sinodo è parte integrante e primaria.

***

La "relatio finalis" è stata tuttavia preceduta da vari interventi di Francesco, uno dei quali da lui pronunciato nell'ultima udienza generale dedicata alla passione d'amore tra gli sposi, dice parole estremamente significative che l'Osservatore Romano intitola -  non a caso -  "Perché la fedeltà non toglie la libertà". Eccone i passi principali. "In realtà nessuno vuole essere amato solo per i propri beni o per obbligo. L'amore, come anche l'amicizia, debbono la loro forza e la loro bellezza proprio a questo fatto: che generano un legame senza togliere la libertà. Di conseguenza l'amore è libero, la promessa della famiglia è libera, e questa è la bellezza. Senza libertà non c'è amicizia, senza la libertà non c'è amore, senza libertà non c'è matrimonio. La fedeltà alle promesse è un vero capolavoro di umanità, un autentico miracolo perché la forza e la persuasione della fedeltà, a dispetto di tutto, non finiscono di incantarci. L'onore alla parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare e vendere. Non si possono costringere con la forza, ma neppure costudire senza sacrificio".

Finora non era mai accaduto un pontificato che basasse amore, amicizia, fedeltà e matrimonio sulla libertà. Di fatto questo concetto applicato soprattutto al matrimonio non è cosa nuova per la Chiesa. Uno dei canoni su cui si basa il giudizio della Sacra Rota per ciò che riguarda le sentenze di annullamento è appunto l'ipotesi che il matrimonio sia stato celebrato con la forza esercitata su almeno uno degli sposi (quasi sempre la donna) dai genitori o da altre considerazioni dettate dagli interessi e non dall'amore. Ma nessun Papa aveva trasferito il canone giudiziario in un principio valoriale che personalmente ritengo laico dando a questa laicità un alto valore etico. E tuttavia l'analisi valoriale fatta da papa Francesco sarebbe incompleta se non fosse approfondita dall'esame delle famiglie attuali in tutto il mondo ma soprattutto in quello occidentale dove il cristianesimo è stato all'origine medievale dell'Europa così come lo è stato il laicismo e la scoperta della libertà.

È pur vero che le conclusioni del Sinodo rappresentano una netta frenata nell'azione innovatrice del Papa poiché, per quanto riguarda i divorziati conviventi con il nuovo coniuge, affidano la decisione di ammetterli ai sacramenti al "discernimento" del confessore. Ci saranno quindi casi in cui il confessore li ammetterà ai sacramenti ed altri di segno contrario. L'incoerenza di questo provvedimento è evidente ed è altrettanto evidente che il Papa deve averlo accettato. La scelta tra due diverse concezioni della Chiesa non data da oggi, ma oggi è ancor più inaccettabile di un tempo, per due ragioni: la prima è il Vaticano II che prevede l'incontro della Chiesa con la modernità e la modernità non si configura in una così ingegnosa decisione. Una seconda ragione è ancora più clamorosa: la famiglia d'oggi non è più chiusa ma aperta e sempre più lo sarà. È appunto una famiglia che vive nella coesistenza tra fedeltà alla promessa e libertà. È il Papa che l'ha detto, ma è il Papa che su questo punto soggiace al "discernimento" dei vari confessori. Come si sa, non ci sono confessori di professione, ogni presbitero è confessore. Perciò da questo punto di vista il Sinodo finisce con una vittoria ai punti del partito tradizionalista. Il quale troverà tuttavia la sua sconfitta dalla situazione attuale delle famiglie. Vediamola questa situazione che configura la realtà di gran parte del mondo cristiano.

***

Vediamo innanzitutto la situazione tra moglie e marito. Non è più quella vigente ancora nella prima metà del Novecento, quando era la donna a curare l'educazione dei figli, almeno fino alla loro adolescenza. Oggi anche la donna lavora come e quanto il marito. Nel frattempo ha cura anche dei suoi figli, bambini e ragazzi, ma se ne ha più di due è costretta a farsi aiutare da una badante e/o un asilo o comunque da una scuola materna.
Il marito di solito è impegnato da un impiego professionale che gli lascia poco spazio e tuttavia (nei casi positivi) quando il figlio è adolescente uno spazio per lui lo trova, ma attenzione: non come educatore ma come amico. È una buona cosa essere amici di un figlio, ma del tutto diversa dall'educazione. L'amico cerca le confidenze del figlio, le interpreta, si fa l'idea di quel carattere e lo ripaga con confidenze proprie. Insomma si scambiano suggerimenti, ma la richiesta di obbedienza scompare. Forse è un bene ma la loro amicizia non è esclusiva. Il figlio di solito forma il suo carattere e la sua visione della vita con la frequentazione di altri amici coetanei, con essi studia, con essi si diverte, con essi pensa, con essi vive. L'amicizia del padre è preziosa quando c'è, ma non fondativa. Formativo è il complesso degli amici, che spesso il padre neppure conosce, mentre alla madre resta a quel punto solo l'amore per il figlio, spesso ricambiato. Da questo punto di vista il complesso edipico tende ad aumentare, non privo di conseguenze nella formazione del giovane.

Ma ce ne sono anche altre dove la situazione non è questa, che comunque è la migliore, della famiglia moderna e ovviamente la più rara. Nella maggior parte dei casi il padre non diventa amico del figlio e tantomeno lo diventa quest'ultimo. Quando rincasa per mangiare e per dormire (e non sempre questo avviene) il figlio o la figlia parlano assai poco con i genitori, col padre soprattutto. I contatti veri sono ridotti al minimo, con tutto ciò che ne segue, droga o alcolismo o bullismo compresi.

Infine la famosa "promessa di fedeltà" viene spesso violata. Da parte del marito è sempre avvenuto ma ora avviene spesso anche da parte della moglie. Talvolta è la situazione dei separati in casa, con una famiglia molto "sui generis" ma anche abbastanza difficile da gestire. Altre volte, più frequenti, c'è la separazione e il divorzio. Spesso i rapporti restano civili e talvolta si estendono dalla moglie alla nuova compagna del marito e perfino -  se ce ne sono -  ai figli con differenti ascendenze genitoriali. Ma spesso non è così, oppure è così solo nella forma ma non nella sostanza.

Insomma una famiglia molto aperta nei genitori e nei figli. Si può nonostante tutto puntare ancora sulla famiglia tradizionale e cioè chiusa e non aperta. Ma questo può avvenire in una Chiesa altrettanto chiusa e non aperta. Il Papa, nel caso specifico, ha subito. Subirà ancora? Anche su altre questioni?

Giorni fa aveva detto parlando del Sinodo che non è un parlamento. Non c'è una maggioranza e un'opposizione. C'è un ascolto di posizioni diverse. Ma questa volta si è prodotta invece in modo assai ingegnoso una maggioranza frenante. Il Papa, dopo aver ascoltato la "relatio finalis" del Sinodo, potrebbe esporre in sede magisteriale un pensiero diverso. Ma non credo che lo farà. Francesco qualche tempo fa scrisse la prefazione di un libro che pubblicava tutti i vari interventi del cardinale Martini. Ho conosciuto molto bene Martini, sia quand'era arcivescovo di Milano, sia a Gallarate in un ritiro per anziani sacerdoti e ammalati, i nostri incontri avvennero cinque volte, l'ultimo della quale qualche settimana prima che la morte lo portasse via. Martini era molto avanti verso una Chiesa aperta e moderna ed era intimo di Bergoglio. Sul tema dei divorziati e della famiglia era ancora più avanti di papa Francesco, per non parlare dei suoi attuali contraddittori. Anche Martini era animato dalla fede. Profondissima. Anche Martini amava confrontarsi con i miscredenti, non per convertirli ma per progredire con loro. Anche Martini credeva nell'unico Dio che abolisce i fondamentalismi e il terrorismo e combatte il potere temporale delle Chiese.

Infine Martini affermava che nel mondo esiste un solo peccato: quello della diseguaglianza sociale ed è contro di esso e contro le sue conseguenze che la Chiesa deve combattere innalzando la bandiera dell'amore del prossimo. Questo era Martini, amico intimo di Bergoglio il quale a sua volta voleva che lui diventasse Papa mentre nell'ultimo Conclave cui non intervenne, fu Martini che voleva Bergoglio come Papa e così avvenne.

Se esiste un Paradiso le loro anime si incontreranno. Se non esiste la storia parlerà di tutti e due. Francesco non ha dimenticato e continuerà a combattere ricordando che il Sinodo non è il parlamento, ma come il parlamento è impostato sulla libertà degli altri al servizio dei quali gli uomini di buona volontà debbono operare. Servano il prossimo, anche quello che non ha fede. Dio è unico, le creature sono libere anche perché è Lui che così le ha create.

© Riproduzione riservata
25 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/25/news/conservatori_e_temporalisti_lo_frenano_ma_francesco_non_si_fermera_-125834299/?ref=HRER2-1
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« Risposta #590 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:18:20 pm »

"C'è chi fa dritto lo storto e storto il dritto"
Così diceva il Marchese del Grillo


Di EUGENIO SCALFARI
18 ottobre 2015

Il PRESIDENTE del Consiglio italiano sta litigando con il governo dell'Europa sulla nostra legge finanziaria che, dopo essere votata dal Parlamento di Roma, dovrà essere approvata dalla Commissione di Bruxelles? E il presidente del Consiglio italiano ha cambiato la sua politica estera e militare sul fronte di guerra del Medio Oriente? E ancora: sta cambiando anche la politica sociale e quella economica? Infine: è cambiato anche il rapporto politico e la raccolta del consenso tra il premier e il suo partito del quale è segretario?

Sono quattro domande non da poco. Interessano la classe politica, il business, i lavoratori, i contribuenti, gli elettori; insomma i cittadini del nostro Paese ed anche dell'Europa della quale siamo parte integrante.

Una serie di cambiamenti di questa natura non avvenivano in Italia da molti anni e Matteo Renzi che del cambiamento ha fatto l'elemento essenziale del suo programma può andarne orgoglioso: il cambiamento è cominciato da quando si è insediato a Palazzo Chigi estromettendo Enrico Letta con una vera e propria pugnalata; sono passati quasi due anni e il cambiamento continua e continuerà.

Gli italiani sono più felici? No, sicuramente no. A causa dei sacrifici imposti dalla recessione economica che ha colpito il nostro Paese ma anche l'Europa, l'Occidente e il mondo intero? Sì, è questa la causa principale (ma non la sola) del nostro malcontento.

Ne danno a Renzi la colpa? Al contrario: la maggior parte dei cittadini non sa chi incolpare, oppure ne dà la responsabilità alla casta politica; una minoranza crescente ne dà colpa alla Germania e/o ai migranti. Anche a Renzi? No, a Renzi no.

Questo è lo sfondo della scena che ci interessa oggi affrontare. Lo scontro tra Renzi e Bruxelles è il fiammifero che ha acceso il fuoco e la legna è molta. Speriamo che il fuoco non diventi incendio perché i pompieri capaci e disponibili sono molto pochi.

***

Il nostro giornale ha pubblicato ieri un sondaggio mensile compiuto dall'istituto Demos sull'orientamento politico dei cittadini. Le domande e le risposte sono molte ma Ilvo Diamanti che ne è l'autore coglie l'essenza del sondaggio con queste parole: "Il consenso a Renzi si rafforza da un mese all'altro, ma quello verso il suo partito diminuisce".

Sembrerebbe un'incomprensibile contraddizione, invece spiega con esattezza quello che sta avvenendo: tra i vari cambiamenti di Renzi c'è l'aumento del consenso al centro e a destra. La lite con l'Europa lo porta addirittura a ridosso dei movimenti antieuropei. Queste simpatie politiche vanno alla persona ma non certo al Pd che resta un avversario da battere.

Siamo dunque in presenza di un fenomeno di trasformismo che è tipico della politica in genere e di quella italiana in particolare.

Il trasformismo è storicamente il nucleo della nostra politica, lo fu fin dalla caduta della Destra storica nel 1876 e da allora ha sempre contraddistinto la nostra storia: Francesco Crispi, Giovanni Giolitti, perfino Mussolini e poi la Dc e poi Berlusconi.

Ora Renzi e con lui gran parte della classe politica che si sta orientando in suo favore abbandonando i partiti di provenienza. Il serpente della politica cambia pelle, i consensi verso Renzi provengono da destra; lo scopo è di cambiare pelle al Pd o meglio alla sigla del Pd che dovrebbe diventare la nuova etichetta del centrodestra italiano. Molti del Pd restano renziani anche se non capiscono ciò che sta avvenendo; altri lo capiscono e sono d'accordo. Per sentirsi in pace con la coscienza dicono che quella di Renzi è la sinistra moderna.

Ma la sinistra, la vera essenza della sinistra, qual è? Non voglio ripetermi, ma i valori principali della sinistra autentica e di tutti i tempi sono quelli dell'eguaglianza, della libertà e della dignità. Il resto è trasformismo, privilegi, clientele, malaffare. Oppure autoritarismo se non addirittura dittatura: uno comanda, gli altri obbediscono.

In un vecchio film interpretato da Alberto Sordi e intitolato Il marchese del Grillo Sordi recita un sonetto orecchiando il poeta romanesco che nei suoi versi principali suona così: "Io so io e voi nun sete un c... / sori vassalli buggeroni/ e zitto. / Io fo dritto lo storto e storto er dritto/ e la terra e la vita io ve l'affitto".

Mi pare che si attaglia perfettamente al trasformismo italiano quando diventa autoritario.

***

La riforma del Senato è finalmente passata in terza lettura. I senatori del Pd l'hanno votata in massa con il consenso anche della minoranza inizialmente dissenziente ma poi convinta dopo aver ottenuto un emendamento privo in effetti di qualunque significato. I voti contrari sono stati pochissimi, le opposizioni hanno disertato l'Aula.

È una buona riforma? Instaura il sistema monocamerale lasciando al nuovo Senato compiti territoriali. Naturalmente i poteri legislativi sono interamente della Camera, così come accade in quasi tutti i Paesi d'Europa. Ma - vedi caso - la nostra è di fatto una Camera di " nominati" dal governo, quindi i poteri legislativi sono di fatto nelle mani dell'esecutivo.

Questa situazione, alquanto paradossale, è stata anche rivendicata dal presidente emerito Giorgio Napolitano, il quale, pur rivendicando la paternità di quella riforma, ne ha però rimarcato il suo rapporto con la legge elettorale e i difetti di quest'ultima che andrebbero secondo lui emendati. Non dice come, ma l'avvertimento è stato da lui lanciato. Il tema è assai delicato ed è quindi opportuno citare due passi del discorso di Napolitano.

"Ci si avvia ormai a superare i vizi del bicameralismo paritario: le ripetitività e le non virtuose competizioni tra i due rami del Parlamento, la sempre più grave assenza di linearità e di certezze del procedimento legislativo anche in materie importanti ed urgenti. Ci si avvia a poter garantire - almeno nei suoi aspetti essenziali - quella stabilità e continuità nell'azione di governo che non può più mancare con grave danno per il Paese in un futuro come quello che è già cominciato. Non stiamo semplicemente chiudendo i conti con i tentativi frustrati e con le inconcludenze di trent'anni: dobbiamo dare risposte a situazioni nuove e ad esigenze stringenti, riformare arricchendola la nostra democrazia parlamentare. E bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali. L'intento complessivo dev'essere quello di promuovere un risanamento e rilancio del sistema delle autonomie, seriamente vulnerate da crisi e cadute di prestigio di istituzioni regionali e locali".

Napolitano non dice quali sono le parti da emendare della legge elettorale ma pone in rapporto, come è giusto, fare la riforma del Senato con l'Italicum elettorale. Molti forse reclamano di annettere al premio di maggioranza non una sola lista ma anche eventuali coalizioni. Probabilmente sarebbe un emendamento opportuno ma il cuore di una indispensabile riforma dell'Italicum è di impedire che sia una legge di " nominati". Questo è il punto di fondo.

Il senatore a vita Napolitano non è stato tuttavia il solo ad intervenire; nel dibattito in questione è intervenuta anche la senatrice a vita Elena Cattaneo, da lui stesso nominata un paio di anni fa. Citiamo anche questa poiché, a differenza dal suo " nominatore", lei ha votato contro.

"In questa riforma, cari colleghi, i vostri commenti, le vostre dichiarazioni private e pubbliche, sono state la mia bussola. Alla domanda sul perché avremmo dovuto votarla, la maggior parte di voi ha addotto ragioni per gran parte estranee all'assetto costituzionale da realizzare e basate piuttosto sull'opportunità e la contingenza politica che stiamo vivendo. Forse perché poco avvezza agli equilibrismi politici, nell'ascoltarvi e vedere alcuni comportamenti posso affermare con sicurezza che questo testo mi è estraneo. Oggi la mia decisione è di astenermi, un'astensione che so essere voto contrario in questa Aula, dettata da un senso profondo di smarrimento e dal rammarico per l'occasione perduta di acquisire elementi migliorativi, più volte ribaditi in quest'Aula per dotare il Paese di un assetto istituzionale in grado di fronteggiare le sfide del presente e del futuro".

Meglio di così non si poteva dire e fare, la senatrice a vita dimostra che non poteva scegliere meglio anche se ha votato in modo opposto e con motivazioni opposte a quelle del suo " nominatore".

***

Che cosa avverrà ora dell'attuale sede del Senato? Per adempiere ai suoi compiti legislativi connessi al territorio al nuovo Senato composto da cento membri (eletti dalle istituzioni più infiltrate dal malaffare e perfino in alcuni casi dalle mafie vere e proprie) basterebbe mezzo piano di Palazzo Madama o meglio ancora un piano del prospiciente Palazzo Giustiniani.

Di Palazzo Madama, come suggerisce il nostro fantasioso Filippo Ceccarelli, si potrebbe fare un Museo delle arti. Alcune preziosità ci sono già, insieme ai busti dei più rilevanti uomini politici della vita italiana e del Senato in particolare. Ma questa collezione si potrebbe ulteriormente arricchire, come pure la biblioteca, le pareti con arazzi di importanza artistica e storica.

A meno che il Senato non sia interamente nominato con una decisione congiunta tra il presidente della Repubblica, il presidente della Corte Costituzionale e il presidente della Corte di Cassazione, e sia - il Senato - privato del potere di dare la fiducia al governo ma conservando tutti gli altri poteri legislativi e soprattutto di controllo. Così era il Senato del Regno che vide nei suoi ranghi i nomi più illustri della cultura, della scienza e della politica quando i suoi esponenti erano entrati nella loro tarda età.

Ma non credo si arriverà mai a questo. Si tratterebbe di fare dello storto il dritto mentre stiamo vivendo un tempo in cui si preferisce fare dritto lo storto.

© Riproduzione riservata
18 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/18/news/_c_e_chi_fa_dritto_lo_storto_e_storto_il_dritto_-125327001/?ref=HRER2-1
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« Risposta #591 inserito:: Novembre 09, 2015, 05:05:07 pm »

Lei è già stato corrotto? Non ancora, ma se c'è vita, c'è speranza

Di EUGENIO SCALFARI
08 novembre 2015
   
SUL NOSTRO giornale di ieri Marc Lazar ha scritto un articolo di grande interesse intitolato "Il virus dell'antipolitica e il rischio autoritario". Il 3 novembre Ilvo Diamanti ne aveva scritto un altro dal titolo "La controdemocrazia". Tuttavia entrambi affrontano lo stesso tema, desumendolo dall'orientamento della pubblica opinione che si manifesta da qualche anno in tutti i paesi europei senza alcuna eccezione: la gente è stufa dei partiti politici.

In Italia, in particolare, nei sondaggi, già da tre anni e forse anche più, viene negata quella fiducia nei partiti dal 97 per cento degli interpellati, e solo il 3 per cento dunque concede il proprio consenso. Di fatto significa fiducia nei partiti zero.

Ho affrontato anche io questo tema molte volte, insieme ad altri osservatori, tra i quali appunto Diamanti e Lazar, ma ora quel tema ha assunto caratteristiche che stanno generando comportamenti abbastanza diversi l'uno dall'altro. La negazione della fiducia ai partiti può infatti avere come effetto le seguenti decisioni da parte dei cittadini che messi insieme costituiscono il cosiddetto popolo sovrano: 1: astensione dal voto. 2: voto in favore di movimenti o partiti che si oppongono senza eccezione alla situazione politica esistente ma non propongono alternative concrete. 3: odio verso la democrazia e consenso ad un leader che ha o mira di avere pieni poteri. 4: odio verso ogni fase di immigrazione e misure per impedire l'accesso. 5: desiderio d'una rivoluzione che mandi a gambe all'aria tutte le istituzioni.

Ma non con il voto, bensì con la violenza rivoluzionaria, per instaurare al loro posto una dittatura di sinistra radicale oppure di destra reazionaria, soluzioni che del resto si sono verificate in Europa nella prima metà del Novecento in Russia, in Italia, in Germania, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, in Ungheria, in Serbia, in Grecia, cioè di fatto in tutta Europa con le sole eccezioni di Francia e Inghilterra.

Questa fu la parte più tragica della nostra recente storia, ma ora si stanno creando condizioni che in qualche modo ci riportano ad una fase che rimette in discussione la democrazia, sia pure (e per fortuna) senza quei pericoli di estrema tragedia che caratterizzarono l'epoca del fascismo, del bolscevismo, del nazismo, del franchismo, del salazarismo e delle dittature militari.

Questa nuova fase coinvolge, anche questa volta, molti paesi europei, ciascuno con proprie caratteristiche ma tutti in presenza di una situazione mondiale totalmente diversa da quella novecentesca: la società globale, le grandi potenze continentali, la tecnologia estremamente avanzata, un capitalismo strutturalmente diverso da quello di mezzo secolo fa.

Ma poiché ogni paese ha le sue proprie caratteristiche e i suoi propri problemi, esaminiamo ora la situazione italiana che direttamente ci interessa, senza mai dimenticare però che facciamo parte dell'Europa e dei suoi specifici problemi.

***

Ho più volte scritto che il nostro paese politicamente è caratterizzato da un forte partito di centro, con alle ali formazioni sbriciolate che hanno quote di potere molto modeste. Questa situazione non esiste in nessun altro paese europeo dove governano partiti di destra oppure di sinistra mentre il centro praticamente non esiste.
Il Partito democratico renziano sostiene, nel cerchio magico del suo segretario Matteo Renzi, che il Pd è un partito di centrosinistra e anche la minoranza di Bersani e di Cuperlo lo sostiene, ma non è così. Il famigerato partito della Nazione è ormai il partito renziano e il governo che ne risulta  -  guidato appunto dal partito renziano  -  gestisce quella situazione centrista che esiste soltanto in Italia.

Renzi, segretario e premier, riscuote un notevole consenso nella pubblica opinione, è bravo, sa parlare, persegue e in parte attua riforme. La sua parola d'ordine è: "cambiamento". Governa da solo.

Quest'ultimo particolare gli procura quella notevole fiducia di cui gode proprio perché molti italiani detestano i partiti e molti se ne infischiano perfino della democrazia. Dunque: scarsa fiducia al Pd, molta fiducia al premier. È un fatto strano? Certamente lo è, ma questa è la situazione. Del resto non è una novità, in Italia è avvenuto spesso e l'esempio più recente è stato Berlusconi: per vent'anni  -  sia pure con alcune interruzioni  -  ha avuto un consenso personale di massa. Nel suo caso il partito Forza Italia di fatto non esisteva sul territorio, non faceva quasi mai congressi, gli organi collegiali non avevano alcun peso, Berlusconi decideva tutto, consultando non più d'una dozzina di persone.

In questo il caso di Renzi presenta una notevole differenza: il Partito democratico esiste e lui in qualche modo deve tenerne conto. La cosa strana è proprio in questa contraddizione: lui comanda da solo come premier e in quanto tale gode di ampio consenso dei cittadini, ma ha dietro di sé un partito che riscuote assai minore fiducia ma è quello che gli assicura il potere parlamentare. Alla Camera con una maggioranza assoluta, ottenuta con una legge elettorale fornita di un premio; al Senato invece ha bisogno di altri voti perché non c'è premio e la sua minoranza spesso gli vota contro; Renzi la contrasta ottenendo i voti d'una parte della destra che sale sul carro vincente.

Comunque, dover gestire un partito o pezzi di partiti non è il forte di Renzi e mette comunque in discussione quel comandare da solo che sta bene a molti italiani ma non ai partiti che gli si oppongono in Parlamento né alla sua minoranza. Per questo ha abolito il Senato, dove elettoralmente non esiste il premio di maggioranza. Ha vinto per il rotto della cuffia riuscendo ad ottenere anche il voto della sua minoranza teoricamente dissidente ma di fatto consenziente avendo ottenuto molto poco in contropartita.

Tuttavia le elezioni ancora esistono, la democrazia c'è ancora, sia pure in forma alquanto attenuata. Ci sono elezioni amministrative imminenti ed ecco che si sta facendo largo una tentazione del tutto nuova nella fervida mente di Renzi: ricorrere a figure indipendenti dai partiti, funzionari dello Stato (prefetti), tecnici di provata competenza, manager di importanti imprese. Per ora è una tentazione, peraltro abbastanza comprensibile e forse perfino buona. In un capitalismo nuovo e in un mercato che esercita un peso notevole, l'esperto proveniente da una classe dirigente basata sulla competenza non è una soluzione da scartare.

Ma ci sono anche altri fattori da considerare, anche questi dovuti al peso del capitale, della società globale, da un'Europa confederata, guidata dai ventotto paesi che la compongono. Questi fatti richiedono governi che decidano rapidamente, dotati pertanto di poteri forti. Richiedono un esecutivo assai più potente del legislativo e un comandare da soli abbastanza diffuso. Una situazione del genere dà a Renzi una valida motivazione (o se volete una valida giustificazione) al suo potere tendenzialmente autoritario. Questo significa condannare a morte la democrazia, al di là delle apparenze? Significa allinearsi all'astensione di molti italiani o alla simpatia di molti altri verso un potere personale e autoritario?

No, così non si può e non si deve fare per chi sente la necessità che l'interesse generale sia tutelato e quello personale giustificato ma controllato.
La strada da seguire è abbastanza chiara, se non facile, in un paese come il nostro. Occorre rafforzare i contropoteri che già esistono e crearne anche altri la cui funzione non dipenda da chi esercita a piena forza il potere esecutivo personalizzato.

La Corte costituzionale dovrebbe essere eletta in un modo diverso, individuando i suoi grandi elettori non tanto nel Parlamento quanto nel presidente della Repubblica, nei magistrati della Cassazione e in quelli della magistratura amministrativa e del Consiglio superiore della magistratura.

Un nuovo organo di controllo dovrebbe essere istituito, che esercitasse tale controllo sulla coerenza, l'efficacia e la legalità dell'azione di governo, affidando i risultati del proprio lavoro al presidente della Repubblica, al presidente della Camera e ai senatori o deputati nominati dal capo dello Stato. Pareri non vincolanti ma resi pubblici e nelle mani di presidenti di istituzioni dotate di prerogative costituzionali.

Insomma un esecutivo personale e dotato di poteri forti per essere controllato da un organismo neutrale e terzista, che assicuri una funzione moderna della democrazia.

Naturalmente bisognerebbe anche puntare sulla trasformazione dell'Europa da Confederazione in federazione. Tutte le forze vive e consapevoli dovrebbero battersi per questo obiettivo e così dovrebbero operare le istituzioni che hanno il diritto di farlo. Includo tra queste ovviamente il presidente della Repubblica, il presidente della Camera e quello del Senato (fin quando esisterà), il presidente del Consiglio (che però non lo farà perché non vuole essere declassato). Ma anche gli organi di stampa e i "media" in generale, che condividano questo obiettivo e lo accreditino nella pubblica opinione. Ci vorrebbe un'intesa tra i "media" di tutta Europa che condividano l'evoluzione europea; un'intesa che di fatto realizzi un fronte di stampa e televisione europeista che stimoli efficacemente istituzioni, opinione pubblica, forze sociali ed economiche su quell'obiettivo degli Stati Uniti d'Europa che non è soltanto opportuno ma indispensabile.

***

Nel frattempo un'istituzione e in particolare una persona ci sono e già stanno operando su questa linea. La Banca centrale europea e il suo presidente Mario Draghi.

Il presidente della Bce ha pronunciato due discorsi nei giorni scorsi, uno a Francoforte, giovedì e l'altro il giorno seguente all'Università Cattolica di Milano, dinanzi ad un folto pubblico di economisti, operatori finanziari, rappresentanti e manager di imprese e anche di una nutrita rappresentanza studentesca. Ha affrontato il tema della debolezza dei prezzi dovuta ad un'inflazione troppo bassa ma le sue affermazioni più importanti sono state tre.

La prima riguarda la sua decisione di proporre a tutti i paesi europei, anche a quelli che sono fuori dall'Eurozona, di garantire i depositi bancari di tutti i 28 paesi. Una garanzia che la Germania ha già (ma non ufficialmente) respinto, ma che gli altri e la Commissione europea hanno (non ufficialmente) visto con favore. Uno dei membri della Commissione, per convincere la Germania, ha anche proposto una riassicurazione da parte della Bce, garantita dal suo portafoglio titoli. Insomma la discussione è aperta è sarà affrontata tra pochi giorni.

La seconda: Draghi ha affermato che sono soprattutto i giovani a soffrire di più della mancata occupazione stabile e quindi privi di speranze del futuro. "A questa situazione bisogna che con urgenza i governi interessati mettano riparo".

La terza infine è del tutto eccezionale: "La Bce ha preservato l'integrità della moneta, ha raggiunto la quasi parità del tasso di cambio euro-dollaro con notevole incoraggiamento delle esportazioni europee verso l'area del dollaro. Ma questi risultati non sono sufficienti a raggiungere prosperità e piena occupazione. L'Europa ha bisogno di un nuovo patto per impedire che la crisi si ripresenti e deve rafforzare l'architrave istituzionale dell'euro senza ritardi ingiustificati e dandosi un'agenda celermente definita".

Da queste parole e dagli interventi effettuati si vede che Draghi vola alto ed ha in mente un obiettivo politico molto preciso, usando gli strumenti in suo possesso monetari e finanziari. Ha in mente un obiettivo politico ma vede anche la necessità che quest'operazione compia un salto vero e proprio in avanti. Un nuovo patto politico, questa è la sua definizione. Forse un'Europa a due velocità? Sarebbe un modo per smuovere la Germania e agganciare sempre di più all'Ue i paesi fuori dall'euro.

Vedremo in futuro. Intanto è cominciato il processo a "Mafia Capitale" e sono stati repressi o indagati molti altri casi di corruzione che riguardano perfino ufficiali della Guardia di Finanza, questori, funzionari pubblici e, in Vaticano, vescovi ed altre cariche religiose. "Dalle stelle alle stalle". Oppure, come dice Altan nel suo disegno pubblicato nell'ultimo numero dell'Espresso facendo parlare due suoi personaggi: "Lei è già stato corrotto?", dice uno, e l'altro risponde: "Non ancora, ma finché c'è vita c'è speranza".

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08 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/08/news/lei_e_gia_ancora_corrotto_non_ancora_ma_se_c_e_vita_c_e_speranza-126872169/?ref=HRER2-1
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« Risposta #592 inserito:: Novembre 15, 2015, 08:39:28 pm »

Come possiamo vincere la barbarie del terrorismo disumano

Di EUGENIO SCALFARI
15 novembre 2015
   
SIAMO di fronte, e non solo nella strage parigina di due giorni fa, ad una guerra globale che, almeno in apparenza, sembra una guerra di religione. Infatti, prima di uccidere le loro vittime, i terroristi dell'Is invocano il loro Dio: Allah è grande, gridano, e poi sparano a raffica o si fanno saltare in aria in mezzo alla gente che hanno scelto come agnelli da sacrificare. Muoiono essi stessi pur di uccidere. Sembra appunto una guerra di religione.

ECOME tale i carnefici usano la strategia di colpire gli altri; non importa chi sono, giovani, vecchi, bambini; non importa in quale Paese: hanno colpito a New York, a Parigi, in Turchia, in Egitto, nel Bangladesh, in Pakistan, nelle Filippine, in Afghanistan, in Tunisia, in Iraq ed ora minacciano Roma e Londra. Tra le persone occasionalmente uccise ci potrebbero essere perfino musulmani. Quindi, sotto le apparenze della guerra di religione, la realtà è un'altra: c'è voglia di distruggere, in modo cieco, una barbarie che sogna la fine di un'epoca senza però un solo barlume d'una civiltà futura. Qualcuno ha paragonato questo terrorismo a quello che insanguinò l'Italia e la Germania negli anni Settanta del secolo scorso; da noi furono chiamati gli anni di piombo, ma è un paragone totalmente sbagliato. Quei terroristi conoscevano il nome e perfino l'indirizzo della vittima che avevano scelto; avevano ripudiato un passato che avevano vissuto e si proponevano un futuro, un'ideologia, un assetto diverso della società.

I terroristi di oggi non si propongono alcun futuro e non hanno alcun passato sociale e politico da ricordare. Vivono soltanto un presente e alcuni di loro, ma certamente non tutti, vagheggiano forse un aldilà dove un Allah che soddisfi i loro desideri; non è quello dei veri musulmani che le loro sacre scritture hanno descritto. Non sono persone libere. Certamente hanno fatto liberamente una scelta che è quella che Etienne de La Boétie chiamò il servo arbitrio: loro hanno scelto di essere schiavi di chi li dirige, le cellule d'uno Stato che non ha confini stabili, non ha una sua Costituzione, ma ha un gruppo di comando, scuole di preparazione alla disumanità, campi dove si insegna il maneggio delle armi, le tecnologie necessarie, i modi di camuffarsi, le comunicazioni sofisticate tra loro e con il comando del gruppo e gli obiettivi da colpire. Questo è il gruppo di comando e i suoi soldati-schiavi hanno scelto di soggiacere ai loro padroni. Qui si pone la domanda del perché questa scelta l'abbiano fatta.

***

La questione è assai complessa, riguarda la libertà, che cosa significa, da dove ci viene. Non mi pare oggi il giorno adatto ad esaminare uno dei concetti più complessi e più importanti della ricerca filosofica e perfino religiosa, ma qualche parola va detta per tentare di capire l'essenza di quanto sta accadendo e il modo con il quale reagire perché se d'una guerra si tratta, caratterizzata da modalità del tutto nuove, la questione della libertà e dell'arbitrio, libero o servo che sia, deve esser capita per poterla affrontare in modo appropriato e vincente. Ebbene, noi non siamo liberi se non per un istinto e per la natura che contraddistingue la nostra specie da quella degli altri animali. La nostra natura possiede la capacità di guardare noi stessi mentre viviamo. È questa capacità che ci fa diversi da tutti gli altri animali. Noi ci guardiamo agire, vivere, invecchiare e sappiamo anche di dover morire.

L'istinto principale che abbiamo e che condividiamo con tutte le altre specie vitali, è quello della sopravvivenza. In più abbiamo la memoria, altro segno che ci distingue dalle altre specie viventi.
Tutte queste caratteristiche fanno sì che il nostro istinto di sopravvivenza è duplice: vogliamo sopravvivere come individui e vogliamo anche sopravvivere come specie. All'individuo che ciascuno di noi ha scelto di essere abbiamo dato un nome che è il nome dell'Io che siamo. L'Io è una costruzione, è il nostro sentirci individui e c'è sempre, in qualunque momento, dalla nascita fino alla morte. Quindi la sopravvivenza e l'amore per noi stessi è automatico, fa parte della nostra natura.

L'amore per la specie, o se volete chiamatela il prossimo, deriva anch'esso dall'istinto della sopravvivenza perché nessuno di noi può concepire d'essere il solo abitante umano del globo terrestre. Tuttavia il livello dell'amore per la specie oscilla fortemente da persona a persona. Ce n'è sempre una scintilla in ciascuno, ma può essere scintilla o fiamma o brace coperta di cenere.
Le nostre scelte dipendono dal rapporto tra la fiamma che abbiamo per noi stessi e quella che abbiamo per gli altri e l'estensione di quell'amore. Una scintilla, l'ho già detto, c'è sempre, se resta soltanto tale vuol dire che quell'amore si restringe a pochi, a volte pochissimi, a volte una sola persona. Se tiriamo le somme di questo ragionamento la conclusione è che la barbarie dei terroristi attuali deriva dal fatto che non hanno alcun amore, anzi odiano, la specie cui appartengono, odiano tutti gli altri, mentre amano solo quei pochi che condividono con loro l'odio per gli altri e vogliono distruggerli. E qui appare il servo arbitrio: l'amore tra pochi si differenzia tra chi ha il talento per comandare e quelli che sentono verso di lui un sentimento di devozione quasi religioso e si mettono al servizio del suo talento e del suo carisma. Come si vede, la nostra libertà è pressoché inesistente ed è la natura che comanda.

***

Si direbbe che la grande maggioranza delle persone è animata da caratteristiche diverse pur avendo in partenza i medesimi istinti. È certamente vero. I barbari sono pochi numericamente parlando, ma molti per le modalità del loro operare e stanno crescendo di numero. In Francia per esempio i musulmani sono 7 milioni. In gran parte moderati, ma pur sempre musulmani. I capi delle comunità sono, salvo pochi, desiderosi di inserirsi nella società dove hanno scelto di vivere; ma nelle loro file specie tra i giovani, il gusto dell'avventura, di imporsi, di valorizzare il loro esser "diversi", è diffuso. Questo modo di sentire si trova soprattutto nelle "banlieue" di Parigi e nelle grandi città non soltanto in Francia.

Ci troviamo dunque di fronte ad un piccolo esercito, anzi piccolissimo, ma estremamente mobile e difficilmente individuabile prima che agisca. Aggiungo anche che questa guerra "sui generis" è la causa di due effetti assai pericolosi. Il primo è che la guerra contro i barbari impone vincoli molto stretti alla nostra vita privata. Il secondo è che dal punto di vista politico questa situazione rende molto più forti i movimenti e partiti di una destra xenofoba: guadagna terreno ed è un pericolo evidente per la democrazia. Concludo ponendomi una domanda: poiché bisogna sgominare l'Is e i suoi capi, qual è la guerra che dobbiamo fare e vincere? Le nazioni aggredite ed i loro alleati debbono scendere sul terreno che sta tra Siria, Iraq e Libia, ma non solo con bombardamenti aerei ma con truppe adeguate. Ci vuole un'alleanza politica e militare che metta insieme tutti i membri della Nato a cominciare dagli Usa e in più i Paesi arabi, la Turchia (che nella Nato c'è già), la Russia e l'Iran. Credo che sia questo il modo di agire nell'immediato futuro. Se non si fa, la nostra guerra con la
barbarie terrorista non vincerà. Molto tempo per decidere non c'è. Nel frattempo l'Europa federale dev'essere rapidamente costruita a cominciare dalla difesa comune e dalla politica estera. Sono questi i soli modi per difenderci dal terrore e dalla sua disumanità.

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15 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/15/news/come_possiamo_vincere_la_barbarie_del_terrorismo_disumano-127389822/?ref=HRER2-1
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« Risposta #593 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:57:15 pm »

La Francia, l'Italia, l'Europa e la grazia di Francesco

E' l'Europa l'obiettivo prescelto dal Califfato. E con essa la civiltà occidentale, le sue religioni, la sua economia, i comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti. La Francia ha assunto il ruolo di guida del continente. E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà?
 
di EUGENIO SCALFARI
22 novembre 2015

IN questi giorni terremotati tutti ci poniamo molte domande: perché accadono fatti così orribili, eccidi di innocenti, decapitazioni trasmesse in televisione, paura della gente, servizi segreti mobilitati, bombardamenti a tappeto, sorveglianze inutilmente rafforzate, in Europa, in Belgio, in Iraq, in Siria, in Turchia, in Egitto, in Libano, nel Mali, in Bangladesh, in mezzo mondo, con previsioni di altrettanti orrori nell'Italia del Giubileo?

Anche io sono profondamente colpito e preoccupato, ma non sorpreso e la ragione è questa: so da tempo che la storia dell'umanità da quando esiste è dominata dal potere e dalla guerra. L'amore e la pace sono due sentimenti alternativi che di tanto in tanto interrompono i primi due, ma sono interruzioni brevi, pause di riposo presto travolte. Dentro molti di noi l'amore e la pace sono sentimenti permanenti, ma il potere e la guerra hanno sempre la meglio dovunque, in qualsiasi epoca, in qualunque paese e in qualsiasi tempo. E il motivo è semplice: noi, a differenza di altri essere viventi, abbiamo un Io.

E quell'Io non appena ci nasce dentro ha bisogno assoluto di avere un suo territorio, conquistarselo, difenderlo, ampliarlo. Ha bisogno di emergere a tutti i livelli sociali e cerca di farlo come può, che sia povero o ricco, di pelle nera o bianca o mulatta, uomo o donna.

Anche gli animali per soddisfare i loro bisogni primari devono combattere per conquistare la preda, preda anch'essi di altri animali. Potere e guerra sono anche per loro istinti dominanti, ma non ne sono consapevoli. Noi sì, noi siamo Io in ogni istante della nostra esistenza ed è quello il motore che ci anima e determina il nostro destino. Il Fato. Ricordate? Gli dei olimpici della cultura greca avevano la meglio non soltanto sugli uomini ma perfino su altri dei. Zeus sapeva di dover rispettare il Fato che era molto più di un dio: era la legge che domina il Cosmo e quindi potere e guerra, la legge di natura è quella. L'antidoto non è l'amore e la pace che come ho già detto sono intervalli brevi, pause di riposo; ma è la libertà, la libertà consapevole. E la bellezza, non come ideale romantico ma lirico e profondamente evocativo: la musica, la danza, la conoscenza.

Libertà e bellezza, questi sono i valori, dove l'Io non viene affatto spento ma anzi potenziato e allontanato dalla ricerca del potere, riscattato dalla turpitudine della guerra e guidato verso quell'oltreuomo che nello Zarathustra di Nietzsche è l'ultimo e più eccelso livello che la nostra specie può raggiungere e che dovrebbe mettere insieme tutti gli uomini di buona volontà.

***

L'Europa è oggi l'obiettivo del terrorismo guidato dall'Is che d'ora in poi chiameremo Califfato. Noi siamo soltanto il suo bersaglio, attaccano dovunque possono, ma è l'Europa il terreno prescelto e con essa gli Stati Uniti d'America. Insomma l'Occidente, la civiltà occidentale in tutte le modalità che quella civiltà esprime, nelle sue religioni, nella sua economia, nei comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti.

Il Califfato è a sua volta una classe dirigente composta da poche persone, non più di un centinaio, in gran parte provenienti dall'esercito iracheno di Saddam Hussein, dai muezzin afghani, dai talebani indottrinati da Bin Laden e da Al Qaeda; arabi soprattutto ma anche pachistani e sauditi.

Bin Laden, a quanto si sa, era profondamente religioso ma i dirigenti che compongono il Califfato non lo sono affatto anche se fanno finta di esserlo. Le cellule che il Califfato dirige hanno forse una vernice di religiosità fondamentalista. Il loro grido di guerra è " Allah Akbar" e molti di loro arrivano fino al punto di farsi esplodere sognando un Aldilà dove le vergini li aspettano come premio. Ma la gran parte di quei terroristi disseminati in Europa non hanno alcuna vocazione religiosa. Sono i giovani delle periferie, la seconda o terza generazione delle banlieue che non hanno potuto o non hanno voluto integrarsi con la società con cui vivono. Alcuni hanno studiato, altri no, ma tutti si sentono defraudati, molti ricorrono alla droga e/o all'avventura, alla rabbia, alle armi e più sono questi i loro modi di sopravvivenza, più l'esclusione aumenta, più la polizia diventa il loro nemico, più è facile reclutarli per i messaggeri del Califfato.

Le banlieue sono il terreno di coltura dei terroristi e l'Io gioca qui la sua più segreta e perversa partita. L'Io degli esclusi reclama una sua soddisfazione, un suo territorio psicologico, la speranza di non aver paura ma di incuterla negli altri. Che gli altri siano cristiani o atei o islamici, ma integrati e non esclusi: questi sono i loro bersagli. Bersagli anonimi, non li conoscono ma sono comunque altri e diversi da loro e quindi da uccidere. Per diffondere la paura e soddisfare così il loro orribile Io.

Questa è la guerra in corso: terrore e paura sono gli obiettivi delle cellule che obbediscono al Califfato la cui classe dirigente è posizionata nel triangolo che include le zone confinarie tra Siria, Turchia e Iraq, con un distaccamento libico-tunisino che fronteggia direttamente l'Europa mediterranea.

Il Califfato ha i suoi soldati, sono qualche migliaio e bene armati. Il Califfato è ricco, ha petrolio, ha l'appoggio di uomini di affari degli Emirati e finanziamenti mascherati ma evidenti che garantiscono la tranquillità saudita e degli Emirati.

A guardar bene anche l'Io del Califfo e dei suoi compagni è assai sviluppato, vuole potere, ricchezza, piaceri. Deriva da Al Qaeda ma è tutt'altra cosa rispetto a Bin Laden. Crudele quanto lui e più di lui, ma estremamente più sofisticato. Non è escluso che divenga un vero e proprio Stato arabo sunnita. In fondo Ibn Saud cominciò così la sua carriera e trasformò una tribù in un Regno tra i più potenti del Medio Oriente. La sua famiglia conta ormai circa trecento persone, possiede molte banche, imprese, alleanze d'affari in tutto l'Occidente, in Francia, in Inghilterra, in Italia, in America, in Germania, ovunque. Detesta gli sciiti ma si distingue anche dai sunniti. Tra i capi del Califfato è un esempio da imitare e magari da conquistare. Senza sangue, possibilmente. Il sangue scorre altrove.

***

Poiché la Francia è il principale terreno di battaglia del Califfato e delle sue migliaia di cellule europee, quella Nazione, oltre a contare il maggior numero di vittime innocenti, ha assunto la guida dell'Europa. Il presidente Hollande ha capito subito che, purtroppo per i francesi, il ruolo di leader dell'Europa era l'aspetto politicamente ed anche economicamente positivo e lui ha dimostrato di saperlo perfettamente assolvere, a partire dai simboli fino alla concreta azione politica.

Tra i simboli ce n'è uno che personalmente mi commuove non da ora ma da sempre, ogni volta che mi accade di ascoltarla: la Marsigliese, inno nazionale finora, ma europeo ai tempi delle guerre contro le monarchie assolute d'Europa, quando la grande Rivoluzione guidata dai girondini e da D'Anton arrestò l'invasione dei monarchi europei e l'esercito repubblicano guidato da Kellerman vinse la battaglia di Valmy.

Ogni volta che in Francia c'è un attentato il popolo si raduna nelle piazze e intona la Marsigliese mentre contemporaneamente la canta l'Assemblea nazionale. Così avvenne dopo l'attentato a Charlie Hebdo ma ora è cantata dai giocatori di calcio prima dell'inizio delle partite in molti paesi europei, è stata intonata a Londra alla Camera dei Comuni nel salone di Westminster, in Italia in una sorta di plenum delle Camere, insomma si è trasformato in un inno europeo in luogo dell'Inno alla Gioia della sinfonia beethoveniana.

Ma accanto al simbolo - del quale tuttavia sarebbe sbagliato trascurare l'importanza - c'è la politica vera e propria. Hollande aveva già deciso di affiancarsi agli Usa bombardando per un paio di volte Raqqa, scelta dal Califfato come propria capitale. Ma dopo gli attentati recenti a Parigi dei terroristi provenienti dal Belgio, i bombardamenti con Raqqa si sono moltiplicati e ancor più lo saranno quando la portaerei francese che è già partita da Tolone incrocerà nel Mediterraneo orientale i bombardamenti diverranno perciò continui.

Questo per quanto riguarda la guerra guerreggiata, ma poi c'è la politica vera e propria. Il primo intervento di Hollande è stato di appellarsi al Trattato di Lisbona che prevede la collaborazione di tutti gli Stati membri dell'Unione europea. I ventotto paesi hanno approvato all'unanimità ciò che il Trattato dispone: una collaborazione tra tutti i firmatari di quel trattato senza però indicarne né la procedura esecutiva né i vari ruoli di ogni Paese. Hollande avrebbe potuto appellarsi all'articolo 5 della Nato che prevede la collaborazione immediata con quel Paese che abbia subito una grave aggressione, ma non l'ha fatto perché la Nato ha un suo proprio comitato di cui la Francia ovviamente fa parte ma non ne è il capo.

Hollande ha anche previsto che, sulla base del Trattato di Lisbona, consulterà gli Stati membri dell'Ue bilateralmente, per stabilire con ciascuno di essi il tipo di collaborazione che la Francia gli chiede. Tale consultazione avrà inizio ai primi del prossimo dicembre.

Nel frattempo la Francia avrà incontri con Obama e soprattutto con Putin per considerare i comuni interventi contro il Califfato.

Nel frattempo c'è stato l'attentato compiuto in un grande albergo nella capitale del Mali, un paese ex colonia dell'impero francese dove Parigi ha dislocato da tempo 37 mila soldati che sono intervenuti con alcuni corpi specializzati insieme ad analoghe forze del Mali e a un reparto di militari americani. Il blitz è stato condotto a termine dopo ventiquattr'ore di aspra battaglia, gli attentatori hanno ucciso e sono stati a loro volta uccisi.

E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà? Che cosa ha in mente il nostro presidente del Consiglio, leader del più importante partito italiano e capo della maggioranza parlamentare, che ormai governa e comanda da solo, come del resto avviene da tempo in tutti i Paesi d'Europa e di Occidente?

La risposta a questa domanda è abbastanza facile perché è già stata anticipata dal nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, dal ministro della Difesa e dallo stesso Renzi: appoggeranno la Francia in tutto ciò che è possibile, ma non hanno alcuna intenzione di compiere interventi militari né con aerei né con truppe di terra.

È giusta questa posizione? Personalmente credo di sì, ma quello che non si vede è in che cosa può consistere la collaborazione con la Francia. Forse con risorse economiche? Non ci verranno chieste e comunque non ne abbiamo. Di fatto avremo una posizione neutrale. Con quali contraccolpi? Un Paese neutrale non avrà alcun peso sulla politica e sull'economia europea.

Se è lecito dare un suggerimento, Renzi dovrebbe riservarsi un ruolo in Libia. Non per partecipare alla guerra contro il distaccamento dei seguaci del Califfato né alla guerra tra il governo e le tribù di Bengasi e Tobruk contro il governo di Tripoli, ma per allestire campi di accoglienza dei migranti che provengono dai Paesi subsahariani, in fuga verso le coste mediterranee e in particolare verso l'Italia.

Campi d'accoglienza che li trattengano in Libia in modo decente e confortevole, ne controllino l'identità e la provenienza, esaminino le loro eventuali richieste di asilo politico e li aiutino a partire verso l'Europa su navi italiane e di altri Paesi europei o ne favoriscano il rientro opportunamente negoziato con i loro Paesi di origine.

È un ruolo molto importante che richiede non solo risorse economiche e competenze diplomatiche ma anche di truppe, navi da guerra e aerei di ispezione affinché quei campi d'accoglienza siano opportunamente difesi da tribù e/o da terroristi presenti in quelle zone. L'Egitto dovrebbe appoggiare questo " sistema" e sarebbe anche suo interesse farlo. Ancor più evidente sarebbe l'interesse francese. Hollande guida ormai l'Ue nel tandem con la Germania, regredita ormai in un ruolo minore rispetto al tradizionale tandem franco-tedesco. Col tempo forse la situazione cambierà, ma oggi è questa ed è la Marsigliese che predomina in Europa.

Ho già scritto più volte che l'esplosione di terrorismo dovrebbe affrettare l'avvio verso gli Stati Uniti d'Europa, ma si tratta comunque di un percorso che richiede a dir poco un decennio purché cominci subito. E il modo per farlo cominciare subito è la cessione immediata di sovranità dei Paesi europei, almeno quelli dell'Eurozona, della politica estera e di quella militare alle Istituzioni europee. Hollande sarebbe contrario, ma la Merkel? Non sarebbe proprio questo il modo per riconquistare la posizione prioritaria nell'Ue o almeno nell'Eurozona?

Ma Renzi, il nostro Renzi, sarebbe d'accordo e si batterebbe affinché questa cessione di sovranità avvenisse? Acquisterebbe un ruolo essenziale in Europa, ma lo capirà? Temo proprio di no, ma spero d'essere smentito. Se è politicamente intelligente dovrebbe accollarsi questi due ruoli, in Libia e in Europa. Spero di non essere il solo a suggerire questa posizione.

***

C'è infine un altro personaggio che è fondamentale per superare questa tragica situazione: papa Francesco. Non c'è mai stato un Papa come lui. Dico di più: un Pastore, un Profeta, un rivoluzionario: in nome della sua fede e in circa due miliardi di cristiani che abitano il pianeta, dislocati in quasi tutti i continenti.

Francesco si appella al Dio unico. Tutte le religioni monoteistiche si debbono affratellare in nome dell'unico Dio che non è e non può essere un Dio vendicativo ma è un Dio misericordioso e come tale va adorato dai credenti di quelle religioni a cominciare ovviamente dai cristiani, dai musulmani, dagli ebrei.

Il Corano parla di " morte degli infedeli" e offre ai fondamentalisti un pretesto per coprire le loro azioni delittuose con alcuni passi coranici. Ma dimenticano che il loro profeta Maometto, costruttore della religione islamica, mise come primo punto di riferimento Abramo. Al vertice dell'islam c'è dunque Abramo che ascoltò dalla voce del Signore l'ordine di sacrificare suo figlio Isacco. Quell'ordine sconvolse il cuore di Abramo nel profondo, ma la sua fede lo costrinse all'obbedienza: portò il figlio con sé su una collina e lì, guardando il cielo sopra di lui, estrasse dalle sue vesti un coltello per uccidere il figlio come gli era stato ordinato da Dio. Ma a quel punto la voce di Dio lo fermò: "Volevo vedere la forza della tua fede, ma io voglio che Isacco viva felice, come me e con te. Accarezzalo, educalo, e tutti e due sarete da me amati e illuminati".

Questo è il Dio di Abramo e di Isacco ed è un Dio misericordioso. Perciò sono blasfemi e condannevoli i terroristi del Califfato che invocano Allah e nel suo nome uccidono centinaia di Isacco, figlio di Abramo e amato da Allah Akbar. L'unico Dio, che gli ebrei chiamano Jahvé o Elohim e i cristiani chiamano Padre. Questo predica Francesco e questo è il tema del Giubileo della misericordia. La sua parola, in un momento come questo, è diretta soprattutto agli islamici affinché riconoscano il loro Dio misericordioso che è il medesimo che tutte le religioni monoteistiche dovrebbero venerare.

Spero che Francesco riesca ad affratellarle in un unico slancio di misericordia alla quale anche i non credenti si associano.

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22 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/22/news/la_francia_l_italia_l_europa_e_la_grazia_di_francesco-127895860/?ref=HRER2-1
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« Risposta #594 inserito:: Novembre 30, 2015, 02:54:28 pm »

L'Europa è in guerra ma l'Italia è neutrale: chi ha torto?

Di EUGENIO SCALFARI
29 novembre 2015
   
 NELL'AMBITO d'una società globale dal punto di vista economico e tecnologico permangono tuttavia notevoli differenze per quanto riguarda la politica, la cultura e la distribuzione delle risorse tra i vari livelli delle categorie sociali, quelle che un tempo si chiamavano classi. Nasce da queste profonde diversità del benessere la mobilità dei popoli ed anche l'andamento del tasso demografico delle varie popolazioni.

Politica, cultura, mobilità dei popoli, religioni: sono questi i fattori dinamici che animano il pianeta, ai quali è doveroso aggiungere la necessità di tutelare il clima, visto che dobbiamo fronteggiare un sempre più elevato inquinamento dell'aria che respiriamo, dei venti, delle tempeste e dello scioglimento dei ghiacciai.
In questo quadro deflagrano anche le guerre, una delle quali sta insanguinando l'Occidente e il Medio Oriente con punte anche nel Maghreb, in Arabia, nell'Africa centrale, nelle Filippine, in Bangladesh.

Noi europei siamo al centro di questa guerra che, nonostante le apparenze, non è tra civiltà e neppure tra religioni. È una guerra tra fondamentalisti e liberali, tra classi evolute e periferie, tra benestanti e poveri, tra corrotti e onesti e perfino tra giovani scapestrati e giovani consapevoli. Insomma è la crisi di un'epoca ed è anch'essa una crisi globale perché i suoi fuochi sono sparsi in tutti i continenti e si intrecciano e si alimentano tra loro.
L'Europa è ampiamente sconvolta da questa crisi e dalla guerra che ne deriva, il fondamentalismo e il terrorismo; per combatterlo in nome della libertà anche la libertà è costretta a limiti più restrittivi.

Avveniva anche nell'antica Roma: quando la guerra era più intensa e l'esito incerto, i consoli venivano sostituiti da un dittatore con pieni poteri per combatterla. Non siamo a questo, ma i poteri politici tendono a concentrarsi in poche mani e le alleanze ad essere guidate da chi agisce sul terreno e dove la guerra è più intensa.

In Europa, almeno finora, il teatro tragico si svolge in Francia, nel Medio Oriente in Siria e in Iraq, in Turchia e nel Kurdistan. La coalizione contro il Califfato comprende non soltanto l'Occidente, ma anche la Russia ed è questa la grande novità: Putin ha come principale interlocutore Hollande, almeno in apparenza, ma in realtà è Obama il vero interlocutore e il ruolo del presidente francese è quello di mediare tra i due, in Europa comunque il leader di questa fase è Hollande e l'inno di guerra la Marsigliese.

Questa è la situazione e i fatti le danno forma.

***

L'Italia è il solo Paese che, pur sostenendo la necessità d'una grande coalizione che comprenda anche la Russia rifiuta di scendere sul terreno militare al di là degli impegni già da tempo assunti, che consistono in tre Tornado in missione quasi quotidiana di avvistamento e indicazione di obiettivi da colpire. Tre giorni fa Hollande ha incontrato all'Eliseo Renzi e si sono parlati per venti minuti. La richiesta francese consiste nella sostituzione di cento militari con altrettanti soldati italiani nel contingente di "caschi blu" dell'Onu in Libano. Renzi ha accettato previa l'eventuale approvazione del Parlamento e questo è tutto.

Il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, in una conferenza stampa di venerdì scorso ha ricordato la tradizionale politica italiana degli ultimi quarant'anni: abbiamo sempre sostenuto una politica di amicizia nei confronti del mondo arabo e iraniano a partire dai tempi di Fanfani e di Andreotti e non è nostra intenzione allontanarci da questa tradizione.

Gentiloni ha dimenticato o forse ha preferito non ricordarlo un altro personaggio che in realtà decideva la nostra politica verso quei Paesi: Enrico Mattei, presidente dell'Eni. Era lui che decideva la nostra politica in quei Paesi per assicurarsi l'utilizzazione del petrolio che veniva estratto dai pozzi e faceva a quei Paesi condizioni di facilitazione economica e politica tali da estromettere la potenza fino allora esercitata da quelle che venivano chiamate le "Sette sorelle", multinazionali americane, inglesi, olandesi. Mattei aveva poteri assoluti per quanto riguarda l'Eni. In Italia finanziava la Democrazia cristiana ma non trascurava i socialisti e neppure i comunisti e i fascisti del Msi. Decideva lui chi doveva essere nominato ministro delle Partecipazioni statali e era lui che diceva al ministro che cosa dovesse fare anziché l'inverso. Finanziò perfino il movimento algerino di liberazione nazionale puntando sul fatto che nel momento in cui i francesi se ne fossero andati dall'Algeria, quel nuovo Stato avrebbe concesso all'Eni l'uso del petrolio e del gas e fabbricato i necessari oleodotti per portare la materia prima alle raffinerie italiane dell'Eni. Poi Mattei per un incidente aereo dovuto al maltempo o forse ad altre cause, morì. Nemici ne aveva soltanto due, le "Sette sorelle" e la mafia.

Queste cose Gentiloni non le sa o più probabilmente le sa ma non le dice, ma la nostra politica in Medio Oriente si spiega soltanto così.

Comunque dal punto di vista attuale siamo sostanzialmente irrilevanti in Medio Oriente e non abbiamo un gran peso in Europa. Renzi rivendica un ruolo di mediatore in Libia per mettere d'accordo le varie fazioni che si combattono. Non c'è riuscito Leon dopo molti mesi di lavoro sotto l'egida dell'Onu. Sembra difficile che possa riuscirci Renzi.

Mi permetto ora di aggiungere un mio suggerimento contenuto nell'articolo di domenica scorsa nei confronti del nostro presidente del Consiglio. Credo che dovrebbe aprire, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni, campi di accoglienza sulla costiera libica, dove i migranti dovrebbero essere trattati con decenza e dignità, mobilitando medici e anche psicologi e avviando rapidi riconoscimenti di identità e di accertamento dello status di ciascuna delle persone ospitate dai campi di accoglienza: quelli che invocano il diritto d'asilo ed hanno solide motivazioni per richiederlo potrebbero essere trasferiti sulle coste meridionali europee su navi italiane o straniere; gli altri dovrebbero essere rimpatriati nei Paesi d'origine dove la nostra diplomazia ne tratterebbe il rientro con tutte le garanzie del caso.

Naturalmente i campi d'accoglienza dovrebbero essere militarmente difesi contro eventuali incursioni di ladri o facinorosi da un contingente militare di due o tremila uomini, ampiamente sufficienti a tutelare la sicurezza.

Ho anche suggerito in quel mio articolo a Renzi di farsi promotore della cessione di sovranità alle autorità europee dei poteri relativi alla difesa comune e alla politica estera, analoghe alle cessioni di sovranità già effettuate in materia economica delle quali opportunamente si avvale la Banca centrale e Mario Draghi che la presiede.

È del tutto improbabile che i membri dell'Unione accettino in questo momento cessioni di sovranità dei singoli Stati ad un'Europa che diventerebbe in tal modo sempre più federata di quanto non sia ora ma è soprattutto improbabile che Renzi condivida questa ipotesi perché - pensa lui - questo declasserebbe gli Stati nazionali, privandoli di una parte molto importante dei loro attuali poteri. Se la pensa così, ed io credo che lo pensi, non vede molto lontano; che l'Europa diventi federale in una società globale dove gli Stati hanno dimensioni continentali, significherebbe che preferisce staterelli privi di peso internazionale dove però ciascuno è padrone in casa propria. Un'Europa così fatta non resisterebbe molto e l'Italia meno ancora degli altri ma chi è "padroncino" in casa propria obbedisce al detto "chi si contenta gode" (ma il Paese no).

***

Concludo con tutt'altro argomento. Ho visto pochi giorni fa in visione privata un film molto bello ed anche commovente, intitolato "Chiamatemi Francesco" diretto da Daniele Luchetti, prodotto da Valsecchi e come primi attori Rodrigo de la Serna e Sergio Hernandez.

Il film, che sarà nelle sale il 3 dicembre, racconta la vita di Jorge Mario Bergoglio nella sua giovinezza e poi nella maturità, da quando era un semplice prete poi promosso capo provinciale della Compagnia di Gesù, successivamente coadiutore del vescovo di Buenos Aires e infine arcivescovo e cardinale di Argentina. Come si scontrò con il regime dittatoriale di Videla, autore di orribili e continui delitti; il suo amore verso i poveri, il suo riserbo verso preti e teologi della teologia della liberazione, ritenuti para-comunisti e poi scomunicati da papa Giovanni Paolo II.

Bergoglio nel film è fondamentalmente schierato con i poveri e sulle vicende drammatiche di questa sua posizione il demonio è Videla dal quale in tutti i modi, anche i più drammatici, Bergoglio cerca di mettere in salvo quelli che Videla minaccia. Non so fino a che punto corrisponda a verità il suo distacco dai preti di sinistra; sta di fatto che poche settimane dopo che Bergoglio divenne Papa beatificò il vescovo Romero che era stato ucciso mentre celebrava la messa nella chiesa cattedrale di San Salvador. Papa Wojtyla aveva espresso questa intenzione ma non l'aveva mai attuata; papa Francesco la fece subito e Romero era certamente un vescovo politicamente di sinistra.

Papa Francesco tornerà domani dal suo viaggio africano, dal Kenya all'Uganda dove è stato accolto da milioni di fedeli. Ha riaffermato ancora una volta la diffusione addirittura capillare della corruzione e la necessità di combatterla anche in Vaticano.

Questo Papa è quello che sostiene e l'ha fatto anche nel corso di questo viaggio l'esistenza di un unico Dio e questo lo porta ad affratellarsi non solo con tutte le varie comunità cristiane ma anche con gli ebrei e soprattutto con i musulmani e a combattere contro i fondamentalismi dovunque affiorino, Chiesa cattolica compresa.

Credo sia inutile sottolineare l'importanza di questo Pontificato e la fratellanza delle religioni per combattere il fondamentalismo e il terrorismo che ne deriva. La Chiesa di Francesco è quella della pace, dell'amore per i poveri, per gli esclusi e per tutte le persone consapevoli e orientate vero il bene del prossimo. È mondiale nel senso profondo del termine e mai come in questi tristissimi tempi d'un uomo di questa tempra e di questa autorevolezza il mondo ha avuto bisogno.

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29 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/29/news/l_europa_e_in_guerra_ma_l_italia_e_neutrale_chi_ha_torto_-128393177/?ref=HRER2-1
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« Risposta #595 inserito:: Dicembre 04, 2015, 06:45:44 pm »

Scalfari: "Continuerò a scrivere per Repubblica. Anche io avrei scelto Calabresi"
Il fondatore del giornale a "Otto e mezzo" su La7


02 dicembre 2015

ROMA - "Non lascerò Repubblica". Così il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, dopo l'annuncio del cambio di direzione del quotidiano, che il 14 gennaio passerà da Ezio Mauro e Mario Calabresi. "Ho avuto un minimo di delusione, di fastidio, per il fatto che l'ingegner De Benedetti non mi abbia consultato prima di decidere il nuovo direttore della testata ma me lo abbia comunicato quando il consiglio di amministrazione aveva già deciso. Visto il grande affetto reciproco, pensavo mi consultasse, anche se probabilmente gli avrei dato il nome di colui che poi sarà il direttore, Mario Calabresi. Dopodiché, De Benedetti mi è venuto a trovare e mi ha chiesto scusa".

In merito all'ipotesi che Scalfari non scriva più ogni domenica sul quotidiano, il fondatore di Repubblica chiarisce: "Ho chiesto di scrivere senza una data fissa ma quando ho voglia di scrivere, perchè una rubrica fissa richiede un grande lavoro di preparazione, la lettura di un gran numero di giornali ed è faticoso. Poi è venuto Mario Calabresi a trovarmi a casa e mi ha chiesto di continuare con la rubrica domenicale per una serie di ragioni, tra cui: "Quello che tu scrivi serve anche a me per entrare definitivamente dentro l'atmosfera di Repubblica", mi ha detto. E poi mi ha detto che priverei il paese di una voce importante. Allora ho accettato tutto e continuerò a scrivere di domenica"

© Riproduzione riservata
02 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/02/news/scalfari_continuero_a_scrivere_per_repubblica_anche_io_avrei_scelto_calabresi_-128662669/?ref=HRER2-2
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« Risposta #596 inserito:: Dicembre 10, 2015, 07:26:31 pm »

I valori che Repubblica ha sempre sostenuto e sosterrà
Libertà senza eguaglianza diventa privilegio dei forti sui deboli


Di EUGENIO SCALFARI
06 dicembre 2015
   
UNA volta tanto parlerò della nascita di Repubblica e quindi anche di me. L'anniversario ricorre il 14 gennaio, l'anno era il 1976. Tra le fotografie appese al muro della mia stanza al giornale ce n'è una con l'immagine dei "fondatori" che sfogliano il primo numero mentre le copie escono dalle rotative. Ne avevamo due, una a Roma l'altra a Milano, erano piccole e stampavano soltanto 15mila copie all'ora. Quella notte lavorarono dieci ore ciascuna e complessivamente stamparono 300mila copie che andarono esaurite. C'era molta attesa nel pubblico ma nei giorni successivi gradualmente ma inevitabilmente diminuirono; dopo un paio di settimane scendemmo a 70 mila copie vendute e lì per fortuna ci fermammo, non erano poche ma assai lontane dal punto di pareggio tra entrate e uscite della nostra società proprietaria del giornale (metà dell'Espresso e metà della Mondadori, allora guidata dalla famiglia del fondatore Arnoldo).

Il punto di pareggio l'avremmo raggiunto con la vendita di 130 mila copie e la relativa pubblicità; il capitale della società era di cinque miliardi di lire che sarebbero durati tre anni; se entro quel termine il pareggio non fosse stato raggiunto la decisione che era già stata presa era la chiusura di Repubblica perché non volevamo fare un giornale in perdita permanente. Queste notizie le comunicai alla assemblea dei redattori riunita alla vigilia dell'inizio della produzione. Nella fotografia sopra ricordata si vedono una decina di persone.

Ci sono Carlo Caracciolo, Mario Formenton amministratore delegato della Mondadori, Gianni Rocca redattore capo, Mario Pirani, Sandro Viola, Gianluigi Melega, Fausto De Luca e naturalmente anch'io e qualche altro collega. Aggiungo che i cosiddetti numero zero, che sono la prova del giornale prima ancora che sia messo in vendita, cominciarono il 15 dicembre, furono in tutto sedici e l'ultimo è datato 11 gennaio ed ha sette prime pagine diverse l'una dall'altra.

Questi sono i dati tecnici essenziali. La storia dei mesi successivi è nota: restammo inchiodati alle 70 mila copie di vendita per circa due anni; poi cominciammo a crescere con l'inizio del terrorismo delle Brigate Rosse e accelerammo dopo il rapimento e poi la morte di Aldo Moro. Nell'autunno del '78 avevamo raggiunto il pareggio di bilancio e la crescita delle vendite non si fermò fino a quando nel '86 raggiungemmo e superammo il Corriere della Sera ad un livello medio di 700 mila copie. Ovviamente il giornale era profondamente mutato: dalle 32 pagine iniziali ne contava 56 nell'edizione nazionale e 68 in quelle locali; avevamo introdotto lo sport che all'inizio non c'era, ampliata la cultura e gli spettacoli, le quotazioni di Borsa e la meteorologia. Insomma era ormai completo in tutti i settori.

A differenza degli altri la nostra diffusione era nazionale, nel Nord, nel Centro, nel Sud e nelle Isole ed anche all'estero e così è durato anche nel secondo ventennio con la direzione di Ezio Mauro fino a quando i mutamenti della tecnologia hanno prodotto in tutto il mondo la crisi della parola scritta e la nascita della rete Internet che ha dimezzato la diffusione dei giornali e dei libri. Ma l'importanza di Repubblica e il numero dei lettori è rimasto molto elevato se si sommano il giornale cartaceo e quello letto attraverso il sito Internet. Dobbiamo dunque approfondire le ragioni che a quarant'anni di distanza dalla sua fondazione rendono ancora essenziale la lettura di Repubblica nonostante i profondi mutamenti della società nei suoi aspetti sociali, economici, culturali e politici.

Non dimentichiamo che Repubblica nacque dal settimanale L'Espresso del quale abbiamo celebrato la nascita avvenuta sessant'anni fa, il 2 ottobre del 1955. Pochi sanno che quando Arrigo Benedetti ed io proponemmo ad Adriano Olivetti e al presidente dell'Eni, Enrico Mattei, di finanziare la nostra iniziativa, il progetto che avevamo formulato era un giornale quotidiano, in gran parte simile a Repubblica. Simile nel formato e nella linea culturale e politica. Mattei era disposto a farlo, Olivetti ci propose invece di ripiegare su un settimanale poiché le sue disponibilità finanziarie non erano in grado di editare un quotidiano. Noi preferimmo avere come editore Olivetti che il presidente di un ente pubblico come l'Eni, ma il nostro progetto di quotidiano era talmente piaciuto a Mattei che sette mesi dopo l'uscita dell'Espresso l'Eni pubblicò il Giorno. Ebbe un buon successo corrispondente ad una vendita di 200 mila copie, soprattutto nel Nord. Il formato era quello attuale di Repubblica e - come il nostro progetto nato vent'anni dopo -  aveva abolito la terza pagina dedicata alla cultura, spostandola verso il centro del giornale; le pagine due e tre contenevano il fatto quotidiano più importante mentre i commenti politici ed economici erano collocati nelle pagine sei e sette.

Ricordo queste cose perché Repubblica nasce da un'idea che non ha 40 ma 60 anni di vita e non è un caso che nel 1976 tra i più importanti giornalisti assunti da me nelle settimane precedenti all'uscita di questo giornale molti provenivano dal Giorno come Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Fausto De Luca, Giovanni Valentini; altri per restare con noi lasciarono la Stampa (Sandro Viola) e il Corsera (Edgardo Bartoli); altri ancora provenivano da Paese Sera, dall'Unità e dall'Ora di Palermo (Miriam Mafai, Giorgio Signorini, Franco Magagnini, poi Sebastiano Messina, Giuseppe D'Avanzo, Antonio Polito).

I giornalisti cofondatori di Repubblica sono stati professionalmente molto dotati e quelli più giovani hanno imparato benissimo il mestiere dopo un'esperienza sul campo di pochi mesi. Il loro orientamento politico era di provenienze molto diverse, alcuni comunisti, altri liberalsocialisti o socialisti, altri ancora moderati ma appena entrati a far parte parteciparono rapidamente alla linea del giornale che ebbe fin dall'inizio una sorta di Dna che rimonta a Piero Gobetti, ai fratelli Rosselli, a "Giustizia e Libertà" e al Partito d'Azione. Questa linea era la stessa di personalità del tipo di Valiani, Calogero, Omodeo, Salvatorelli, Jemolo, Norberto Bobbio, Riccardo Lombardi, Paolo Sylos Labini, Spriano, Ugo La Malfa e, sia pure con veste marxista, Antonio Gramsci, Antonio Giolitti, Bruno Trentin, Luciano Lama, Sandro Pertini, Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Alfredo Reichlin, Giovanni Amendola, Negarville e Terracini. Dall'altro lato dello schieramento politico posso fare i nomi di De Gasperi, Dossetti, Ciriaco De Mita, Sergio Mattarella. Erano cattolici ma profondamente democratici e come tali una vicinanza se non addirittura una partecipazione ai valori che l'Espresso prima e Repubblica poi hanno sempre sostenuto e cercato di diffondere nel Paese.

Per concludere parlerò ora dei valori che formano la sostanza del nostro lavoro giornalistico. Si riassumono in nove parole: libertà, eguaglianza, fraternità, giustizia, democrazia, divisione dei poteri costituzionali, diritti, doveri, innovazione. I primi tre, libertà eguaglianza fraternità, derivano dall'Illuminismo inglese e soprattutto francese e dalla grande rivoluzione del 1789 quando il Terzo Stato diventò costituente e il potere assoluto cadde per far luogo al potere costituzionale. Le ripercussioni  -  sia pure con drammatiche fratture e mutamenti regressivi  -  si diffusero in tutta l'Europa ed anche negli Stati uniti americani. Le bandiere a tre colori e l'inno della Marsigliese divennero i simboli di quella nuova e rivoluzionaria cultura. Soprattutto i primi due, libertà e eguaglianza. L'una non può vivere senza l'altra perché libertà senza eguaglianza diventa privilegio dei forti sui deboli e eguaglianza senza libertà diventa una caserma dove comandano demagoghi e/o tiranni.

La giustizia è il canone giuridico dell'eguaglianza, i diritti e i doveri sono reciprocamente dovuti dallo Stato ai cittadini (i diritti) e dai cittadini allo Stato (i doveri). Infine l'innovazione rappresenta la spinta, il motore, i desideri che alimentano la vita evitando un letargo che comprime la vita in un percorso ripetitivo senza alcuna creatività. Questi sono i nostri valori e questa è la pubblica opinione della quale siamo la voce. Un'opinione sostanzialmente laica che però ha recentemente incontrato Papi innovatori e perfino rivoluzionari come nell'ultimo cinquantennio sono stati Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e soprattutto Francesco, il più rivoluzionario di tutti i suoi predecessori. Se guardate papa Francesco da laici e anche da non credenti vi accorgerete che quella voce esprime i nostri valori, li condivide tutti e in particolare quelli sulla fraternità, sull'eguaglianza, sulla giustizia e sull'innovazione. I tempi in cui viviamo sono drammatici e in certi casi tragici, ma la luce dell'autocoscienza e del bene verso il prossimo ci inducono a non disperare.
 
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06 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/06/news/i_valori_che_repubblica_ha_sempre_sostenuto_e_sosterra_-128887770/?ref=HRER2-1
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« Risposta #597 inserito:: Dicembre 13, 2015, 06:36:28 pm »

Piccole grandi cose, dalla Francia nazionalista alla Leopolda
Parigi, vittima del terrorismo, diventa il centro della politica estera europea. Con l'Ue l'Italia di Renzi è ormai in aperto contrasto.
Il nostro è il Paese in maggiore dissenso con le Autorità di Bruxelles e con la Germania. Siamo l'unico Stato occidentale che non si considera in guerra con il Califfato.
Ma i guai con l'Europa riguardano anche la politica economica, la flessibilità, la gestione del debito pubblico

Di EUGENIO SCALFARI
13 dicembre 2015

ACCADONO parecchie cose importanti mentre mi accingo a scrivere quest'articolo. In Francia si sta per votare il ballottaggio per i governatori delle regioni che videro domenica scorsa il trionfo del Fronte Nazionale. La sfida è tra i lepenisti e i repubblicani di Sarkozy appoggiati dai socialisti di Hollande. Una specie di "union sacrée" che contiene però un'anomalia: sono due nazionalismi dei quali uno è fortemente xenofobo e l'altro non lo è. Il risultato avrà effetti dovunque in Europa, ma una vittoria del lepenismo darebbe maggior forza alle destre razziste mentre una sua sconfitta produrrebbe l'effetto contrario.

Se parliamo di quanto avviene in Italia ricorderò che siamo nel secondo giorno del raduno alla Leopolda e alla seconda settimana dello scandalo delle quattro piccole banche che hanno messo in gioco molti milioni di euro e mostrato gravi difetti di sistema. Nel frattempo continua la guerra al Califfato e si è aperto un terzo fronte dopo quelli siriano e iracheno: si combatte ora su un fronte libico-tunisino, che interessa direttamente l'Italia per ragioni geopolitiche. Infine papa Francesco dopo aver aperto la porta del Giubileo a San Pietro aprirà quelle di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore. Di quest'ultimo argomento parleremo soltanto dopo il discorso che papa Francesco farà il 21 prossimo davanti alla Curia. Siamo alla vigilia del Natale ma il Papa non farà un intervento latte e miele. Credo che sarà piuttosto più rivoluzionario del solito. Comunque lo esamineremo subito dopo averlo letto nel suo testo integrale. Ora andiamo ad approfondire gli altri temi elencati all'inizio.

Il Fronte Nazionale guidato da Marine Le Pen e da sua nipote Marion non è più da tempo un movimento territoriale di natura simile alla Lega italiana. Del resto anche la Lega di Matteo Salvini ha cambiato pelle rispetto a quella di Bossi, l'esempio di Marine Le Pen ha fatto scuola sebbene la Lega non sia di fatto uscita dalla Pianura padana che è il suo insediamento storico. Il Fronte Nazionale comunque è ormai un partito di destra che si completa con un nazionalismo antieuropeo e con la netta chiusura alle immigrazioni. Ovviamente è anche contro la moneta europea e in favore del ritorno alle monete nazionali. Intona la Marsigliese insieme a Hollande ma utilizza il terrorismo islamico in tutt'altro modo dei socialisti francesi. Per di più riesce a coinvolgere e ricevere voti provenienti anche dall'estrema sinistra, percorsa da una sorta di rabbia sociale e politica contro le élites e l'attuale classe dirigente. La vittoria al primo turno elettorale proviene infatti soprattutto dalle regioni del Nordovest francese dove abbondano operai senza più lavoro e speranza. Non è un caso se la presenza del Fronte Nazionale a Parigi e nell'Île-de-France è pressoché nulla.

Va detto tuttavia che il nazionalismo non è monopolio del Fronte Nazionale ma alligna (eccome) perfino nel partito socialista. Ha le sue radici nella "Grandeur de la France" che esiste a dir poco dai tempi del cardinale di Richelieu ed ebbe come simboli di continuità il Re Sole nel Seicento e Napoleone nell'Ottocento, ma è tuttora pienamente esistente. Hollande è europeista se e soltanto se è la Francia a guidare l'Europa, o magari il tandem Francia-Germania purché quest'ultima si limiti alla politica economica e lascia a Parigi la politica estera. La Gran Bretagna è periferica e isolazionista. Il resto d'Europa deve seguire e seguirà oppure ne sopporterà le conseguenze.

Gli attentati terroristici del Califfato hanno scatenato la guerra, questo è fuori dubbio. Una guerra strana e asimmetrica. Una guerra, e questo è l'aspetto positivo per la Francia anche se il prezzo pagato è tutt'altro che lieve. La Francia vittima del terrorismo diventa il centro della politica estera europea e Hollande detta infatti direttive e s'incontra bilateralmente con gli altri membri dell'Ue trattando anche con Obama e con Putin. Il suo partito conta assai poco, ma lui ottiene molto perché lui è la Francia ancora per due anni e forse anche dopo. Il voto di oggi sarà molto importante da questo punto di vista. La "souveraineté" è comune a tutti i partiti francesi ma tocca al popolo stabilirne la titolarità e sono in tre ad aspirarvi da posizioni molto diverse l'uno dall'altro.

***

Con l'Europa l'Italia di Matteo Renzi è ormai in aperto contrasto. La verità è che il nostro è il Paese dell'Europa in maggiore dissenso con le Autorità di Bruxelles e con la Germania. La Francia ci tratta come il padre tratterebbe un figlio con desiderio di autonomia e un orgoglio che non corrisponde alla realtà: difetti che il padre comprende e spesso perdona ma talvolta bacchetta.

Siamo - tanto per fare un esempio - il solo Paese dell'Eurozona e dell'intero Occidente che non si considera in guerra con il Califfato. Abbiamo quattro aerei Tornado e droni che sorvolano alcune zone dell'Iraq per fotografare possibili obiettivi da bombardare e basta. Guerra? Niente guerra se prima non ci sia una coalizione mondiale che indichi l'obiettivo politico finale quando il Califfato e le sue propaggini terroristiche saranno state distrutte e i confini della regione mediorientale opportunamente modificati. Vien da dire a "babbo morto".

Questo significa che qualcuno la guerra dovrà pur farla, ma noi no. Mettiamo insieme le "intelligence" questo sì; mandiamo cento militari in più al posto di altrettanti francesi richiesti per altri più importanti impegni, nel contingente Onu in Libano. Basta così. Hollande del resto non ha chiesto nulla più di questo dopo un incontro con Renzi durato venti minuti a Parigi. Il figlio è simpatico ma un po' discolo. Pretendere di più sarebbe tempo perso.

Ma, guerra a parte, i guai con l'Europa riguardano la politica economica, la flessibilità, la gestione del debito pubblico. La Germania lesina, la Commissione europea lesina, il presidente dell'Eurozona lesina, la Francia si occupa d'altro. Dal punto di vista della flessibilità e della gestione del debito anche la Francia è in difetto con Bruxelles ma il debito francese è assai minore del nostro e poi la Francia è in guerra e noi no, differenza non da poco.

Noi vogliamo fare una politica neo-keynesiana, governare col deficit. Il ministro tedesco dell'Economia, Schaeuble non vuole, Merkel non vuole, Juncker non vuole. Neppure Draghi vuole, anche se sta comprando titoli e obbligazioni private in Europa e quindi in Italia a tutto spiano. Il prezzo del petrolio scende e per noi è un buon risparmio. Il tasso di cambio incoraggia le nostre esportazioni verso l'area del dollaro e questa è crescita. Il tasso di interesse scende e questa è una buona carta che crea un avanzo nei prezzi di collocamento dei vari buoni del Tesoro. Questo lo fa Draghi, non Renzi, ma il nostro presidente del Consiglio nel frattempo non è stato con le mani in mano, anzi ha mosso la nostra società con cambiamenti che aspettavano da trent'anni di essere attuati ma nessuno c'era riuscito. Lui sì e l'elenco è lungo: "In un anno e mezzo di governo - ha scritto Marcello Sorgi sulla Stampa di venerdì - è riuscito a fare approvare da un Parlamento ingovernabile la riforma elettorale, quella del lavoro, la legge sulla responsabilità dei giudici, la riforma della scuola e sta per ottenere la riforma costituzionale (cancellazione del bicameralismo) e quella della Rai. E poi la rottamazione ai vertici delle aziende pubbliche".

Tutto vero caro Sorgi, ma sono riforme buone per il popolo oppure indifferenti o dannose? Non mi pronuncio in materia perché l'ho fatto più volte proprio in quell'anno e mezzo in cui venivano proposte e approvate. Risultati? Ancora non sappiamo perché non li hanno prodotti. In compenso è scoppiato lo scandalo bancario e di questo occorre approfondire qualche aspetto.

***

Ho la sensazione che molti non abbiamo ben chiaro il rapporto tra la banca e la moneta. Storicamente si tratta di questo: l'intermediazione tra chi ha bisogno di prestiti e chi ha la capacità di trovare il denaro necessario. Si chiama banca, il banchiere riesce a trovare chi presta soldi e lui a sua volta li presta a chi glielo chiede. Il banchiere cioè riceve prestiti e li presta a sua volta; naturalmente preleva una commissione a suo favore e così ne nasce un profitto e nuove iniziative. Il prestito ricevuto dal banchiere si chiama deposito, cioè moneta risparmiata e depositata che produce reddito.

L'intera operazione crea moneta e dà frutto a tutti. Ma non mancano incidenti di percorso: debitori del banchiere che non riescono a utilizzare con profitto il prestito ricevuto e non sono in grado di restituirlo; i banchieri che perdono i loro crediti e rischiano di fallire, i depositanti il cui deposito non solo non rende più ma rischia di scomparire del tutto.

E poi ci sono operazioni truffaldine, del banchiere e/o del suo debitore a danno dei depositanti che possono anche avere investito i loro depositi in titoli il cui acquisto è stato suggerito o addirittura imposto dal banchiere in questione.

Nel caso specifico delle quattro banche di cui si tratta la gestione è stata molto spensierata da parecchi anni a questa parte, i prestiti sono spesso andati in sofferenza, i depositi sono stati indirizzati con mano dura verso acquisto di titoli che non potevano né dovevano essere offerti ad una clientela di modeste dimensioni ed infine ulteriori appropriazioni indebite sono state effettuate dai dirigenti delle banche medesime.

Sulla cattiva gestione che la vigilanza della Banca d'Italia dotata di ampi poteri ha attentamente indagato, la stessa Banca d'Italia ha decretato, forse con qualche ritardo, il commissariamento. Ma gran parte delle operazioni sopraindicate sono dei reati veri e propri e su quelli interverrà sicuramente la magistratura ordinaria. Quanto alla Banca centrale la quale detta i criteri con i quali le Banche centrali nazionali debbono esercitare la vigilanza, Draghi da tempo chiede all'Europa la garanzia sui depositi di tutti i Paesi dell'Eurozona e questo è il nucleo di quella che l'Europa ha già accettato in linea di principio e cioè l'Unione Bancaria.

Il governo italiano potrà ricorrere a questa garanzia europea quando essa sarà stata attuata, cosa che ancora non è avvenuta anche perché la Germania è piuttosto contraria. Ricordo che quando ci fu il fallimento del Banco Ambrosiano, dopo la gestione disastrosa del banchiere Calvi che fu poi ucciso dalla mafia, l'allora governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi e l'allora ministro del Tesoro Nino Andreatta separarono la banca fallita dalla banca rifatta e presieduta da Bazoli. In quell'occasione Ciampi inventò il metodo di consentire ai depositanti della banca fallita di chiedere che il loro deposito si trasformasse in un deposito presso la banca rifondata la quale a sua volta avrebbe dovuto assumere una parte delle responsabilità di fronte al liquidatore giudiziario e ricevere contemporaneamente un supporto dalla Banca centrale. Bisognerebbe rivedere quel passato e trarne qualche spunto operativo.

***

Ed infine: esiste ancora la sinistra in Italia? Merita d'esser rifondata e opportunamente rappresentata? La sinistra esiste certamente come valore. In Italia c'è un partito di centrosinistra che sta cambiando pelle nel bene e anche nel male, in proposito i punti di vista sono diversi ed è normale che così avvenga. Ma c'è una questione sulla quale la sinistra dovrebbe battersi unita, un punto fondamentale fatto di valori e non di parole: l'unità dell'Europa. Invece la sinistra italiana ed europea, in tutte le sue correnti, movimenti, partiti e partitini, non fa assolutamente nulla in quella direzione come se il problema o non esistesse o non la riguardasse.

Cito in proposito quanto ha scritto pochi giorni fa la presidente della Camera, Laura Boldrini sul Corriere della Sera: "C'è una grave difficoltà che sta attraversando l'Europa sotto la pressione della spinta nazionalistica e populista. A questo si aggiunge che troppo spesso è vincente l'interesse nazionale ad ispirare l'azione dei governi e del Consiglio europeo che tutti li comprende. È ora di agire. Chi vuol far credere che gli Stati nazionali possano competere su scala globale con i giganti dell'economia e della politica è un illusionista che non ha come obiettivo risolvere i problemi ma vuole soltanto capitalizzarne il beneficio elettorale. Servono invece proposte percorribili che vadano incontro ai bisogni delle persone a cominciare dalla crescita e dalla creazione di nuovi posti di lavoro".

Questo sarebbe il compito della sinistra italiana e di quella europea ma per ora nulla si vede. Sarebbe venuto il momento che si svegliassero.

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13 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/13/news/piccole_grandi_cose_dalla_francia_nazionalista_alla_leopolda-129357596/?ref=HRER2-1
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« Risposta #598 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:22:10 pm »

Perché Renzi è il primo attore contro la Germania

Di EUGENIO SCALFARI
20 dicembre 2015

ELENA Boschi ha parlato con apprezzabile dignità alla Camera del rapporto affettivo tra lei e suo padre, coinvolto come vicepresidente della Banca Etruria nello scandalo delle banche popolari. Ha detto: "Mio padre è una persona perbene ed io ho per lui un profondo affetto, ma se ha sbagliato pagherà".

Ha ricevuto un meritato applauso ma nonostante questo il Pd e il suo leader sono in calo in tutti i sondaggi a causa dello scandalo bancario. Non contano granché i sondaggi, sono foto istantanee che colgono l'attimo fuggente ma a distanza di pochi giorni sono già cambiati. Lui però ha un carattere molto sensibile, non gli piace affatto perdere popolarità, requisito necessario a far contento il suo narciso particolarmente presente in tutta la sua vita. Da questo punto di vista gioca la sua partita con grande abilità. La contromossa è stata di mettere sotto accusa la Germania di Angela Merkel nell'ultima riunione di giovedì scorso a Bruxelles del Consiglio dei ministri dell'Unione. Ed è di questo che dobbiamo occuparci: Renzi versus Merkel, l'Italia contro la Germania. L'attacco di Renzi è stato assai duro, a detta di molti che vi hanno assistito addirittura feroce, anche se alla fine ha ricordato la sua amicizia con la Merkel la quale a sua volta l'ha invitato ad un faccia a faccia da effettuarsi nei prossimi giorni per chiarire e cercare di far convergere le loro attuali differenze. Ma questa è la necessaria diplomazia politica. La sostanza dell'attacco è concentrata sul tema dei gasdotti tra la Russia e l'Europa, le sanzioni dell'Occidente a Putin per quanto riguarda l'Ucraina, il dissenso italo-tedesco sul problema dei migranti e infine l'unione bancaria europea.

Quattro punti che definiscono l'intera politica dell'Ue, salvo il tema della guerra all'Is, che Renzi tende ad accantonare per la ragione che lui, cioè l'Italia, a quella guerra militare ha deciso di non partecipare. Tutti sanno (e lo sa anche lui) che in questa fase il tema della guerra all'Is domina su tutti gli altri, ma proprio per questo è nella mani delle due sole grandi potenze: gli Usa e la Russia. Tutti gli altri sono soltanto figuranti, comparse o tutt'al più attori secondari. Perciò Renzi non ha voglia di far parte di quel carrozzone, ma di quelli strettamente europei, sì.

***

Il gasdotto è importante ma non più di tanto. Farne due, uno al nord e l'altro al sud riattivando quello già esistente? O aggiungerne addirittura un altro? La Germania ha confermato di essere interessata a costruire quello a nord; lo farà con soldi suoi o trovando altri finanziatori che le si affianchino. L'Italia faccia quel che vuole e con chi vuole. La baruffa qui non c'è, ma solo libertà di scelta, sempre d'accordo con la Russia perché la materia prima viene da lì.

Anche il tema dell'Ucraina è fuori dal quadro renziano; lui ne ha fatto cenno "per completezza di informazione" ma chi decide sono gli Usa e, in minor misura, la Germania.

L'Italia può invece alzare il dito e chieder la parola -  come lo stesso Renzi ha efficacemente definito i suoi interventi in materia -  sul tema dei migranti e su quello dell'unione bancaria europea e della garanzia di quella unione verso i depositi dei risparmiatori nelle banche europee.

Sui migranti la polemica è marginale: la Germania ci rimprovera (attraverso la Commissione di Bruxelles) di non prendere le impronte digitali agli immigrati sulle nostre coste ed anche di non aver preparato i centri di accoglienza sufficienti e debitamente attrezzati. Noi, quanto alle impronte digitali, rimproveriamo alla Germania di aver fatto lo stesso. In più rivendichiamo d'essere la sola nazione mediterranea a sostenere il grosso degli arrivi di fronte alla sostanziale indifferenza degli altri Paesi e alle nefaste oscillazioni della politica di Angela Merkel in proposito. Ad un certo punto infatti la cancelliera tedesca spalancò le porte all'immigrazione siriana creando un flusso improvviso ed enorme che mise in gravi difficoltà i Paesi dell'Est e del centro europeo; ma poi, di fronte alla marea che si stava verificando, si irrigidì con tutte le conseguenze che ne derivarono e la fine -  anche se non ufficiale -  del patto di Schengen.

La Germania ha farfugliato sull'argomento e Renzi ne è uscito benissimo. Resta il fatto che la politica dell'immigrazione continua a mancare mentre i barconi continuano a partire e la gente continua a morire in mare.

Infine -  il tema dell'unione bancaria e delle regole che ne derivano e qui entra in causa addirittura il tormentone dell'Europa federata: si farà o non si farà? E quali saranno gli effetti dell'una o dell'altra soluzione?

***

L'Italia, a suo tempo, firmò il documento della Commissione che istituiva l'unione bancaria, il cui primo passo fu la vigilanza della Banca centrale su tutto il sistema bancario europeo.

Anche la Germania firmò. La Bce dal canto suo aprì un'inchiesta su tutte le banche per accertare il loro grado di solidità, l'andamento della gestione, gli effetti sulla clientela, la congruità del capitale azionario. Dettò alcune prescrizioni per quegli istituti che non avevano un capitale sufficiente; controllò che le sue direttive fossero state adempiute e poi, come previsto, delegò le Banche centrali nazionali a proseguire la vigilanza intervenendo all'attuazione della seconda fase: predisporre la garanzia europea sui depositi. Tutti firmarono, anche la Germania sia pure con qualche riserva.

Ne fa testo una intervista dello stesso Draghi del 31 ottobre di quest'anno al giornale italiano Sole 24 Ore, che nei passi principali suona così: "L'unione bancaria va completata. C'è stato un accordo sia sulla costituzione di un sistema assicurativo sui depositi, sia su un "Single Resolution Fund" per finanziare gli interventi sulle banche in crisi. Queste cose vanno fatte perché in questo modo uno dei problemi che ha caratterizzato la crisi che stiamo ancora vivendo, il nesso bidirezionale tra banche e Stati sovrani, viene attenuato".

Nel pensiero di Draghi infatti un'unione bancaria con queste caratteristiche rappresenta un passo fondamentale verso quell'Europa federata senza la quale tra pochi anni il nostro continente diventerà una nave fragilissima in tutte le tempeste e i suoi Stati nazionali non saranno altro che barconi stipati di gente in preda ai marosi e senza alcun peso politico nel mondo della società globale.

Draghi lavora per quell'obiettivo, anzi è il solo che ne veda distintamente il processo, le modalità di passare ad un certo punto dalla manovra monetaria a quella politica, facilitata da tutte le cessioni di sovranità che si saranno effettuate nel frattempo, a cominciare da quella già da lui richiesta ma non recepita finora da nessuno degli Stati membri, d'un ministro del Tesoro europeo con tutte le conseguenze che un istituto del genere comporta.

In questa visione di cui Draghi è stato finora il solo protagonista, Renzi ha messo ora lo zampino, anzi ha dato una vera e propria zampata nei confronti della Germania. Ha ricordato le vicende del dissesto della Deutsche Bank, il primo istituto tedesco che fu messo sotto sequestro in tutti i Paesi europei dove c'era una sua filiale; fu salvato con l'intervento del governo tedesco ma poco dopo entrò in crisi la Dresdner Bank e infine la Commerzbank. Altrettanti dissesti hanno colpito quasi tutte le Landesbank. Insomma un Paese, la Germania, che non può certo dare lezioni in materia bancaria e dovrebbe incoraggiare la completa realizzazione dell'Unione bancaria europea ed anche della cessione di sovranità degli Stati nazionali per quanto riguarda la creazione del Tesoro europeo con un suo bilancio, un suo debito sovrano e l'emissione dei bond come tutti gli Stati hanno finora fatto.

Va rilevato tuttavia che su questo punto Renzi non è affatto d'accordo. Sulla garanzia dei depositi da parte dell'unione bancaria europea sì, la rivendica e mette in mora chi avendola già firmata ora si ritira e nega la sua adesione (Germania giovedì scorso a Bruxelles) ma oltre, verso un passo che sarebbe determinante per l'Europa federata, Renzi non va; un Tesoro unico europeo declassa i governi nazionali e il nostro premier questo non lo vuole affatto. Così come non vuole proporre una cessione di sovranità della Difesa e della politica estera europea, che farebbero dell'Ue una protagonista di quanto è ora monopolio esclusivo degli Usa e della Russia.

Mi sono permesso di incoraggiarlo più volte da queste colonne a farsi paladino dell'Europa federata attraverso questi passi fondamentali: Difesa, Politica estera, Tesoro, ministri europei con le relative cessioni di sovranità; ma Renzi ha nel cuore la sua "premiership" fortemente sovrana e non vuole in alcun modo che avvenga un declassamento degli Stati nazionali.

Comunque il passettino in favore del fondo di garanzia europeo per i depositi è stato utile. Qualcosa di positivo ogni tanto si vede.

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20 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/20/news/perche_renzi_e_il_primo_attore_contro_la_germania-129839461/?ref=HRER2-1
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« Risposta #599 inserito:: Dicembre 29, 2015, 12:27:45 pm »

Il Mezzogiorno è povero ma c'è. Il governo invece non c'è

Di EUGENIO SCALFARI
27 dicembre 2015

CI SONO molti problemi in ballo in Italia, in Europa e nel mondo intero. In particolare nel Mezzogiorno, nelle sue costiere e nelle sue isole. Ne abbiamo già parlato molte volte, ma da tempo è caduta su quel tema una coltre di silenzio, forse perché era stato in prima fila da quando il Regno d'Italia nacque nel 1861 e portò insieme ai fausti eventi che sempre accompagnano l'unità di una Nazione, anche un evento funesto che prese il nome di questione meridionale e causò addirittura una guerra che insanguinò tutte le regioni meridionali. Fu detta guerra del brigantaggio e coinvolse l'Abruzzo, le Puglie, la Campania, la Basilicata, la Sicilia, la Sardegna: mezza Italia, dove le truppe italiane furono dislocate e dovettero fronteggiare non solo bande di briganti dedite al saccheggio, alla rapina, al sequestro di persona, agli omicidi contro i traditori ed anche contro i pochi che predicavano pace e misericordia. Ma anche i politici locali che stavano con un piede nella politica locale e nazionale e con l'altro negli interessi dei rivoltosi che non erano soltanto briganti ma anche borbonici, clericali e assai più spesso capi-bastone che guidavano clientele di latifondisti ed avevano il potere del potere locale.

Gaetano Salvemini, anni dopo quando la guerra vera e propria era terminata ma gli eminenti locali e le organizzazioni mafiose erano in pieno rigoglio, li chiamò "ascari di Giolitti" che era allora il capo della politica italiana. In parte sbagliò ed in parte aveva ragione, Salvemini. Erano più di ascari, in gran parte delle campagne erano i capi delle clientele pronti a votare per il leader nazionale. Purché gli avesse lasciato campo libero per il loro potere locale. Questo ricatto ebbe luogo fino al 1910 quando questi capi appoggiarono le pretese dell'Italia verso la sua prima colonia mediterranea in Libia. Poi il ricatto diminuì o addirittura scomparve perché Giolitti aveva trovato l'appoggio dei cattolici di Gentiloni e la simpatia dei socialisti riformisti di Turati, di Anna Kulišëva, di Treves e di Bissolati. Ma il dibattito sulla questione meridionale continuò, anzi prese un tono molto più ampio di studi, di cultura, di misure economiche e sociali portate avanti da Giustino Fortunato, Sacchetti, Spaventa, Croce e molti altri a cominciare da Giovanni Amendola, Matilde Serao, Adolfo Omodeo, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Di Vittorio, Pasquale Saraceno, Francesco Compagna e Danilo Dolci. Ma negli ultimi trent'anni - con rare eccezioni - è calato il silenzio. Al suo posto è nata la questione settentrionale la quale al suo primo sorgere fu giudicata dal ceto colto italiano come un'uscita politica demagogica, priva di qualunque significato. Invece non era così, anche se fu presto determinata dall'uso politico che ne fu fatto dalla Lega di Bossi ma divenne anche uno strumento nelle mani di Berlusconi che era nato alla politica con idee molto prossime a quelle leghiste.

La questione settentrionale, quella seria, ha colto la povertà strutturale di alcune regioni padane tra le quali predominava allora il Veneto. Ma colse anche quel fenomeno - molto positivo da un lato e molto negativo dall'altro - che fu la piccola e piccolissima industria che ebbe grande espansione dagli anni Settanta e si impiantò in un gruppo di regioni estremamente importanti nella geopolitica italiana (il Veneto, la Lombardia centrosettentrionale fino alla foce del Po) e compose quella specie di triangolo industriale che fu il nord da Treviso al sud di Ferrara sconfinando poi con Ancona e Pescara. Una cometa la cui stella era allora il triangolo industriale Torino Genova Milano e la coda si allargava da Treviso fino ad Urbino e Pesaro, saldati poi nel bene e nel male con la Puglia di Foggia ed infine, attraverso il Salento, col profondo Sud.

La questione settentrionale è costituita dal fiorire della piccola e piccolissima impresa, quella che nasce dall'espansione delle grandi imprese del nord, la Fiat, la Montecatini, l'Ansaldo, i Falck, l'elettricità della Edison, i cantieri e la chimica di Marghera.

La grande impresa generò, insieme ad un grande sistema bancario, un importante "indotto" che creò le piccole e le piccolissime imprese dai 15 ai 5 operai, esentato proprio per le sue dimensioni dall'articolo 18 dello statuto sindacale, e incoraggiato continuamente ad accrescere fino a 30 o 40 dipendenti, che quasi mai però avviò questo percorso.

In tempi duri di congiuntura negativa e di crisi, è stata la piccola impresa al centro di una crisi congiunturale e strutturale fatta propria, come non è accaduto in altre parti del Paese, dalla politica che l'ha trasformata in una vera questione nazionale. Le due questioni contrapposte denunciano l'esistenza da secoli di un Paese duale. Duale in tutto, nella sua storia, la sua economia, la sua cultura, la sua politica e perfino la sua etnia. Non è il solo in Europa e nel mondo, ma è stato quello che più ne ha risentito.

***
Ho letto sul Corriere della Sera del 21 dicembre scorso un articolo di Ernesto Galli della Loggia intitolato "Il Mezzogiorno datato". Cito una frase di quell'articolo che traccia un crudele ma importante racconto: "Mi chiedo se al nostro presidente del Consiglio è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell'Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese, se ha mai visto il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo, se ha mai dato un'occhiata all'ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O magari per avere un esempio, ha provato a farsi fare una tac in un ospedale calabrese. L'addio al Mezzogiorno, prima che culturale è stato ideologico e politico". La citazione è lunga ma assai pertinente. Della Loggia lavorò un tempo anche su questo giornale ma i problemi del Paese per fortuna continua a vederli nella giusta luce e ad affrontarli con la "verve" che è propria del suo giornalismo.

Forse ricorderà che nel 1963 l'Espresso effettuò un'inchiesta in varie puntate, affidata ai nostri più egregi redattori e collaboratori, con un titolo portante che diceva: "L'Africa in casa". Fu molto seguita a quell'epoca (oltre mezzo secolo fa). Descriveva la miseria del cibo, la presenza in tutte le case di topi, pidocchi e scarafaggi, le morti molto numerose di neonati e di bambini e infine la fame, diffusa fino agli ultimi giorni dell'esistenza.
Fece molto chiasso quell'inchiesta e determinò anche qualche svolta politica, i cui prodotti furono non a caso chiamate cattedrali nel deserto e recarono semmai qualche beneficio all'economia del Nord: profitti alle banche e alle imprese, depositi bancari che affluivano agli istituti settentrionali, anche se il benessere del Sud non si spostò e le sue classi non si integrarono. Le cattedrali le costruiva lo Stato e quindi i fedeli (lavoratori) non avevano alcun dono ma i benefici del buon Dio andavano semmai riservati al Nord e/o alle già robuste organizzazioni mafiose. Se paragoniamo il reddito del Sud di oggi a quello di allora esso è certamente molto aumentato; ma se lo confrontiamo con quello del Nord il dislivello è enormemente aumentato. La questione meridionale non ha dunque fatto un solo passo avanti in tema di dualismo, cioè di diseguaglianza non solo tra i ceti ma tra le regioni.

Gli ascari e gli emiri ci sono sempre, anzi sono cresciuti di numero; le organizzazioni mafiose hanno ancora al Sud il comando strategico, ma il grosso degli affiliati e dei loro comandanti in loco ormai si sono spostati a Torino, a Milano, in Emilia, in Veneto, ad Amburgo e a Marsiglia, e nel frattempo hanno intrecciato contatti di solidarietà con le mafie della Bolivia, degli Usa, del Kosovo, del Montenegro e infine della Turchia, della Russia e del Giappone. Questa esportazione è dunque ormai mondiale, il Mezzogiorno italiano ne è una delle centrali principali. L'Italia in cento anni ha guadagnato in termini di profitto e di benessere ma il Mezzogiorno ha perduto in denaro e in prestigio. È una terra nella quale vegetano milioni di persone perbene ma sono come anime morte: il potere ce l'hanno i truffatori e i capi delle clientele.

***
La deputata del Pd, Stefania Covello, incaricata di occuparsi del settore Sud per conto del partito, sull'Unità del 22 scorso ha risposto all'articolo del della Loggia, mettendo un titolo alquanto strano: "Il governo e il sud che c'è". Singolare. Sarebbe stato molto più pertinente titolarlo così: "Il governo che c'è e il Sud che non c'è". Per il Mezzogiorno qualcosa sarà fatto, ma il renzismo governa da tre anni e finora non si era neppure accorto di quell'Italia che comincia a Frosinone e continua a Pescara, a Taranto, a Cassino, a Gaeta, a Lampedusa, ad Agrigento, a Trapani, a Reggio Calabria, a Cagliari, a Sassari, all'Asinara e a Porto Empedocle.
Adesso finalmente hanno capito che c'è, anzi finora l'Italia è stata soltanto quella che precede Bologna. Governeranno fino al 2028, dunque un piano lo faranno e gli daranno anche inizio. Direi quindi che gli anni disponibili alla realizzazione degli obiettivi saranno quindici. Di solito però i loro annunci tardano tre anni prima di attuarsi, anche perché adesso sono in tutt'altre faccende affaccendati. È lecito dunque aspettarsi che l'annuncio inizierà la sua esecuzione nell'anno 2017. Undici anni per attuarlo, sperando che non sia ripetuto quanto avvenne tra Salerno e Reggio Calabria, progettata trent'anni fa e ancora in corso d'esser completata. Per risolvere la questione meridionale non ce la fece la destra di Ricasoli
né la sinistra di Depretis, né Giolitti, né Mussolini, né Craxi. Di Berlusconi non ne parliamo. Ce la faranno Covello e Delrio? Speriamo. Renzi comunque ha ben altro di cui occuparsi. Lasciamolo tranquillo e forse avremo meno guai.
 
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27 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/27/news/il_mezzogiorno_e_povero_ma_c_e_il_governo_invece_non_c_e_-130210947/?ref=fbpr
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